Abstract
The article discusses the results of a research project aimed at entering into the „Archivio Digitale“, the online platform of the Istituto Centrale per gli Archivi (ICAR), the „Diplomatic collection“ (1198/mid–13th century) from the abbey of San Salvatore del Monte Amiata, held in the Archivio di Stato of Siena, and on the study of the parchments of Sant’Antimo in Val di Starcia. The specific case study is contextualized within recent changes in the tools available to public and private archives and libraries in Italy. The methodological choices underlying the project are described, attentive to the major changes in research over the last twenty years and to the rapport between the ordering, cataloguing and publishing of sources and tools, and historical research. We then present the research topics for which the Amiata parchments can represent a useful mine of information. The replacement of the Benedictines with the Cistercians was the key event of the first half of the 13th century, but a variety of information on other topics is also available. Finally, we discuss the initial conclusions reached on events surrounding the historical archive of Sant’Antimo, which past historiography has attributed to a generic phenomenon of dispersal that we attempt to carefully consider, starting from the initial conditions of production and conservation of the documentation by Sant’Antimo and its dependencies.
1 Premessa
Si presentano in questa sede i primi risultati di un progetto attuato da chi scrive e volto all’inserimento su „Archivio Digitale“, piattaforma telematica dell’ICAR, Istituto Centrale per gli Archivi,[1] della porzione di fondo „Diplomatico“ datato tra il 1198 e la metà del secolo XIII dell’abbazia benedettina – e poi cistercense – di San Salvatore del Monte Amiata, conservato presso l’Archivio di Stato di Siena fin dalla seconda metà dell’Ottocento.[2] Si è trattato di un lavoro condotto a partire dall’acquisizione delle immagini, secondo le linee guida indicate dall’ICAR, a loro volta basate su standard condivisi a livello internazionale, e proseguito con la regestazione delle pergamene, tramite una maschera di catalogazione predisposta con MetaFAD, il software alla base di „Archivio Digitale“. Nell’ambito dello stesso progetto sono state studiate le pergamene di un’altra importante fondazione dell’area amiatino-valdorciana, Sant’Antimo in Val di Starcia, pervenute ai nostri giorni attraverso vicende archivistiche completamente diverse da quella amiatina e caratterizzate da un’odierna condizione di frammentaria esiguità, genericamente attribuita dalla storiografia a fenomeni di dispersione. Questa divaricazione è tenuta in attenta considerazione in un più ampio progetto volto a istituire una comparazione tra le due traiettorie storico-documentarie e che ha conosciuto una prima tappa proprio con il lavoro su „Archivio Digitale“.[3]
A partire da tale esperienza di ricerca, si intendono proporre due ragionamenti distinti ma collegati tra loro: uno, più circoscritto, esporrà le principali informazioni emerse dal lavoro su tali materiali archivistici. Rispetto a ciò, si presenteranno, dunque, sia informazioni sulla porzione del diplomatico amiatino resa disponibile on-line, relativa al periodo segnato dall’importante cambiamento istituzionale cui si è sopra fatto cenno, dai benedettini ai cistercensi, sia alcune considerazioni sui materiali antimiani, oggetto peraltro di un ulteriore e distinto contributo.[4] Un altro, più vasto ragionamento cercherà invece di esporre le ragioni più ampie di questo progetto, attente ai sostanziali cambiamenti incorsi negli ultimi vent’anni nel mestiere di storico e, in particolare, in quella dimensione che si concretizza nel rapporto che l’ordinamento, la catalogazione e l’edizione delle fonti e degli strumenti hanno con la ricerca storica, con particolare riguardo alla situazione degli archivi e biblioteche pubbliche e private della penisola italiana.[5]
2 L’antefatto: il „Codex diplomaticus Amiatinus“
La data del 1198 si sovrappone a quella di chiusura della celebre edizione da parte di Wilhelm Kurze delle più antiche pergamene amiatine, uscita in quattro volumi tra il 1974 e il 2004 sotto il titolo di „Codex diplomaticus Amiatinus“.[6] Nata nel fecondo contesto del dialogo tra il gruppo di ricerca coordinato da Gerd Tellenbach all’Università di Friburgo, prima, e all’Istituto Storico Germanico di Roma, poi, e quello di Cinzio Violante, prima presso l’Università Cattolica di Milano e poi in quella di Pisa, l’edizione intendeva mettere a disposizione degli studiosi l’unico fondo altomedievale disponibile per la Toscana meridionale, la cui più antica pergamena risale al 736. La scelta della data conclusiva dell’arco cronologico – opzione che aveva a lungo fatto riflettere Kurze – faceva sì che l’opera si ricollegasse a un progetto fondamentale per la storiografia, non solo per quella tedesca e dell’Istituto Storico Germanico, e a una data importante per lo stesso nesso tra storia e documentazione, attagliandosi all’inizio del pontificato di Innocenzo III.[7] Il lavoro di edizione di circa 370 documenti si rivelava però assai complesso e ampio e, di fatto, finiva per accompagnare tutta la vita di Kurze e le ricerche che questi continuava a svolgere anche su altri contesti di indagine, con quel ruolo di assistente del direttore per la ricerca sulla Toscana che, appunto, ricollegava il suo operato alla forte tradizione di inizio Novecento, a Paul Fridolin Kehr e a Fedor Schneider. Basti pensare al contributo dello studioso per la storia dell’ordine vallombrosano, alla collaborazione interdisciplinare sul tesoro di Galognano o alle ricerche sul ruolo svolto dai monasteri longobardi nella strutturazione dell’identità toscana.[8] Rimanendo agli interessi di questa sede, si intende rimarcare l’impostazione che Kurze dava alla sua edizione, che voleva dotare di strumenti utili anche a studiosi dediti non solo alla storia del documento, in particolare di quello privato: ad esempio, questioni legate alla toponomastica o all’antroponimia; alla storia economica e a quella giuridica, con l’inserimento, nel ponderoso volume III/2, che usciva nel 1998, di elenchi, tabelle e grafici, oltre che degli indici.