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L’Italia dal Settecento a oggi: un Sonderweg?

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Published/Copyright: November 22, 2024

Questa storia d’Italia dal Settecento a oggi, scritta a quattro mani da Christian Jansen e Oliver Janz, professori di Neuere Geschichte rispettivamente presso l’Università di Trier e la Freie Universität di Berlino, entrambi specialisti di storia italiana, assolve un ruolo sicuramente importante tanto nel panorama storiografico quanto nel mercato editoriale tedesco, rivolta com’è non solo all’ambito accademico, ma anche a una più vasta platea di lettori. L’ultima opera con caratteristiche paragonabili ad essa risaliva infatti al lontano 1988, data della terza edizione (la prima era stata pubblicata nel 1980, e spaziava dal ʼ500 al fascismo) della „Geschichte Italiens in der Neuzeit“ di Rudolf Lill. C’era, dunque, sicuramente bisogno di un aggiornamento su questo tema, alla luce delle ricerche nel frattempo comparse e ovviamente anche in considerazione della dinamica storica degli ultimi decenni.

Come gli autori ricordano nell’introduzione, in altri paesi – e specialmente in Gran Bretagna – esiste invece una fiorente tradizione di textbooks concepiti come un’illustrazione compatta all’interno di un singolo volume delle vicende italiane tra fine Settecento e età contemporanea. Esemplare, a questo proposito, è sicuramente quello scritto nel 2008 da Christopher Duggan con il titolo „The force of destiny. A History of Italy since 1796“. In Italia, viceversa, le ricostruzioni generali degli ultimi due secoli di storia d’Italia hanno privilegiato la formula dell’opera in più voll., come quella (in 6 voll.) curata da Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto per Laterza tra il 1994 e il 1999, i cui saggi sono scritti da una pluralità di autori. Jansen e Janz dichiarano esplicitamente che il libro di Duggan ha rappresentato il Vorbild per il loro lavoro, e infatti esso compare spesso nelle note di questa loro „Geschichte Italiens“. Ma anche i saggi raccolti nei voll. curati da Sabbatucci e Vidotto rappresentano spesso, nella ricostruzione offerta dai due studiosi tedeschi, un prezioso punto di riferimento. Così come lo è, per altro, un’ampia e in linea di massima ben aggiornata selezione bibliografica, relativa tanto alla produzione specialistica italiana quanto a quella britannica e naturalmente a quella tedesca.

Per quello che riguarda gli equilibri interni al vol. – il peso e lo spazio accordato alle singole epoche – c’è da osservare che il Settecento di Jansen e di Janz inizia, sostanzialmente, con il decennio finale del secolo, tematizzando le ripercussioni della Rivoluzione francese nella penisola, per proiettarsi poi rapidamente verso l’età risorgimentale, alla quale è consacrato il primo capitolo. Il vol. ne offre altri 6, due dedicati all’età liberale (inclusa la Prima guerra mondiale), uno al fascismo, i tre conclusivi al Secondo dopoguerra, dalla fondazione della Repubblica fino ai giorni nostri. Complessivamente questi tre capitoli si sviluppano in circa 150 delle 350 pagine lungo le quali si articola il vol., e derivano in gran parte da una rielaborazione della monografia di Jansen „Italien seit 1945“, pubblicata nel 2007. La storia della Repubblica, dunque, fa decisamente la parte del leone all’interno di quest’opera. E, se nei capitoli iniziali del libro a risultare predominante è una modalità espositiva prevalentemente narrativa, con molta attenzione a un’illustrazione puntuale dei fatti, in quelli finali la narrazione è spesso intercalata da un approccio politologico, tanto più percepibile quanto più ci si avvicina al tempo presente.

A mio parere la sintesi di Jansen e Janz è ben riuscita e anche il lettore non specialista la può leggere con piacere e con profitto, ricavandone un’informazione generale ben equilibrata, che in alcuni passaggi si arricchisce di dettagli davvero illuminanti e suggestivi.

