Abstract
The essay analyses the reception of Italian historiography on fascism by examining the book reviews and historiographical essays published in France, West Germany, Great Britain and the United States from the 1930s to the early 1980s. It shows that in general the Italian historiography on fascism was well-received internationally. As demonstrated by the reception of De Felice’s work, attitudes to such work diverged among the different national historiographical communities, in particular between the United States and West Germany. In this context, the article confirms that the dialogue between German and Italian historiography intensified during the 1960s and 1970s. The essay thus contributes to the history of Italian historiography on fascism by relating it to the evolution of the process by which „contemporary history“ became established as an academic discipline in Italy.
1 Premessa: fascismo/fascismi
Nel 2017 lo storico tedesco Wolfgang Schieder ha pubblicato in Germania un volume dal titolo: „Adolf Hitler. Politischer Zauberlehrling Mussolinis“.[1] In questo volume l’autore ha ricostruito l’influenza che Mussolini e l’esperienza del fascismo hanno esercitato su Hitler e sul nazionalsocialismo, enfatizzando il carattere transnazionale e internazionale dell’esperienza fascista di cui l’Italia era stato indubbiamente il modello. Al di là della sua collocazione nelle categorie storiografiche, sociologiche e politologiche, il fascismo italiano ebbe fin da subito un’eco internazionale. Il politologo Charles Merriam, che curò una collana in cui comparve uno dei primi studi scientifici sul fascismo,[2] vide nel fascismo un movimento di nuovo tipo, manifestazione di un cambiamento nel panorama dei sistemi politici di cui anche la Russia bolscevica era parte.[3] Infine, non va dimenticato che il fascismo stesso manifestava un’attitudine internazionale, in parte per ragioni di rafforzamento della propria immagine all’estero, in parte – in particolare per alcuni militanti e simpatizzanti del regime, ma solo per essi – per la convinzione che la rivoluzione fascista potesse espandersi come i cambiamenti di regime alla fine degli anni Trenta in Europa potevano far presagire e che fu ben colta dai contemporanei.[4]
Per lungo tempo la dimensione internazionale del fascismo si è spesso scontrata con interpretazioni che ponevano l’accento sul carattere di unicità dell’esperienza nazionale dei fascismi. Questo modo di vedere il fascismo è andato nel tempo declinando per lasciare il posto ad una visione transnazionale del fenomeno fascista e/o ad un’impostazione di tipo comparativo. Nel ricostruire il dibattito sul fascismo Sven Reichardt ha rilevato il formarsi negli anni Novanta di una terza ondata di studi sul fascismo – dopo quelle del periodo tra le guerre e quelle degli anni Sessanta e Settanta – che ha avuto solo echi posteriori in Germania e – aggiungerei anche in Italia – volta a definire in chiave idealtipica e comparativa il concetto di fascismo secondo vari modelli puntando più ad un’analisi dei processi nei fascismi.[5] È stato infatti soprattutto nel mondo anglosassone – come ha sottolineato Roger Griffin – in cui si è registrato un nuovo consenso attorno alla definizione del fascismo che conduce a considerare il fascismo come un’ideologia politica che può tradursi in manifestazioni politiche in epoche diverse e senza presentare i tratti (o tutti i tratti) caratteristici dei fascismi del periodo tra due guerre mondiali.[6]
La domanda che viene però da porsi è in che misura la storiografia italiana abbia contribuito alla conoscenza del fenomeno fascista e alla presa d’atto del suo carattere internazionale. In questo saggio si intende quindi analizzare quale sia stata la ricezione della storiografia italiana sul fascismo prima dell’avvento della terza ondata descritta da Reichardt – o della seconda se si segue Griffin – per capire il peso che si attribuiva alla storiografia italiana in quel periodo. L’arco cronologico su cui si concentrerà l’analisi sarà il periodo che va dagli anni precedenti alla seconda guerra mondiale in cui apparvero i primi studi sul fascismo fino all’inizio degli anni Ottanta, decennio nel quale per varie ragioni si è avviato il consolidamento accademico e disciplinare della storia contemporanea e un ampliamento dei paradigma di ricerca.[7] In altra sede si è argomentata la tesi secondo la quale la storiografia italiana sul fascismo oggi appare divisa in tre diversi gruppi: storici focalizzati su tematiche non assorbibili dai filoni prevalenti; nello studio del fascismo nell’area di lingua inglese, molto attenta all’analisi idealtipica del fascismo come categoria applicabili a contesti diversi, storici orientati verso temi di interesse nella storiografia anglofona, storici che in modi diversi dialogano con la storiografia tedesca e francese con maggiore intensità condividendone spesso le impostazioni.[8] Si tratta quindi di capire se è cambiata l’attrazione esercitata dalla storiografia italiana nel corso del tempo o se sono le domande storiografiche ad essersi diversificate. Per raggiungere questo obiettivo come si chiarirà più avanti, si prenderanno in esame recensioni e discussioni sul fascismo italiano apparse sulle riviste di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania ovest.[9] Sono state escluse le storiografie di paesi retti in quel periodo da governi non democratici come DDR, Spagna e Portogallo, non perché esse siano prive di significato, ma perché i paesi selezionati nel campione risultano avere diversi aspetti di omogeneità pur essendo mossi i loro studiosi da differenti sensibilità verso lo studio del fascismo. Per la Germania occidentale il confronto con la storiografia italiana era motivata dalla percezione della somiglianza della storia nazionale e dalla consapevolezza della primogenitura del fascismo italiano, primogenitura riconosciuta sia da chi vedeva le similarità sia da chi voleva sottolineare le differenze. Per la storiografia americana l’interesse per il fascismo era legato alla percezione del fascismo e del nazionalsocialismo come laboratori della crisi della democrazia. Non casualmente l’emergere di una nuova fase di crisi della democrazia a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta fu anche lo stimolo per una riflessione sui regimi autoritari.[10] Considerazioni simili possono valere per la Gran Bretagna dove però centrale appariva l’interesse per le dinamiche del liberalismo come si vedrà più avanti. Nel caso francese l’interesse per il fascismo italiano rifletteva anche la tendenza a vedere il fenomeno come specificamente italiano e a reputarne marginale la presenza entro i propri confini.[11] Non sono state invece tematizzate le specificità della ricezione da parte delle storiografie di lingue tedesca di Svizzera ed Austria anche se autori di quelle comunità scientifiche sono richiamati in questo saggio nella misura in cui hanno pubblicato su riviste pubblicate in Germania ovest.[12] Sotto questo profilo è forse opportuno far presente che, pur avendo questo saggio una sua unità e autonomia, esso rappresenta una tappa di un più ampio progetto di esplorazione storiografica, alimentato dalla convinzione che un’analisi di storia della storiografia possa contribuire ad una più generale riflessione sul fascismo come ideologia e movimento politico della modernità.