[9] L’opera si chiudeva poi con una sintetica storia del monastero e con un’appendice di edizione di documenti sfuggiti a una prima fase di censimento delle pergamene da pubblicare. Senza ulteriormente dilungarsi sulle caratteristiche dell’edizione di Kurze, del resto ben note, si osserverà che l’opera poteva distendersi su oltre un quarto di secolo per essere completata. Un tempo che era anche utile perché Kurze potesse compiere studi storici legati alla fondazione amiatina e attirare l’attenzione di vari colleghi sull’abbazia e sui territori in cui erano inseriti i suoi beni, un’area piuttosto raccolta attorno al celebre vulcano spento, tra Maremma toscana e laziale e zone interne dell’Umbria occidentale, tra il lago Trasimeno e l’Orvietano. Grosso modo a metà di tale periodo si va a collocare quel convegno, organizzato proprio ad Abbadia San Salvatore dallo stesso Kurze, che rimaneva per decenni un riferimento sui principali temi di ricerca relativi al contesto amiatino.[10] Con l’edizione del fondo abbaziale, al di là di ogni considerazione, si andava non solo ad offrire un’importante massa documentaria ma anche un concreto contributo a una stagione di studi segnata da una certa metodologia di lavoro, con un forte dialogo tra documenti e problemi storiografici, indubbiamente favorito dal taglio cronologico così risalente delle pergamene di San Salvatore.[11]
3 Dall’edizione cartacea alla pubblicazione digitale
Richiamare queste vicende non è un’operazione di nostalgica memoria quanto un primo passo per ricostruire l’intervallo tra oggi e una fase non così remota nel tempo ma che potrebbe sembrare, invece, appartenente a un’epoca geologica passata, coperta da sottili ma numerosi strati di terreno, fino al più recente. Come sopra ricordato, l’ultimo volume del „Codex diplomaticus Amiatinus“ è in fondo uscito, sia pure postumo, nel 2004; un intervallo temporale, dunque, non amplissimo. Eppure, sembra di tutta evidenza che, se già all’epoca l’edizione di Kurze fu un’impresa più unica che rara, specie per uno storico non diplomatista specialistico, a maggior ragione oggi risulta, per certi aspetti, come l’ultima tappa di un’ampia vicenda che aveva già visto momenti significativi nei „Regesta Chartarum Italiae“ nati dalla collaborazione italo-tedesca, fin dai primissimi anni del ventesimo secolo avviati dal „Regestum Volaterranum“, ad opera di Fedor Schneider, cui seguirono gli ‚italianiʻ di Camaldoli, S. Apollinare Nuovo, Coltibuono, Capitolo di Lucca e Chiesa di Ravenna per poi giungere all’ultima tappa di parte tedesca, quel „Regestum Senense“ dopo il quale uscivano altri tomi di parte italiana prima che la Grande Guerra troncasse la cooperazione.[12] Se è ovvia l’impossibilità di dire se e come si sarebbe ancora collaborato, senza questa tragica cesura, risulta non meno evidente che sia utile ripensare oggi i metodi e gli strumenti rispetto a quelli di allora, e non perché si potrebbe essere tentati di leggere il quadro odierno come di minore attenzione agli studi umanistici. Più opportuno porsi in una prospettiva costruttiva e multidisciplinare, non limitandosi alla pur nobile intenzione di rimarcare la necessità di maggiore investimento nell’ambito delle discipline umanistiche, bisognose di risorse materiali per tenere alto il livello di coscienza etica diffusa. È questa, di certo, un’operazione la cui urgenza odierna sembra più pressante che mai. Perché si attui, risulta però non meno importante comprendere la complessità che attraversa anche la ricerca storica, come ogni altro campo di studi: infatti, anch’essa, e in essa il rapporto con i documenti, con le fonti, è oggi profondamente trasformata, con proprie peculiarità, dall’informatica digitale che si sta imponendo in ogni campo. Sono i tempi e i modi stessi di vita di ogni studioso e di ogni studio che vanno sensibilmente cambiando, con nuovi strumenti, impensabili nella fase di impostazione del lavoro di Kurze, non così lontana, per questi aspetti, da quella di inizio Novecento, e sui cui si interrogavano studiosi sensibili alla novità, quando lo studioso andava incontro a una morte improvvisa e inaspettata, il 26 gennaio 2002. Anche l’ambito umanistico è, insomma, dentro un contesto in cui la complessità delle indagini, delle ricerche richiedono, per un risultato capace di raggiungere più persone e con risultati solidamente basati, può essere condotta se non si sottrae dal confronto con strumenti che non rendono più semplice o più economica la ricerca, anzi, ma possono consentire di proporsi obiettivi più ambiziosi di quelli un tempo perseguibili.
Se, dunque, la scomparsa di Kurze ha imposto un’inevitabile cesura nello studio del patrimonio documentario amiatino, che indubbiamente conosce nella sopravvivenza della sua parte altomedievale una caratteristica fondamentale, era evidente già in quel momento l’opportunità di prestare attenzione anche alle fasi successive, pur rimanendo ancora da valorizzare il patrimonio altomedievale con un lavoro monografico.[13] Vi era, innanzitutto, un motivo per coltivare tale ambizione nella stessa sopravvivenza delle pergamene più antiche, che si spiega ponendosi in una prospettiva di storia archivistica attenta alla tradizione propria dell’intero insieme di quel fondo diplomatico per il quale, forse con troppa approssimazione, ci si era in passato limitati ad accontentarsi di una spiegazione costituita sul credere a una sorte particolare e benigna per la sua sopravvivenza così massiccia. Sebbene di non facile osservazione, si è preferita una prospettiva che ha cercato di cogliere le tappe attraverso cui, nei secoli, il fondo rimaneva oggetto da parte dei monaci che si susseguivano nei secoli sull’Amiata di accurata conservazione o di non meno tutelante oblio. Un iter peculiare della sorte plurisecolare di un patrimonio documentario che pare essere un tratto caratteristico di esso, il primo da tenere a mente. L’attenta pratica conservativa superava le fasi di crisi della fondazione, rimaneva intatta anche nella delicata transizione dai benedettini ai cistercensi per poi consolidarsi anche nel tardo medioevo e nella prima età moderna. Epoche, queste, che non di rado hanno cominciato a segnare fasi di grandi perdite dei documenti altomedievali in originale e non necessariamente per trascuratezza: si pensi alle grandi operazioni di trascrizione su codice che ebbero luogo, tanto per citare un paio di celeberrimi casi, a Farfa e a San Clemente a Casauria, o in monasteri storicamente meno rilevanti come quello della Berardenga – reso però storiograficamente celeberrimo dalla opera di Paolo Cammarosano sulla famiglia che con esso intrecciava le sorti – o San Quirico di Populonia, che hanno di certo quanto meno abbassato l’attenzione sugli originali, se non portato, almeno in alcuni casi, ad una volontaria distruzione degli stessi.