Non ha senso, ovviamente, in sede di recensione, proporre una sintesi di contenuti, che rispecchiano le vicende-guida della storia d’Italia; o, anzi, come spesso, pour cause, rimarcano i due autori, della storia delle molte e frammentate Italie presenti nel territorio della penisola. Converrà, pertanto, soffermarsi soprattutto su quella che sembra emergere come la linea interpretativa di fondo da essi elaborata allo scopo di mettere in luce continuità e rotture nella trama degli eventi che hanno fatto da sfondo alla parabola italiana degli ultimi due secoli.

Si può dire, a questo proposito, che i fattori problematici che si sono venuti manifestando con maggiore virulenza a partire dal 1945 nel rapporto tra istituzioni e società vengono – in genere in maniera convincente – accostati a precedenti che hanno avuto luogo nella storia pregressa della penisola, soprattutto a partire dal momento dell’unificazione nazionale, ma in parte anche prima, e che sembrano pertanto costituirne una sorta di struttura ricorrente. Proviamo a passare in rassegna almeno i principali.

Tra di essi, spicca certamente la tendenza al compromesso e all’erosione dei confini tra maggioranza e opposizione nell’esercizio del governo, avviata dal connubio tenuto a battesimo da Cavour ancora negli anni ’50 dell’Ottocento, poi proseguita a pieno respiro nel corso dell’età liberale e specialmente dopo la cosiddetta rivoluzione parlamentare del 1876 attraverso la pratica del trasformismo, e riemersa in almeno alcune fasi della storia dell’Italia repubblicana. E ancora: la diffusa consuetudine clientelare alla quale la classe politica ha ispirato molte delle proprie scelte. Particolarmente evidente nella lunga stagione di predominio dei notabili che coincide quasi per intero con l’età liberale, essa si ripropone negli ultimi decenni nel contesto di quella che è stata definita come repubblica dei partiti (e, in seguito, Prima repubblica), ma risulta tutt’altro che assente anche nel nuovo corso politico che ha preso avvio alla metà degli anni novanta del ’900, e si esprime, con quasi inossidabile continuità tra le varie epoche, nella lottizzazione delle cariche pubbliche e delle opportunità di impiego offerte dalla pubblica amministrazione, in un deprecabile omaggio a una logica di parte clientelare e localistica e nel contestuale disprezzo dei valori del merito e della competenza, con le conseguenze facilmente immaginabili in termini di sostanziale inefficienza (nella migliore delle ipotesi) da parte degli apparati preposti alla gestione delle risorse pubbliche.

Tutto ciò ha fatto sì che lo Stato, in Italia, si sia venuto sviluppando secondo modalità lontanissime dalla valorizzazione di criteri di tipo legale-razionale, ed anzi quasi in forma di caricaturale parodia dell’idealtipo in ragione del quale Weber aveva a suo tempo definito il profilo auspicabile di una pubblica amministrazione razionale, capace di affrontare senza spirito di parte i problemi gestionali caratteristici della società moderna. Logica conseguenza di tutto ciò, la presenza di uno Stato debole e poroso, malgrado il teorico centralismo della sua impalcatura giuridico-istituzionale, a causa delle innumerevoli pressioni centrifughe suscitate dalla sua parcellizzazione interna; e, al tempo stesso, la proliferazione di un diffuso sentimento di diffidenza – se non di aperta ostilità – nei confronti del paese „legale“ da parte di un paese „reale“ propenso a autoorganizzarsi, talvolta anche secondo modalità fraudolenti e criminali (mafia, camorra, ’ndrangheta), facendo leva sui tentennamenti delle istituzioni e sul carattere deludente e spesso inaffidabile del loro operato.

