Abstract
The victory won at Lepanto by the forces of the Holy League was not just a turning point in the self-representation process of the Western Euro-Christian imagination. It also gave momentum to numerous anti-Turkish political-diplomatic projects and negotiations that saw Rome, Madrid and Venice turn not only to the European courts but also to eastern princes and countries, both Christian and Muslim. In this context, an important role was played by collaborators with expertise in the internal dynamics of the Ottoman Empire and endowed with a wide network of contacts that allowed them to communicate with Persians, Copts, Ethiopians and other eastern populations hostile to the Turks. These attributes can be found in the Portuguese spy Matthias Biqudo who had worked for Lisbon’s intelligence from his base in Egypt before approaching the Spanish and pontifical courts to enter their service in the very years surrounding the battle of Lepanto. The specific aim of this essay is to analyse a long letter written by Biqudo to Pius V on how to take full advantage of the victory over the Turks on 7 October 1571 by adopting a specific political, military and economic strategy that also envisaged the collaboration of eastern peoples inimical to the Ottoman sultan.
Introduzione
L’Archivio Apostolico Vaticano conserva una mole pressoché incalcolabile di documenti su azioni, proposte, esortazioni, spese, appelli e altri scritti riguardanti il tema della guerra contro gli ottomani durante l’Età moderna, un fenomeno, questo, ormai inserito a pieno titolo nel discorso di crociata sulla base delle acquisizioni storiografiche degli ultimi due decenni. Difatti, numerosi studi recenti hanno spinto la ricerca di settore a superare la tradizionale distinzione tra guerra di crociata e guerra turca, adottando sempre più la denominazione di ‚crociate tardiveʻ in riferimento a espressioni e manifestazioni, sia teoriche sia fattuali, del bellum sanctum cristiano rivolto contro infideli ed heretici dopo la data limite del 1291. Secondo questa prospettiva, dunque, il fenomeno crociato non sarebbe stato appannaggio esclusivo del Medioevo ma, al contrario, avrebbe conosciuto un florido revival nella prima Età moderna, con limiti temporali tutt’altro che definiti, dimostrando così continuità, persistenza e adattabilità. In linea con questo stimolante dibattito storiografico, un’ampia messe di fonti sia edite sia inedite, conservate in diversi archivi come quello Apostolico, sono diventate oggetto di analisi finalizzate ad allargare e approfondire la conoscenza di un fenomeno rivelatosi una fondamentale cartina tornasole delle complesse dinamiche europee e mediterranee secondo coordinate di lungo periodo.[1]
Si tratta di materiale dal contenuto eterogeneo – politico, diplomatico, religioso, profetico, militare, letterario, etc. – e riconducibile a contesti e a soggetti molto differenti. Tra queste innumerevoli carte, il volume 116 del fondo Miscellanea Armadio II costituisce una fonte preziosa per il presente saggio poiché raccoglie numerosi dossiers – di carattere tecnico e non – sulla lega di Lepanto insieme ad altri scritti tra i quali, disposte senza ordine di sorta, vi sono alcune lettere redatte da un portoghese, tale Matthias Biqudo o Matthia Bigudo, che destano un certo interesse rispetto al succitato dibattito storiografico sul fenomeno crociato in Età moderna. Il Biqudo, infatti, all’indomani della battaglia di Lepanto, aveva indirizzato a papa Pio V una densa e peculiare proposta di offensiva contro i turchi che, nel presente contributo, ci si propone di esaminare da un punto di vista ideologico e fattuale, cercando sia di sondarne obiettivi e specificità sia di ampliare la conoscenza su un personaggio studiato in modo episodico a dispetto della sua non secondaria importanza all’interno delle reti politico-diplomatiche e spionistiche del Mediterraneo del Cinquecento.[2]
Tra Lisbona, Roma e Madrid, l’agente Mattia Biqudo in Egitto