[14] Un’attenzione conservativa più o meno attiva, invece, durava a Monte Amiata fino alla soppressione settecentesca quando le pergamene entravano nel patrimonio pubblico, caratterizzando il fondo con numeri che sono eloquenti indicatori al riguardo dopo le circa 370 già indicate con cui si giunge al 1198, se ne contano oltre mille per il secolo XIII e altrettante per il XIV. Nonostante fossero già decenni, quelli del Due e del Trecento, di sviluppo della tipologia documentaria in codice, l’alto numero delle pergamene amiatine per tali decenni sta a indicare la vivacità dell’abbazia. Invece, le poco più di 260 dei secoli XV, XVI e XVII, così come le sole cinque rimaste per il Settecento,[15] parlano non solo e non tanto di una fase di declino del monastero amiatino quanto delle mutate prassi documentarie che meglio sono evidenti andando a prendere in considerazione gli altri e abbondantissimi materiali archivistici che i monaci andavano a produrre e conservare, oggi ordinati presso l’Archivio di Stato di Firenze, tra i materiali del fondo „Conventi soppressi“, venutosi a formare appunto in conseguenza delle soppressioni volute da Pietro Leopoldo.[16] Si tratta di trentasei filze che trasmettono documentazione relativa alla giurisdizione spirituale e no dell’abbazia, i rapporti con istituzioni laiche ed ecclesiastiche, la gestione del patrimonio agrario e della dimensione materiale della somministrazione dei sacramenti, vari libri di ricordi e di altro genere relativi a famiglie con cui il monastero aveva dei rapporti.[17] È tutto un insieme di documenti ancora poco esplorato, quantitativamente piuttosto rilevante e che ci si riserva di meglio ponderare per seguire più compiutamente la vicenda della trasmissione del patrimonio scrittorio della fondazione amiatina. Nonostante sembrino evidenti, a un primo sguardo, fasi di considerevole calo della competenza dei monaci nello scrivere e conservare documenti, pure è attraverso queste tappe di età moderna che il patrimonio documentario medievale giunse fino ai tempi di Pietro Leopoldo. Già per questo, sarebbe importante estendere su di esse le indagini, oltre al fatto che, nei mutati contesti di relazione tra conservazione, valorizzazione e messa a disposizione della documentazione scritta e conservata in archivio, anche di ciò sarebbe opportuno tenere conto. Il caso di Monte Amiata sembra proporre nella ininterrotta cura conservativa nell’arco di un millennio uno dei suoi aspetti di maggior interesse.
Si intende ora riprendere il riferimento alla collana dei „Regesta Chartarum Italiae“ e al problema del come dare prosecuzione alla valorizzazione della documentazione amiatina e agli studi su di essa, principalmente, basati. Riflettendo sull’esplosione quantitativa della documentazione amiatina disponibile con il Duecento, si è trovata la strada di lavoro su tali materiali appunto nello sfruttamento degli strumenti messi a disposizione dall’informatica digitale. Pensare a un’edizione tradizionale anche solo di una parte delle pergamene duecentesche, ad esempio la prima metà del secolo, avrebbe voluto dire mettere in cantiere un lavoro per circa 240 pezzi, grosso modo due terzi del numero di documenti per la cui edizione Kurze aveva impiegato quasi trent’anni. Procedendo in queste grossolane approssimazioni, non erano di certo preventivabili vent’anni di lavoro di edizione, oltre tutto per un passo in avanti cronologico così modesto, ma nemmeno la metà o un quarto. Tuttavia, i due progetti, quello dei „Regesta“ e quello di Kurze, avevano già una remota ragione unitaria: la prima ipotesi di lavoro dello studioso delle carte amiatine, propostagli da Tellenbach, era proprio la prosecuzione del „Regestum Senense“ di Schneider, il cui primo e unico volume si chiudeva con il 1235 e la pace di Poggibonsi. Ma Kurze aveva poi compreso i limiti di un’operazione come il regesto su base territoriale. L’appiglio per ‚proseguireʻ l’opera di Schneider si trovava, però, nelle parole dello studioso prussiano che, proprio nell’introduzione al „Regestum Senense“, aveva scritto, con riferimento al fondo di Monte Amiata: „… [der] wegen seines reichen Schatzes an älteren Dokumenten – das Inventar zählt allein 222 bis zum Jahre 1000 – einer vollständigen Edition vorbehalten bleiben muss“.[18] Da ciò era scaturita la deviazione dal progetto iniziale di Kurze verso la ben più impegnativa opera di edizione integrale.
Il pensiero, in questo caso, è dunque stato quello di tornare a considerare valida l’impostazione del progetto di una pubblicazione in forma di regesto che può oggi attuarsi attraverso strumenti e condizioni di lavoro ben diverse rispetto a un secolo fa. Le risorse informatico-digitali consentono di offrire un lavoro altro dall’edizione, più sostenibile in termini di tempo e, dunque, economicamente, per un progetto che è qualcosa di diverso, che offre già più del semplice – per modo di dire – regesto del passato.[19]
La strada intrapresa è stata così, innanzitutto, quella di scegliere una piattaforma digitale nella quale inserire quella parte di apparati all’edizione critica che si offre come utile strumento di conoscenza: tipologia documentaria, datazione cronica e topica, regesto, descrizione fisica della tipologia e del supporto, dimensioni, stato di conservazione, enti coinvolti, antroponimi e toponimi.[20] Accanto a ciò, però, di fondamentale importanza, vi è oggi la possibilità di offrire una riproduzione fotografica del documento talmente utilizzabile da poter essere, per certi aspetti puntuali e per ben determinati scopi, anche migliore o, quanto meno, affiancabile a quelle altre indagini che solo l’osservazione del documento nella sua materialità originale può ancora offrire. Si è trattato, a questo punto, di individuare un buon progetto di ordinamento, catalogazione e pubblicazione digitale di fondi archivistici. Chiaramente, si compie un lavoro profondamente diverso dall’edizione critica di ciascun pezzo e che richiede assai minor impegno scientifico rispetto a quello, pur non rinunciando alle note di apparato critico che affiancherebbero l’edizione stessa e che, nel caso della schedatura sulla piattaforma digitale, accompagnano, invece, una o più fotografie ad alta risoluzione di ciascuna pergamena pubblicata. Ciascuno studioso potrà così comodamente consultare il documento agevolato da un primo lavoro interpretativo e, in qualche caso, potendo leggere il testo anche meglio che sull’originale.
