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Processi pontifici in partibus. La giurisdizione papale delegata nel XIII secolo: alcuni casi in Puglia

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Veröffentlicht/Copyright: 22. November 2024
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Abstract

This paper focuses on delegated papal jurisdiction during the 13th century based on the Apulian documentation, through the examination of some case studies, which are not exhaustive of the sources related to this issue preserved in Apulia. Within a relationship between the papacy and local churches, and considering the pope’s primacy of jurisdiction, it analyses the forms and procedures of delegated jurisdiction, highlighting the motivations that led Apulian churches and monasteries to request the intervention of delegate judges.

1 Tra primato di giurisdizione e riforma della curia: una premessa

Tra l’XI e il XII secolo la Chiesa trasformò le sue strutture istituzionali in funzione di un consolidamento della monarchia papale, stabilizzando l’articolarsi della gerarchia e organizzando meglio e in modo più accurato gli uffici del governo centrale. Al tempo stesso mise a punto elaborazioni teologiche e giuridiche che per quanto attiene sia al potere politico e all’esercizio della giurisdizione, sia al suo aspetto carismatico e spirituale di guida, dichiaravano il suo primato, affermavano progressivamente la plenitudo potestatis del pontefice e offrivano l’immagine dell’universalità del trono di Pietro.[1] Gli studi di Agostino Paravicini Bagliani sulla ritualità e la simbologia del papato hanno mostrato il programma ecclesiologico mirante a consolidare e veicolare l’immagine del pontefice come capo di una entità organica e unitaria da identificarsi con l’intera chiesa.[2] Questo complesso programma investì pienamente l’aspetto dell’amministrazione della giustizia papale attraverso il sistema della delega, poiché il potere di giudizio della Chiesa di Roma si esercitava sulla cristianità intera, secondo quanto era stato già affermato nel Decreto di Graziano, riprendendo un testo gelasiano, „cuncta per mundum novit ecclesia quod sacrosanta Romana ecclesia fas de omnibus habet iudicandi“[3].

La giustizia in delega si rivelò infatti un utile mezzo di affermazione della supremazia della chiesa romana e del primato di giurisdizione; ne è testimonianza lo sviluppo del sistema dell’appello nel corso del XII secolo che seguì di pari passo il consolidamento del potere del papato, costituendo uno degli aspetti più salienti del governo medievale pontificio.[4]

L’effetto di tale propaganda fu l’aumento delle cause inoltrate a Roma, pertanto la curia pontificia si trovò ad affrontare un numero considerevole di richieste di intervento. Era possibile rivolgersi alla Sede apostolica non solo per inoltrare una istanza contro una sentenza emessa a conclusione dell’attività giudiziaria del tribunale vescovile locale, ma anche avanzare un ricorso contro atti compiuti ex officio dall’autorità ecclesiastica (nomine, conferimento dei benefici) e ancora presentare un appello in prima istanza, oppure durante la litis contestatio, con la volontà di sottoporre la questione a un giudice superiore a quello competente per via ordinaria.[5] Furono in effetti soprattutto gli appelli in prima istanza a costituire il carico giudiziario più cospicuo per la curia pontificia. La tendenza si amplificò nella prima metà del Duecento, quando i contatti tra papato e chiese occidentali continuarono ad aumentare, a fronte di un contributo fornito dal papato alla dottrina giuridica dell’appello basata, come nota Jane Sayers, sulla supposizione che „Rome was in fact the one court of Christendom, and not merely a tribunal of last resort“.[6]

Di fronte dunque alla mole di vertenze portate davanti al foro curiale la giurisdizione papale delegata costituì un sistema efficace per poter continuare ad avocare alla Sede apostolica le cause in ogni tipo di istanza. Come osserva Werner Maleczek la diffusione e l’affermazione della plenitudo potestatis papale passò nell’intera cristianità attraverso il potente mezzo di diffusione costituito dalla giurisdizione curiale e in modo specifico da quella delegata.[7]

Alessandro III prestò molta attenzione alla giurisdizione in delega: di lui sono pervenuti numerosi interventi normativi nella forma di istruzioni fornite ai vescovi e ai giudici ecclesiastici miranti a dirimere questioni di diritto, dubbi e controversie da essi inoltrati alla Sede apostolica, con l’intento di fornire loro un supporto nell’affrontare e decidere cause istruite a seguito di un appello a Roma.[8] A partire da questo papa si fece ricorso in maniera più sistematica allo strumento della delega nell’amministrazione della giustizia, tanto che furono necessari ripetuti interventi normativi del pontefice per meglio disciplinare la materia.[9]