La famiglia Biqudo o Bicudo era di origine ebraica e la sua presenza in territorio portoghese è attestata sin dal XV secolo, tuttavia, in seguito ai decreti di espulsione e conversione emessi dal re Manuele I d’Aviz, negli anni 1496–1497, molti membri di questa stirpe avevano trovato rifugio nel Levante musulmano, in particolare lungo la costa del Nord Africa.[3] Da studi pregressi sull’apparato diplomatico della monarchia lusitana risulta che, nei decenni centrali del Cinquecento, tre esponenti della famiglia Biqudo facessero parte dell’intelligence di Lisbona: il prelato Francesco, di stanza in Marocco, un certo Isacco, residente ad Aleppo, e suo nipote Mattia, al Cairo. Nel 1559, Isacco e Mattia, convertitisi al cristianesimo, erano entrati al servizio dell’ambasciatore portoghese a Roma, don Lourenço Pires de Távora, in qualità di informatori, continuando, durante gli anni Sessanta del XVI secolo, a svolgere incarichi di natura spionistica anche per i successivi rappresentanti di Lisbona presso la Curia pontificia. La corona lusitana aveva particolarmente apprezzato i servigi del giovane Mattia che, dalla sua base in Egitto, non solo si era occupato, tra le altre cose, di monitorare consistenza e movimenti delle forze ottomane presenti nel Mar Rosso e di coordinare il riscatto di soldati portoghesi prigionieri dei turchi ma aveva, inoltre, costituito intorno a sé una rete di collaborati in grado di fungere da circuito informativo utile tanto a Lisbona quanto ad altri centri politici europei, come Venezia, Madrid, Roma, Napoli e Ragusa, su ogni evento di rilievo che riguardasse il Levante, l’India, la costa nordafricana e, in modo specifico, l’Impero ottomano.[4]
D’altronde, l’attività di intelligence svolta dal Biqudo si iscriveva nel più generale fenomeno che vedeva lo Stato portoghese impegnato, soprattutto durante il regno di Giovanni III (1521–1557), nella creazione di un network spionistico-diplomatico dispiegato secondo direttrici trasversali che muovevano dalla Tracia alla Berberia e dalle isole greche alla Siria e basato, in misura crescente, sul ricorso a individui provenienti dalla comunità conversa ed ebraica della penisola iberica. Agendo a cavallo delle magmatiche frontiere geopolitiche, religiose e culturali del mondo mediterraneo della prima Età moderna, molti di questi personaggi – che in diversi casi diedero vita a vere e proprie dinastie di agenti radicati in Levante – avevano spesso adattato, per comodità ed esigenze pratiche, il loro apparente credo religioso ai molteplici contesti in cui si erano trovati ad operare. Lo stesso Mattia Biqudo, stando alle ricerche di Rodrigues da Silva Tavim, fu protagonista di continui passaggi di fede tra quelle ebraica, cattolica e musulmana in funzione dei suoi spostamenti e interessi.[5]
Dopo essere stato scoperto ed aver scampato l’esecuzione per la sua attività di spia, Mattia Biqudo si era avvicinato alla Curia papale anche dietro richiesta e sollecitazione degli ambasciatori portoghesi succedutisi a Roma nel corso degli anni Sessanta del Cinquecento, in particolare per impulso di don Fernando de Meneses. I rappresentanti di Lisbona, dunque, avevano introdotto il Biqudo negli intricati ambienti politico-diplomatici dell’Urbe dischiudendogli, così, l’opportunità di entrare in contatto e collaborare con alcuni influenti personaggi che orbitavano attorno alla corte pontificia e a quella vicereale del Sud Italia. Difatti, come molti agenti e spie del suo tempo, Mattia Biqudo si era subito adoperato per ottenere la protezione di vari patroni, tra i quali il cardinale veneziano Marcantonio Da Mula e il viceré di Sicilia, Francesco Ferdinando d’Avalos, marchese di Pescara, offrendo in cambio i suoi servigi e la sua significativa esperienza degli affari di Levante, soprattutto del mondo ottomano.[6] Ciò gli aveva permesso di ottenere alcuni incarichi riuscendo, poi, ad entrare in contatto con il re di Spagna Filippo II e con papa Pio V, entrambi interessati, benché da prospettive differenti, al Turco che, proprio tra gli anni Sessanta e Settanta del XVI secolo, aveva intrapreso un’aggressiva politica estera i cui obiettivi apparivano incerti, almeno fino al 1570. Questa imprevedibilità della strategia ottomana era motivata dalle divergenze interne alla corte di Selim II animate, per un verso, dal disegno espansionistico del gran visir serbo-bosniaco Sokollu Mehmed Pasha, proiettato al Caucaso e allo scontro con i portoghesi nell’Oceano Indiano, e, per l’altro, dagli intenti di Lala Mustafà Pasha il quale, interessato al Mediterraneo, avrebbe infine visto prevalere la propria linea grazie al consenso accordato dal sultano all’offensiva contro la veneziana isola di Cipro.[7]
