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Fantasma totalitario e democrazia blindata

La „questione alto-atesina“ nelle carte del generale Aldo Beolchini, 1959–1961
  • Jacopo Lorenzini EMAIL logo
Published/Copyright: November 22, 2024

Abstract

The involvement of the Italian security services in the handling of the so-called „questione alto-atesina“ has been extensively investigated by both magistrates and historians. However, the role played by the Italian Army has not received the same attention, a historiographical lacuna largely caused by the almost total absence of institutional sources. This makes it necessary to take an ‚indirectʻ approach to the question of the Italian army’s involvement in Alto Adige. This was made possible by the discovery of the personal archive of General Aldo Beolchini, commander of the IV Army Corps in Bolzano between 1959 and 1961. Tracing Aldo Beolchini’s biography allows us to reconstruct the various experiences that characterizes the military leadership of early Republican Italy. Indeed, the Beolchini archive is useful for reconstructing not only the phase immediately preceding the explosion of South Tyrolean terrorism, but also the attitudes and mindsets of the Italian military establishment in the Republican era and the nature of its interactions with the political authorities during the crucial transition from the 1950s of Centrismo to the 1960s of the Centrosinistra.

Il coinvolgimento degli apparati di sicurezza italiani nella gestione della cosiddetta „questione altoatesina“ è stato ampiamente indagato.[1] Tuttavia, dal quadro delineato in sede storiografica e giudiziaria risulta pressoché assente un periodo cruciale di quella vicenda: i tardi anni ’50, appena prima che la ‚questione altoatesinaʻ si trasformasse in ‚emergenzaʻ terroristica.[2] La stessa relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo, che per la parte relativa all’Alto Adige è stata elaborata da Marco Boato come contributo di minoranza, si concentra quasi esclusivamente sugli eventi successivi al 1964.[3] Di conseguenza, anche i più recenti contributi sulle origini della strategia della tensione tendono a focalizzarsi unicamente sulla stagione degli attentati.[4]

Una delle cause di tale lacuna è certamente la scarsità delle fonti documentali accessibili agli storici. Alla pressoché totale assenza di fonti istituzionali, comune a tutto il periodo, si somma la scarsità di quelle giudiziarie. Queste ultime infatti, come nel caso delle deposizioni del colonnello Amos Spiazzi davanti ai giudici Tamburino e Salvini e alla Commissione P2, fanno riferimento all’Alto Adige solo in relazione al pieno periodo terroristico.[5] Qualcosa è possibile trovare negli archivi di singole personalità: ma si tratta di documenti sparsi, e fin qui mai utilizzati in maniera sistematica.[6]

Questo saggio non vuole entrare nel merito del dibattito sulle complesse vicende diplomatiche tra Austria e Italia, e delle dinamiche politiche interne alla società altoatesina, bensì vuole arricchire la ricostruzione del problema storiografica con riferimento ad una nuova e significativa fonte. Nel quadro di una più generale ricerca sulle mentalità militari italiane in età repubblicana, abbiamo infatti avuto la ventura di individuare l’archivio privato del generale Aldo Beolchini, comandante del IV corpo d’armata di Bolzano dal 1959 al 1961.[7]

In particolare, il ritrovamento dell’archivio Beolchini ci permette di attribuire al generale la paternità di alcuni atti già individuati negli archivi dei suoi interlocutori, atti che non sono quindi prodotti da personale dei servizi segreti o dei Carabinieri, i due enti naturalmente preposti al mantenimento dell’ordine interno, ma da un ufficiale dell’Esercito.[8] D’altra parte le memorie inedite del generale ci consentono di inserire quegli atti nel quadro della parabola biografica e professionale del suo autore, nonché nell’ambiente politico-militare italiano di inizio anni ’60. La fonte Beolchini, infatti, risulta utile non soltanto per ricostruire la stagione immediatamente precedente l’esplosione del terrorismo altoatesino, ma anche gli atteggiamenti e le mentalità dell’istituzione militare italiana in età repubblicana, e la natura delle sue interazioni con l’autorità politica nel cruciale passaggio dagli anni ’50 del Centrismo agli anni ’60 del Centrosinistra.

1 Aldo Beolchini: un ufficiale dal fascismo alla Repubblica, attraverso la Resistenza

Ripercorrere la traiettoria biografica di Aldo Beolchini risulta interessante nella misura in cui ci permette di ricostruire la stratificazione di esperienze che caratterizza i vertici militari della prima Italia repubblicana. Esperienze che diventano memoria attraverso elaborazioni più o meno coscienti, specialmente necessarie in presenza di traumi e fasi di trasformazione conflittuale, e che contribuiscono in maniera decisiva a definire la mentalità di un individuo – e quando condivise da un intero gruppo professionale, come il corpo ufficiali, a generare una mentalità collettiva.

Aldo Beolchini era nato a Parma il 26 febbraio del 1906. Pur provenendo da una famiglia piemontese ricca di tradizioni militari (ben tre prozii paterni erano stati generali), la scelta del mestiere delle armi non era stata immediata. Il giovane Beolchini aveva infatti frequentato la scuola pubblica fino a diplomarsi come geometra, e avrebbe volentieri intrapreso la „professione libera“ per la quale aveva già preso accordi con „lo studio di un anziano ingegnere amico di famiglia“. A fargli cambiare idea intervennero prima il Biennio Rosso e l’esperienza della violenza paramilitare,[9] poi il fascino esercitato su di lui, figlio unico e „piuttosto vivace“, dalla vita disciplinata e comunitaria dell’ufficiale di carriera.[10]

Malgrado avesse aderito convintamente al movimento fascista prima di entrare in Accademia,[11] Beolchini se ne era poi gradualmente disamorato, soprattutto a causa di quella che percepiva come mancanza di serietà da parte di molti esponenti del PNF, e a maggior ragione da parte dei colleghi e dei superiori che sul partito facevano affidamento per le progressioni di carriera.[12] Tuttavia la sua fedeltà al regime, del resto legittimato e costantemente supportato dalla monarchia, non venne mai messa seriamente in discussione. Anzi, dal febbraio al giugno del 1939 era anche andato volontario in Spagna: un’altra occasione nella quale, come nella Parma del 1921–1922, aveva toccato con mano la violenza della guerra civile in funzione antisocialista, senza peraltro evidenziare particolari scrupoli di ordine morale di fronte alle „intemperanze“ dell’alleato franchista e dei suoi stessi soldati.[13]

Infatti, al di là dei rilievi sulle ingerenze del partito nella vita dell’istituzione militare, la cui frequenza nel testo delle memorie è verosimilmente il frutto di una selezione della memoria elaborata nel secondo dopoguerra, il rapporto di Beolchini col fascismo si incrina seriamente soltanto quando il regime inizia a dimostrarsi incapace di mantenere le promesse di ordine, prestigio e riconoscimento sociale che erano state alla base del ‚pattoʻ stretto con le forze armate all’inizio degli anni ’20.[14]

Sono due in particolare i passaggi decisivi di questo allontanamento traumatico: la campagna di Grecia, e soprattutto quella di Russia.[15] Nei giorni più drammatici della ritirata dal Don, tra stenti, freddo polare e migliaia di morti, Beolchini assiste a parecchi episodi di incompetenza e piaggeria da parte di colleghi più ammanicati di lui con le gerarchie del regime.[16] Ma è soprattutto il modo nel quale il regime stesso gestisce l’accoglienza in Italia dei reduci a risultargli del tutto inaccettabile:

„Eravamo rientrati in Italia alla chetichella … per non dar risalto alla grave delusione della sconfitta italo-tedesca. Noi reduci sentivamo chiaramente che la guerra era ormai perduta e ci meravigliammo di trovare in Italia un’atmosfera così distaccata, lontana dalla realtà, alimentata dalla martellante propaganda fascista, che minimizzava le nostre gravi sconfitte subite, sia in Africa che in Russia.“[17]

Di conseguenza al momento dell’armistizio, che lo sorprende a Bologna, per Beolchini è del tutto naturale schierarsi contro i nazifascisti. La sua scelta di campo è netta, e non solo in funzione antitedesca: nelle memorie il fascismo repubblicano è apertamente qualificato come „servo“, che nel lessico beolchiniano è forse l’epiteto più sanguinoso che si possa riservare ad un avversario. D’altra parte però, il ricordo del primo dopoguerra e il retaggio di vent’anni di propaganda rendono impensabile un’alleanza immediata con i partiti antifascisti, e in special modo con i comunisti.[18]

Trasferitosi in Piemonte e reclutato qualche centinaio di ex soldati e ufficiali novaresi che erano stati suoi commilitoni nei ranghi della Sforzesca in Grecia e Russia, Beolchini capisce rapidamente che la lealtà monarchica non è sufficiente, da sola, a sostenere un movimento di resistenza armata. Allo stesso tempo, i pochi militari di professione che come lui sono disposti a schierarsi apertamente contro i colleghi passati al servizio di Salò non sono abbastanza numerosi per condurre un’efficace attività di guerriglia. Dopo una fase iniziale improntata alla diffidenza reciproca, entra quindi in contatto con alcuni emissari dei CLN, e nella primavera del 1944 inizia a collaborare attivamente con loro.