Prima di procedere sono necessarie alcune considerazioni preliminari. Certamente in passato la storiografia italiana ha avuto un ruolo importante nel dibattito internazionale sul fascismo, che però non è stato costante nel corso del tempo. In tempi recenti la produzione della storiografia italiana si è certamente arricchita dell’interazione con le storiografie di altri paesi.[13] L’interazione tra le storiografie è stata spesso favorita dalla presenza di intermediari che si facevano e si fanno carico di costruire, mantenere, far progredire i rapporti scientifici e culturali in un determinato campo della storiografia. A volte sono stati storici italiani che hanno fatto e fanno da tramite per tenere informati gli storici di altri paesi sulle nuove tendenze della storiografia italiana[14] o che hanno cooperato e dialogato con altre storiografie proprio nell’ambito della ricerca sul campo, anche nel caso del fascismo. Senza dubbio lo storico che è entrato maggiormente in dialogo con la terza ondata di studi sul fascismo è stato Emilio Gentile i cui studi sono stati definiti di „paramount importance“,[15] tanto da essere entrati pienamente nel dibattito interno alla terza ondata.[16] Vi sono anche altri studiosi che mantengono un dialogo con altri paesi.[17] Altre volte sono studiosi stranieri che vivono o che hanno vissuto per lungo tempo in Italia ad informare sulle nuove tendenze storiografiche e sullo stato del dibattito. Si tratta di quelli che potremmo definire mediatori disciplinari: a cavallo della seconda guerra mondiale Georges Bourgin[18] per la Francia – uno dei primi a riallacciare i rapporti con gli studiosi italiani dopo il 1945[19] –, nell’immediato dopoguerra Emilia Noether per gli Stati Uniti, e Edgar Ernst Rosen e Rudolf Lill per la Germania, a cui si aggiunsero in seguito Wolfgang Schieder, Jens Petersen, Christof Dipper, per non parlare del ruolo svolto nella storiografia inglese da Denis Mack Smith. Al di là della memoria che di essi si conserva, si tratta di figure che erano di estrema importanza per il transito delle informazioni all’interno di discipline allora ben più centrate su una dimensione nazionale rispetto ad oggi. Nello stesso tempo non bisogna dimenticare che operavano come mediatori anche quegli studiosi stranieri che avevano trovato posto nelle università italiane come Stuart Woolf, Paul Corner e Adrian Lyttelton e che tramite le loro opere pubblicate in inglese contribuivano a promuovere la conoscenza della storiografia italiana.[20] Tuttavia nel corso degli anni il panorama è cambiato. Prima di tutto l’emergere di banche dati online e di aggregatori di contenuti, due ambiti che spesso ora tendono ad ibridarsi, hanno aumentato enormemente la possibilità di accedere alla letteratura disciplinare e interdisciplinare scavalcando la mediazione di singoli autori.
Infine vi sono coloro che hanno condotto e conducono ricerche sul campo in Italia e che, di conseguenza, erano e sono ben consapevoli di ciò che accade in Italia,[21] così come vanno ricordati gli istituti di ricerca specializzati come per esempio l’Institut für Zeitgeschichte di Monaco.[22] A ciò vanno aggiunte le riviste di studi storici dedicate all’Italia, alcune di antica origine ed altre nate nel mondo anglofono proprio partendo dalla convinzione „that the lively and creative scholarship generated by the study of modern Italy has not always attracted the wider audience that it deserves“.[23] A metà degli anni Novanta videro la luce la rivista americana „Journal Modern Italian Studies“ e la rivista inglese „Modern Italy“ fondata dall’Association for the Study of Modern Italy (ASMI), nata a sua volta nel 1982 sotto la guida di Christopher Seton-Watson. Ricollegandosi alla lunga tradizione di studi inglesi sull’Italia da George Macaulay Trevelyan[24] a Denis Mack Smith, quest’ultimo uno degli storici più popolari in entrambi i paesi,[25] la rivista era considerata un segno dello sviluppo degli studi sull’Italia in Gran Bretagna:
„Modern Italian studies are flourishing in the British Isles, and indeed in the English-speaking world, as never before. Non-literary Italian studies have grown as the curriculum of departments of Italian has broadened. Italy has also become of greater significance for European studies, area studies and comparative social and political sciences, while the number of academics working in these fields has increased accordingly. In historical studies, as well, there is an awareness of the continuing relevance of Italy to the history of the Mediterranean as a whole and of Italy as a major source of emigration throughout the ‚new worldʻ and as a small but significant colonial power in its own right. Finally, in the last decade there has been greater public interest in Italy due to its recognition as a key partner in the European Union.“[26]
Diverso è il caso della rivista „Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken“ del Deutsches Historisches Institut di Roma che risale al 1897. La rivista con sede in Italia – utilizzando la lingua italiana e quella tedesca – ha sempre promosso in dialogo tra le due storiografie ampliando nel corso del dopoguerra la gamma dei propri interessi dalla storia medievale alla contemporaneità come si vedrà più avanti. Naturalmente la creazione di riviste specializzate è ed è sempre stato anche funzionale a definire e mantenere un campo di studi all’interno di un cambiamento significativo del panorama storiografico.
Nel 2007 lo storico tedesco Christian Jansen manifestò preoccupazione per lo stato degli studi sull’Italia repubblicana in Germania rilevando una sostanziale debolezza della ricerca su tale ambito anche per l’assenza di istituti di ricerca dedicati.[27] Ciò non significava però che le indagini storiche sull’Italia fossero venute meno, al contrario il numero dei lavori sull’Italia sembra mantenere un andamento costante in Germania, con una particolare attenzione agli studi sul fascismo spesso svolti in chiave comparativa.[28] Tuttavia è evidente che la crescente attenzione per la storia europea e transnazionale poteva rendere meno attrattivo per le università avere cattedre o istituzioni dedicate all’Italia. Ciò significava che, da un lato, gli studiosi di storia italiana dovevano avere anche qualche altro campo di specializzazione, cosa che di per sé non era da considerare negativamente. Possiamo formulare un’analoga considerazione per il mondo americano e inglese. Anche nel caso francese l’interesse per l’Italia ha prodotto numerosi lavori secondo una gerarchia di interessi che certo riflette anche alla sensibilità della comunità nazionale di studiosi.[29] Sotto questo profilo è evidente che la necessità di avere luoghi o associazioni deputate a parlare di storia d’Italia diventava ancora più importante, ma come vedremo rendeva più articolato il quadro della definizione delle problematiche storiografiche.
Ai fini del nostro discorso tuttavia non può sfuggire anche il cambiamento di rilevanza dell’oggetto di studio. Non fu certo un caso se nel dopoguerra la Johns Hopkins University stabilì una sua sede a Bologna nel cuore dell’Italia comunista.[30] Il carattere strategico dell’Italia del dopoguerra ne accresceva l’interesse in vari ambiti compreso quello storiografico. Nel periodo successivo alla fine dell’età della guerra fredda i paesi di interesse strategico sono cambiati e quindi è spesso risultato più importante guardare all’Asia o all’Europa dell’est che all’Italia. Vicende internazionali come il medio-oriente e correnti culturali come gli studi postcoloniali hanno contribuito ad indirizzare in parte l’interesse di studiosi e studenti verso altri paesi e temi. Benchè in linea di principio l’allargamento dello sguardo sia sempre positivo, a volte ciò può aver favorito distorsioni nella formazione degli studenti sempre più attratti da paesi di cui non conoscono la lingua e che quindi possono essere indagati solo attraverso la mediazione della letteratura secondaria in lingua inglese, senza quindi accedere alle fonti primarie.