La sfiducia nello Stato si attenuò certo, in parte, durante la Prima guerra mondiale, quando – ricordano gli autori – la nazionalizzazione degli italiani e il loro apprendistato istituzionale fecero dei passi avanti, in seguito alla partecipazione di massa al conflitto delle molte Italie sin lì frammentate e divise. E contestualmente venne maturando un inedito, ancorchè transitorio, senso di identificazione del paese reale con quello ufficiale. C’è, a questo proposito, un passaggio nel libro di Jansen e Janz nel quale questo nuovo avvicinamento viene evocato in modo particolarmente suggestivo; ma al tempo stesso, rivelatorio di tutti i limiti che esso portava tuttavia con sé. Dopo l’emanazione del famoso bollettino della vittoria dell’autunno 1918, a molti neonati venne curiosamente imposto il nome di Firmato. Firmato Diaz, si leggeva infatti in calce al bollettino diffuso da Armando Diaz e riprodotto infinite volte nei luoghi pubblici del regno, allo scopo di incoraggiare una identificazione emozionale della popolazione con il pubblico potere. Quest’ultima in una qualche misura fu raggiunta, ma le sue modalità di esternazione – la gente comune pensava che Firmato fosse il nome di battesimo del generale della vittoria – finirono paradossalmente per rivelare l’imbarazzante persistenza del baratro culturale che separava in Italia governati e governanti.

Ma il malcostume politico, la corruzione, il clientelismo, la propensione al compromesso al ribasso, il localismo, la debolezza del senso dello Stato caratteristici della storia dell’Italia negli ultimi due secoli si coniugano – secondo i due autori – anche con una tendenza di segno opposto, che trova per altro anch’essa fertile terreno di sviluppo proprio nel sostanziale sentimento di sfiducia nella politica provocato in vasti strati della popolazione dalla corruzione strutturale delle istituzioni e del corrispondente ceto di governo.

Si tratta dell’opzione carismatico-populista, e dunque della propensione ad accordare consenso, più o meno volatile e transitorio, a figure o movimenti che hanno individuato il proprio segno identificativo – certo con inclinazioni assai diverse – nell’esaltazione dell’antipolitica, e dunque nel rifiuto della logica di mediazione che alla politica comunque fisiologicamente pertiene, al di là degli eccessi patologici che connotano il caso italiano.

In tal senso, gli autori individuano una linea che si snoda tra Ottocento e i giorni nostri attraverso figure come Garibaldi, Crispi, Mussolini, Berlusconi, per culminare nei tempi più recenti nel populismo movimentista propugnato da formazioni come la Lega e il Movimento 5 Stelle. All’Italia come laboratorio per eccellenza del populismo contemporaneo è dedicato, in particolare, il capitolo conclusivo del vol.

Certamente efficace nel mettere in luce le peculiarità negative e le criticità dell’avventura della penisola nell’età contemporanea, e nell’evidenziarne le possibili radici risalenti, questa „Geschichte Italiens“ ha forse meno da dire a proposito delle ragioni che hanno portato, malgrado tutto, l’Italia a entrare nel ristretto club dei paesi industrialmente più avanzati e a fare dunque parte del G7. Forse lo Stato italiano, pur con tutti i suoi limiti, ha svolto in tal senso una funzione meno aleatoria di quella che la semplice constatazione del dilagare di una logica di corruzione e di lottizzazione al suo interno potrebbe indurre a pensare.

A questo proposito, avrebbe sicuramente contribuito ad articolare una visione più ampia e meno unilaterale del problema il confronto critico con gli studi di storia dell’amministrazione pubblica in Italia. Penso, in particolare, ai libri di uno studioso come Guido Melis, la cui assenza all’interno della bibliografia di riferimento dell’opera di Jansen e di Janz (che, pure, lo si è detto, risulta sostanzialmente esaustiva) non si può fare a meno di notare. Ma il libro – va ribadito – è un contributo di prim’ordine alla storiografia sull’Italia contemporanea.


Rezension von

Christian Jansen/Oliver Janz, Geschichte Italiens. Vom 18. Jahrhundert bis in die Gegenwart, Stuttgart (Kohlhammer) 2023 (Ländergeschichten), 396 pp., ISBN 978-3-17-021344-9, € 35.


Online erschienen: 2024-11-22
Erschienen im Druck: 2024-11-18

© 2024 bei den Autorinnen und den Autoren, publiziert von De Gruyter.

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