Come molti colleghi che operano in altre province del Nord, anche Beolchini si rende conto che le formazioni partigiane più efficaci (anche se meno controllabili) sono quelle comuniste, alle quali tributa elogi tecnico-professionali che non spende per le formazioni di ispirazione liberale o cattolica.[19] E malgrado i disagi, le difficoltà, e i gravi pericoli corsi – ai primi del ’45 viene fatto prigioniero e rischia la fucilazione – la memoria della Resistenza rimarrà sempre un punto fermo per il generale, che a trent’anni di distanza la rivendicherà con forza nelle sue memorie.[20]

Dopo la liberazione, che vive da responsabile militare dell’insurrezione milanese, coordinando personalmente l’ultimo assalto alle caserme della Guardia Nazionale Repubblicana, Beolchini decide di non abbandonare l’uniforme e segue a Roma Raffaele Cadorna, nominato Capo di stato maggiore dell’Esercito.[21] Ed è proprio nella capitale che assiste alla campagna per l’elezione della Costituente, e per la scelta tra monarchia e repubblica:

„Molti [ufficiali], come me, speravano che l’esito fosse favorevole alla monarchia; nonostante le incertezze e le manchevolezze dell’8 settembre ’43, si riteneva che una monarchia in un regime democratico potesse meglio equilibrare le ribollenti aspirazioni dei vari partiti, tutti assai divisi tra loro. … Comunque, la prontezza ed il raro equilibrio di Cadorna consentì un rapido trapasso dalla Monarchia alla Repubblica, senza turbamenti, e le Forze Armate seppero superare la crisi ed adeguarsi alla nuova situazione.“[22]

La fine della monarchia non sembra quindi essere stato un trauma particolarmente pesante per Beolchini: certamente non quanto lo erano stati la ritirata di Russia, l’8 settembre o l’esperienza della guerra partigiana. Del resto è convinto, condividendo la linea del suo superiore Cadorna, che anche una repubblica, se opportunamente governata, possa fornire garanzie di stabilità e rispetto dell’ordine costituito tali da soddisfare un corpo ufficiali che da parte sua avverte chiaramente i danni inflitti all’immagine dell’esercito dalle azioni compiute dal fascismo e dalla monarchia. E infatti, piuttosto che gingillarsi con sogni di riscosse monarchiche, a Beolchini preme che il nuovo regime non scivoli troppo a sinistra:

„Io ero tra quelli che non volevano cadere nella dittatura comunista e ripresi i collegamenti con gli amici partigiani del Ragionier Somaglino e con il Colonnello Tellung di Cavalleria, allora Comandante del Distretto militare [di Novara]. Con l’aiuto dei due fidi sottufficiali Ingrosso ed Aprile, con due autocarri del Reggimento, di notte feci trasportare e distribuire armi e munizioni, custoditi nei magazzini del distretto militare, e ripartire ai partigiani inquadrati da Somaglino. Mi vennero fatte anche delle minacce personali, ma io li sfidai: ‚staremo a vedere chi sarà il primo a sparare!ʻ E da allora portavo sempre al cinturone la pistola con il colpo in canna.“

L’attivismo anticomunista porta il nostro ufficiale a prendere iniziative al limite della legalità:

„Un giorno del maggio 1948, durante il periodo della propaganda elettorale, il Generale Cadorna mi telefonò per avvertirmi che per il comizio che doveva tenere il giorno dopo al Teatro Faraggiana di Novara temeva di trovare un’accesa contestazione da parte comunista. Gli assicurai tutto l’appoggio mio e dei miei amici. Somaglino ritirò subito da Milano un centinaio di manganelli, quelli già in voga con i fascisti, e li fece distribuire ai nostri ex partigiani anticomunisti, dislocati attorno al palcoscenico e nei punti adatti della platea e degli ingressi del Faraggiana. Tutto filò a meraviglia. [La relazione di] Cadorna fu accolta da scroscianti applausi. Riuscì poi eletto come Senatore indipendente.“[23]

Insomma per Beolchini, come per molti dei colleghi che ne avevano condiviso le esperienze resistenziali, risulta tutt’altro che facile liberarsi della mentalità del partigiano e tornare ad essere un militare ‚normaleʻ. Tuttavia, dopo la netta vittoria della DC alle elezioni del 1948, e l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico che ne sancisce una volta per tutte l’appartenenza al blocco occidentale, la preoccupazione di Beolchini per una possibile rivoluzione comunista si attenua, e nelle sue memorie non troviamo più accenni al suo ruolo di tramite tra i vertici militari e gli ex partigiani bianchi del novarese. Del resto, la progressione della sua carriera lo porta presto lontano dal Piemonte: a Cagliari, a Bologna, a Bolzano come responsabile dell’artiglieria del Comiliter; poi a Roma, dove la frequentazione del Centro Alti Studi Militari gli spiana la strada verso i vertici dell’istituzione; quindi a Firenze, dove comanda la Divisione Friuli e ha modo di litigare con il sindaco democristiano La Pira, „tutto invasato di demagogia, di ambiziose iniziative per la pace nel mondo.“[24]

Negli anni ’50 il turbolento e incerto dopoguerra è ormai alle spalle, ma ciò non toglie che il PCI continui ad essere avvertito come una quinta colonna nemica installata nel cuore della società e della politica italiana. Cambiano però i metodi con i quali Beolchini ritiene si possa e si debba contrastarne la crescita. Da capo di stato maggiore del Comiliter di Bologna (dal 1952 al 1954) si impegna a ridurre „la penetrazione comunista tra i militari di leva, facilmente attratti dai vari circoli rionali“: ma lo fa potenziando la Casa del Soldato e dotandola di un cinema-teatro, ottenendo dal sindaco di Cervia una colonia marina a Milano Marittima per le famiglie del personale, e realizzando una colonia montana a Pian di Mocogno, sull’appennino emiliano.[25] Un’atteggiamento puramente difensivo quindi, volto a tenere il PCI fuori dalle caserme ma senza intervenire nella società civile al loro esterno.

Poi però avvengono due cose: l’escalation della guerra d’Algeria, e l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Armata Rossa. Se le giornate di Budapest risvegliano i timori mai sopiti di un’invasione sovietica dell’Europa occidentale, tra le altre cose dando l’impulso decisivo per la formalizzazione delle reti stay-behind, è dalla Francia impegnata nella repressione algerina che provengono gli influssi più significativi per l’evoluzione del pensiero militare italiano dei tardi anni ’50.[26] Nel caso di Beolchini la ricezione di quelle novità avviene con ogni probabilità nel 1955–1956, quando frequenta il Centro Alti Studi Militari. Tra le conferenze tenute quell’anno presso la prestigiosa istituzione ne figura infatti una del contrammiraglio francese Marius Adolphe Peltier intitolata „Tendenze della strategia sovietica“, nella quale vengono certamente illustrati i principi base della guerra rivoluzionaria che sta diventando la dottrina ufficiale nell’esercito francese sotto la gestione del generale Guillaume.[27]

È a questo punto della sua carriera, e sulla scorta di queste esperienze e competenze, che nella primavera del 1959 il generale Beolchini viene nominato comandante del IV corpo d’armata, con sede a Bolzano.

2 L’impatto con la realtà altoatesina (giugno – ottobre 1959)

Aldo Beolchini arriva in Alto Adige la sera del 7 giugno. Appena sceso dal treno alla stazione di Bolzano, viene intercettato dal capo di stato maggiore del IV corpo d’armata, colonnello Galateri, che gli presenta „un’agenda fitta di appuntamenti, per la presa di possesso della carica, con gli enti militari dipendenti e con le autorità cittadine“.[28] Si tratta di una routine alla quale tutti i colleghi di Beolchini dovevano sottoporsi al momento del loro arrivo in una nuova città. Nel caso di Bolzano però, il giro di visite e appuntamenti approntato dal solerte Galateri rappresentava tutt’altro che una mera formalità, e questo per almeno due ordini di motivi.

In primo luogo, quello che Beolchini si apprestava ad assumere non era un incarico qualsiasi. Creato nel 1952 a partire dal IV Comiliter di Bolzano, quello del IV corpo d’armata era uno dei tre alti comandi operativi dell’Esercito Italiano responsabili della difesa del Nord del paese in previsione di una possibile invasione da parte degli eserciti del Patto di Varsavia.[29] Strutturato su tre brigate alpine (Orobica con sede a Merano, Tridentina a Bressanone, Cadore a Belluno), un reggimento di cavalleria blindata, quattro reggimenti e due gruppi autonomi di artiglieria, due reggimenti del genio e un battaglione corazzato, il complesso di forze che ricadeva nel territorio del corpo d’armata contava in tempo di pace ben 25 000 uomini tra ufficiali e soldati.

Oltre a costituire un elemento fondamentale del sistema difensivo italiano, il corpo d’armata di Bolzano ricopriva poi due ruoli fondamentali nel quadro della strategia integrata NATO: doveva monitorare la frontiera con l’Austria neutrale, e garantire (assieme alle truppe federali tedesche di stanza in Baviera) il collegamento tra il teatro bellico dell’Europa Centrale (AFCENT) e quello dell’Europa Meridionale (AFSOUTH).[30] Proprio nell’ottica del dispositivo di difesa NATO, Beolchini avrebbe anche dovuto intrattenere stretti rapporti con un collega austriaco, il generale Seitz, che nei mesi e negli anni successivi si sarebbe recato più volte a Bolzano „in forma privata“ al fine di „mantenere buoni rapporti con l’Italia per eventuali aiuti da richiedere nell’eventualità che la Russia cercasse di rioccupare l’Austria“.[31]

In secondo luogo, la realtà socio-politica della città e della provincia di Bolzano era tutt’altro che semplice, e costituiva di per sé una delle maggiori sfide che ogni responsabile del dispositivo difensivo italiano alla frontiera alpina si trovava ad affrontare. Annessa nel 1918 al Regno d’Italia, sottoposta dal regime fascista a dure politiche di italianizzazione forzata, passata nel 1943 sotto il Reich tedesco, con tutta la scia di vendette anti-italiane e controvendette anti-tedesche che è facile immaginare, dopo il 1945 la provincia di Bolzano era tornata all’Italia, ma era rimasta una questione aperta sia dal punto di vista della politica interna, che di quella estera. L’accordo De Gasperi-Gruber del settembre 1946, ratificato a margine della conferenza per la pace europea, se da un lato aveva sancito definitivamente il ritorno dell’Alto Adige all’Italia, dall’altro aveva lasciato aperte diverse questioni, relative soprattutto all’autonomia provinciale.