Inoltre non va dimenticato che la situazione politica generale e la collocazione dell’Italia sulla scena internazionale a partire dagli anni Novanta possono aver avuto un effetto sulla rilevanza dell’oggetto. Il collasso del sistema dei partiti indotto da Tangentopoli, i problemi di contenimento del debito pubblico e l’avvento di Berlusconi hanno generato l’immagine dell’Italia come „the sick man of Europe“, un epiteto utilizzato nell’Ottocento per l’impero Ottomano e preso a titolo di un volume sulla storia d’Italia dopo Tangentopoli.[31] Benchè questo epiteto non sia prerogativa solo italiana perché ha colpito anche altri paesi, non ultima la Germania nei suoi momenti di difficoltà,[32] tale caratterizzazione partiva dall’idea che la crisi italiana fosse la manifestazione della sua strutturale arretratezza e della sua debole e corrotta società civile. Si tratta di una posizione che ha esercitato una certa influenza sulla considerazione del paese anche tra gli studiosi italiani e stranieri, che però appare per molti aspetti fuorviante. La crisi italiana degli anni Novanta era infatti frutto di un collasso del sistema dei partiti che aveva retto la democrazia italiana nell’era della guerra fredda, collasso che aveva accelerato tendenze di crisi della democrazia rappresentative che non erano solo italiane, ma che in Italia si manifestavano con tutta evidenza, anche se erano certamente anche alimentate da peculiarità nazionali.[33] In altre parole, l’Italia era un laboratorio di tendenze in atto in Europa, certamente declinata con delle specificità nazionali e non l’ennesima crisi di un paese strutturalmente arretrato. Non è questa la sede per argomentare questa posizione, ma è necessario fare ad essa riferimento perché essa rappresenta un ulteriore fattore che in certa misura ha contribuito a deviare l’interesse verso l’Italia verso lo studio di un caso ‚clinicoʻ e in questo senso ne ha – a mio avviso – ridotto l’interesse storiografico più generale. Sotto questo profilo è riemerso il paradigma dell’arretratezza come chiave esplicativa della storia d’Italia, una chiave spesso usata anche dalle élite politiche e culturali italiane per giustificare le loro difficoltà a capire e governare il paese. Anche nel caso dell’analisi del fascismo il paradigma dell’arretratezza è un bias da cui occorre guardarsi.[34]
A questo ridimensionamento dell’interesse per l’Italia si aggiunge la sensazione di una riduzione dell’ascolto internazionale della storiografia italiana, una constatazione spesso lamentata in seno alla comunità nazionale degli studiosi. Vi sono certamente elementi che sembrerebbero andare in questa direzione come la scarsa presenza della letteratura italiana in alcuni saggi di storia italiana scritti da autori stranieri, in particolare sul fascismo. In generale questo potrebbe essere la spia di una tendenza tutt’altro che positiva di una parte della storiografia non italiana a prescindere dalla conoscenza della lingua e/o della storiografia locale nello studio del fascismo. Certamente, se il primo caso può manifestarsi con una certa frequenza in altre discipline con metodologie e obiettivi diversi dalla storia, esso resta una prassi anomala per gli storici che continuano a praticare ricerca sul campo e che ritengono la conoscenza della lingua del paese oggetto di studio e della storiografia nazionale come un punto irrinunciabile per una corretta analisi storica dei fenomeni. Semmai la scarsità di riferimenti può essere imputata ad una scelta di non volersi misurare a fondo con la storiografia italiana se non addirittura di pensare di poter prescindere da essa.
Per cercare di spiegare questo cambiamento di mentalità, vi possono essere fattori di diversa natura. Vi sono spinte anche commerciali a promuovere una malintesa idea di internazionalizzazione schiacciata sulla lingua inglese[35] e non interessata al multilinguismo che pure in Europa si è cercato di promuovere nella ricerca,[36] e ciò può spingere a privilegiare una letteratura in lingua inglese assumendone le problematiche come se fossero necessariamente di valore generale e superiore, cosa che a volte è vera e a volte meno. Infine a complicare il quadro vanno segnalati i meccanismi nella valutazione e nel finanziamento della ricerca a livello europeo e internazionale,[37] in cui non apparire schiacciati esclusivamente sulla storia nazionale diventa un requisito rilevante e porta a rivestire di internazionalità un percorso individuale legittimamente centrato sulla storia locale e/o nazionale di un paese attraverso qualche incursione nella storia di altri paesi mediata solo dalla propria storiografia nazionale.
Tuttavia queste considerazioni – che richiederebbero analisi più approfondite per capire se dietro a certi fenomeni non si celino anche dinamiche di soft power accademico interno ed esterno – non devono però evitare di interrogarsi sulle dinamiche interne alla storiografia italiana chiedendosi se tali tendenze – ammesso che siano reali – non dipendano anche da una diversità di domande o filoni di ricerca tra settori della storiografia italiana e alcuni settori della ricerca del mondo anglofono che ne favoriscono il reciproco distanziamento creando una certa incomunicabilità e una frammentazione del dialogo,[38] un fenomeno che è sempre biunivoco. Bisogna partire dalla considerazione che – come ha ben ricordato recentemente Thomas Kroll – non esiste una vera e propria storiografia internazionale sull’Italia, ma „a collection of groups of non-Italian historians organized along national lines, who focus on the regional or national history of modern Italy“, gruppi che spesso sono a loro volta mossi da interessi „shaped just as much by trends and questions deriving from their respective national disciplines as they are by the problems that emerge from a study of Italian history and historiography“.[39] In altre parole nello studiare l’Italia le comunità di studiosi di altri paesi tendono inevitabilmente a privilegiare alcuni ambiti rispetto ad altri in linea con le problematiche di ricerca che derivano dal proprio contesto, problematiche che sono in prima battuta nazionali, ma che possono essere al tempo stesso transnazionali.
Proprio per comprendere queste complesse dinamiche una riflessione di lungo periodo può risultare utile prendere in esame la diffusione internazionale della storiografia italiana sul fascismo nella prima e nella seconda ondata di studi sul fascismo, in particolare concentrandosi dal dopoguerra fino all’inizio degli anni Ottanta. In questa sede le fonti per avviare una riflessione su tale diffusione sono rappresentate da rassegne e recensioni sul fascismo prodotte su riviste straniere, le cui citazioni, proprio in nome di un’impostazione multilinguistica e filologica, verranno riprodotte nella lingua di origine. Ovviamente la scelta del campione impone qualche ulteriore caveat metodologico.
È evidente che rassegne e recensioni non esauriscono certo la penetrazione di una storiografia in una diversa comunità scientifica, ma sono comunque un indice di attenzione degli specialisti e svolgono un ruolo di informazione anche verso gli storici non specialisti di quel tema.
Il secondo caveat riguarda la rilevanza dell’indicatore che negli anni più vicini a noi sembra aver perso di importanza. Certamente per gli anni recenti, soprattutto per l’Italia, ma non solo, la marginalizzazione del peso delle recensioni all’interno dei processi di valutazione della disciplina ha reso da un lato meno attrattiva la scrittura della recensione sia per gli studiosi giovani sia per quelli più consolidati rispetto al passato portando ad una riduzione del ruolo della recensione. Inoltre il già menzionato proliferare di strumenti di ricerca online ha ridimensionato l’importanza delle recensioni per acquisire informazioni sulle storiografie di altri paesi, pur senza annullarla del tutto. Tuttavia l’ipotesi di lavoro che fonda questo saggio si basa sull’idea che, nel periodo temporale della prima e seconda ondata di studi sul fascismo descritta da Reichardt, l’influenza esercitata da recensioni e da rassegne di studi sulla circolazione e sul consolidamento di indirizzi storiografici era sicuramente elevata e quindi il campione proposto appare un osservatorio utile per analizzare la ricezione della storiografia italiana sul fascismo al di fuori dei confini nazionali.