Nel corso del Duecento l’esercizio della giustizia papale delegata continuò a offrire ai pontefici l’opportunità di allargare il loro intervento e quindi la loro autorità. Lo stesso Innocenzo III, all’interno di una politica che dichiarava il primato petrino, ritenendo la chiesa, in quanto mater omnium ecclesiarum, fonte del diritto canonico, e avocando al papa, quale iudex ordinarius omnium,[10] la facoltà di intervenire in ogni fase del processo, implementò il sistema giudiziario curiale e facilitò l’appello al pontefice.[11] Ciò determinò un incremento degli affari, del numero di petizioni da ascoltare e quindi dei casi da giudicare e un sovraccarico del lavoro per il papa, i cardinali e la cancelleria, situazione che preoccupò gli stessi pontefici.[12] L’elaborazione dottrinale, ecclesiologica e giuridica viaggiò pertanto di pari passo con riforme miranti a una migliore, centralizzata e più efficiente organizzazione degli organi della curia e della cancelleria, insieme ai tentativi di arginare gli abusi, una necessità stringente per riuscire a sostenere, mantenere e diffondere tale teorizzazione e immagine del papato.[13]

Nell’ambito infatti della riforma organizzativa della cancelleria attuata dal pontefice,[14] altri organismi complessi erano stati perfezionati, e in alcuni casi creati, per amministrare la giustizia: gli auditores[15] e la corte dell’audientia publica. Essa insieme all’audientia litterarum contradictarum, formalizzate come istituzioni dal medesimo pontefice, secondo gli studi di Peter Herde,[16] svolgevano anche un’azione di controllo sulle decisioni prese e quindi sui mandati emessi.

L’itinerario di stabilizzazione e penetrazione della giustizia delegata culminò con Innocenzo IV. Con papa Fieschi, giurista di alto livello, si completò il cammino verso una concezione ierocratica del papato e l’affermazione del primato del papa come essenzialmente un primato di giurisdizione.[17]

Sul piano dell’amministrazione della giustizia pontificia quindi aumentò il ricorso alla delega negli affari giudiziari, in risposta all’incremento degli appelli al papa,[18] funzionale a permettere al pontefice di intervenire direttamente nelle questioni più diverse, non più solo nella stessa Roma, bensì nei luoghi più lontani dall’Urbe, e di conseguenza di avere un maggiore controllo sulle realtà periferiche in questioni talvolta particolari e prettamente locali. Un sistema che necessitò di una migliore struttura della burocrazia centrale, di una divisione delle competenze dei tribunali di curia e di un potenziamento della cancelleria.

L’intensificarsi delle relazioni tra il papato e le chiese in partibus, la crescita degli affari e dell’attività giudiziaria in curia non sarebbero tuttavia da leggere esclusivamente attraverso la lente della politica accentratrice e al tempo stesso universalistica del papato, ma anche considerando le esigenze da parte di istituzioni, ecclesiastici e laici di ricorrere alla curia. In molte circostanze essi erano obbligati a inoltrare una richiesta alla Sede Apostolica, poiché essa riservava per sé un buon numero di casi.[19]

2 Modalità e prassi della giurisdizione delegata

Il lavoro pubblicato da Jane Sayers sui giudici delegati nella provincia di Canterbury nella prima metà del Duecento,[20] diede avvio a una rinnovata stagione di studi sull’argomento, rivolti soprattutto, ma non esclusivamente, all’ambito inglese e francese.[21] Un recente e puntuale lavoro è stato realizzato da Harald Müller che ha analizzato la pratica procedurale della giurisdizione papale delegata in Normandia dalla fine dell’XI secolo alla morte di Innocenzo III.[22] Questi contributi hanno permesso di conoscere nel dettaglio le modalità con cui i giudici erano scelti, la tipologia dei mandati a essi diretti, gli acta prodotti nello svolgimento del loro incarico, la capacità delle parti di influenzare l’andamento del processo, i costi delle vertenze, oltre a far luce sulle funzioni dei giudici quali anello intermedio tra il tribunale della curia romana e quello dell’ordinario di competenza.[23]

Nella sola provincia di Canterbury, Sayers ha potuto disporre di molte fonti a supporto: i registri di vescovi, i resoconti di ambasciatori alla corte papale, le cronache, gli stessi documenti prodotti dai delegati e i rapporti inviati da loro al pontefice. Allo stesso modo Müller ha censito per la Normandia fino al 1216, anno di morte di Lotario di Segni, circa seicento documenti relativi a trecentoottantasei cause in cui furono coinvolti i giudici delegati.

Ricostruire invece le modalità di azione della giustizia delegata in Puglia, come in molte diocesi del Mezzogiorno peninsulare, è difficoltoso per la esiguità di fonti specifiche conservatesi, in quanto sono pervenuti essenzialmente il mandato pontificio di delega della vertenza e i documenti di sentenza. Questi ultimi infatti, a differenza di altri atti intermedi, erano custoditi con più attenzione da parte di coloro che avevano vinto la causa, in quanto titolo giuridico prezioso a conferma delle loro prerogative. È possibile talvolta rinvenire negli archivi anche le ratifiche di accordi intervenuti tra le parti, i mandati pontifici con l’ordine di fare eseguire la decisione definitiva e in alcuni casi le sentenze di scomunica, pronunciate per la non adempienza delle parti, non rare quando il processo si protraeva in un susseguirsi di appelli.