Il generale Beolchini si era trovato perfettamente a suo agio nell’affrontare il primo corno di questa doppia sfida. In capo a pochi mesi il nuovo comandante del corpo d’armata aveva provveduto a visitare tutte le unità dipendenti, partecipando personalmente alle esercitazioni annuali in alta montagna, ed era persino riuscito ad introdurre alcune delle ultime innovazioni tattiche sperimentate dai francesi in Algeria, come l’utilizzo degli elicotteri in stretto coordinamento con la fanteria.[32]

Non altrettanto bene era andato l’impatto con le autorità politiche locali. Alcuni problemi erano emersi immediatamente per via delle servitù militari presenti nel territorio del IV corpo d’armata, specialmente il poligono del Monte Bondone:

„Un poligono ideale, appartato, raccolto, sicuro e ben organizzato. Ma quel complesso attrasse le mire del sindaco [di Trento] d’allora, il Flaminio Piccoli che, con l’aiuto del fratello giornalista, Direttore del giornale locale ‚L’Adige‘, si agitò moltissimo per estrometterci ed ampliare anche più del necessario i campi sciistici civili. Io resistetti tenacemente, dimostrando sia l’importanza militare del complesso, sia la scarsa utilizzazione per scopi civili di quella zona.“[33]

L’atteggiamento di Piccoli appare a Beolchini come una spia dello „scarso patriottismo di Trento e della D. C. trentina“, che a suo parere dimostra „scarsa comprensione delle esigenze militari, proprio in una zona di confine, così delicata ed importante“.[34]

Ma il partito che più di ogni altro riscuote le attenzioni del generale è la Südtiroler Volkspartei. Il 1959 è infatti un anno cruciale per la radicalizzazione del movimento autonomista altoatesino. In gennaio la SVP, dopo un ricambio generazionale che aveva portato alla guida del partito Silvius Magnago, aveva fatto mancare il proprio appoggio alla giunta provinciale a guida DC, e nel corso dei mesi seguenti aveva sfruttato le celebrazioni per il centocinquantenario della rivolta antifrancese di Andreas Hofer per proporre una rilettura di quegli eventi in ottica anti-italiana. Per contrastare quel profluvio di „sfilate in costume, musiche, balli, discorsi e tante bandiere bianco-rosse“ Beolchini aveva immediatamente messo mano agli strumenti ‚morbidiʻ già sperimentati a Bologna contro il PCI:

„Feci organizzare a Bolzano importanti raduni nazionali delle varie associazioni combattentistiche e d’arma, con omaggio al monumento alla Vittoria ecc. … feci creare nelle principali caserme dei moderni poligoni con carabine di precisione e abbondanti munizionamenti e istituire numerosi premi tra i migliori tiratori, che si addestravano a volontà, durante le ore di riposo.“[35]

Proprio nel pieno delle celebrazioni hoferiane, tuttavia, un altro evento tocca da vicino la comunità militare italiana di Bolzano, e in particolare il comandante del corpo d’armata:

„Tra gli ufficiali al comando trovai il Maggiore De Hartungen, che avevo conosciuto a Magenta, durante il periodo partigiano. A quell’epoca il suo operato non mi aveva molto convinto, ma lo assunsi egualmente come Aiutante di Campo, e la sua conoscenza dell’ambiente altoatesino mi agevolò per il rapido scambio di visite con le autorità locali di lingua tedesca, come il Presidente del Südtiroler Volkspartei Magnago, che poi era figlio di un magistrato trentino.“[36]

Ma Beolchini può avvalersi della collaborazione dell’ufficiale altoatesino soltanto per poche settimane, perché il 7 agosto del 1959 quest’ultimo sale all’Alpe di Siusi e si getta da un dirupo.[37]

Vale la pena di soffermarsi un istante su questa dolorosa vicenda. Il maggiore Christoph Alexander von Hartungen, infatti, non era un ufficiale qualsiasi. Capitano degli alpini, dopo l’8 settembre del 1943 si era schierato col Regno del Sud ed era diventato un agente del servizio segreto militare (SIM). Incaricato di delicate missioni nel Nord occupato, era stato tra le altre cose l’ispiratore di un coordinamento politico antifascista alternativo al CLNAI, e agendo sotto copertura si era fatto nominare podestà di Magenta dal ministero dell’interno della RSI.[38] Nel dopoguerra non aveva evidentemente rinunciato alla carriera nei servizi, parallela a quella negli alpini, perché nel 1956 era stato segnalato al controspionaggio della Germania Occidentale come agente del SIFAR incaricato di tenere i rapporti col figlio dell’ultimo imperatore d’Austria-Ungheria, Otto d’Asburgo.[39]

Dalla lettera lasciata nel suo alloggio prima di salire per l’ultima volta in vetta all’Alpe di Siusi, risulta evidente che il motivo che aveva spinto von Hartungen a compiere il gesto estremo era da ricercarsi proprio nelle sue attività segrete, relative alla spinosa questione dell’autonomia altoatesina:

„Sono costretto di comunicare a V. E. la mia ultima decisione di uomo d’azione e di combattente che ha fatto quello che ha potuto per degnamente agire per la Patria e il suo Paese. Purtroppo quanto avevo in animo non mi è stato permesso di fare e quel filo conduttore per mantenere con prestigio la … amicizia per il bene di tutti (azione Friedrich) è stato spezzato non per volontà mia. … Perciò – anche perché non vengo meno al mio nome – desidero dimostrare la mia fedeltà con l’atto supremo che un uomo possa compiere.“[40]

Purtroppo ignoriamo in cosa potesse consistere la „azione Friedrich“ nella quale il maggiore affermava di essere stato implicato. E tuttavia appare evidente come, tra l’anniversario hoferiano e il caso Hartungen, il versante politico del „problema altoatesino“ si fosse proposto al generale Beolchini immediatamente, e in una forma che non poteva essere ignorata.

3 Il „problema altoatesino“ (ottobre 1959 – estate 1960)

Alla fine dell’ottobre 1959, dopo la chiusura del congresso annuale della SVP, il generale austriaco Seitz fa pervenire a Beolchini un messaggio urgente: a suo parere, la nuova e più radicale linea politica assunta dal partito potrebbe „provocare guai nei rapporti italoaustriaci“. Beolchini interpreta a suo modo le informazioni ricevute dal collega austriaco:

„Mi resi subito conto della gravità delle macchinazioni di quegli energumeni di neonazisti che, con tutti i mezzi possibili, volevano ottenere nuove profonde concessioni di indipendenza e di autonomia e magari staccarsi dall’Italia. Si trattava di un vero e proprio rigurgito neo-nazista, basato su falsità e menzogne, intese a sostenere la supremazia tedesca sull’Alto Adige. … Mobilitai subito il Tenente Colonnello Frattarelli, ufficiale assai esperto nel servizio informazioni, molto abile ed attivissimo. In breve raccolsi elementi concreti e rappresentai a Roma il grave pericolo e le mie concrete proposte per fronteggiarlo.“[41]

Proposte che si sostanziano nel primo dei molti rapporti che Beolchini spedirà nel corso del successivo anno e mezzo ai suoi superiori dell’Esercito, e al Ministro della Difesa Andreotti. Il documento è datato 12 novembre 1959, e a differenza di quelli che vi faranno seguito è indirizzato alla sola gerarchia militare, in particolare al Capo di stato maggiore dell’Esercito, generale Bruno Lucini. Beolchini è molto esplicito nel rappresentare i suoi timori sul conto dell’SVP:

„Pur senza voler drammatizzare, ritengo mio dovere prospettare che la situazione sta precipitando paurosamente verso la soluzione estrema del totale distacco della provincia di Bolzano. … Il Südtiroler Volks Partei (partito unico nel quale sono rigidamente raccolti tutti gli altoatesini di lingua tedesca …) è ormai caduto interamente nelle mani degli estremisti più faziosi … i quali procedono tenacemente e decisamente verso la soluzione estrema, con i ben noti metodi nazisti di propaganda, intimidazione e violenza che portarono ai clamorosi successi del 1938–39 in Austria, Sudeti, Cecoslovacchia.“

Ovviamente, l’identificazione stabilita da Beolchini tra autonomismo altoatesino e nazismo (dalla definizione dell’SVP come „partito unico“, all’evocazione dell’Anschluss) è sorprendente quanto inappropriata. Tuttavia è anche funzionale alla sua argomentazione. Se questa è la natura della controparte, infatti,

„È ormai inutile, anzi pericoloso, adagiarsi sull’illusione che il tempo lavori a nostro vantaggio … Né si può credere che l’autonomia … possa realmente bastare: chiunque mediti sui sistemi usati dagli altoatesini per estromettere drasticamente gli italiani da tutte le cariche e gli impieghi dopo l’8 settembre 1943, non può aver dubbi sulla rapida e totale eliminazione di qualsiasi parvenza di autorità governativa o militare italiana. … saremmo cacciati in modo ignomignoso a meno di non voler affrontare la responsabilità ed il rischio di una vera e propria azione di forza. Pertanto, prima che sia troppo tardi, ritengo necessario approfittare subito di questo periodo, di relativa calma invernale, per passare immediatamente ad una ben decisa e ferma contro-offensiva per: estromettere o neutralizzare gli elementi anti-italiani più violenti e faziosi (nazisti) onde rimettere la SVP nei binari di una normale correttezza democratica.“[42]