2 La ricezione internazionale della prima ondata
La storiografia italiana sul fascismo ha conosciuto stagioni diverse, che erano iniziate già all’indomani dell’avvento al potere di Mussolini quando gli esuli avevano iniziato l’analisi delle cause contrapponendosi alle opere apologetiche del regime in circolazione all’estero. La prima opera di rilievo che ebbe una certa eco internazionale fu lo studio di Gaetano Salvemini sulla dittatura fascista.[40] Il volume appariva come un „attack made by an historian of European reputation who knows the standards of historical criticism“.[41] Lo storico Greenfield giudicava il volume „a brilliant invective“ e più che un lavoro storico, l’opera di un „persecuted idealist“ che tuttavia appariva utile come „antidote for Fascist propaganda“ che con la sua mole di documenti stimolava la discussione rendendo evidente la complessità del fenomeno fascista.[42] E tuttavia il suo coinvolgimento nella lotta al fascismo portava alcuni storici a ritenere più imparziale lo studio di Herbert Schneider,[43] anche se si riconosceva che l’autore era stato facilitato dal fatto di non essere stato „kicked and beaten by the young bravos of via Tornabuoni“.[44]
La ricezione dell’interpretazione italiana del fascismo si scontrava però anche con i pregiudizi radicati nel pubblico d’oltreoceano nei confronti del carattere arretrato delle istituzioni politiche e della società italiane. Per il pubblico americano risultava così più efficace l’intervento pubblicistico di un autore come Giuseppe Prezzolini anziché i volumi degli esuli attenti alla denuncia delle violenze fasciste perché tali studi dovevano scontare il pregiudizio nei confronti dell’Italia come paese primitivo e violento, mentre il possibile successo economico del fascismo avrebbe potuto essere più valutato dell’abuso di violenza:
„But all this imposing documentation of Fascist violence will hardly shock a public opinion in which a low idea of Italian popular restraint has been sedulously cultivated. In the second place, the justification by ‚resultsʻ as reported by tourists and investment bankers is much more important to public opinion generally than the question of origins and methods. The economic indictment of Fascism, which is only foreshadowed in this volume, if it is successful, will cause a more profound sensation in America than any recital of outrages and arbitrary lawlessness on the part of those who have conquered the powers of the state in Italy. The latter are too easily represented as a necessary reaction against anarchy and Bolshevism to be exploded at a blast.“[45]
Alimentava questi pregiudizi un’immagine nativista dell’Italia, vista come „a corporeal reality of unabashed decadence and pungent confusions, a country whose people were suffocating under the dust and dirt of their tragic history“.[46] Era in sostanza il reiterarsi del paradigma dell’arretratezza come chiave di volta per spiegare l’avvento del fascismo:
„Thus Democracy, as we know and practise in England, is entirely incompatible with the essential characteristic of the Italian race; every natural gesture is impeded; every national trait and quality is, or was, trammelled and distorted by this utterly unsuitable political dress. For one thing, Italians generally have not that modicum of trust in one another that is essential for the successful working of Democracy.“[47]
Questo passaggio era parte della recensione ad un’opera di Luigi Villari. figlio dello storico Pasquale Villari e della scrittrice per l’infanzia Linda White e funzionario del Ministero degli Affari Esteri che aveva lavorato come giornalista e contribuito a redigere diverse voci sull’Italia nell’Enciclopedia britannica. Nel 1924 aveva pubblicato in inglese un volume sul risveglio del paese in cui manifestava la sua approvazione per l’operato del governo fascista, un governo diverso da tutti i precedenti perché „free from the trammels of the parlamentary Parties“.[48] In seguito Villari continuò a pubblicare opere che esprimevano sostegno al regime, in particolare alla sua politica estera.[49] L’opera di Luigi Villari fondava la sua giustificazione del fascismo sul presupposto che in Italia democrazia e liberalismo aveva condotto solo a corruzione e alla formazione di una classe di politici corrotti invisi alle massa.[50] Si trattava di una posizione contraddetta in maniera radicale dalla storia d’Italia di Benedetto Croce che pur fermandosi al 1915 delineava un’immagine progressiva del liberalismo italiano giungendo a delineare un quadro radicalmente opposto a quello di Villari:
„Italy, between unification and the war, seems hardly the same country as described by the two historians. Giolitti, a sinister embodiment of political dishonesty to Professor Villari, is to Croce ‚conspicuous for his wholehearted devotion to his country, his strong political sense, his great administrative abilityʻ (p. 216), and many other of the democratic leaders find similar rehabilitation.“[51]
In sostanza i due studiosi offrivano un quadro antitetico della storia d’Italia. Perciò, con questi limiti di ricezione, presso un pubblico colto più vasto, i lavori degli antifascisti italiani furono dunque importanti per contrastare la tendenza a semplificare l’analisi dell’avvento del fascismo mettendo in discussione i bias interpretativi coevi. Nel caso di Silvio Trentin, la sua opera sul fascismo era apprezzata per la sua „objectivity and philosophical outlook“ nonostante la sua netta opposizione al regime. Era giudicato positivamente soprattutto l’intento di confutare l’idea che l’avvento del regime fosse la conseguenza della „corruption and inadequacy of the Italian democracy“. Questa tesi – ricordava il recensore americano – convergeva con la già citata analisi di Benedetto Croce, che aveva confutato la tesi di un liberalismo italiano debole e fallimentare.[52] La netta presa di distanza di Trentin da una spiegazione basata sull’arretratezza della democrazia italiana era vista con favore anche da un recensore francese:
„La première partie s’attache à prouver que le fascisme n’était pas en Italie un phénomène fatal né d’une dégradation particulièrement grave de la démocratie. L’auteur ne voit dans les traditions mazziniennes de la démocratie italienne, dans l’équilibre des institutions constitutionnelles, dans l’essor universel de la nation, dans sa politique extérieure d’après-guerre, pacifique avec clairvoyance, rien qui témoigne de tares plus graves que celles des autres grandes démocraties.“[53]
A queste ricezioni positive della letteratura italiana sul fascismo contribuivano vari fattori, tra cui non secondaria era la consapevolezza crescente di una crisi europea delle istituzioni democratiche.[54] Se negli anni Venti l’avvento di Mussolini al potere poteva essere visto come una peculiarità italiana in cui Mussolini, pur con alcuni difetti, poteva apparire l’uomo in grado di governare il paese, un’idea che sembrava inizialmente condivisa anche da Winston Churchill,[55] negli anni Trenta il clima cambiò. Non irrilevante nel mondo intellettuale fu per esempio il giuramento imposto ai professori universitari contro la quale furono raccolte firme di protesta nel mondo academico europeo che furono inviate anche alla società delle nazioni. In una lettera al „Manchester Guardian“, Alfred Hopkinson, dopo aver riconosciuto il merito del fascismo di aver liberato il paese dal „chaos of incompetence“ in cui era caduto dopo la prima guerra mondiale, si univa alla protesta in nome del „fundamental principle that as regards appointments for the highest teaching and research any test of political opinion or promise as to political action as a term of appointment is anathema“.[56] Nella repubblica di Weimar l’esperienza del fascismo italiano fu oggetto di numerosi analisi e interventi, spesso di carattere politico più che accademico.[57]
Fu soprattutto dopo la fine della repubblica di Weimar che il tema della crisi della democrazia e dell’emergere di nuove forme di stato assunse crescente rilievo nel dibattito intellettuale e politico.[58] Il decimo volume dell’„Enciclopedie Française“ dedicato, nel 1935, alle trasformazioni dello stato espresse la convinzione che „un vent de dictature souffle sur l’Europe, et de dictature personnelle“.[59] Ed anche qui riemergevano visioni differenti dei regimi fascisti. Il sindacalista rivoluzionario e simpatizzante del fascismo Hubert Lagardelle – che si era adoperato per favorire la pubblicazione in francese della voce sulla dottrina del fascismo di cui aveva curato la traduzione[60] – dipingeva nella „Enciclopedie“ un quadro positivo ed entusiastico del regime fascista in cui non prevalevano dogmi astratti, ma come „un ensemble de directives que tracent à la pratique sa route“.[61] Per bilanciare e contestualizzare l’esposizione filofascista di Lagardelle, il testo era preceduto da un’introduzione storica di Lucien Febvre che si concludeva ricordando come vi fossero ancora degli italiani che rifiutavano di passare dal mito di un individuo che si dispiega in una comunità di uomini liberi a quello di un individuo „aspiré, pompé, dévoré et subtilisé par l’Etat Totalitaire“.[62] In questo contesto culturale le prime opere italiane sul fascismo contribuirono a controbilanciare la fascinazione del fascismo.