I delegati spesso potevano decidere autonomamente, benché in questi casi la sentenza era ratificata dal pontefice, altre volte il loro incarico era rivolto all’indagine e all’accertamento degli accadimenti e della veridicità delle accuse,[24] all’ascolto dei testimoni, all’esame dei documenti presentati, insomma alla raccolta degli elementi necessari per potere relazionare poi al pontefice, al quale era riservato il giudizio. Il mandato papale permetteva comunque ai delegati la possibilità di avvalersi durante lo svolgimento del processo delle istituzioni ecclesiastiche locali e di impartire istruzioni e incarichi anche a persone con dignità maggiori.[25]

Lo strumento della delega costituiva dunque un’ingerenza della giurisdizione pontificia in partibus, poiché limitava l’esercizio dell’autorità vescovile e innescava rapporti conflittuali con la giurisdizione ordinaria. Spesso infatti si ricorreva in seconda istanza al tribunale papale con l’intento di aggirare la sentenza emessa da quello vescovile locale. Lo stesso appello ante sententiam, congelando il processo e sottraendo la causa al giudizio dell’ordinario, poteva prestarsi a essere utilizzato per scopi dilatori, creando quindi motivi di disordini e di ritorsioni.[26]

Ciò nonostante i vescovi e i metropoliti, alcuni in maniera più rilevante di altri, parteciparono attivamente all’esercizio della giurisdizione pontificia delegata, svolgendo talvolta il loro incarico nella loro stessa circoscrizione diocesana, mentre non di rado agirono in vertenze in cui erano coinvolte istituzioni ecclesiastiche e religiose alle quali erano legati, rafforzando in tal modo una rete di favori spendibile nel futuro.

Il querelante poteva infatti suggerire i nomi dei giudici ai quali affidare la vertenza, con il vantaggio di selezionare candidati capaci e in specie favorevoli alla sua causa,[27] benché la controparte, qualora non li avesse ritenuti idonei, poteva presentare una istanza di modifica; in tal caso il pontefice interveniva per evitare una ricusazione immediata che avrebbe comportato la dilazione del processo.[28]

3 Alcuni casi di studio

I casi presentati costituiscono una campionatura della giurisdizione delegata in Puglia; essi sono stati selezionati per l’arco cronologico, dal momento che si vuole indagare il XIII secolo, e in quanto il numero maggiore di informazioni relativamente ai singoli avvenimenti permette, rispetto ad altri, una maggiore riflessione.

Il 20 dicembre 1218 Onorio III inviava il mandato Ad aures nostras a Richerio vescovo di Melfi,[29] a Matteo vescovo di Monopoli[30] e all’abate di S. Maria del Galeso,[31] ordinando loro di recarsi presso il monastero di Nardò per riformarlo, poiché „ad aures nostras noveritis pervenisse quod in Neritonensi monasterio multa committuntur enormia“.[32]

Circa un anno dopo, il 27 novembre 1219, il papa emise un altro mandato del medesimo tenore, Ad nostram audientiam, indirizzato però ad altri delegati. Il nuovo documento riassume gli antefatti, pertanto rende noto come Matteo Gentile, conte di Lesina, capitano e maestro giustiziere di Puglia e terra di Lavoro,[33] si era rivolto alla Sede apostolica presentando numerosi e pesanti capi d’accusa contro l’abate[34] e avesse suggerito anche i nomi dei delegati. Egli stesso, in seguito, aveva inoltrato una nuova richiesta nella quale proponeva altri delegati, o meglio confermava l’abate del Galeso, mentre sostituiva la primitiva scelta, caduta sui vescovi di Melfi e Monopoli, con l’abate di S. Samuele di Barletta.[35] La cancelleria pontificia non riusciva a esercitare un’azione di controllo sulle lettere emesse, in numero sempre maggiore a motivo del crescente afflusso di petizioni,[36] e non era in grado di verificare l’esattezza delle informazioni ricevute dal ricorrente,[37] di conseguenza emise anche il secondo mandato. Il tentativo di manipolazione non era sfuggito però all’abate di Nardò che si appellò al pontefice per informarlo dell’accaduto, sottolineando come: „prefatus comes non zelo iustitie sed typo malitie potius“ aveva agito contro di lui e il monastero. Onorio III conferì dunque un nuovo incarico[38] a Concilio vescovo di Conversano,[39] all’abate di S. Mauro de Saburrano[40] e al priore di Casalrotto,[41] e dichiarò nulli i mandati emessi in precedenza.[42]

I delegati dopo l’escussione dei testimoni chiusero l’inchiesta e spedirono a Roma la relazione. Spettò a Egidio de Torres,[43] diacono cardinale dei SS. Cosma e Damiano, uditore delle cause e uomo di fiducia di Onorio III, valutare la questione e relazionare al pontefice. Il 15 maggio 1220 il papa scriveva all’abate Paolo assolvendolo dai capi d’accusa.[44]