Per ottenere questo risultato, Beolchini suggerisce di utilizzare la legge 108 del 1926 sulla „revoca della cittadinanza italiana a coloro che se ne dimostrarono indegni“. Sulla base di quella norma, pensata in epoca fascista per colpire gli oppositori del regime e gli esuli politici, sarebbe possibile espellere „la maggioranza degli attuali esponenti della SVP“, ritirare il passaporto agli attivisti altoatesini, dichiarare persone non grate i dirigenti e i membri austriaci del Bergisel Bund, e sciogliere gli Schutzen, „da considerare organizzazioni paramilitari e decisamente anti-italiane“. Ovviamente, al comandante del IV corpo d’armata non sfugge il fatto che le misure proposte possano avere conseguenze gravi a livello di mantenimento dell’ordine pubblico nella provincia, ma ritiene „che se si vuole veramente evitare la perdita a breve scadenza della provincia di Bolzano occorre affrontare decisamente i rischi che possono derivare da un’azione ferma e decisa“.[43]

Al rapporto sono allegati diversi documenti. C’è un commento sul 12° congresso della SVP, nel quale il partito viene descritto come un’organizzazione burocratizzata „tipo comunista … organizzazione capillare che attraverso i suoi funzionari procede senza tentennamenti non rifuggendo né da ricatti né da minacce“.[44] Ci sono un articolo del politico altoatesino Volgger, e la trascrizione di un intervento dell’esponente DC Bruno Kessler al consiglio regionale trentino. Ma soprattutto c’è una lista di personalità altoatesine e tirolesi, verosimilmente quelle per le quali si suggeriscono espulsione e divieto di ingresso in Italia. Tra gli altoatesini, oltre all’intero stato maggiore della SVP (Magnago, Stanek, Benedikter, Volgger, Ammon), figurano il deputato Ebner, il senatore Tinzl, l’assessore regionale Brugger, il presidente della giunta provinciale di Bolzano Pupp e gli ex senatori Braitenberg e Raffeiner: non solo gerarchia di partito quindi, ma anche esponenti eletti in Parlamento. Vengono inevitabilmente alla mente le famose liste degli enucleandi del Piano Solo, che costituiranno una delle accuse che otto anni dopo la commissione presieduta dallo stesso Beolchini muoverà al collega De Lorenzo.[45]

Quattro giorni dopo averlo ricevuto, il Capo di stato maggiore dell’Esercito Lucini trasmette il rapporto di Beolchini al ministro Andreotti accompagnandolo con una nota nella quale scrive di condividere „le apprensioni dell’alto ufficiale“, e che „pur lasciando agli Organi di Governo la valutazione della possibilità di adozione delle misure da lui propugnate“, si dichiara „d’avviso che la loro attenzione debba essere seriamente richiamata in argomento“.[46] Lucini inoltra il rapporto anche al direttore del SIFAR Giovanni De Lorenzo, adombrando la possibilità che dietro le mosse austriache in appoggio ai separatisti altoatesini vi sia Mosca, interessata a estendere „le zone neutre“ nel cuore dell’Europa.[47] Come vedremo, il capo del SIFAR sarà per Beolchini un interlocutore abituale lungo tutta la sua permanenza in Alto Adige.

Sempre al novembre del 1959 risale il primo della lunga serie di rapporti dedicati alla „Situazione alto atesina“ elaborati dal comando del IV corpo d’armata, verosimilmente dal suo ufficio I retto dal colonnello Frattarelli, che Beolchini inoltra al ministro Andreotti. La SVP vi è definita „partito programmaticamente avverso all’ordine pubblico“. Sul piano politico, agricoltori e commercianti di lingua tedesca vengono rappresentati come una forza conservatrice e reazionaria, contraria al progresso introdotto nella provincia dall’industria a prevalente proprietà e manodopera italiana. Per soddisfare le „pretese“ della SVP, che agita lo spauracchio della „sommersione etnica“, secondo Frattarelli e Beolchini (che firma il rapporto) „il Governo italiano … dovrebbe interdire ai cittadini italiani il diritto di soggiorno e di domicilio in una parte del territorio dello Stato … in pieno contrasto con i principi fondamentali della Costituzione“: un’eventualità che Beolchini ritiene chiaramente inaccettabile.[48]

Nel gennaio del 1960, dal comando del IV corpo d’armata parte in direzione di Roma un secondo rapporto, stavolta indirizzato direttamente al Ministero della Difesa. Beolchini vi afferma che „l’aperta attività anti-italiana della SVP e degli esponenti di tale partito che ricoprono le cariche di maggior rilievo nella amministrazione provinciale di Bolzano e dei vari Comuni della Provincia“ è un problema che va risolto rapidamente. In particolare, nello scrivere che „è inutile preoccuparsi della difesa dei vari passi montani quando tutte le retrovie della Provincia sono sotto la pressante minaccia di essere perdute da un momento all’altro“, Beolchini dimostra di leggere la situazione altoatesina attraverso le lenti della „guerra rivoluzionaria“ che a suo parere l’SVP si appresta a scatenare.[49]

Anche ad Andreotti, come già al generale Lucini, Beolchini propone la sua interpretazione del movimento autonomista come riproposizione del totalitarismo nazista:

„È assodato che la SVP è retta con metodi dittatoriali e criteri nazisti ed agisce con la tecnica ormai sperimentata da quel partito al tempo di Hitler … L’interferenza del rinascente movimento nazista austriaco e germanico è chiara e palese; i neo-nazisti puntano con tutti i mezzi al conseguimento di questo primo obiettivo (riunione del Tirolo) per galvanizzare le popolazioni e trascinarle verso il successivo Anschluss con l’Austria. … Ormai la SVP e gli stessi esponenti di governo austriaco chiedono insistentemente la completa autonomia della provincia e minacciano … il ricorso all’azione sovversiva di ribellione.“

Beolchini ribadisce quindi la necessità di „espellere o neutralizzare gli elementi più faziosi della SVP (nazisti) per rendere quel partito più democratico, conciliante e trattabile“. Per ottenere tale scopo propone di

„Sviluppare una vasta, capillare e profonda campagna di stampa e di propaganda all’interno e all’estero per … preparare l’opinione pubblica affinché siano accolti favorevolmente i successivi provvedimenti. … Nel caso che si manifestassero azioni sediziose, sabotaggi, attentati, ecc., i provvedimenti suddetti dovrebbero essere inaspriti, mediante: misure militari e di polizia di emergenza per bloccare subito ogni attività sovversiva; scioglimento della SVP, Schutzen, pompieri, associazioni, ecc., che risultassero comunque compromessi con gli attentatori od i ribelli; sospensione, destituzione, arresto di tutti i consiglieri o Sindaci che comunque risultassero compromessi con i sovversivi.“

Come si vede, non si tratta più soltanto di applicare la pur problematica legge del 1926. Quella che Beolchini propone ad Andreotti è un’azione in due fasi: preparazione dell’opinione pubblica tramite interventi propagandistici e metodi tipici della guerra psicologica, seguita dallo scioglimento manu militari della SVP. Il rapporto si chiude con un appello al Ministro della Difesa come esponente del Governo, e in quanto tale depositario della legittimazione politica necessaria ad attuare una strategia di così vasta portata. Una legittimazione che Beolchini sa di non avere, chiedendo che qualsiasi azione venga intrapresa nel quando di „un piano ben coordinato e pienamente convalidato dal Governo nei vari punti essenziali“.[50]

Ora, ad un lettore contemporaneo risulta evidente la pretestuosità dell’attribuire alla SVP caratteristiche e metodi di stampo nazista. Tuttavia è importante tenere presente che solo tale identificazione esplicita tra separatismo e nazismo poteva consentire ad una persona con la storia del generale Beolchini di proporre le soluzioni draconiane che riteneva necessarie alla radicale soluzione della questione altoatesina. In altre parole solo un richiamo esplicito alla lotta contro il nazifascismo poteva giustificare, a suo giudizio, la sospensione selettiva di alcune delle garanzie di libertà che da quella lotta erano scaturite. E infatti, in un esito paradossale di questa linea interpretativa, nella foga di argomentare la pericolosità dell’SVP Beolchini arriva a recuperare e rilegittimare l’azione di italianizzazione portata avanti dal regime fascista, che a suo parere è stata ampiamente superata, sul piano della violenza, dalle violenze degli altoatesini filonazisti dopo l’8 settembre:

„Bisogna finalmente avere il coraggio di essere forti; di abbandonare quel complesso di inferiorità e di colpa che ha finora contraddistinto la nostra politica in Alto Adige, perché noi in quelle terre abbiamo portato civiltà e benessere; le presunte colpe del ventennio fascista sono state di gran lunga scontate dalle violenze, angherie e vessazioni scatenate dopo l’8 settembre 1943.“[51]

Nel frattempo, sul piano pratico, Beolchini non è rimasto con le mani in mano. Il 12 febbraio del 1960 parte dal comando di corpo d’armata una circolare diretta a tutte le unità dipendenti, secondo la quale „l’attuale situazione alto-atesina potrebbe sfociare in azioni inconsulte, sia sporadiche sia organizzate, tanto individuali quanto di gruppo“. Beolchini ordina di conseguenza che ciascuna delle tre brigate alpine appronti un gruppo tattico autotrasportabile, costituito da una compagnia alpina per battaglione e da una batteria per gruppo d’artiglieria, e che tali truppe vengano tenute pronte ad intervenire immediatamente in tutto il territorio del corpo d’armata. Inoltre deve essere fornito a tutti i reparti il „munizionamento o. p. [ordine pubblico] individuale, in pacchetti sigillati“.[52] La preoccupazione del generale è che la struttura clandestina della SVP si stia preparando ad una sollevazione armata.[53]

Le prescrizioni restano in vigore fino al 22 marzo: per un mese e mezzo, il IV corpo d’armata si trova in un vero e proprio stato di allerta controinsurrezionale.[54] La circolare di Beolchini, che a prima vista potrebbe sembrare un atto del tutto autonomo del comandante militare, riceve invece l’immediata convalida sia di Lucini che di Andreotti. Il 23 febbraio sia il Capo di stato maggiore dell’Esercito che il Ministro della Difesa partecipano infatti ad una riunione che si tiene a Brunico, nel corso della quale vengono dettagliatamente informati da Beolchini delle misure prese.[55] Inoltre, nelle sue memorie, Beolchini ci fa sapere che in quella fase Andreotti non era l’unico esponente della DC e del Governo nazionale a condividere la sua valutazione della situazione altoatesina: „Il Capo di Stato Maggiore Lucini e il Ministro Segni condivisero le mie proposte, anzi, il Segni avrebbe voluto che io partecipassi a un Consiglio dei Ministri per concordare la condotta da seguire; ma una delle tante crisi di governo mandò all’aria quell’intenzione.“[56]

Passato il panico invernale e revocate le norme contenute nella circolare di febbraio, nel successivo rapporto datato marzo 1960 Beolchini scrive che permanendo la situazione „allarmante“, ritiene che sia „necessario un nuovo programma positivo per ristabilire le proporzioni dei rapporti di convivenza da regolare nell’ambito dello Stato Italiano e della comunità nazionale e non al di fuori o, peggio, contro di esso“.