Postosi al servizio di don Giovanni d’Austria in occasione delle trattative in corso per l’organizzazione della Lega Santa, Mattia Biqudo era sopraggiunto alla corte asburgica di Spagna in pieno 1571, proponendo a Filippo II, tramite il vescovo di Cuenca, Gaspar de Quiroga (1512–1594), un audace piano per sottrarre Alessandria d’Egitto al controllo degli infideli che aveva destato vivo interesse nel Rey Prudente.[8] D’altronde, come lo stesso Biqudo sapeva, l’intera costa nordafricana rappresentava un obiettivo nevralgico della strategia geopolitica ed economica di Madrid che, dopo la rivolta moresca (1568–1570) e la correlata occupazione di Tunisi da parte del rinnegato calabrese Uluç Alì, nel 1569, si era decisa, anche in seguito alla ricattatoria pressione pontificia e al rischio di una pericolosa congiunzione tra forze ottomane e ribelli moriscos, ad aderire all’alleanza contro i turchi ricercata dalla Serenissima e, soprattutto, da papa Ghislieri.[9]
Da un foglietto senza data, mittente, destinatario o altro riferimento, collocato all’interno della corrispondenza scambiata tra il Senato veneto e gli ambasciatori Leonardo Donà e Antonio Tiepolo, rispettivamente ordinario e straordinario, operativi a Madrid negli anni cruciali per la lega lepantina, sono emerse alcune interessanti informazioni proprio su Mattia Biqudo e sui suoi non episodici rapporti con le autorità spagnole. In quella congiuntura, infatti, la diplomazia della Serenissima – mobilitata, durante la crisi con i turchi, in funzione delle usuali e opposte direttrici della politica estera veneziana nei confronti della Porta, volte, da un lato, a reperire ovunque alleati contro gli ottomani e, dall’altro, a preservare la pace con il sultano ad ogni costo – aveva mostrato interesse per l’agente portoghese comparso alla corte iberica.[10] Il documento in questione, non presente nei sopra citati saggi di Enrique García Hernán e Luis Gil Fernández sul Biqudo, riferisce che, già durante l’estate del 1570, era arrivato a Madrid „uno Mattheo Bicudo Portoghese“, presentando a Filippo II „per impresa molto facile l’occupar il Castello Farion d’Alessandria dalla parte de Terra, quando l’armata sua se gli havesse presentata all’improvviso, et consequentemente la città d’Alessandria“.[11] E, dopo quell’estate – segnata dall’invasione ottomana dell’isola di Cipro e dal complesso svolgimento del negoziato che avrebbe portato alla nascita della Lega Santa – l’agente portoghese era nuovamente tornato in Spagna al fine di proporre il medesimo disegno affermando „che faria utilissimo conseglio travagliar il Turco in parte così lontana: perché conveneria con tanto suo maggior incommodo divertir le sue forze“.[12]
L’esperienza, l’abilità e i contatti di Mattia Biqudo gli avevano consentito di guadagnarsi un significativo credito in qualità di attento conoscitore delle dinamiche sociopolitiche, diplomatiche, religiose, economiche e culturali dello scenario mediterraneo orientale, rendendolo una preziosa risorsa per qualsiasi azione che le corti cristiane dell’Europa occidentale volessero tentare nel Levante musulmano.[13] Non a caso, l’ambasciatore Leonardo Donà aveva sottolineato che „questo homo è stato XVI anni in quelle parti, parla la lingua Arabba et Turca, et mostra di esser persona sagace et utilissima“.[14] La rilevanza di questo personaggio, tuttavia, stride con la scarsa attenzione, fatta eccezione per pochi studi, dedicatagli dalla storiografia internazionale, soprattutto per quanto concerne i suoi intenti personali e il suo operato, in funzione anti-ottomana, nel corso dei primi anni Settanta del Cinquecento, ambiti, questi, marginalmente accennati nel succitato contributo di Fernández, focalizzato sull’analisi del network spionistico costituito da Mattia Biqudo in Levante durante gli anni Ottanta del XVI secolo.