La possibilità di disporre in questa circostanza di un buon numero di elementi, permette in qualche modo di ricostruire gli avvenimenti. Matteo Gentile aveva presentato contro l’abate di Nardò[45] una denuncia presso la curia, suggerendo i nomi dei visitatori.[46] Aveva scelto Richerio, uomo di Federico II, appartenente quindi allo stesso ambiente di corte da lui frequentato, e l’abate del Galeso, in quanto egli stesso e i funzionari alle sue dipendenze avevano fatto donazioni al monastero.[47] Per tali motivazioni l’abate di Nardò ritenne che i delegati fossero compromessi,[48] pertanto si appellò alla curia, obiettando sulla loro nomina e probabilmente proponendo altre persone. Onorio III, informato del comportamento scorretto del conte, emise il nuovo mandato.[49] La delega conteneva la clausola appellatione remota, che vietava di impugnare la decisione del delegato, quindi di rivolgersi nuovamente alla Sede apostolica:[50] il pontefice voleva impedire in tal modo ulteriori sviluppi a una inchiesta nata essenzialmente sulla base delle denunce infondate del conte di Lesina.

3.1 Un’annosa vertenza

I mandati e le sentenze pontificie, che si possono reperire con maggiore facilità negli archivi come nei registri dei pontefici, costituiscono solo una minima documentazione, poiché durante la vertenza era prodotta una elevata quantità di atti sia dai giudici, sia dalle parti in causa, che andrebbe ricercata negli archivi dei contendenti. Si tratta di fonti indispensabili per ricostruire il processo, nonché per comprendere con quali modalità si era svolto. L’analisi di quanto accadeva nella realtà dell’espletamento della giustizia papale delegata, la verifica cioè di quanto la procedura canonica stabilita tenesse poi nell’applicazione concreta, risulta determinante per comprendere, secondo quanto osservato da Müller, come a fronte di una normativa procedurale comune e riconosciuta universalmente, la sua applicazione poi nelle singole regioni abbia dettato una prassi differente, influenzata dalla specificità delle strutture politiche ed ecclesiali locali, nonché elaborato soluzioni diverse.[51]

Una sentenza emessa da Innocenzo III in cui, sia pure sommariamente, si narrano le fasi di un lungo processo risulta preziosa, in quanto il documento pontificio consente di risalire a un tempo precedente ed è particolarmente denso di notizie, tali da permettere di ricostruire il dipanarsi del processo.

Si tratta di un annosa vertenza tra la chiesa di Monte S. Angelo sul Gargano e l’arcivescovo di Siponto.[52] La chiesa di Monte S. Angelo era considerata una seconda cattedrale del vescovo di Siponto, il quale nel 1064 portava la doppia titolatura.[53] Alla fine del XII secolo però i canonici della chiesa garganica cominciarono a rivendicare un proprio vescovo e fecero appello ad Alessandro III.[54] Si recarono in curia con un corredo di privilegi, nello specifico di Benedetto IX, Pasquale II e Eugenio III.[55] I documenti furono attentamente esaminati dalla cancelleria papale, utilizzando mezzi precursori di critica paleografica.[56] Il privilegio di Eugenio III era abrasum et corruptum: si notò come nell’inscriptio il titolo Sipontine era stato modificato e si descrisse minuziosamente la correzione; l’atto, si concluse, era stato senza dubbio interpolato. Nel privilegio di Benedetto IX non si faceva menzione alcuna della chiesa garganica nel titolo arcivescovile, e in uno dei due privilegi di Pasquale II essa risultava soggetta al vescovo di Siponto, pertanto alla fine del processo Alessandro III decretò l’esistenza di una sola sede episcopale: quella sipontina.[57]

La sentenza fu poi confermata da Lucio III,[58] ma i contrasti tra le due chiese non si spensero, poiché la chiesa garganica accusava quella di Siponto di aver distrutto il vero privilegio di Eugenio III o comunque di averlo interpolato a suo danno. I canonici di Monte Sant’Angelo ricorsero pertanto in appello contro la sentenza papale e ottennero da Urbano III quali giudici delegati l’arcivescovo di Bari, il benedettino Rainaldo vicino all’ambiente della curia pontificia,[59] il vescovo di Melfi Giacomo[60] e quello di Troia,[61] i quali ebbero il compito anche di ispezionare diligenter i suddetti privilegi.[62] La causa di appello si istruì in Puglia e i delegati ascoltarono molti testimoni, ma per la morte di Urbano III e poi di Gregorio VIII, unitamente al sorgere di disordini nel Regno seguiti alla morte di Guglielmo II, il processo fu sospeso. Trascorsi alcuni anni i canonici di Monte Sant’Angelo presentarono a Celestino III le deposizioni testimoniali raccolte in precedenza, le quali non furono accolte, anzi il papa confermò la sentenza di Alessandro III e impose loro il silenzio perpetuo.[63]

Gli animi tuttavia non si sopirono e ambedue le parti in seguito si recarono in curia da Innocenzo III per esibire nuovamente le deposizioni testimoniali che il pontefice fece pubblicare: esse divennero occasione per riaprire la causa.[64] Il processo quindi si spostò nuovamente in curia e, post disceptationem longam hinc inde premissam, – locuzione che registra il protrarsi dell’alterco, e suggerisce al contempo un allungamento dei tempi – il procuratore dell’arcivescovo contestò la scelta delle persone prodotte quali testimoni dalla controparte e le respinse adducendo alcuni capi d’accusa.