In cosa dovrebbe consistere il „programma positivo“ è presto detto: sospensione di ogni concessione alla popolazione di lingua tedesca; revisione dello Statuto di autonomia, in particolare „per quella parte che si riferisce … ai poteri del Commissario del Governo, che devono essere estesi“; revoca della cittadinanza ai cittadini di lingua tedesca „che si rendano responsabili di faziosità politica e di attività antinazionale“; scioglimento degli Schutzen e sottomissione dei vigili del fuoco al commissario governativo;[57] divieto di soggiorno in Italia ai cittadini stranieri coinvolti con il movimento autonomista; ferma azione diplomatica nei confronti dell’Austria.[58]

Le nuove misure draconiane proposte da Beolchini sono motivate col deteriorarsi della situazione politica nella provincia. Da un lato, „i capi della BIB“, il Bergisel Bund, movimento austriaco per la riunificazione del Sudtirolo che Beolchini interpreta come braccio armato della SVP, „sembrano aver ormai scelto la strada della fomentazione, della ricerca di incidenti, anche con spargimento di sangue“. Dall’altro, i partiti italiani appaiono divisi e incapaci di opporsi all’azione dei secessionisti:

„Di fronte alla coerenza ed alla rigidità dell’atteggiamento della SVP, il partito di maggioranza [la DC] non ha saputo assumere una linea di condotta lineare, precisa e coerente. Tormentata e divisa nel suo interno da lotte di correnti, asservita ai voleri ed ai particolari interessi della DC trentina, non ha esitato a sconfessare il presidente della giunta regionale, avv. Odorizzi … [PSI e PCI] cercano di sfruttare a loro vantaggio il contrasto SVP-DC, cercando di inserirsi nella vita regionale con il propagandare una collaborazione tra i due gruppi etnici, attuando la famosa linea Scoccimarro, che in definitiva accederebbe a tutte le richieste della SVP ribadendo, almeno per ora, l’intangibilità del Brennero. [L’MSI] nella questione altoatesina, elevandosi al di sopra degli interessi di partito, combatte una battaglia molto difficile ed aspra, perché ha contro, oltre alla SVP, tutti i partiti italiani. … Il suo atteggiamento sulla questione altoatesina gli procura molte simpatie e ne fa per numero di aderenti, il terzo partito della Regione.“[59]

Sempre del marzo 1960 è un lungo rapporto dal titolo inequivocabile „Inattuabilità e inopportunità del programma della Democrazia Cristiana“, che secondo Beolchini „rappresenta atto di debolezza, di rinunciatarismo“.[60] In un appunto dell’aprile 1960 indirizzato a De Lorenzo e al comandante dei Carabinieri, generale Lombardi, Beolchini riafferma la sua convinzione che la SVP sia „dominata da un ristretto numero di irriducibili faziosi (rioptanti), con atteggiamento decisamente razziale e nazista“, e aggiunge che „perdurando tale stato di cose è evidente la perdita a breve scadenza della Provincia di Bolzano; … un successo neonazista [che] non potrebbe non provocare l’intervento delle potenze comuniste, particolarmente sensibili sul problema tedesco“.[61]

In giugno il comandante del IV corpo d’armata compie un passo che qualche mese dopo gli si ritorcerà contro, ma che per il momento gli sembra del tutto naturale: indirizza uno dei suoi rapporti mensili al Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, comandante in capo delle Forze Armate. Nel documento Beolchini riporta quasi parola per parola il suo pesante rapporto al ministro Andreotti del gennaio 1960, con la proposta di neutralizzazione della SVP e la rivalutazione delle politiche fasciste in Alto Adige.[62]

Insomma, in agosto Beolchini è chiaramente giunto alla conclusione che „il problema alto atesino [sia] ormai bloccato senza alcuna prospettiva di una soluzione favorevole“, almeno nella configurazione politica data. Ed è proprio nella direzione della modifica della „situazione politica“ che si spinge l’ulteriore suggerimento del generale: il finanziamento e l’appoggio „tacito“ e „riservatissimo“ ad un partito di lingua tedesca „dissidente“ rispetto alla linea della SVP:

„Collateralmente all’azione di penetrazione verso il ‚singolo‘, occorre agire sul piano della propaganda collettiva e dell’informazione pubblica. È necessario quindi la creazione di un organo di stampa a carattere settimanale, impaginato con particolare cura, con il compito non solo di illustrare il programma del partito, ma specificatamente di combattere apertamente la SVP denunciandone gli errori politici, i soprusi, ecc. … L’azione del settimanale dovrà essere integrata, a seconda delle esigenze del momento, dalla diffusione di manifesti, volantini, opuscoli, per richiamare con immediatezza l’interesse su particolari aspetti della situazione, sempre a danno della SVP.“[63]

Siamo ormai ad un’applicazione estensiva delle tecniche della guerra psicologica allo scenario altoatesino, che vede il coinvolgimento diretto dell’Esercito, e non solo. Beolchini cerca infatti la collaborazione di notabili locali, politici e membri della società civile altoatesina „come il Conte di Wolkenstein e l’Avvocato Vinatzer“ che dovrebbero sviluppare „una campagna contro il monopolio dell’SVP“.[64]

Anche i rappresentanti dello stato, nelle persone dei commissari governativi Puglisi e Bianchi di Lavagna, si mettono a disposizione del comando militare.[65] Ma è soprattutto col SIFAR di Giovanni De Lorenzo che si instaura una stretta collaborazione, con il servizio segreto che fornisce a Beolchini „dei bravi 007, che fotografarono, in un appartamentino di Innsbruck … armi ed esplosivi“: fotografie che Beolchini fa pervenire al quotidiano tedesco „Der Spiegel“ con l’intento di provocare uno scandalo ai danni del governo austriaco.[66]

La gestione diretta di questi „bravi 007“ non rimane prerogativa del servizio, ma viene condivisa con il comando del IV corpo d’armata, quando non addirittura promossa in autonomia da quest’ultimo. Ne abbiamo sentore da una lettera che Beolchini indirizza al collega De Lorenzo nell’agosto del 1960:

„Ho saputo che è stato arrestato a Bolzano quel tale Stötter che da quasi un anno collaborava molto attivamente con noi.[67] … Ho ritenuto mio dovere richiamare la tua attenzione sull’argomento perché inizialmente sono stato direttamente interessato della questione, ho avviato la sua attività ed ho molto apprezzato i brillanti risultati che ci hanno permesso di avere elementi sicuri e precisi su quanto si stava preparando a nostro danno.“[68]

Tramite il SIFAR, Beolchini fa anche pubblicare un libro intitolato „Alto Adige, realtà e problemi“, che nelle sue intenzioni dovrebbe contribuire a spingere l’opinione pubblica nazionale nella direzione di un intervento più deciso.[69] In quell’estate del 1960, mentre tra Genova, Reggio Emilia e Roma si consuma il tragico esperimento del governo Tambroni, Beolchini arriva infatti ad ipotizzare di instaurare lo stato d’assedio in tutta la provincia – e questo, stando alle sue memorie, con l’entusiastico appoggio di almeno un esponente politico democristiano.[70]

Ma non tutti gli attori dello scenario politico locale sono concordi con le valutazioni e le proposte del comandante del IV corpo d’armata. La direzione politica della DC trentina, ad esempio, continua ad essere una vera spina nel fianco: „Purtroppo, come Segretario della D. C. di Bolzano, vi era allora l’Onorevole Berloffa, un vero e proprio traditore. … Aveva come segretaria, che lo sostituiva durante le assenze romane, una ex partigiana, Menapace,[71] la quale poco dopo passò all’ultrasinistra! Il Berloffa trovava credito presso il Ministro dell’Interno, Scelba, e il Presidente Gronchi.“[72]

Beolchini tenta a più riprese di „scalzare il Berloffa da Segretario della D. C., facendo inserire nella D. C. di Bolzano elementi sicuri, così da costituire una nuova maggioranza“, ma senza successo.[73] Vedremo come di lì a poco saranno proprio Scelba e Gronchi, i due esponenti della DC individuati da Beolchini come referenti romani di Berloffa, a porre un freno all’azione del comando militare di Bolzano.