Nel periodo che va dalla fine della guerra fino alla fine degli anni Cinquanta, lo studio del fascismo restava spesso affidato ad opere di taglio memorialistico[63] o ad opere storiche che soffrivano ancora della carenza di fonti. In una ben informata rassegna sulle recenti pubblicazioni relative alla storia del fascismo, anche Emiliana Pasca Noether, studiosa di origine italiana e tramite tra le due storiografie,[64] se da un lato ammetteva che l’esperienza del fascismo fosse ancora troppo recente per scriverne una storia,[65] dall’altro riconosceva che gli autori avevano „achieved a considerable objectivity in their attempt to show what Fascism meant politically, economically, and socially in Italian Life“.[66] Nel 1952 lo storico svizzero Rudolf von Albertini passando in rassegna la storiografia italiana degli ultimi anni dedicava poco spazio alla letteratura posteriore al 1915. In nota venivano richiamate alcune opere di memorialistica, mentre nel testo si presentavano due testi, il volume di Guido Dorso su Mussolini („Mussolini alla conquista del potere“, Torino 1949) iniziata come biografia di Mussolini, ma divenuta una storia della politica interna ed esterna del dopoguerra e il volume di Angelo Tasca („Nascita e avvento del Fascismo“, Firenze 1950) una riedizione ampliata dell’opera uscita negli anni Trenta, giudicata di più ampio respiro e concentrata sull’analisi del fallimento della sinistra di fronte all’avvento del fascismo. Albertini concludeva qui la sua rassegna per la commistione tra storiografia e pubblicistica politica: „Wir sind hier beim Übergang von der eigentlichen Geschichtsschreibung zur politischen Publizistik angelangt und haben unsere Sammelbesprechung abzubrechen.“[67]
In questo contesto un’indubbia cesura fu rappresentata dalla pubblicazione negli anni Cinquanta dello studio di Luigi Salvatorelli e Giovanni Mira che fu accolto con grande interesse per l’ampiezza e profondità delle ricostruzioni tanto da definirlo un „livre de premier ordre, qui est à la base d’une connaissance objective de l’Italie fasciste“.[68] Secondo lo storico francese Georges Bourgin gli autori non avevano tentato di condurre una ricostruzione filosofica come era accaduto in altri paesi o di sviluppare una teoria del fascismo, ma si erano concentrati sui fatti enfatizzando il legame tra prima guerra mondiale e avvento del regime: „Ils ont montré comment le fascisme est la conséquence directe de la première guerre mondiale avec ses destructions et ses frustrations de toute nature, les incertitudes politiques et morales, l’insécurité économique et sociale qu’elle entrainèrent.“[69]
Il merito attribuito all’opera di Salvatorelli e Mira si basava sulla consapevolezza che la memoria della dittatura era stata tale da rendere ancora difficile l’analisi scientifica del fascismo. „Nearly ten years after the fall of Mussolini, – rilevava Henri Stuart Hughes – the basic works on the Fascist era remained the same as a decade and a half earlier the impressively documented, if frankly polemical, writings of such emigres as Salvemini and Rossi (Angelo Tasca)“. Secondo lo storico americano, il volume di Salvatorelli e Mira poneva le basi per future analisi del fascismo offrendo „detailed topical outlines of the development of corporative institutions, of church-state relations, of the gradual degradation of the monarchy and of the activities of the opposition abroad and at home“.[70] Anche un profondo conoscitore della storia italiana come lo storico inglese Christopher Seton-Watson salutò con favore l’uscita dell’opera „which no student of modern Italy will be wise to overlook“, anche se, in sintonia con un analogamente favorevole recensore tedesco,[71] egli rilevava l’assenza di bibliografia e di note a piè di pagina e che l’uso delle fonti a stampa – „which for certain periods and subjects, is virtually the only source yet available“ – nel caso italiano scontava i limiti oggettivi derivanti dal controllo dittatoriale sulla stampa.[72] Lo storico inglese notava però anche carenze nel campo della politica estera e la sommarietà dei giudizi relativamente alle simpatie fasciste nel Regno Unito che venivano enfatizzate senza tener conto della memorialistica e degli studi più recenti.[73] Limiti derivanti dalle fonti si registravano anche nelle analisi sul ruolo antifascista del partito comunista, così come in quelle sulle dinamiche interne al Partito fascista.[74] In conclusione, però, ancorché provvisorio nei suoi risultati, il libro veniva giudicato positivamente per „the valuable task of stating the problems and revealing the gaps in our knowledge“.[75] Un analogo positivo giudizio veniva espresso da Rudolf von Albertini sulla seconda edizione del volume, secondo il quale l’opera offriva una dettagliata ricostruzione del fascismo: „Der Band ist flüssig geschrieben und wird für lange Zeit unentbehrliche Dienste leisten“, anche se lo storico svizzero lamentava l’assenza di note e bibliografia così come l’aver tolto l’apparato iconografico presente nella prima edizione.[76] Più critico era invece il giudizio che i recensori stranieri riservavano alla „storia del fascismo“ di Paolo Alatri, che, da un lato, era considerata „partisan literature“, ma che, dall’altro lato, veniva comunque apprezzata per il grande lavoro di scavo documentario.[77]
3 La svolta degli anni Sessanta
Nel quadro che abbiamo delineato gli anni Sessanta rappresentarono senza dubbio una svolta nell’analisi del fascismo con la pubblicazione degli studi di Renzo De Felice, prima con „La storia degli Ebrei sotto il fascismo“ (1961) – realizzata grazie ad un primo significativo accesso alle carte dell’Archivio Centrale dello Stato – e successivamente con „Mussolini il rivoluzionario“ (1965) e quelli di Alberto Aquarone con la pubblicazione del volume „L’organizzazione dello Stato totalitario“ (1965). Questi studi ebbero un’eco immediata nel mondo anglosassone, mentre tardarono a venir valorizzati dalla storiografia tedesca. Ancora nel 1967 Wolfgang Schieder lamentava come i lavori di De Felice e di Aquarone fossero rimasti fino ad ora scarsamente considerati dalla storiografia tedesca:
„Seit einigen Jahren befindet sich der italienische Faschismus in der Epoche seiner Erforschung. An die Stelle der polemischen Auseinandersetzungen, die das Bild der Nachkriegszeit bestimmten, treten nüchterne Untersuchungen. Diese gilt wenigstens für die innere Politik, wo durch die in Deutschland leider bisher unbeachtet gebliebenen Bücher von De Felice (Mussolini il Rivoluzionario, Turin 1965) und Aquarone (L’organizzazione dello stato totalitario, Turin 1965) eine ganz neue Basis wissenschaftlicher Auseinandersetzung geschaffen worden ist.“[78]