Va qui sottolineato un ulteriore, non secondario spostamento occorso, in questo caso, tra la specifica edizione di Kurze dedicata a Monte Amiata e il lavoro cui si fa qui riferimento. Con la prima si pubblicavano tutte le pergamene che lo studioso riteneva essere un tempo appartenute al fondo diplomatico amiatino. Se, nella stragrande maggioranza dei casi, esse erano pervenute in Archivio di Stato di Siena dal fondo monastico, attraverso il passaggio per Firenze, altre erano invece sempre nella collezione senese ma pervenute per altre strade e, sostanzialmente, quella del Comune medievale di Siena che aveva recepito pergamene monastiche amiatine per interessi giurisdizionali. Altri documenti erano invece conservati in ulteriori sedi, ad esempio la Biblioteca Apostolica Vaticana. Una scelta, questa di Kurze, che aveva attirato critiche – sebbene lo studioso indicasse sempre, ovviamente, con estrema chiarezza la sede di conservazione presso cui aveva reperito ogni singolo documento, dando ragione dell’inserimento nell’edizione – da parte di quanti rimanevano perplessi di fronte a un’edizione non seguendo esplicitamente un fondo attuale. È appena il caso di sottolineare, tuttavia, che ciò avveniva implicitamente perché la grandissima parte dei documenti editi da Kurze erano e sono conservati nel fondo – sarebbe più corretto dire sub-fondo – prodotto, nell’ambito del fondo „Diplomatico“ dell’Archivio di Stato di Siena, dalle pergamene di provenienza „San Salvatore del Monte Amiata“ che rimanevano perfettamente identificabili.
Al di là di ulteriori considerazioni al riguardo – sono temi su cui si tornerà oltre – rimane il fatto che, con l’opera di pubblicazione su „Archivio Digitale“, si compie una scelta radicalmente diversa quanto a documenti che si vanno a pubblicare perché, in questo caso, l’insieme è nettamente definito appunto dalla odierna collocazione dei documenti stessi. È, a questo punto, opportuno, dedicare un certo spazio ai modi di incontro tra il fondo amiatino e „Archivio Digitale“ e, prima ancora, alla presentazione stessa di questa piattaforma.
4 Il progetto di „Archivio Digitale“
„Archivio Digitale“[21] si presenta, infatti, come una realtà complessa e vasta di cui non è necessario qui dare una descrizione approfondita ma senz’altro almeno qualche indicazione generale.[22] Il progetto prese le mosse nel 2013 quando cinque istituti culturali napoletani unirono le forze grazie a un finanziamento europeo finalizzato alla digitalizzazione e messa in rete di archivi e biblioteche pubblici e privati. L’eterogeneità di questo gruppo di partenza – Pio Monte della Misericordia, ente nato a inizio Seicento che prosegue la sua opera sociale attraverso la valorizzazione di un patrimonio artistico nel quale spicca una ricca pinacoteca che ospita, tra l’altro, alcune opere di Caravaggio; Cappella di San Gennaro, con il suo cospicuo tesoro di arredi sacri e oggetti liturgici; Società Napoletana di Storia Patria, con la sua biblioteca e il suo archivio; Fondazione Biblioteca Benedetto Croce e Istituto Italiano per gli Studi Storici, enti la cui ricca dote bibliotecaria ed archivistica è ben nota – probabilmente stimolò la ricerca di un software capace di flessibilità, di poter essere piegato alla schedatura di oggetti anche significativamente diversi tra loro. La piattaforma, oltre a descrivere i patrimoni di questi cinque enti, si ripropose subito di mettere a disposizione numerose riproduzioni digitali anche di beni artistici e museali, attraverso l’aggancio a ogni scheda della banca dati di una teca di oggetti digitali ossia, nel caso di un archivio, le fotoriproduzioni dei documenti ma, nel caso ad esempio di un’opera d’arte esposta in un museo, le istantanee di ogni opera catalogata. Ciò è possibile grazie a un software open source appositamente creato per la gestione dei beni culturali, MetaFAD. Cinque anni dopo, nel 2018, l’Istituto Centrale per gli Archivi, intendendo a sua volta procedere, di concerto con le Soprintendenze Archivistiche e Bibliografiche, in un lavoro di riorganizzazione delle schedature e degli inventari di archivi e biblioteche accessibili da remoto, decise di avvalersi a tal fine di MetaFAD. Con tale scelta, si segnava una continuità con l’esperienza partenopea, potendo avvalersi delle conoscenze già acquisite in tale contesto. Erano almeno tre i decisivi passi in avanti che si andavano a compiere: il primo, anche oltre il contesto archivistico, era di sviluppare un sistema informatico in grado di gestire schedature per i più diversi beni culturali e, dunque, beni archivistici ma anche manoscritti, librari, artistici; il secondo, in un contesto più strettamente degli archivi, portare gradualmente a una razionalizzazione la composita galassia di strumenti attivati nel tempo all’interno del sistema degli archivi, almeno quelli statali o, comunque, sotto controllo pubblico: da parte della Direzione Generale degli Archivi, si pensi, a titolo esemplificativo, al SAN, Sistema Archivistico Nazionale, al SIUSA, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche, al SIAS, Sistema Informativo degli Archivi di Stato;[23] tutti sistemi in dialogo con l’„Archivio Digitale“ che si vanno via via a integrare sempre di più con esso. Non solo: il sistema consente un’interazione anche con Internet Culturale, l’aggregatore delle collezioni delle biblioteche italiane.
Con la piattaforma MetaFAD si è poi raggiunto un significativo traguardo, cui si è già sopra fatto cenno, cioè agganciare alle schede le immagini digitali dei beni artistici e non solo: senza entrare in aspetti tecnici non affrontabili nei limiti di questa sede, l’integrazione di schedature descrittive complesse con immagini e la possibilità di dialogare con altri sistemi – ad esempio, nel campo della paleografia, con i record catalogati in „Manus“ – o di scambiare dati con altri sistemi e recuperare un rapporto con progetti precedenti, come il sopra citato SAN, l’aggregatore nazionale di risorse archivistiche, non sono risultati tecnicamente così semplici. Nel caso in analisi, unire le schede dei beni archivistici alle riproduzioni digitali degli stessi è un traguardo raggiunto tramite l’individuazione di forme di condivisione dei dati e delle descrizioni, ma anche grazie all’articolazione di livelli descrittivi diversi che giunge alla possibilità di organizzare indici di istituzioni, enti, persone, famiglie, toponimi che emergono dalla documentazione.