4 Il ruolo di Beolchini nella preparazione del caso italiano all’ONU (agosto – settembre 1960)

Verso la fine degli anni ’50 la volontà da parte austriaca di portare la questione altoatesina di fronte all’Assemblea Generale dell’Onu aveva iniziato a preoccupare i responsabili della politica estera italiana. Nel settembre del 1959 c’era stato proprio su questo tema uno scambio di dichiarazioni tra il Ministro degli Esteri austriaco Bruno Kreisky e il suo corrispettivo italiano Giuseppe Pella. Ma il passo decisivo avviene il 23 giugno del 1960, quando l’Austria presenta ufficialmente all’Onu la richiesta di iscrivere il „problema della minoranza austriaca in Italia“ all’ordine del giorno della XV sessione delle Nazioni Unite, prevista per l’autunno.[74]

Già nel corso dell’inverno 1959–1960 il generale Beolchini aveva sottolineato come „un successo austriaco all’ONU potrebbe provocare gravissime ripercussioni nell’attuale precario equilibrio europeo e potrebbe giustificare un intervento russo (o dei suoi satelliti) per tutelare la difesa della neutralità austriaca“.[75] Di conseguenza, nell’estate del 1960 il comandante del IV corpo d’armata è più che disposto a contribuire alla costruzione del „caso“ italiano in previsione della sessione autunnale delle Nazioni Unite. Anni dopo, racconterà in questi termini il suo primo incontro con Egidio Ortona, il rappresentante italiano all’Assemblea di New York, avvenuto il 30 agosto:

„De Lorenzo … mi inviò a Bolzano l’Ambasciatore Ortona, rappresentante permanente presso le Nazioni Unite, per metterlo al corrente della questione. L’Ambasciatore mi dichiarò che il nostro Ministero degli Esteri non gli aveva fornito alcuna notizia in merito; conosceva soltanto il testo del ricorso austriaco. Gli parlai a lungo e gli fornii un’ampia documentazione sulla questione. A sua richiesta, circa l’atteggiamento italiano da adottare all’ONU, gli suggerii:

  1. non accettare il ricorso austriaco, perché si trattava di una questione interna tutta italiana;

  2. se proprio si doveva aderire al ricorso, documentare che le nuove rivendicazioni altoatesine costituivano una chiara dimostrazione di razzismo neonazista, da condannare e da combattere; tesi certamente idonea per un’assemblea decisamente ostile al razzismo e al nazismo.“[76]

Che le cose siano andate più o meno come le racconta Beolchini è confermato dalla calorosa lettera che lo stesso ambasciatore Ortona gli scrive due giorni dopo l’incontro, ringraziandolo per „la cortesia che Lei ha avuto nel dedicarmi tanto del Suo tempo“, e assicurandolo che „le Sue osservazioni mi sono state preziose e che ne farò tesoro per l’avvenire non facile che ci aspetta nell’ambito dell’ONU“. Soprattutto, Ortona sottolinea come la relazione del generale fosse ricca ai suoi occhi di „preziosi elementi dialettici e importanti informazioni, opportunamente ed efficacemente inquadrate in una valutazione politica che mi trova … purtroppo più che consenziente“.[77] Piena condivisione, insomma, dell’identificazione tra autonomismo altoatesino e nazismo che il comandante del IV corpo d’armata aveva ripetutamente proposto nei suoi rapporti ad Andreotti e Lucini.

Sette giorni dopo Beolchini spedisce a New York l’ulteriore documentazione promessa all’ambasciatore. Si tratta di un corposo rapporto con numerosi allegati, tra i quali: dati aggiornati sulla ripartizione linguistica della popolazione; specchio della partecipazione di germanofoni alle istituzioni nazionali e locali; organizzazione scolastica della provincia di Bolzano; numerose fotografie di manifestazioni „con l’intervento di bande, di gruppi in costume, ecc. e sovente con sfoggio di decorazioni naziste“; dati sull’immigrazione italiana nella provincia altoatesina, e sulle favorevoli condizioni fiscali riservate agli agricoltori in gran parte germanofoni; fotografie di manifestazioni filoitaliane nelle vallate germanofone, e lettere di autorità locali; fotografie di slogan e simboli filonazisti comparsi lungo l’autostrada del Brennero; elenco di personaggi indipendentisti con trascorsi nazisti; attestazioni di atteggiamenti razzisti e filonazisti da parte di alcuni operatori scolastici altoatesini; alcuni articoli e pubblicazioni delle quali Beolchini consiglia la lettura. Nel pacco in partenza dal comando di Bolzano vengono inseriti persino alcuni striscioni con slogan contrari ai matrimoni misti, rinvenuti di fronte alla casa di una coppia di Marlengo il 2 giugno del 1960.[78]

Ortona risponde il 22 settembre, al termine del „primo round“ di schermaglie tra le delegazioni italiana e austriaca a New York, e alla vigilia della decisiva discussione plenaria. È evidentemente grato per il materiale che Beolchini gli ha fornito: „non ho parole … e purtroppo non ho il tempo in questi giorni pesantissimi per ringraziarLa come vorrei per tutto il Suo interessamento ai casi nostri qui“.[79] Confortato dalla sensazione di poter essere utile alla causa, nelle settimane successive Beolchini continua a spedire alla delegazione italiana rapporti e informative, preoccupandosi di farle trasmettere direttamente ad Ortona „con appositi corrieri per via aerea, messi a disposizione dal SIFAR“.[80] Da parte sua, l’ambasciatore Ortona mette prontamente a frutto i materiali forniti da Beolchini, utilizzandoli in particolare per convincere i decisivi delegati statunitense, britannico e argentino.[81]

Possiamo dunque immaginare la contentezza di Beolchini quando, il 31 ottobre 1960, l’assemblea generale delle Nazioni Unite vota una risoluzione di compromesso che accoglie sostanzialmente la tesi italiana. Ma si tratta di un sollievo di breve durata. Secondo Beolchini, infatti, „il verdetto dell’ONU ha calmato solo apparentemente le acque“. Permane infatti il predominio assoluto della SVP in tutti i gangli vitali della Provincia, mentre „la maggioranza più moderata degli altoatesini subisce passivamente il pesante dominio degli oltranzisti [e] lamentano la mancanza di un sicuro appoggio italiano“. Tuttavia la sconfitta austriaca in sede ONU fornisce „il momento psicologico favorevole, perché la massa degli altoatesini di lingua tedesca è stanca e desidera tranquillità“. Per il generale „un provvedimento severo ma giusto, preso nel pieno rispetto delle leggi vigenti a carico dei mestatori, dichiaratamente anti-italiani, ridarebbe a tutti la fiducia nel prestigio del Governo.“[82] Per questo il 28 novembre Beolchini spedisce al Ministro Andreotti quello che è probabilmente il più esplicito di tutti i suoi numerosi rapporti:

Non possiamo perdere un minuto di tempo. … Passate le elezioni, si deve procedere ad un riesame generale della situazione in Alto Adige e nella intera Regione Trentino-Alto Adige. Tutti i funzionari, alti o bassi che siano, che non abbiano dimostrato sufficiente energia, capacità o sensibilità di fronte alla delicatezza e gravità dei problemi, devono essere sostituiti. … Il problema oggi non può essere contenuto e risolto nell’ambito della Regione; grava con tutto il suo peso sul potere centrale. Ed è il Governo soltanto che può e deve risolverlo. … Ma non basta ripulire l’ambiente; occorre stabilire un programma, preparare i mezzi adeguati per attuarlo e mantenere costante la volontà di realizzarlo fino in fondo. … Noi dobbiamo ripetere no a questa autonomia ed escludere assolutamente qualsiasi altra concessione … I partiti politici – la DC trentina in speciale modo – devono smetterla con i tentativi ripetuti finora per trovare equivoche e interessate soluzioni alla situazione altoatesina mediante assurde quanto deprecabili concessioni alla SVP da realizzarsi soltanto a scapito del Paese. Solo al Governo spetta la responsabilità dell’azione politica in Alto Adige e nei confronti dell’Austria. I politicanti, incompetenti ed avventati, dovranno essere apertamente smentiti e messi in condizione di non nuocere, a qualsiasi partito appartengano, affinché l’opera del Governo non possa mai essere intralciata.“[83]

Sul piano della propaganda, da effettuarsi in lingua tedesca, il generale afferma „l’urgenza di creare un apposito centro che, pur inquadrato nelle direttive di Governo, abbia la possibilità di svolgere, con una certa elasticità, la sua funzione“. Infine, Beolchini stigmatizza l’azione della DC altoatesina, che a suo dire ha sabotato la presentazione della lista filoitaliana di lingua tedesca Torre Bianca per rimanere in buoni rapporti con la SVP locale.

Ancora una volta il generale critica una sfera della politica che a suo parere si rivela „contraria agli interessi nazionali“, e in particolare accusa il „partito di maggioranza governativo“ di combattere „sotto lo slogan ‚guerra agli estremisti‘ … in verità, solo quello di destra, mentre ignora quello di sinistra e si genuflette davanti a quello austriaco“.[84] La precisazione del fatto che „in ogni caso, si deve evitare di violare lo Statuto [di autonomia] e la Costituzione“ non basta ad attenuare la durezza di questo documento, che sembra preludere all’attuazione di quel „piano d’azione radicale“ della cui esistenza alcuni esponenti democristiani erano consapevoli (avendovi fornito una copertura politica di massima) fin dalla primavera. Ma c’è una seconda possibilità: che l’inusitata durezza del rapporto del 28 novembre sia la spia della rabbia e della frustrazione provate dal comandante del IV corpo d’armata per l’impossibilità di mettere in atto i propositi espressi a più riprese nei mesi precedenti. In effetti, poche settimane prima era avvenuto un fatto che aveva ridimensionato notevolmente il ruolo e l’autorità del generale Beolchini.