In effetti l’eco della storiografia italiana restava con alcune lodevoli eccezioni abbastanza limitata in Germania. Negli anni Sessanta si registrò un cambiamento non solo nell’attenzione verso la storiografia italiana, ma anche nella pratica diretta della ricerca sul campo: nel 1962 l’assunzione della direzione del Deutsches Historisches Institut di Roma da parte di Gerd Tellenbach aprì le ricerche dell’Istituto dedicate all’Italia a Otto e Novecento[79]. Relativamente al fascismo, grazie agli studi dello stesso Schieder[80] e di Jens Petersen, la conoscenza della recente storiografia italiana sul fascismo si ampliò sensibilmente.[81] All’inizi degli anni Sessanta si intensificarono inoltre le relazioni tra le due comunità scientifiche su temi di storia contemporanea con iniziative editoriali comuni nelle quali gli autori confrontavano i risultati dei propri studi come gli atti dei convegni tenuti presso a Braunschweig a cui si aggiunse l’azione di dialogo tra le culture dei due paesi – in cui la storiografia rivestì un ruolo importante – avviata dal centro studi italo tedesco di Villa Vigoni.[82]
Tornando alle due opere citate in apertura di questo paragrafo, il libro di Aquarone analizzava il fascismo attraverso un’approfondita analisi degli apparati istituzionali ebbe subito una buona accoglienza[83] finendo per diventare un „classic work on the organization of the totalitarian state in Italy“,[84] un’opera che continua ad essere apprezzata e utilizzata.[85] Di più ampio e duraturo impatto fu l’opera di Renzo De Felice. Il suo volume sugli ebrei durante il fascismo fu recensita con giudizi positivi,[86] giudizi che si sarebbero mantenuti fino a tempi recenti arrivando a considerare l’opera come il „definitive study of the Jews in Fascist Italy“ di cui si auspicava una traduzione in inglese.[87]
Più ampia fu l’eco della biografia di Mussolini. Secondo Roland Sarti, che recensì il primo volume della biografia di Mussolini nel 1967„the scholarly foundation of this work [was] most impressive“.[88] È interessante ricordare come i recensori trattassero l’opera come una biografia di cui apprezzavano la finezza analitica, ma di cui al tempo stesso lamentavano la contaminazione tra biografia ed analisi politica più generale:
„It is regrettable that the rest of the book is written more ploddingly. The personality of Mussolini often gets lost from view in the detailed discussion of politics. The reader who expects to find occasional references to Mussolini’s personal life and his family will have to be satisfied with a five-line footnote. Author and publisher could have improved their book significantly by rigorous cutting. As it is, chapters average one hundred pages, paragraphs often go on for three pages, and sentences for half a paragraph.“[89]
L’interesse per gli studi italiani sul fascismo nella storiografia americana non era peraltro circoscritto al solo De Felice. Il primo volume di Roberto Vivarelli sul dopoguerra trovò una positiva recensione, nella quale si manifestava interesse per altri storici italiani: „Recently Italian scholars have approached the great crisis of twentieth-century Italian history through topical studies. Into this category fall Gaetano Arfe, Storia del socialismo, 1882–1926 (1965), Franco Gaeta, Nazionalismo italiano (1965), and of course Renzo De Felice’s two biographical works, Mussolini: Il revoluzionario [sic], 1883–1920 (1965), and Mussolini: Il fascista, 1921–1925 (1966).“[90]
Questa nota è indizio della percezione di una ripresa di studi sul campo che distanziava la storiografia italiana dai primi anni postbellici in cui la memorialistica era per molti aspetti predominante. Queste considerazioni si collocavano all’interno di un clima di rinnovato interesse verso la storiografia europea di cui traeva profitto anche l’Italia i cui storici venivano recensiti dalle riviste americane.[91] Questa attenzione era parte della più generale attenzione degli storici americani verso il passato europeo. Seppure meno di altri paesi anche la storia italiana trovava ascolto e pur praticata da un numero relativamente limitato di studiosi anche la storia contemporanea ne traeva giovamento. Segni di questo interesse furono sia l’ingresso di Philip Cannistraro nella rivista di De Felice „Storia contemporanea“ come la collaborazione di storici d’oltreoceano alla rivista italiana dalla breve vita „Journal of Italian History“ curato da Ennio Di Nolfo.[92] La rivista, finanziata dalla Banca Toscana era una risposta al „desire to foster the dialogue between Italian and non-Italian historians“ e mirava a dare un contributo alla fondazione della cultura europea.[93] Spaziando su un ampio ventaglio di temi, su una cronologia dal „late middle ages to the present day“. La rivista offriva al lettore una nutrita serie di recensioni e la lista dei volumi usciti l’anno precedente e si poneva come uno strumento di comunicazione e apertura verso le altre storiografie, e non solo per gli specialisti di storia italiana, ma l’iniziativa ebbe breve vita.
Tornando all’opera di De Felice, la monumentale biografia di Mussolini, continuò ad attrarre l’interesse degli storici americani. Essa era nata come biografia, presentando un impianto fondamentalmente intenzionalista, ma poi aveva cominciato a diventare una storia del fascismo nel suo complesso, una circostanza che – come abbiamo visto – fu ben colta dai recensori. Edward Tannenbaum rilevò che nel terzo volume, Mussolini era diventato „the backdrop for the description of events rather than the other way around“.[94] Certamente fu soprattutto lo scavo delle fonti e l’attenta analisi dei documenti a costituire la ragione principale del successo dell’opera: „all scholarly explanations of Mussolini’s regime will have to be based on De Felice’s facts“, scriveva lo stesso Tannenbaum.[95]
Di ampia diffusione fu però anche il volume sulle interpretazioni del fascismo. Di poco successiva all’uscita del volume italiano seguirono le traduzioni in lingua inglese,[96] francese e tedesca,[97] oltre a quelle in polacco e giapponese. Proprio l’impianto poco incline ad impostazioni funzionaliste – all’epoca da molti percepite come vicine al marxismo – contribuì alla fama dell’opera nel mondo angloamericano. James Gregor riconosceva l’emergere di una nuova generazione di studiosi meno legata all’eredità dei conflitti prebellici che poteva contare su nuove fonti, e tra di essi la biografia di De Felice occupava „a distinguished place“.