Una peculiare strategia di guerra antiturca. Il memoriale dell’agente Matthia Biqudo per Pio V
Entrato al servizio del figlio naturale dell’imperatore Carlo V, designato comandante supremo della Lega Santa voluta e patrocinata da papa Ghislieri, il Biqudo si era spostato lungo il Mediterraneo sostando, in diverse occasioni, nella penisola italiana. Proprio a Roma, il 15 dicembre 1571, l’agente portoghese aveva indirizzato una lunga lettera a Pio V, intitolata „Ricordi di Matthias Biqudo Furtado sopra le cose di Levante“.[15] Lo scritto, che presenta le caratteristiche formali e contenutistiche sia dei memoriali sia dei consigli, è un lucido e articolato progetto di guerra contra Turcas che si pone sulla medesima linea, ideologica e pratica, del piano presentato a Filippo II d’Asburgo per condurre Alessandria e l’Egitto sotto il controllo spagnolo grazie, anche, all’ausilio tanto della considerevole comunità cristiana presente in quei territori quanto delle popolazioni musulmane ostili all’autorità ottomana.[16] Difatti, il summenzionato rappresentante veneziano a Madrid, Leonardo Donà, aveva già segnalato la determinazione del portoghese nel dar seguito al proprio disegno perché „pensa che quando l’aricordo suo di questa intelligentia non sia accettato, che ‘l Papa in Roma lo debba accettare, et inviarlo forsi in quelle parti“.[17]
Come noto, tra gli effetti più concreti della battaglia di Lepanto, sia nel breve che nel lungo periodo, vi era stata la genesi di un profluvio di memoriali, pronostici, opuscoli e testi di ogni sorta che, fin da subito, avevano contribuito alla costruzione, da parte del mondo europeo, di quel ‚mito lepantinoʻ che Anastasia Stouraiti ha perspicuamente definito „emblema di virtù e garanzia di dominazione del Cristianesimo occidentale“.[18] In linea con questa vasta ed eterogenea produzione – emersa sull’onda del successo cristiano conseguito il 7 ottobre 1571 in prossimità delle isole Curzolari – il testo di Mattia Biqudo a Pio V si apre con la tradizionale esaltazione della „grande e miracolosa vittoria“ contro la flotta ottomana e con il conseguente imperativo a „seguitare la vittoria dattasi dalla man del Signor Iddio“ cercando di scongiurare quelli che erano i rischi peggiori per la coalizione cristiana, cioè: „non alentando, sminoendo, o spartando le forze nostre, acciò ch’i l’enemico, non habbia tempo di reffarsi a dano nostro“.[19] Del resto, l’eventualità che la lega si sfaldasse aveva preoccupato tutti i contraenti della stessa ben prima del celebre scontro navale e, in modo particolare, il Senato veneziano che, soprattutto all’indomani di Lepanto, aveva espresso ai suoi ambasciatori a Roma timore per il futuro dell’impresa, ordinandogli di operare con ogni mezzo, presso il papa e i rappresentanti spagnoli, al fine di „non perder l’occasione della gratia grandissima che ‘l Signor Dio ha fatta alla Christianità con così segnalata Vittoria, et per poter combattendo l’Inimico da più bande prima che possa prender forza far di quei progressi importanti, che da tanto successo si possono espettar“.[20] Naturalmente, era prioritario interesse della Serenissima che la lega cristiana proseguisse la sua offensiva in Levante, onde recuperare Cipro e altri territori sottratti dai turchi ai veneziani, cercando di scongiurare lo spostamento del conflitto nel Mediterraneo occidentale e lungo la costa nordafricana laddove, invece, si concentravano le mire espansionistiche di Filippo II, peraltro esplicitate dagli stessi capitoli della lega in cui la conquista di Algeri, Tunisi e Tripoli era inclusa tra gli obiettivi principali dell’alleanza.[21]