5 L’uscita di scena di Beolchini e l’inizio della stagione terroristica (ottobre 1960 – giugno 1961)

I primi sospetti che Berloffa e la DC trentina non fossero gli unici elementi contrari alle sue proposte di risoluzione della questione altoatesina, Beolchini li aveva avuti già nella primavera del 1960. Nei primi mesi dell’anno aveva chiesto al SIFAR di indagare sul conto del capo di gabinetto del prefetto Puglisi, vicecommissario governativo per l’Alto Adige, accusandolo di fiancheggiare occultamente la SVP.[85] Beolchini era poi passato ad accusare di lassismo lo stesso prefetto, specie in occasione delle ripetute manifestazioni inscenate tra il marzo e l’aprile del 1960 a Caldaro e in altre località altoatesine dai coscritti di lingua tedesca, che il generale avrebbe voluto denunciati ai sensi dell’articolo 272 del Codice Penale.[86] All’inizio di maggio, di fronte alle persistenti ritrosie di Puglisi, Beolchini aveva fatto redigere da Frattarelli un lungo rapporto incentrato sull’operato e sulla persona del prefetto.[87] In agosto aveva infine deciso di portare lo scontro con il vicecommissario governativo alla luce del sole, chiedendogli di proibire le manifestazioni della SVP e di tutte le associazioni collegate.[88] Puglisi si era accorto del tranello – proibire le manifestazioni, di per sé, avrebbe solo radicalizzato la situazione senza risolverla – e aveva risposto con fermezza che

„L’organizzazione degli Schutzen e l’attività da essa svolta è da tempo oggetto di attento e approfondito esame da parte di questo Commissariato del Governo che … ne riferisce agli organi centrali di governo cui soltanto compete adottare nei confronti dell’organizzazione stessa eventuali provvedimenti. Per quanto concerne la manifestazione indetta per domenica 7 corrente a Trafoi, … non si ravvisano gli estremi, almeno sino a questo momento, per legittimamente intervenire nel senso dall’E. V. suggerito.“[89]

Beolchini aveva subito inoltrato la risposta di Puglisi al Capo di stato maggiore dell’Esercito Lucini e al Comando della Regione Militare Nord-Est, stigmatizzando l’inazione del prefetto e chiedendo ancora una volta lo scioglimento di tutte le compagnie Schutzen „per evidenti finalità para-militari, sovversive ed anti-italiane palesemente contrastanti con le esigenze della sicurezza nazionale“.[90] Secondo il comandante del IV corpo d’armata, del resto, „perfino la magistratura di Bolzano era invischiata nei ricatti altoatesini“, e di conseguenza provare ad intervenire per via giudiziaria sarebbe risultato inutile.[91]

Ma proprio nei giorni dell’esplosione del conflitto con Puglisi, Beolchini aveva ricevuto un segnale piuttosto chiaro da Roma: il Presidente Gronchi gli aveva fatto restituire la relazione ricevuta qualche mese prima, „dicendo di non averla letta in quanto la questione era di competenza del governo“.[92] Il generale aveva capito perfettamente il vero significato di quell’affermazione: Gronchi, che il rapporto l’aveva letto eccome, „voleva dire che non concordava sulle mie proposte inserite nella relazione“.[93]

È a questo punto, siamo ormai alla fine di settembre, che il Ministro Andreotti convoca Beolchini a Roma, pregandolo di recarsi al Viminale dal Ministro degli Interni Scelba „onde concordare una linea d’azione comune, più redditizia, in Alto Adige“. Il generale vi si reca „fiducioso, con una borsa piena di documentazioni“, ma l’incontro non va affatto come aveva immaginato:

„[Scelba] mi accolse con tono aggressivo ed autoritario e mi incolpò subito di essere troppo acceso contro gli altoatesini. Alle sue prime aspre battute fui preso dall’acuta tentazione di scaraventargli la borsa in faccia e di andarmene. Riuscii a trattenermi e gli risposi che le sue osservazioni non mi riguardavano perché dipendevo dal Ministro della Difesa, e che questi, fino a pochi momenti prima, concordava sul mio operato. Scelba, allora, mi assicurò di parlare a nome del governo e che, pertanto, dovevo attenermi alle sue osservazioni. … Cercai di dimostrare altresì che le agitazioni degli estremisti altoatesini erano fomentate ed alimentate dall’Austria e dalla Germania, anche contro gli interessi della maggioranza locale, largamente beneficiata dal turismo e dalle generose elargizioni italiane. Ma Scelba si dimostrò irriducibile, pienamente sicuro di sé e, senza alcuna motivazione, contestò seccamente tutte le informazioni poste come base delle mie considerazioni conclusive. L’animata discussione si prolungò per quasi un’ora, con momenti molto accesi. Io rispondevo per le rime e con un tono di voce sempre superiore a quello di Scelba. Che impressione di pena e di disgusto per quell’omuncolo pieno di boria e di arroganza, che allora passava per la maggiore! In serata, prima di ripartire per Bolzano, tramite il Capo di Gabinetto, Generale Meloni, feci avvertire il Ministro Andreotti dello scontro e poi continuai per la mia strada; ma avvertii una più accentuata opposizione della DC locale, del Prefetto Pugliesi [sic] e dei suoi organi di Polizia. … Il 13 dicembre 1960, in occasione di una riunione per la consegna di una onorificenza, il Ministro Andreotti mi espresse il suo rincrescimento per quanto era successo e mi rinnovò la sua piena fiducia. Ma, al mio posto, come Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, misero il Generale Gualano, modesto come ufficiale, ma assai legato alla massoneria e molto accomodante con la D. C.“[94]

Non sappiamo se Beolchini abbia mai capito di essere caduto in quella che ha tutta l’aria di essere stata una trappola tesagli dallo stesso Andreotti. Sembra infatti oggettivamente difficile che il Ministro della Difesa ignorasse la linea promossa dal collega degli Interni, improntata al dialogo con la SVP; e che potesse pensare che mandare nel suo ufficio un generale con proposte assai vicine alla proclamazione dello stato d’assedio potesse sortire un esito diverso da quello raccontato da Beolchini. A che pro dunque sottoporre un proprio fedele collaboratore ad una lavata di capo così gratuita?

Torneremo su questo punto, che ci sembra centrale nell’interpretazione dell’intera vicenda, in sede di conclusioni. Per ora ci limitiamo a segnalare come, anche dopo lo scontro con Scelba, il tenore dei rapporti mensili che Beolchini invia al Ministero della Difesa rimanga pressoché invariato.

Il comando del IV corpo d’armata continua infatti a caldeggiare la scissione della componente moderata della SVP, che dovrebbe andare a formare un nuovo soggetto politico nel quale possa riconoscersi la „maggioranza silenziosa“ degli altoatesini di lingua tedesca: ancora una volta, „si tratta di saper cogliere il momento psicologicamente assai favorevole per rompere la SVP e far togliere di mezzo gli oltranzisti che hanno gonfiato ed esasperato il modesto problema locale“.[95] Alla fine, nel marzo del 1961, i desideri di Beolchini sembrano realizzarsi almeno in parte. Nel corso di quel mese muove infatti i suoi primi passi il Tiroler Volksverband, nuovo movimento di lingua tedesca che risponde alla lettera alla descrizione che il generale aveva fatto dell’ipotetico partito anti-SVP.[96]

Dopo una prima serie di attentati dinamitardi che colpiscono l’Alto Adige nei primi giorni del febbraio 1961, e la crisi di governo a Vienna con l’esclusione del sottosegretario tirolese Gschnitzer, noto come referente di SVP e BAS, dalla compagine dell’esecutivo austriaco, Beolchini ritiene che l’obiettivo degli autonomisti sia diventato quello di mettere in difficoltà i loro vecchi referenti oltreconfine, in particolare esasperando „al massimo la situazione politica per provocare reazioni ed incidenti atti a rendere evidente lo stato di disagio, insicurezza e terrore della provincia di Bolzano“.[97] Per Beolchini la SVP intende „creare uno Stato nello Stato“, ed „è in contatto con agenti sovietici … per indurre la Russia ad appoggiare all’ONU le richieste tirolesi sull’Alto Adige“.[98]

Ma ormai i giorni altoatesini del generale sono contati: all’inizio di aprile del 1961 riceve infatti la comunicazione del suo prossimo trasferimento a Firenze. Beolchini vive quella che in effetti è una promozione ad un incarico prestigioso e di grande responsabilità – la Regione militare tosco-emiliana era considerata tra le più a rischio nel caso di eventuali sollevazioni comuniste – come una sconfitta dolorosa.[99]

6 Una democrazia blindata. Conclusioni

Al termine della ricostruzione del periodo trascorso dal generale Beolchini in Alto Adige, possiamo provare a trarre dalla sua vicenda particolare qualche considerazione di ordine generale, sia relativamente alla vicenda altoatesina che alla storia dell’istituzione militare italiana, ma soprattutto per quanto riguarda la storia generale dell’Italia repubblicana.

Per quanto riguarda la dimensione locale della parabola beolchiniana, è per lo meno ipotizzabile, ovviamente senza sminuire le responsabilità in materia delle frange più estreme dell’indipendentismo tirolese, che le azioni intraprese da Beolchini e dal SIFAR con la copertura politica di quella parte della DC che si raccoglieva attorno ad Andreotti, abbiano contribuito significativamente a trasformare la questione altoatesina da problema politico in una vera e propria emergenza di ordine pubblico. Uno spostamento, quello dal piano del confronto politico a quello del conflitto militare, che dieci anni dopo avrebbe costituito l’obiettivo di una parte dei promotori della strategia della tensione, e che già alla fine degli anni ’50 veniva considerato inevitabile – e in quanto inevitabile, da intraprendere preventivamente e da posizione di forza – dai teorici della guerra rivoluzionaria che stavano diventando sempre più influenti in ambito NATO.[100]

Ma non tutta la vicenda altoatesina di Beolchini è riducibile ad un prologo degli anni di piombo, né al solo piano locale.