Non volendo qui eccedere nell’entrare in aspetti che potrebbero sembrare molto tecnici, detto che oggi più che mai l’umanista non può sottrarsi dal padroneggiare almeno in parte tali aspetti si può almeno riassumere con due considerazioni:
„Archivio Digitale“ è uno strumento che è stato lungamente pensato e costruito; godendo di un precedente quale quello di cui si è sommariamente detto, nato su quello che potremmo definire un campione territoriale e circoscritto di diversi enti di conservazione e valorizzazione di beni culturali, ha potuto poi evolvere in un’infrastruttura che, fin dalla sua prima versione, ha offerto una piattaforma efficace al fine di pubblicare schede descrittive di beni di cui vengono offerte riproduzioni digitali di ottima qualità. Per quanto il sistema sia, come ogni altro strumento di informatica digitale, passibile di miglioramenti, si tratta di un notevole passo in avanti nel rendere più integrata la schedatura e la restituzione digitalizzata dei beni culturali in generale e, per gli interessi di questa sede, di quelli archivistici.
Con questa offerta si consente a tutti gli Archivi di Stato, e non solo, di dotarsi di uno strumento unico e uguale, capace di recuperare materiali dai vecchi progetti, migliorandoli sotto vari aspetti e consentendo di rispettare gli standard indicati a livello europeo. Al contempo, svolge un importante servizio, rendendo più omogenee e maggiormente visibili anche collezioni archivistiche di piccole dimensioni. Ogni istituto ha un accesso autonomo ma adotta i medesimi criteri degli altri. Ciò ha anche concesso di recuperare descrizioni inventariali già presenti nel SIAS e di fornire uno spazio nel Web che potrà accogliere, alle stesse condizioni, teoricamente tutto il patrimonio digitalizzato afferente agli Archivi di Stato e alle Soprintendenze Archivistiche e Bibliografiche aderenti al progetto.
Alla luce di ciò, quando si è cominciato a ragionare su dove collocare i documenti di San Salvatore del Monte Amiata,[24] agli inizi del 2021, dopo una serie di verifiche, è sembrato ovvio e naturale cogliere l’opportunità di inserirli in „Archivio Digitale“ che da poche settimane era in grado di accogliere non solo i progetti di recupero dal SIAS ma anche nuovi progetti di digitalizzazione.
5 L’esperienza dell’Archivio di Stato di Siena
Come si è scritto in chiusura del terzo paragrafo, l’opzione di pubblicazione dei documenti su base dell’odierna collocazione archivistica era quella, in fondo, perseguita anche da Kurze con il suo „Codex diplomaticus Amiatinus“ nel quale, tuttavia, la diversa collocazione odierna dei pezzi non afferenti al fondo „Diplomatico“ dell’Archivio di Stato di Siena e con provenienza San Salvatore del Monte Amiata, era di chiara evidenza solo attraverso un’accorta osservazione dell’apparato critico. Una condizione, del resto, difficile da evidenziare meglio rispetto a quanto realizzato, in una pubblicazione cartacea che aveva finito per prediligere l’ordinamento cronologico dei vari documenti che lo studioso riteneva un tempo conservati presso l’archivio monastico. L’impostazione offerta da „Archivio Digitale“ è chiaramente diversa perché la finalità prima del progetto è proprio quella di schedare e pubblicare su base degli odierni fondi di conservazione. Tuttavia, il progetto di schedatura era pensato con una finalità legata alla volontà di studiare lo sviluppo delle competenze scrittorie nella Toscana meridionale, in un territorio relativamente privo di centri urbani. Al suo interno, nei secoli altomedievali, si andavano a collocare due grandi abbazie regie, San Salvatore del Monte Amiata e Sant’Antimo in Val di Starcia. Mentre per la prima è da tempo ben noto il ricco patrimonio scrittorio documentario e si conosce qualche testimonianza anche di scrittura libraria, sebbene ancora in un contesto non puntualmente noto dell’attività scrittoria, la vicenda di Sant’Antimo è assai meno nota e necessitante, pertanto, di ulteriori approfondimenti ma per motivi diversi da quelli relativi a Monte Amiata.[25] D’altro canto, la vicinanza delle due fondazioni, collegate da itinerari percorribili in meno di una giornata di cammino, lo svolgere funzioni similari, appunto, lungo dei percorsi viari sebbene a utilità di collegamento nord-sud per Monte Amiata – tra Lucca e Roma – ed est-ovest – ossia, tra il mar Tirreno e l’interno della penisola – per Sant’Antimo, la condivisione di vicende e destini simili, in determinate fasi della loro storia, hanno suggerito di instaurare una comparazione tra i due enti monastici per meglio comprenderne la storia nei secoli alto e pieno medievali. Comparare due vicende documentarie e archivistiche così divergenti per enti, invece, appunto con molti punti in comune, sembra un’opzione stimolante che sta scaturendo qualche primo risultato.[26]
Nell’economia del presente contributo, si può prestare solo un’attenzione marginale ai contenuti dei documenti, essendo già piuttosto vasto il ragionamento volto a delineare gli aspetti dell’indagine archivistica, sia generale sia in rapporto ai fondi indagati. In merito a ciò, va detto che l’inserimento nel progetto „Archivio Digitale“ ha fornito una situazione in parte già avviata, per la preesistenza del progetto di recupero SIAS dei fondi „Riformagioni“ e „Riformagioni Balzana“. In essi, infatti, è stato possibile individuare un certo numero di pergamene che, per ragioni relative ai loro contenuti intrinseci e/o estrinseci si sono potute attribuire all’antico archivio monastico amiatino e a quello antimiano. Rispetto al secondo, il lavoro preparatorio ha palesato che il „Diplomatico Bichi Borghesi“ conserva alcune pergamene di estrema rilevanza pubblica, soprattutto – ma non solo – diplomi imperiali e lettere papali, ma, a differenza di quanto era pur possibile ipotizzare, non tramanda documenti di tipo privato.[27] Il lavoro su Sant’Antimo è ancora a uno stadio piuttosto preliminare e verrà verificato, attraverso ampliamenti e approfondimenti; tuttavia, si può aggiungere che in altre, odierne sedi di conservazione sono state individuate nel corso del progetto altre pergamene di interesse.[28] Come restituire questo insieme su „Archivio Digitale“ o su altre piattaforme è quanto si sta al momento valutando. Per quanto concerne, invece, Monte Amiata, si è approdati a un compiuto lavoro di pubblicazione di tutto il patrimonio del diplomatico amiatino compreso tra la fine dell’edizione di Kurze – la prima pergamena è del 7 dicembre 1198 – e la metà del secolo XIII. Oltre a ciò, la casualità della coincidenza temporale tra la messa a disposizione della piattaforma „Archivio Digitale“ e l’avvio del progetto sui materiali amiatini e antimiani ha fatto sì che si sia così avviata un’attività complessiva che ha favorito il decollo della digitalizzazione di altri materiali. Ad esempio, i materiali presso l’Archivio di Stato di Siena del fondo „Frammenti musicali“, studiati nell’ambito del progetto RAMMSES,[29] hanno trovato a loro volta sede di pubblicazione su „Archivio Digitale“.[30] Con pochi mesi di scarto,[31] si è avviato il lavoro di inserimento dell’intero fondo „Diplomatico“ fino al secolo XII e l’interazione con il vasto progetto Tabula, intorno alla grande opera del grande catasto senese, il più antico pervenutoci, noto come „Tavola delle Possessioni“.[32]
6 Il „Diplomatico amiatino“ della prima metà del Duecento e le pergamene antimiane: prospettive di ricerca a partire dalla pubblicazione su „Archivio Digitale“
Avviandosi a concludere questo contributo, si riprenderà ora la parte propositiva e progettuale legata alle novità che il lavoro di schedatura ha fatto emergere.