La causa era quindi tornata nuovamente in curia, dove i procuratori delle parti contendenti avevano a lungo discusso.[65] Le animose diatribe durante la litis contestatio nel tribunale pontificio comportarono il protrarsi della causa e il lievitare dei costi, pertanto per economizzare su labores et expensae,[66] la causa tornò in partibus. Furono nominati quali giudici delegati Guglielmo, vescovo di Melfi[67] e Bisanzio vescovo di Bisceglie,[68] e fu affidato loro il prosieguo della vertenza con il preciso incarico di ricevere preventivamente il giuramento dei contendenti. Si ritenne infatti necessario, all’interno di una vertenza annosa, il giuramento di calunnia, talvolta richiesto durante il processo, allo scopo di prevenire brogli, nonché l’impugnazione, con il rischio di dilazionare ulteriormente la causa.[69] Il mandato pontificio ordinava ai delegati di redigere per iscritto i capi d’accusa enunciati da una parte contro i testimoni e registrare la difesa della parte avversa, infine inviare la relazione in curia.

I giudici delegati raccolsero le deposizioni testimoniali e le inviarono a Innocenzo III trascritte in un documento da loro sigillato, insieme ai privilegi e ad alia communia documenta che la chiesa garganica aveva presentato in giudizio.[70] Il vescovo e i canonici sipontini non comparvero a Roma per il termine fissato, neppure a seguito della citazione perentoria, ciò nonostante, dopo l’esame delle dichiarazioni dei testimoni, fu chiaro che la documentazione prodotta dalla chiesa di Monte Sant’Angelo non era sufficiente per annullare la sentenza di Alessandro III, pertanto, in concistoro, essa fu definitivamente confermata.

La causa era durata venticinque anni: la prima istanza era stata inoltrata direttamente in curia, la causa d’appello era stata poi affidata ai giudici delegati, in seguito la vertenza era tornata a Roma per poi essere riassegnata ai delegati.[71]

3.2 Tra diatribe e denunce

Nell’assenza di acta prodotti durante il processo negli archivi dei contendenti, talvolta un solo documento notarile può tramandare memoria di una causa in altri modi destinata all’oblio, come quella intercorsa tra il vescovo di Troia Gregorio[72] e il monastero di S. Nicola della medesima città,[73] intorno al censo da versare in relazione alle decime, alle oblazioni dei fedeli, alle cappelle e ad altre chiese dipendenti dal monastero. La questione, si comprende dall’atto, verteva sulla conversione del censo, stabilito in un documento del vescovo Uberto in dodici soldi romanati, nella moneta corrente, cioè in once.[74]

La discordia era nata poiché il vescovo e il monastero non riuscivano a trovare un accordo sulla conversione monetaria, dando origine così a un contrasto più ampio che si era poi dilatato fino a comprendere anche la terza dei defunti. Il vescovo si era pertanto appellato al papa, invocando l’invio del giudice delegato. La causa tuttavia si complicò e, „ortis ex ista materia inter vos et nos multis questionibus et diversis“, si preferì ricorrere a un compromesso, richiedendo l’intervento di persone stimate e fidate da entrambe le parti.[75]

La nomina del giudice delegato, il vescovo di Melfi, forse non fu in quella circostanza casuale, ma suggerita dal querelante. Ambedue i prelati avevano agito insieme nell’inchiesta condotta sulle condizioni di rilassatezza in cui versava il monastero del Vulture, sordo ai molti tentativi di correzione.[76] Subito dopo nel luglio 1236 entrambi avevano indagato sulla concessione a titolo di locazione fino alla terza generazione di un casale fatta dal monastero della SS. Trinità di Venosa in favore di Tommaso d’Aquino conte di Acerra. Il papa aveva incaricato i due vescovi di verificare la libertà d’azione del monastero e di accertarsi se l’accordo fosse stato siglato senza ledere gli interessi dei monaci.[77] Gregorio IX temeva infatti, non senza ragione, che la locazione nascondesse un’alienazione dovuta a un accordo privato tra l’abate del monastero venosino e Tommaso,[78] annoverato tra i magnates curie, capitano generale e uomo di punta della politica federiciana.[79]

Nella penuria di documentazione processuale, un caso degli anni Trenta del Duecento permette invece di seguire il dipanarsi dell’intero processo, in quanto un buon numero di atti sono stati inserti nella relazione finale stilata dai giudici delegati.