Anzitutto, l’esame della biografia e della vicenda altoatesina di Aldo Beolchini segnalano come il fattore generazionale possa costituire una possibile chiave di lettura delle mentalità e dei posizionamenti dei militari italiani del secondo dopoguerra. Come nella SVP e nell’esercito austriaco, infatti, anche nell’Esercito Italiano tra gli anni ’50 e ʼ70 i vertici della gerarchia erano occupati da persone cresciute sotto il fascismo, che avevano dello Stato e delle sue esigenze di sicurezza, stabilità e conservazione una visione totalizzante, peraltro rafforzata dall’esperienza traumatica del suo dissolvimento nel 1943–1945.

Questi alti ufficiali non erano però fascisti dal punto di vista ideologico, né si dimostravano nostalgici del fascismo storico: non lo era Beolchini, e non lo erano nemmeno i suoi futuri avversari nel corso della crisi del 1966–1967, De Lorenzo e Aloia. Questa generazione di ufficiali era anzi ossessionata dal fantasma del totalitarismo, che a seconda del contesto nel quale si trovavano ad operare acquistava di volta in volta le sembianze del comunismo sovietico o del nazismo tedesco. In altre parole, l’anti-totalitarismo di questi ufficiali non era il risultato di una sottrazione, anticomunismo meno antifascismo, ma di un’addizione. Il loro anticomunismo di lunga data era infatti rafforzato, e non indebolito, dalle loro esperienze resistenziali e dal loro radicale rifiuto del fascismo storico.

La visione totalizzante del ‚bene della nazioneʻ che caratterizza gli ufficiali della generazione di Beolchini non è insomma attribuibile in toto e unicamente alla loro formazione politico-culturale avvenuta in epoca fascista, dal momento che si sovrappone quasi perfettamente a tendenze di più lungo periodo dello statualismo liberale, da Mosca a Santi Romano. Particolarmente significativo risulta il confronto tra gli scritti di Beolchini e quelli del collega-avversario De Lorenzo, che in gioventù aveva aderito non al movimento fascista ma a quello nazionalista, disapprovando la confluenza di quest’ultimo nel PNF.[101] Persistenza di un nazionalismo con venature autoritarie, dunque, al di là e oltre l’esperienza fascista – della quale, non a caso, Beolchini recupera unicamente (e convintamente) l’azione „nazionalizzatrice“ delle province acquisite con la Grande Guerra.

D’altra parte, il totalitarismo che costituiva l’avversario dichiarato di questa generazione di militari veniva sempre identificato come prodotto di una minaccia esterna, non come un momento centrale del passato nazionale. Di conseguenza i sostenitori interni del totalitarismo (rosso o nero che fosse) erano senz’altro classificati come traditori, e in quanto tali meritevoli di essere esclusi (simbolicamente e concretamente) dai diritti di cittadinanza. Questa concezione negativa della cittadinanza è evidentemente alla base delle proposte di Beolchini relativamente all’applicazione della legge del 1926, ma più in generale contribuisce a spiegare la differenza di trattamento riservata alle zone di confine, nelle quali era più facile associare il dissenso interno all’attività di un attore esterno, rispetto al paese più in generale.

Insomma Beolchini non desiderava affatto un ritorno alla dittatura fascista. Qual era dunque il suo orizzonte politico ideale, nel momento in cui si trovava a poter influire direttamente sulla configurazione politica del suo paese, anche solo a livello regionale? La risposta sembra essere una democrazia blindata, stabile, senza sorprese. Una democrazia controllabile e controllata. Multipartitica, perché l’ultima cosa che Beolchini vorrebbe è il ritorno ad un partito unico, troppo potente ed invasivo; e perché lui e i suoi colleghi, nel loro intimo, coltivano idee differenti e diverse visioni del mondo, che si identificano in declinazioni politiche differenti (DC, PSDI, PLI, PRI, PNM, MSI), ma accomunate dall’esclusione dall’area di governo dei partiti che propongono cambiamenti più o meno radicali del sistema e della sua configurazione (politico-ideologica, PSI e PCI, o statuale-geografica, SVP).

Ci si potrebbe chiedere a questo punto se il generale Beolchini non avvertisse alcuna criticità nelle proposte che avanzava alle autorità superiori, e negli interventi che attuava di propria iniziativa agli estremi margini della sfera di competenza dell’autorità militare. Almeno a posteriori il dubbio deve essergli venuto, poiché nelle sue memorie afferma che non era sua intenzione „apparire come un Generale ‚golpista‘“, e che per evitare ogni malinteso „di tutto quanto avveniva“ teneva puntualmente al corrente „il Ministro Andreotti, sia con frequenti visite, sia attraverso relazioni, che inviavo, tramite il SIFAR o il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito“.[102]

Abbiamo visto come questa affermazione corrisponda effettivamente a verità. Dal Presidente della Repubblica al Ministro della Difesa, dal Capo di stato maggiore dell’Esercito al Direttore del SIFAR, a parecchi esponenti locali dei partiti politici italiani, moltissime persone erano al corrente delle valutazioni e delle iniziative intraprese dal comando militare di Bolzano, e pochissimi fra loro (Scelba, Gronchi, Berloffa) ne dissentivano in tutto o in parte. Anzi, almeno fino all’autunno del 1960 il generale Beolchini sente di avere una chiara copertura politica nel Ministro della Difesa Andreotti, che per oltre un anno aveva evitato di richiamare il generale al rispetto delle sfere di competenza della politica locale e nazionale.[103]

A nostro parere sta qui, nella ricerca e talvolta nell’ottenimento di una copertura politica in parte sostitutiva di quella scomparsa assieme alla monarchia, il nodo principale del rapporto tra mondo militare italiano del secondo dopoguerra e forze politiche democratiche. Beolchini non muove passo senza informarne il Ministro responsabile, e questo non solamente in Alto Adige. Anche l’apertura ad una maggiore collaborazione tra vertici militari e politici in ottica anticomunista, condotta negli anni successivi come presidente del Centro Alti Studi Militari, è conseguenza di una precisa richiesta di Andreotti.[104]

La dinamica del rapporto Beolchini-Andreotti aiuta anche a comprendere alcune delle motivazioni che spingono il generale a condannare senza appello le iniziative attribuite qualche anno dopo al collega De Lorenzo – iniziative che sul piano tecnico non appaiono troppo differenti da quelle proposte per l’Alto Adige nel 1959–1961. Il cosiddetto Piano Solo la cui elaborazione verrà attribuita a De Lorenzo, infatti, non costituisce altro che l’estensione a tutto il territorio nazionale delle „enucleazioni“ proposte da Beolchini nei confronti della SVP già dal 1959, ma con alcune differenze significative.

Anzitutto, agli occhi dei militari l’SVP rappresentava un pericolo localizzato sia geograficamente, sia dal punto di vista del supporto da parte della popolazione – un supporto del tutto assente al di fuori della provincia di Bolzano. Anche all’interno del contesto altoatesino, inoltre, la corrente radicale dell’SVP appariva minoritaria rispetto alla tendenza moderata del grosso della popolazione di lingua tedesca. Enucleare i dirigenti e smantellare la struttura dell’SVP, insomma, non avrebbe causato una guerra civile nella totalità del territorio nazionale, mentre applicare gli stessi metodi al PCI sì, e senza ombra di dubbio.

Ma c’è dell’altro. Come abbiamo visto, Beolchini proponeva e applicava solo ciò di cui aveva messo a parte le massime autorità politiche di riferimento: il Ministro della Difesa, e il Presidente della Repubblica. Inoltre, le sue proposte riguardavano un partito, l’SVP, considerato eversivo anche da diversi esponenti politici democristiani. Quando anni dopo si troverà ad indagare sul SIFAR e sull’estate del 1964, siccome De Lorenzo oppone il segreto sulle sue, di coperture politiche, Beolchini sarà portato a concludere che il collega avesse deciso in autonomia le schedature politiche e l’elaborazione del Piano Solo. Beolchini non sapeva o non immaginava che, a prescindere dalle azioni effettivamente intraprese o solo ipotizzate, anche De Lorenzo nell’estate del 1964 disponeva di una copertura politica, e del massimo livello, nella persona del Presidente della Repubblica Antonio Segni.[105]

Inoltre, a rafforzare Beolchini nella sua ostilità per De Lorenzo contribuiva il fatto che il SIFAR avesse schedato non soltanto gli esponenti di forze considerate sovversive (PCI, PSI, SVP) ma esponenti di tutti i partiti, della chiesa cattolica e addirittura alcuni presidenti della repubblica, presenti e futuri. Quindi il peccato capitale di De Lorenzo, secondo il collega, non sarebbe stato l’aver esorbitato dalla sfera di competenza militare, ma l’averlo fatto in tutte le direzioni e non solo a danno degli „elementi anti-italiani“.[106]

Infine, ha senso interrogarsi sulle motivazioni che spingono Andreotti a ‚bruciareʻ Beolchini mandandolo a quel colloquio con Scelba senza avvisarlo dell’ostilità del collega di partito alle soluzioni proposte dal generale. Si tratta di un avvertimento dello stesso Andreotti a Scelba, impegnato a gettare le basi del dialogo che avrebbe portato di lì a pochi mesi alla convocazione della Commissione dei 19 per la riscrittura dello Statuto di Autonomia? Oppure il fatto di cedere al collega l’incombenza di strigliare Beolchini evidenzia la volontà di Andreotti di accreditarsi come punto di riferimento e sostenitore dei militari contro la politica „meschina e ottusa“, che lascia volentieri incarnare ai colleghi di governo e di partito?[107]

Il prosieguo dei rapporti tra Andreotti e i vertici delle forze armate nel corso degli anni ʼ60, e la diarchia tra un Andreotti patrono dell’Esercito e un Moro molto più vicino ai Servizi adombrata anni dopo da Francesco Cossiga,[108] ci porta, pur senza escludere la prima, a ritenere particolarmente fondata questa seconda ipotesi.

Published Online: 2024-11-22
Published in Print: 2024-11-18

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