La lettura delle pergamene amiatine della prima metà del secolo XIII, con la necessaria attenzione per approntare gli apparati sopra esposti, ha evidenziato la loro potenzialità in campi di indagine. L’inserimento dei cistercensi che subentrarono ai benedettini nel terzo decennio del secolo è senz’altro il momento centrale della porzione di diplomatico inventariata, schedata e digitalizzata della prima metà del Duecento. Tuttavia, la fase di abbaziato di Rolando dei Tignosi, l’ultimo „grande“ periodo precedente l’arrivo cistercense, propone non pochi temi di interesse: le dinamiche socio-economiche della società locale amiatina, in particolare lo sfruttamento delle risorse naturali e le relazioni tra monaci e dipendenti laici, culminano nella celeberrima pergamena del 14 luglio 1212 con cui l’abate si trovava a dover rispondere a una serie di istanze presentate dalla comunità abbadenga, rappresentata da due consoli;[33] così come il rapporto tra l’abbazia, il potere imperiale e quello papale che conobbe senz’altro una fase cruciale proprio con il passaggio ai cistercensi, in un capovolgimento degli equilibri tradizionali per San Salvatore, abbazia regia che, in questa fase, risulta assai più vicina al potere papale, già si palesa in movimento sotto Rolando. Ancora, il ruolo di Orvieto, prima alleata e poi in scontro con Siena; le relazioni tra monastero e famiglie eminenti[34] e, ultimo ma non meno importante, l’evolversi della cultura scritta di un centro intorno al quale da secoli gravitava un ceto notarile ‚ruraleʻ con proprie specificità sono temi rispetto ai quali la documentazione della prima metà del Duecento è particolarmente ricca. La dimensione pubblica appare con maggiore ricchezza di particolari rispetto alle fasi precedenti, così come è possibile seguire da vicino l’ambito dell’amministrazione della giustizia;[35] interessantissime sono le raccolte di testimonianze nelle vertenze con il vescovo di Chiusi, per Radicofani, e con quello di Viterbo, per il controllo di una chiesa a Viterbo stessa ma anche per una a Corneto.[36] Numerosi documenti sono relativi alla gestione dei mulini lungo i corsi d’acqua amiatini,[37] oltre che quelli legati alla gestione degli appezzamenti terrieri ed è molto interessante, al riguardo, non solo la documentazione relativa ad Abbadia ma anche quella dell’area nord-occidentale dell’Amiata, negli odierni comuni di Seggiano, Castel del Piano, Arcidosso, che si palesa come una zona di grande vivacità.[38] Successivamente al 1231, e ancor più negli anni Quaranta del secolo, risulta costante, capillare e reiterata l’azione a favore del monastero da parte di Federico II, sia con suoi interventi diretti sia con l’abbondante documentazione che attesta le scelte dei suoi ufficiali, in un’azione di ‚recuperoʻ rispetto all’interesse papale verso San Salvatore.
Queste fugaci note possono solo suggerire come la documentazione amiatina di primo Duecento sia ricca di potenzialità e che attenda di essere ben valorizzata. Sia pure nel mutato quadro istituzionale, con l’ingresso cistercense, Monte Amiata non perdeva la tradizione a una accorta conservazione del suo archivio; la pergamena dalla incerta collocazione al 1217 è esemplare in tal senso perché riporta un inventario dell’archivio stesso redatto da una mano dei primi decenni del Duecento.[39] Pertanto, sebbene sia chiaro che ci fosse una politica di regolari scarti dei documenti, con il procedere dei secoli risulta anche sempre più evidente una logica, una metodologia archivistica che i cistercensi non solo non dispersero ma raccolsero, ereditarono e vivacizzarono.