Gregorio IX già prima del gennaio 1234 aveva disposto di indagare sul degrado spirituale e materiale del monastero di S. Maria delle Tremiti e sugli eccessi dell’abate, affidando ai vescovi di Termoli e di Guardialfiera e al canonico di Termoli, l’inquisitio, che avevano poi portato a rimuovere l’abate. Il mandato dell’11 gennaio 1234, che ordinava ai vescovi di Lucera e Troia di procedere contro l’abate Mauro, menzionava infatti la precedente commissione alla quale era stata affidata l’indagine sulla condotta dell’abate.[80] Questi però si era appellato alla Sede apostolica, innescando così una causa che durò a lungo, vide avvicendarsi diverse commissioni di nomina pontificia, nonché il susseguirsi di numerosi appelli inoltrati dall’abate alla Sede apostolica in ricusazione delle sentenze emesse contro di lui. La vicenda si protrasse almeno fino al giugno 1237, subendo momenti di stallo dovuti anche all’avvio di un procedimento mirante a inquisire i delegati, il cui operato fu denunziato dall’abate del monastero benedettino che richiese, senza ottenerla, una ulteriore commissione di inchiesta.[81] L’indagine portò infine alla decisione pontificia di riformare il monastero introducendo alle Tremiti i Cistercensi dell’abbazia di Casanova.[82]

La relazione stilata e inviata a Gregorio IX da Giovanni vescovo di Dragonara[83] e da Gualtiero arciprete di Penne, componenti in ordine di tempo l’ultima commissione delegata dal pontefice per sanare la questione, descrive puntualmente l’andamento dell’intero processo a partire dal 1234 e reca inserti la trascrizione di diversi mandati pontifici indirizzati ai delegati, delle lettere inviate ad altri ecclesiastici coinvolti a diverso titolo nel processo e di ulteriore documentazione prodotta.[84] Il vescovo di Dragonara e l’arciprete di Penne, come si suppone coloro che li avevano preceduti nel processo, avevano assunto un notaio pubblico ad scribendum universa inquisitionis acta: di essi i soli tramandati sono quelli pervenuti come inserti nella relazione dei due delegati. A tali documenti sono da aggiungere l’incarico pontificio affidato a Raniero diacono cardinale di S. Maria in Cosmedin[85] di esaminare la documentazione del processo, il mandato di comparizione da questi emesso per il monastero delle Tremiti e per l’abate, la rinuncia di quest’ultimo e infine il mandato emesso in data 13 giugno 1237 indirizzato al vescovo di Termoli con l’incarico di introdurre i Cistercensi nel monastero.[86]

Si ricava così un dossier di quattordici documenti, che costituiscono solo una percentuale degli atti processuali emessi:[87] si tratta comunque di una circostanza fortuita e non usuale nella documentazione pugliese.[88]

Durante il processo altre azioni erano poste in essere e producevano documentazione scritta, in ottemperanza a quanto stabilito dal IV Concilio Lateranense, secondo il quale gli universa iudicii acta andavano redatti.[89] Le corti giudiziarie infatti, come è attestato nel documento per le isole Tremiti, si dotarono di personale adeguato, di notai formati e preparati, capaci di redigere gli atti prodotti durante il contenzioso.[90] Nonostante un incremento della documentazione scritta, poiché ogni stadio del processo poteva necessitare di più documenti, gli atti processuali assunsero poco valore per i contemporanei, per cui essi conservarono soprattutto i mandati pontifici, le sentenze definitive, i compromessi e poche altre tipologie documentarie.[91]

La controversia sorta tra il vescovo di Salpi e i Cistercensi di S. Maria di Arabona[92] in relazione ad alcune proprietà e al censo dovuto al vescovo dalla chiesa di S. Margherita non ha lasciato alcuna documentazione. Se ne ha notizia in un atto notarile del 23 maggio 1236 con il quale frate Pietro, vescovo di Salpi,[93] confermava a Landolfo, abate del monastero cistercense, la concessione, fatta dal suo predecessore, della chiesa di S. Margherita ad alcune condizioni.[94] In quella circostanza Pietro ratificava anche quanto stabilito a chiusura della causa – durante la quale si era fatto ricorso alla Sede apostolica –, che lo aveva visto protagonista insieme all’abate. In questo caso i giudici delegati non giunsero a pronunciare una sentenza, poiché la vertenza si risolse ricorrendo a una amicabilis compositio tra le due istituzioni.[95] Nel documento il vescovo ricorda infatti l’accordo raggiunto, nonché la stesura di instrumenta roborati dalle sottoscrizioni e dai sigilli dei giudici delegati; atti perduti.[96] Non sempre infatti le cause terminavano con una sentenza, poiché talvolta si giungeva a un compromesso tra i litiganti: era un mezzo per abbreviare i tempi e contenere le spese, come anche per trovare una soluzione concordata e quindi meglio accettabile da entrambe le parti rispetto a un giudizio,[97] ma necessitava di abili e persuasivi mediatori.[98] In una causa vertente sulle proprietà e sul censo contestati l’arbitrato si presentò come la soluzione migliore per rivalutare consensualmente le pretese di ambedue i contendenti e non incorrere in futuri ricorsi.