„It has become impossible, at least in the United States, to deal with Italian Fascism in whatever guise without coming to grips with the work of De Felice. Because of the marginal role played by Marxist scholars, as well as the lack of political implications that fascist studies might have in English-speaking political environments, De Felice’s work has been dealt with, by and large, on its merits. De Felice’s biography of Mussolini is recognized as a definitive work which will in all probability remain the biography of Mussolini for the foreseeable future.“[98]
A volte questo apprezzamento era accompagnato da considerazioni non solo storiografiche. In una recensione sul „Journal of Modern History“ De Felice fu definito un „lonely western hero“ in lotta contro „the interpretation of Italian Fascism held by the intellectual establishment in Italy“.[99] Questa caratterizzazione di De Felice da un lato risentiva del rigetto del boicottaggio messo in atto „by angry left-wing students“[100] e dall’altro dalla circostanza „that many of De Felice’s ideas about Italian Fascism are now widely shared by Italian historians“.[101] Rispetto al riferimento agli arrabbiati studenti, non sappiamo a quale episodio specifico Wohl si riferisse, non avendone trovato traccia nella stampa americana che pure prestava attenzione alle proteste studentesche.[102] Tuttavia le considerazioni dello storico americano risentivano degli echi delle polemiche italiane ricostruite nell’introduzione all’edizione americana da Michael Ledeen che, dopo aver sintetizzato per il pubblico americano le principali tesi di De Felice, le riconduceva ad una differenza di tradizioni culturali e alla politicizzazione europea della cultura:
„Italian intellectuals (like many French and German scholars) believe that scholarship is not simply an empirical exercise in organizing data in a coherent way, but rather must be based on an already elaborated ideology, ideology. A proper world view – whether it be Marxism, Freudianism, Catholicism, or whatever – is not only essential for understanding the past, but also for present and future actions.“[103]
In questo contesto europeo secondo l’autore il fascismo era visto come il male e l’analisi di De Felice era destinata – secondo Ledeen – ad essere percepita come mossa da machiavellismi di natura politica.[104] L’idea della politicizzazione della cultura italiana guidata dai comunisti era confermata secondo Ledeen dal fatto che le polemiche verso De Felice si fossero calmate dopo un articolo – critico, ma aperto alle sue tesi – apparso sul giornale comunista „L’unità“ dell’influente esponente del Pci Giorgio Amendola.[105] Infatti nel luglio 1975 Amendola aveva criticato il rigetto dell’intervista sul fascismo di De Felice per invitare ad avviare uno studio più approfondito del regime: „Accogliere o respingere le tesi di De Felice, non vedo come possa farsi senza inoltrarsi in quella ricerca storica sul fascismo, in quello studio delle sue varie componenti e contraddizioni che a molti critici di De Felice sembra ancora motivo di ripugnanza.“[106]
D’altra parte va ricordato che le critiche a De Felice nel merito del suo lavoro non provenivano esclusivamente dal mondo di stretta osservanza comunista come sembravano lasciar intendere i commenti d’oltreoceano. Il confronto politico che si generò attorno a De Felice tra una storiografia di sinistra che lo considerava incline ad una forma di riabilitazione del fascismo e una storiografia liberale e conservatrice che accusava gli storici progressisti di una sorta di ‚linciaggio politico‘ fu messo in luce con chiarezza da Jens Petersen.[107] Lo storico tedesco però rilevava anche come lo stesso De Felice avesse una posizione di più aperto conflitto nella sua intervista sul fascismo attraverso „eher von kämpferischem Geist als von Rankescher Objektivität getragene Überlegungen“.[108] Nel suo contributo Petersen rilevava però anche la presenza di una maggior articolazione di voci nella critica a De Felice e una maggiore consapevolezza della diversificazione della varietà di voci nel dibattito politico italiano rispetto ai recensori americani che finivano per essere influenzati da un modello dicotomico basato sulla contrapposizione con la storiografia marxista.[109]
Tornando a Ledeen, la caratterizzazione del contesto politico e culturale offerto dallo studioso americano può forse spiegare l’iniziale riferimento al clima politico della recensione di Wohl. Tuttavia, a questa nota, il recensore americano fece però seguire una disamina critica degli aspetti principali della sua interpretazione del fascismo che erano stati delineati con chiarezza nell’intervista con Ledeen:
„First, he insisted that the Fascist movement (as opposed to the Fascist regime) reflected the aspirations of a rising lower middle class that had been mobilized by the war and that sought to participate in political life. Second, he held that Fascism achieved a broad consensus between 1929 and 1934 that was only partially dependent on the use of terror and the repressive power of the state. And third, he claimed that Italian Fascism and German National Socialism were so unlike that it was misleading to group them together under the general rubric of Fascism. What united these three ideas and made them different aspects of a single thesis was De Felice’s argument that Fascism, unlike National Socialism, was progressive in character because it was oriented toward the future and aimed at the creation of a new type of human being.“[110]
Proprio su questi punti però il recensore notava come proprio l’analisi empirica condotta da De Felice non sostenesse queste tesi: „The trouble is that the most recent volume of De Felice’s biography of Mussolini, Gli anni del consenso, does not substantiate this thesis.“[111] Nel fascismo permanevano spinte divergenti rispetto al capitalismo, mentre il consenso per il regime, a parte giovani intellettuali, aveva le caratteristiche di un consenso negativo perché si fondava sulla richiesta di „security“ e non sulle aspirazioni rivoluzionarie del fascismo. Anche rispetto al rapporto con il nazionalsocialismo non erano l’assenza di tratti unificanti tra i due regimi ad emergere, quanto la preoccupazione per l’egemonia che la Germania avrebbe potuto esercitare: „Contrary to what De Felice argues, after 1935 English and French leaders had every reason to fear that, faced with a choice, Mussolini would sacrifice Italian national interests to ideological coherence.“[112] E se la ricchezza informativa del volume era destinata ad attrarre generazioni di storici, nello stesso tempo il libro poteva apparire a molti storici americani „disappointing“ proprio per non aver raggiunto l’obiettivo principale della biografia di definirne la personalità e al tempo stesso di sovrastimare le qualità di Mussolini in reazione alla critica antifascista:
„Carried away by his determination to escape from the caricatures of anti-Fascist propaganda, De Felice often appears to credit the idea that Mussolini was a political genius dedicated to a moral ideal. Nothing could be further from the truth. A man of commanding presence and keen political instincts, chameleon-like in his ability to shift political coloring from one moment to the next, the Duce was tragically lacking in the most important of statesmanlike qualities: a sense for his own limitations and a commitment to the welfare of his people.“[113]
La ricezione dell’opera di De Felice fu dunque notevole, ma fu soprattutto legata al grande lavoro di scavo documentario condotto dallo storico italiano con acribia filologica – portando a risultati su punti specifici di grande utilità –, lavoro che resta anche l’apporto più significativo e duraturo alla storia del fascismo.
Per quanto riguarda le interpretazioni, partendo da quella basata sull’analisi storico-politica di Talmon, in base alla quale De Felice ricondusse fascismo e nazionalsocialismo appartenessero a due famiglie diverse riconducibili a due diverse forme di totalitarismo di destra quella del nazionalsocialismo e di sinistra quella del fascismo[114] – differenza che trovava poi espressione nell’idea che il primo regime puntasse al passato e il secondo alla modernizzazione – ebbero una variegata ricezione. La differenza tra i due regimi incontrò qualche favore in Germania nella concezione di Karl Dietrich Bracher,[115] ma continuava ad essere poco convincente per la maggioranza degli storici tedeschi. Gerhard Schreiber recensendo l’intervista con Ledeen alla fine degli anni Settanta, dopo aver a sua volta riconosciuto il valore dell’opera di De Felice, rilevò che questa tesi tradiva una limitata conoscenza dello stato della ricerca storica tedesca,[116] e già allora sottolineò come la contrapposizione tra tradizione e modernità non fosse sostenibile perché elementi di progresso e orientamenti verso il passato convivevano in entrambi i movimenti.[117]
Lo sviluppo della ricerca successivo non ha fatto che confermare queste posizioni. La compresenza di sguardo al passato e elementi di modernizzazione è stata riscontrata sia nel fascismo sia nel nazionalsocialismo.[118] In sostanza le affinità tra i due regimi prevalgono sulle differenze. Il tema del consenso è stato per certi aspetti recepito anche da chi ne era stato in origine più distante, ma in un contesto teorico diverso che si allontana dalla contrapposizione secca dell’epoca tra consenso di massa e dissenso di massa.[119] La complessità del rapporto tra cittadini e fascismo emerge con chiarezza nell’opera di Paul Corner e nello stesso tempo le analisi condotte sui paesi ex comunisti – a cui lo stesso Corner fa riferimento – hanno mostrato come le relazioni tra il singolo e il potere si articolino in una gamma di comportamenti molto più ampia della semplice dicotomia consenso dissenso.[120] Ciò non deve impedire di riconoscere il merito che De Felice ebbe nello stimolare la discussione sul tema del consenso. Nello stesso tempo il carattere composito del fascismo e la dialettica tra le sue componenti sottolineata più volte da De Felice appare un elemento acquisito dalla storiografia in generale.[121] La querelle storiografica fu indubbiamente aspra, soprattutto nella sua dimensione pubblicistica,[122] e, sebbene i suoi echi polemici si ritrovino ancor oggi a volte nelle valutazioni del contributo di De Felice,[123] si può concordare con Giulia Albanese sul fatto che essa sia stata largamente superata dall’avanzamento della ricerca in cui prevalgono le ibridazioni.[124] Nello stesso tempo parallelamente a quella polemica la storiografia contemporaneistica venne consolidandosi in Italia aprendosi in misura significativa alle altre storiografie,[125] un’apertura che avvenne in maniera trasversale e che fu portata avanti da gruppi e riviste tra loro in polemica come è stato ben messo in luce sulla base dell’analisi di un campione di riviste.[126]
Tornando alla seconda ondata di studi, sembra che la ricezione anglosassone abbia spesso privilegiato una lettura tutta politica della storiografia non defeliciana, compiendo peraltro un’attenta disamina dell’opera dello storico. La preoccupazione per lo scontro politico sembra aver messo in secondo piano il riconoscimento del parallelo processo di istituzionalizzazione della storia contemporanea come disciplina scientifica e universitaria che portava con sé l’apertura verso le storiografie e le suggestioni di ricerca di altri paesi destinate a far sentire i suoi effetti nel corso del tempo. Tuttavia il campione di testi che è stato qui utilizzato non consente di giungere a conclusioni chiare su questo punto.