La situazione archivistica palesata da Sant’Antimo è, come già scritto, del tutto diversa da quella di Monte Amiata. Da esso sono giunte fino a noi pochissime pergamene, in stragrande maggioranza di natura pubblica, sia attraverso raccolte promosse dal Comune di Siena fin dal medioevo – „Riformagioni“, „Riformagioni Balzana“ e „Archivio Generale“, provenienza di complessa genesi, ancora non del tutto chiara, ma nella quale l’istituzione comunale medievale potrebbe aver giocato un non secondario ruolo – sia attraverso la collezione privata Bichi Borghesi sia – ed è questo un ulteriore risultato delle ricerche svolte – da fondi diplomatici di altri archivi, anche di Stato: infatti, è di tutta evidenza che un obiettivo come quello della digitalizzazione dei materiali sopravvissuti e giunti fino a noi da una specifica provenienza debba innanzitutto cercare di interrogarsi sulle ragioni di quella determinata consistenza; oltre tutto, in un caso come quello di Sant’Antimo, consistenza che ha sempre lasciato piuttosto perplessi per la sua esiguità, tanto che si è a più riprese levata la lamentela, peraltro non insolita rispetto alle raccolte di documenti medievali, delle dispersioni. Grazie anche alla possibilità di verificare un buon numero di pergamene di Sant’Antimo in Archivio di Stato di Siena ma anche in altre sedi coinvolte nel progetto „Archivio Digitale“ si sono potute seguire le tracce di pergamene antimiane in varie sedi di conservazione. Con sorpresa, si è verificata l’esistenza di un certo numero di pergamene, relative soprattutto a dipendenze di Sant’Antimo, presso l’Archivio di Stato di Firenze e in quello di Lucca, relative a beni antimiani in quei territori. A queste si aggiungono non pochi documenti relativi a Sant’Antimo di Bibbiano, anch’essa dipendenza della casa madre in Val di Starcia, nella provenienza „Archivio Generale“ del „Diplomatico“ in Archivio di Stato di Siena.[40] Sembra lecito ipotizzare che queste, come le altre relative a dipendenze lucchesi e fiorentine, siano state conservate in un archivio presso la fondazione dipendente e non, come nel caso di Monte Amiata, presso la casa madre in cui veniva regolarmente archiviata la documentazione. Se ciò venisse confermato, sembrerebbe trattarsi di due modalità di gestione dell’archivio monastico completamente diverse: da Monte Amiata, le pergamene sarebbero giunte fino a noi, attraverso un processo di conservazione, certo, fortunato ma anche per così dire, agevolato dal modo centralizzato che ha trasmesso unitariamente tutto il patrimonio, anche quello di dipendenze meno vicine ad Abbadia San Salvatore. Rispetto a Sant’Antimo, il compimento di un’ulteriore campagna di ricerca presso l’Archivio vescovile di Montalcino, al fine di poter leggere in originale alcuni elenchi delle dipendenze di Sant’Antimo noti per l’edizione di inizio Novecento del Canestrelli e per verificare l’eventuale esistenza di altra documentazione utile ai fini della ricerca, ha palesato la non conservazione, nel suddetto archivio ecclesiastico, di ulteriori materiali di interesse diretto; oltre a dei libri di livelli di prima età moderna, comunque di una qualche utilità, si è però potuto studiare il documento che riporta le dipendenze di cui si è sopra scritto. Un piccolo libretto che risulta però importante per orientare una accurata ricerca di ulteriore documentazione, in buona parte ancora da svolgere. Una traccia emergente è quella dell’organizzazione delle terre di Sant’Antimo che appare strutturata e articolata sulle dipendenze ecclesiastiche o monastiche; queste risultano essere i nodi della rete dei possessi antimiani, non apparendo che in modo estremamente sporadico terminologia „laica“, legata a corti o a castelli. Quanto alla scarsa documentazione giunta fino a noi, questa è in gran parte costituita da documenti pubblici: un indizio, unitamente alla nettissima predominanza delle strutture ecclesiastiche nell’articolazione del patrimonio fondiario, di una forte predominanza della dotazione fiscale, almeno per i secoli del medioevo alto e centrale? Va in tal senso ricordata la celeberrima dotazione di Adelaide, promessa sposa di Lotario figlio di Ugo di Provenza, del 937: secondo il dato in essa riportato, la dotazione terriera di Sant’Antimo doveva essere il doppio di quella di Monte Amiata che apparirebbe contraria rispetto alla quantità di documenti infinitamente più bassa pervenutaci.[41] Ma, con riferimento a ciò, non va trascurata la tesi di una diversa prassi gestionale del bene pubblico, proposta da Simone Collavini e Paolo Tomei con argomentazioni convincenti.[42] Mentre un’altra traccia da seguire sarà quella di determinare se il caso di Monte Amiata e Sant’Antimo, con particolare riguardo alle vicende storico-archivistiche, possa aiutare a meglio definire il funzionamento dei monasteri altomedievali: porre, cioè, in parallelo i modelli individuati dalla storiografia con le vicende dei loro patrimoni scrittori, per come è possibile conoscerle.[43]
In conclusione, sembrerebbe possibile lavorare su un’ipotesi di ricerca che inserisca una dispersione documentaria per Sant’Antimo, che di certo può esserci stata, in un’ottica capace di tenere in considerazione il profilo istituzionale del monastero e, dunque, i modi di produzione e di conservazione archivistica comunque diversi rispetto al caso di Monte Amiata, preso come elemento di confronto: il quale, sebbene siano pienamente accoglibili, se non ovvie, certe osservazioni rispetto alla proposta di Kurze di poter elaborare dei conti e, dunque, delle statistiche, proprio in base alla conoscenza non solo delle quantità conservatesi fino a oggi, senz’altro si palesa come il caso di un archivio che ha conosciuto per tutta la storia della fondazione una buona politica di gestione delle sue raccolte.
A differenza di San Salvatore, non essendoci per Sant’Antimo un’edizione di riferimento, nemmeno per i secoli altomedievali, si è partiti dalla documentazione più antica e, senza perdere il solido ancoraggio archivistico con l’Archivio di Stato di Siena, è stato importante valutare subito le consistenze in altre sedi: Archivio della Curia Vescovile di Montalcino, Archivio Diocesano di Pienza. Documentazione riflessa è conservata anche altrove, in Archivio Comunale di Montalcino, Biblioteca Apostolica Vaticana, Archivio Segreto Vaticano.[44]
La riflessione sugli aspetti di storia della produzione e della conservazione documentaria produce un progresso nelle conoscenze non solo della storia archivistica di queste fondazioni ma anche in quella relativa allo sviluppo della cultura grafica e dell’articolazione e differenziazione delle prassi scrittorie anche tra enti relativamente vicini territorialmente e con dimensioni e vicende, per altri aspetti, comparabili.
Ciò può aiutare a conoscere le dinamiche culturali e istituzionali di un’area lontana dalle troppo distanti città contermini e in cui sembra si conducessero esperienze specifiche. Grazie allo strumento di „Archivio Digitale“ e, più ampiamente, ai processi di schedatura e di pubblicazione digitale, il lavoro sulle pergamene può, meglio che in passato, maneggiare masse documentarie anche considerevoli e oggi in sedi di conservazione distanti tra loro, consentendo di condurre indagini alla ricerca dei protagonisti di vicende storiche generali e di quelle più specifiche di storia del fatto grafico. Sia chiaro: con quanto in questa sede argomentato non si intende nella maniera più assoluta ritenere ormai superato quel lavoro fatto di paziente e lunga applicazione che l’edizione critica dei documenti rappresenta.[45] Questa rimane insostituibile, almeno per documenti di particolare valore o che presentino specifiche problematiche. Tuttavia, il processo che porta a un’edizione critica, imponendo di lavorare con masse documentarie talvolta assai consistenti, può essere reso più agevole e proficuo dai nuovi strumenti digitali disponibili,[46] se correttamente adoperati, in un lavoro sempre più multidisciplinare e che coinvolga anche professionisti di ambiti un tempo ritenuti aridamente tecnici e che, invece, sono nell’opinione di chi scrive essenziali per consentire un progresso dell’indagine storica, senza che questa perda i suoi tratti fondamentali. Una diversa architettura della relazione tra base di dati e sviluppo di pratiche interpretative, può favorire una nuova dinamica del metodo storico.[47]
© 2024 bei den Autorinnen und den Autoren, publiziert von De Gruyter.