4 Riflessioni in margine

„The process was activated from the periphery, not from the center, by litigants not by judges. It was to some extent subversive of established hierarchies.“[99] Il punto di forza della giurisdizione delegata risiedeva nella possibilità di scavalcare la giurisdizione ordinaria, con la quale i delegati entrarono spesso in concorrenza, nonché nella possibilità da parte del querelante di suggerire i nomi dei giudici che avrebbero istruito la causa, circostanza che apriva buone prospettive di influenzare il processo in loro favore.

Le parti in causa in un tribunale ecclesiastico potevano richiedere l’intervento del papa in qualsiasi momento del procedimento giudiziario, circostanza di non trascurabile entità per quanti temevano di perdere la causa o dubitavano dell’imparzialità del giudice;[100] inoltre l’estensione del diritto di appello moltiplicava le aspettative nella giustizia delegata.[101] I sempre più numerosi ricorsi al pontefice, pur producendo un incremento del lavoro per la curia romana, permisero un maggiore controllo sulle chiese regionali e la conoscenza di situazioni e avvenimenti locali in altro modo ignorati. Dai rischi di una interpretazione unilaterale dei fatti il papa si proteggeva poi in vario modo: diverse formule inserite, secondo le necessità contingenti, nei mandati pontifici servivano a tutelare la curia, anche quando la verifica della veridicità delle affermazioni del querelante era lasciata ai giudici delegati o agli esecutori.[102] La giustizia in delega rispondeva inoltre a necessità di carattere economico, poiché non sempre i querelanti avevano risorse economiche tali da potere mantenere procuratori in curia a tutela dei loro interessi. Era necessario risiedere a Roma per la durata del processo, considerare attese e tempi di stallo, in quanto il sistema della contradictio davanti al tribunale di curia era esoso.[103] Bisognava inoltre affrontare il viaggio,[104] le spese per i doni da elargire al papa, agli uomini influenti della curia, agli stessi funzionari della cancelleria, oltre l’onorario da versare agli ufficiali e i compensi per gli avvocati e per coloro che sostenevano i litiganti durante il processo.[105] L’impegno finanziario da considerare era cospicuo, a tal punto che spesso era necessario chiedere prestiti e indebitarsi.[106]

Il ricorso alla giurisdizione delegata invece permetteva ai contendenti di avvalersi di un tribunale superiore, di usufruire di un meccanismo procedurale collaudato, nonché di ottenere una decisione del pontefice, ma in sede locale, ridimensionando, per certi versi, i costi.[107] La crescente attrattiva esercitata da un ordine giuridico consolidato, la procedura romano-canonica, e da una giustizia non subordinata ai tribunali diocesani e formalmente vincolata, favorì, con motivazioni più stringenti, l’orientamento verso la curia papale.

Era possibile ricorrere al pontefice per un numero notevole di questioni, benché una parte consistente dei ricorsi alla curia romana riguardava controversie sui beni immobili, terre e case, su chiese e cappelle, su decime e censo; casi rilevanti poiché concernevano la proprietà ecclesiastica e, con la richiesta di intervento di giudici delegati, contestavano la giurisdizione vescovile. Numerosa era comunque la casistica delle vertenze presiedute dai giudici delegati,[108] tra i quali rientravano ad esempio i contrasti tra vescovi e monasteri causati dai tentativi di espansione del potere abbaziale a danno degli iura episcopalia, così come le problematiche connesse all’alienazione di beni monastici.[109]

La giurisdizione papale delegata offriva alla Chiesa romana uno strumento per consolidare e diffondere la sua posizione, poiché il suo sviluppo camminava di pari passo con la volontà di affermare il primato del pontefice, ne costituiva uno strumento di propaganda.[110] Ascoltare le cause nelle località dalle quali provenivano i litiganti offriva spesso informazioni precluse ai tribunali della curia pontificia a Roma, facilitava la raccolta delle prove e determinava per la curia una migliore conoscenza del territorio, riservando al papa l’opportunità, senza sovraccaricare i tribunali centrali, di intervenire direttamente in questioni locali. Era per tali motivi una modalità eccellente per la trasmissione e la penetrazione della cultura giuridica e della procedura romano-canonica,[111] orientata essenzialmente verso il diritto processuale, nella giurisdizione ecclesiastica locale, diffusione che rispondeva „to the changing circumstances of contemporary society and to the demand for clarity, authority, and consistency in the application of norms of behavior throughout the Western Church“.[112]

Un tramite considerevole se si pensa in termini di comunicazione tra centro e istituzioni ecclesiastiche locali, di relazioni tra il papa e i giudici, di consulenza giudiziaria tra vescovi e curia pontificia. Furono le domande poste al pontefice dai vescovi e dai delegati per ottenere chiarimenti durante la conduzione delle cause, sia su problemi di diritto, sia su questioni di procedura, a sollecitare numerose decretali. Essi contribuirono infatti con le numerose consultazioni con la curia e con i loro giudizi all’elaborazione del diritto nel corso del XII secolo e „helped to shape the law in their own regions“,[113] attestando pertanto una interazione tra le chiese in partibus e il papato, un dialogo che concorse a strutturare l’amministrazione della chiesa latina e a formare lo ius commune.