Nello stesso tempo in tempi più recenti la discussione giunse a riconoscere che la contrapposizione tra gruppi di storici era però non solo ideologica, ma prima di tutto era metodologica perché si distingueva dalle impostazioni più teoriche e strutturate derivanti dal marxismo:
„It is an approach quite different from more structured and theoretical methods that accept certain givens as part of the study of history. His way of doing history, in other words, was bound to clash with the Marxist approaches that have dominated much of Italian intellectual and academic life since World War II. De Felice’s continuing polemic with Italian Marxism provides another important clue for understanding where his work fits in the historiography of fascism.“[127]
Se pensiamo alla differenziazione tra impostazioni intenzionaliste e funzionaliste ovvero tra chi considera decisiva per la configurazione delle politiche del regime la volontà del dittatore e della sua cerchia e chi vede invece il processo di decision making come il risultato dell’interazione tra i vari apparati del regime,[128] la caratterizzazione del lavoro di De Felice da parte di Painter sembrerebbe collocarlo nella prima categoria e in ogni caso spiegava secondo l’autore il rigetto di una „global view of fascism“[129] esemplificata dal rigetto delle proposte di „generic fascism“.[130] In verità come esisteva una irrisolta tensione nell’opera di De Felice rilevata da alcuni studiosi sul suo richiamo a categorie tratte dalle scienze sociali come il concetto di mobilitazione preso da Gino Germani – più affini ad un’impostazione funzionalista – e l’impianto di fatto intenzionalista della biografia di Mussolini.[131]
L’enfasi sulle differenze sostanziali tra fascismo e nazionalsocialismo di cui De Felice continuò ad essere convinto in certa misura non segnarono solo una differenza profonda con la storiografia tedesca di quegli anni, ma anche con lo stesso lavoro di Mosse rispetto al quale erano già emerse differenze di accenti come ha in maniera convincente dimostrato Dino Cofrancesco.[132]
In generale la comparsa di riviste specializzate sull’Italia come il „Journal of Modern Italian Studies“ ha modificato il quadro della circolazione accademica offrendo spazio ad autori italiani e a temi che forse non sarebbero filtrati attraverso il canale delle recensioni e dei mediatori culturali e favorendo anche impostazioni più attente alla dimensione transnazionale dei fenomeni ed anche ad impostazioni sulla storia del fascismo più vicine agli studi della terza ondata. Sotto questo profilo sembra di poter ipotizzare che, con l’ingresso delle riviste in lingua inglese con le loro problematiche storiografiche e con l’emergere della terza ondata di studi sul fascismo, pur nel riconoscimento dei grandi meriti di De Felice, l’interesse per l’opera dello storico, quantomeno nel mondo anglosassone, si sia ridotta. Questo discorso, con le dovute cautele, potrebbe essere esteso anche alla ricezione più generale di quella parte della storiografia italiana sul fascismo ipotizzando che essendo tale corrente più centrata sulla dimensione nazionale e sulla ricerca empirica e meno incline a proporre o a misurarsi con un’analisi teorica del fascismo sia stato meno in grado di dialogare con gli studiosi della terza ondata e quindi di venire recepita a livello internazionale.
4 Conclusioni
In questo saggio abbiamo esaminato la ricezione della storiografia italiana sul fascismo all’estero sulla base di recensioni e rassegne coeve non solo per offrire un contributo alla storia della storiografia, ma anche e soprattutto per fornire ulteriori spunti ad una riflessione sulla collocazione della storiografia italiana sul fascismo. Si tratta di un osservatorio che certo presenta dei limiti rispetto all’influenza che la storiografia italiana può aver esercitato sul concreto lavoro di ricerca, ma che tuttavia consente di analizzare come la storiografia italiana veniva presentata alle diverse comunità nazionali di storici. Gli esiti di questo lavoro hanno messo in luce come il rilievo della storiografia italiana – nella comprensione del fascismo sia stato significativo. Negli anni del regime – vale a dire all’interno della prima ondata le opere di intellettuali e storici italiani – in larga misura esuli, contribuirono a contrastare l’interpretazione diffusa dai sostenitori del regime e dei loro simpatizzanti nei paesi esteri, pur scontando una certa parzialità derivante dal coinvolgimento personale. Dopo la guerra i primi studi scientifici sul fascismo ebbero una buona ricezione fino alla svolta degli anni Sessanta. Con l’emergere della seconda ondata di studi sul fascismo, sembra di poter dire che, a partire da quel momento, la storiografia avesse acquisito un peso significativo nella ricezione offerta dai recensori. Grazie alla progressiva apertura degli archivi e al consolidarsi della storia contemporanea come disciplina si avviò una stagione di studi che ebbe un’ampia ricezione storiografica. È innegabile che in questa positiva ricezione un ruolo fondamentale fu costituito dalla discussione attorno all’opera di Renzo De Felice, i cui indiscutibili meriti vennero ampiamente riconosciuti, con spirito critico dai recensori esteri. Negli anni Settanta tale ricezione non rimase immune dagli echi del conflitto politico che venivano rielaborati e interpretati in maniera diversa dai recensori americani rispetto a quanto avveniva in Europa, in particolare in Germania dove l’attenzione per il contesto politico avvenne in forme più articolate. Tuttavia la preoccupazione per l’influenza della cultura di sinistra sulla storia del fascismo, non impedì agli storici americani di rilevare i problemi che la trasformazione della biografia di Mussolini in una storia del fascismo generavano al di là dell’indiscutibile riconoscimento dei suoi meriti. Nell’epoca della seconda ondata, segnata in maniera significativa dalla ricerca empirica, si può dunque affermare che la storiografia italiana sul fascismo conobbe un momento particolarmente favorevole contribuendo a disegnare il quadro di analisi del fascismo. Proprio il rimanere fortemente ancorata ad una dimensione empirica, spesso rifuggendo il confronto con la terza ondata, può contribuire a spiegare quella percezione di scarso riconoscimento che a volte si percepisce al di sotto delle Alpi. In conclusione se pensare di poter prescindere dalla storiografia italiana sul fascismo senza quantomeno misurarsi con le sue problematiche appare una scelta criticabile, è anche vero che occorre prendere in esame le problematiche che studiosi non italiani affrontano nei loro studi, certamente influenzati da un diverso contesto, ma non per questo non meritevoli di un confronto perché esse spesso consentono di vedere l’oggetto da prospettive diverse. In generale riprendendo le considerazioni finali di Thomas Kroll sulla storiografia sull’Italia in generale,[133] l’analisi del fascismo non può non tenere conto delle problematiche interne alle singole storiografie nazionali e quindi anche di quella italiana, ma allo stesso tempo non può essere condotta senza tenere conto della dimensione internazionale e globale del fenomeno.
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- Circolo Medievistico Romano 2023
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- L’Italia dal Settecento a oggi: un Sonderweg?
- 1820 – Eine Weltkrise der politischen Souveränität?
- Allgemein, Mittelalter, Frühe Neuzeit, 19.–21. Jahrhundert
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- Register der in den Rezensionen genannten Autorinnen und Autoren