Dieses Werk ist lizensiert unter einer Creative Commons Namensnennung - Nicht-kommerziell - Keine Bearbeitung 4.0 International Lizenz.
Articles in the same Issue
- Titelseiten
- Jahresbericht des DHI Rom 2023
- Themenschwerpunkt The Material Legacies of Italian Colonialism/I lasciti materiali del colonialismo italiano herausgegeben von Bianca Gaudenzi
- Cultura materiale e memorie del colonialismo italiano dal secondo dopoguerra a oggi
- Memorie di pietra del colonialismo italiano
- Legislazione e prassi italiane in materia di beni culturali tra protezionismo e universalismo
- Monumental Artworks as Difficult Heritage
- „Italia si, Italia no“. Materialità transimperiali e soggetti (post)coloniali tra Italia ed Etiopia (1956–1974)
- Una ‚reliquia colonialeʻ
- Artikel
- „Actus Beneventus in filicissimus palatio“?
- Annone di Colonia, Enrico IV e Anselmo III da Rho
- Motivazioni politiche e contesto sociale
- Signori e signorie nella Sicilia normanna
- Processi pontifici in partibus. La giurisdizione papale delegata nel XIII secolo: alcuni casi in Puglia
- Wofür und auf welche Weise Herzog Magnus II. von Mecklenburg 1487 von Papst Innozenz VIII. die Goldene Rose erhielt
- Una spia portoghese e la crociata all’indomani di Lepanto
- Die Korrespondenz des Kardinalnepoten Francesco Barberini mit P. Alessandro d’Ales, seinem Agenten am Kaiserhof (1634–1635)
- Konkurrenz um das kulturelle Gedächtnis?
- Il fascismo recensito
- Il rischio dei ‚Giusti‘
- „Die Steine zum Sprechen bringen“
- L’espansione del quadrante occidentale della Capitale negli anni Cinquanta e il complesso architettonico della Congregazione di Santa Croce oggi Istituto Storico Germanico di Roma
- Fantasma totalitario e democrazia blindata
- Per un catalogo delle opere di Luigi Nono, con „pochi dati e alcune idee vagabonde sulla diversa natura della ‚tradizione‘ delle opere di Nono in quanto ‚testo‘“ e una cronologia
- Forschungsberichte
- L’identità dello Stato beneventano
- Dall’edizione cartacea alla pubblicazione su piattaforma
- Tagungen des Instituts
- Administration in Times of Crisis. The Roman Papacy in the Great Western Schism
- Apparati, tecniche, oggetti dell’agire diplomatico (secc. XIV–XIX)
- Nuove prospettive di ricerca su stato di eccezione e di emergenza. Un dialogo italo-tedesco
- (De)Constructing Europe. Tensions of Europeanization
- Circolo Medievistico Romano
- Circolo Medievistico Romano 2023
- Rezensionen
- Verzeichnis der Rezensionen
- Leitrezensionen
- Ist das „Mittelalter“ am Ende?
- L’Italia dal Settecento a oggi: un Sonderweg?
- 1820 – Eine Weltkrise der politischen Souveränität?
- Allgemein, Mittelalter, Frühe Neuzeit, 19.–21. Jahrhundert
- Verzeichnis der Rezensentinnen und Rezensenten
- Register der in den Rezensionen genannten Autorinnen und Autoren
Articles in the same Issue
- Titelseiten
- Jahresbericht des DHI Rom 2023
- Themenschwerpunkt The Material Legacies of Italian Colonialism/I lasciti materiali del colonialismo italiano herausgegeben von Bianca Gaudenzi
- Cultura materiale e memorie del colonialismo italiano dal secondo dopoguerra a oggi
- Memorie di pietra del colonialismo italiano
- Legislazione e prassi italiane in materia di beni culturali tra protezionismo e universalismo
- Monumental Artworks as Difficult Heritage
- „Italia si, Italia no“. Materialità transimperiali e soggetti (post)coloniali tra Italia ed Etiopia (1956–1974)
- Una ‚reliquia colonialeʻ
- Artikel
- „Actus Beneventus in filicissimus palatio“?
- Annone di Colonia, Enrico IV e Anselmo III da Rho
- Motivazioni politiche e contesto sociale
- Signori e signorie nella Sicilia normanna
- Processi pontifici in partibus. La giurisdizione papale delegata nel XIII secolo: alcuni casi in Puglia
- Wofür und auf welche Weise Herzog Magnus II. von Mecklenburg 1487 von Papst Innozenz VIII. die Goldene Rose erhielt
- Una spia portoghese e la crociata all’indomani di Lepanto
- Die Korrespondenz des Kardinalnepoten Francesco Barberini mit P. Alessandro d’Ales, seinem Agenten am Kaiserhof (1634–1635)
- Konkurrenz um das kulturelle Gedächtnis?
- Il fascismo recensito
- Il rischio dei ‚Giusti‘
- „Die Steine zum Sprechen bringen“
- L’espansione del quadrante occidentale della Capitale negli anni Cinquanta e il complesso architettonico della Congregazione di Santa Croce oggi Istituto Storico Germanico di Roma
- Fantasma totalitario e democrazia blindata
- Per un catalogo delle opere di Luigi Nono, con „pochi dati e alcune idee vagabonde sulla diversa natura della ‚tradizione‘ delle opere di Nono in quanto ‚testo‘“ e una cronologia
- Forschungsberichte
- L’identità dello Stato beneventano
- Dall’edizione cartacea alla pubblicazione su piattaforma
- Tagungen des Instituts
- Administration in Times of Crisis. The Roman Papacy in the Great Western Schism
- Apparati, tecniche, oggetti dell’agire diplomatico (secc. XIV–XIX)
- Nuove prospettive di ricerca su stato di eccezione e di emergenza. Un dialogo italo-tedesco
- (De)Constructing Europe. Tensions of Europeanization
- Circolo Medievistico Romano
- Circolo Medievistico Romano 2023
- Rezensionen
- Verzeichnis der Rezensionen
- Leitrezensionen
- Ist das „Mittelalter“ am Ende?
- L’Italia dal Settecento a oggi: un Sonderweg?
- 1820 – Eine Weltkrise der politischen Souveränität?
- Allgemein, Mittelalter, Frühe Neuzeit, 19.–21. Jahrhundert
- Verzeichnis der Rezensentinnen und Rezensenten
- Register der in den Rezensionen genannten Autorinnen und Autoren