La complessa questione dei contatti tra il centro e la periferia, dell’azione/relazione del papato nei confronti delle chiese regionali, delle sollecitazioni ed esigenze provenienti da tali chiese particolari nell’elaborazione degli strumenti del governo pontificio, ha dato adito a interpretazioni differenti e ugualmente valide; in specie la recente storiografia si è focalizzata su come molte decretali e documenti pontifici emessi per definire procedure giudiziarie, così come per regolamentare la politica beneficiale, furono sollecitate da iniziative provenienti dall’esterno e inviate al pontefice.[114]

La volontà dei pontifici comunque a strutturare la chiesa intorno al vescovo di Roma, del quale si affermava l’autorità, il suo primato in campo dottrinale e giuridico, e il processo di diffusione di questo programma si servì, tra gli altri strumenti, della giurisdizione delegata, che mise in comunicazione la curia e le chiese locali, facilitò la diffusione e penetrazione delle posizioni pontificie e si costituì come strumento di trasmissione della cultura giuridica del tempo orientata al diritto pontificio.

I giudici delegati rappresentarono, nella prospettiva della curia romana, la supremazia di giurisdizione del pontefice: „Iudex a nobis delegatus vices nostras gerit“, recitava il „Liber Extra“, riprendendo un’affermazione di Alessandro III.[115] La penetrazione uniforme della legislazione canonica e del diritto processuale nelle chiese eccentriche rispetto a Roma, traslata poi ai tribunali ordinari, passò attraverso di essi, il cui potere discendeva dalla pratica dello ius dicere, cioè dall’esercizio della prerogativa propria in questo caso del pontefice e a loro apostolica auctoritate delegata. Essi infatti, in forza della delega ricevuta, in quanto rappresentanti del pontefice, avevano autorità su tutti coloro coinvolti nel processo.

Nella prospettiva dei litiganti invece il ricorso al pontefice e quindi alla giustizia delegata significò avvalersi dell’intervento di una riconosciuta autorità superiore, nonché ottenere la possibilità di eludere la giurisdizione ecclesiastica locale. Certo le parti, come si è visto in alcuni esempi, sfruttarono spesso a loro vantaggio il sistema, tuttavia in tal modo parteciparono attraverso i casi e le obiezioni presentate ai delegati al perfezionamento del diritto e della procedura.[116]

L’agire dei giudici delegati nell’esercizio del loro ufficio inoltre permise di verificare la tenuta del diritto canonico e delle direttive procedurali nel momento in cui ambedue si incontrarono con la concretezza della realtà e vennero applicati e interpretati.[117]

La giurisdizione delegata ebbe comunque il vantaggio di affidare il processo a uomini inseriti nel territorio e pertanto informati delle tensioni e sinergie tra le istituzioni in sede locale; al contempo incentivava la comunicazione tra il centro e le singole regioni, instaurava un dialogo tra il papato e le parti in causa, promuoveva lo scambio più intenso di materiale documentario e di informazioni tra i due poli, e rendeva più frequenti le interazioni tra coloro che, oltre i contendenti, erano coinvolti a vari livelli nella vertenza.


Anmerkung

Sono molto grata ad Harald Müller e Patrick Zutshi per i commenti e la lettura di questo contributo.


Published Online: 2024-11-22
Published in Print: 2024-11-18

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Artikel in diesem Heft

  1. Titelseiten
  2. Jahresbericht des DHI Rom 2023
  3. Themenschwerpunkt The Material Legacies of Italian Colonialism/I lasciti materiali del colonialismo italiano herausgegeben von Bianca Gaudenzi
  4. Cultura materiale e memorie del colonialismo italiano dal secondo dopoguerra a oggi
  5. Memorie di pietra del colonialismo italiano
  6. Legislazione e prassi italiane in materia di beni culturali tra protezionismo e universalismo
  7. Monumental Artworks as Difficult Heritage
  8. „Italia si, Italia no“. Materialità transimperiali e soggetti (post)coloniali tra Italia ed Etiopia (1956–1974)
  9. Una ‚reliquia colonialeʻ
  10. Artikel
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  27. L’identità dello Stato beneventano
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  30. Administration in Times of Crisis. The Roman Papacy in the Great Western Schism
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  34. Circolo Medievistico Romano
  35. Circolo Medievistico Romano 2023
  36. Rezensionen
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  40. L’Italia dal Settecento a oggi: un Sonderweg?
  41. 1820 – Eine Weltkrise der politischen Souveränität?
  42. Allgemein, Mittelalter, Frühe Neuzeit, 19.–21. Jahrhundert
  43. Erratum to: Antonio Mursia, Signori e signorie nella Sicilia normanna. Due pergamene inedite sui Perollo di Gagliano (1142–1176)
  44. Verzeichnis der Rezensentinnen und Rezensenten
  45. Register der in den Rezensionen genannten Autorinnen und Autoren
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