La tempistica costituiva un fattore essenziale secondo Matthias Biqudo il quale, sottolineando la necessità di sfruttare il vantaggio acquisito sul mare, suggeriva di sferrare un attacco a sorpresa contro la Sublime Porta e, per avvalorare la sua strategia, l’agente portoghese aveva delineato un quadro sintetico ma attendibile delle difese sia marittime sia terrestri del Turco segnalando le principali fortezze poste lungo le coste di Dalmazia, Albania, Grecia, Asia Minore, Siria, Palestina ed Egitto.[22] L’attenta analisi del Biqudo, oltre a dimostrare le sue conoscenze pratiche del Levante e del mondo ottomano, evidenziava ciò che, a suo avviso, l’armata cristiana avrebbe dovuto sfruttare, cioè l’impossibilità per i turchi di difendere una superficie così estesa.[23] Tuttavia, a differenza di altri disegni, progetti e suggerimenti bellici, formulati e circolanti subito dopo Lepanto, Matthias Biqudo non aveva proposto un’offensiva concentrata in Europa centro-orientale perché, a suo avviso, il sultano „in quella più che in ningiun’altra parte, teme esser dalla nostra armata assalito“ e, perciò, sussisteva il rischio di impantanarsi in un conflitto difficile, senza prospettive di rapido e concreto guadagno.[24] Alla luce di queste considerazioni, il portoghese reputava che sarebbe stato più efficace e utile „ferir l’Enimico nel cuore et andare adrittura alla testa, la qualle oppressa, le membra da per sé et senza fatica cascariano“.[25] Giudicando poco sensato impiegare le numerose forze della lega in vane schermaglie lungo la costa adriatica o nelle sterminate e dispersive isole dell’Egeo, che avrebbero procurato acquisti troppo riduttivi rispetto alle spese sostenute e al potenziale dell’armata cristiana, Biqudo arrivava a consigliare un’audace ma preciso e ponderato attacco a sorpresa nelle acque antistanti Costantinopoli.
„Se noi (non attendendo ad altro) volessemo acquistar alcune isole dell’arcipelago, non è dubio che l’impreza sarebbe facile et riuscibile, ma lasciando al Turcho loco et tempo di riffarsi, assaltando con la sua armata l’isole da noi acquistate in tempo et congiuntione che o per causa della staggione del tempo, o d’impotencia, o di qualsivoglia altro impedimento noi non le potessimo soccorrer, facilmente le rehaverebbe, et saressimo costretti a, con vergogna nostra et danno, lasciarle o perderle, come già più d’una volta s’ha fatto, perché non essendo noi (come ò detto) patroni in terra ferma, non potemo spettar né frutto, né utilità di dette isole, perché bisognerà spender (in fortificarle, munirle et sustentarle) grossamente, et né con tutto questo saremo ancora (per le cause già dette) securi di col tempo non le perdere. La dove si ricorda et con ogni debita reverentia si consiglia che lasciando (come membra) le dette isole, si vada unita et arditamente alla testa, assaltando all’improviso li Dardanelli, la cui espugnatione sarà tanto facile o difficile, a noi, quanto sarebbe quella di Negroponte, o Metillini, o di qualsivoglia altra isola che noi pretendessemo nell’arcipelago acquistare.“[26]
I vantaggi di questa impresa erano significativi perché, proseguiva l’agente portoghese, si sarebbero scatenati panico e caos nella capitale ottomana da dove il sultano, prima di riuscire a contrattaccare, avrebbe visto distrutte e razziate le proprie coste per poi patire le rovinose conseguenze di un blocco dei suoi traffici marittimi e dei rifornimenti. Ma Biqudo aveva anche previsto un piano alternativo, qualora questo fosse sembrato troppo rischioso agli occhi delle corti cristiane, suggerendo di conquistare le isole di Lesbo e Tenedo, scarsamente protette, poiché si trovavano in una posizione geografica strategica per controllare le rotte commerciali in entrata-uscita dal mar di Marmara e svolgevano, dunque, una funzione vitale nel sistema economico della Sublime Porta.[27]
In entrambi i casi, quindi, Matthias Biqudo Furtado aveva proposto un’offensiva diretta al cuore dell’Impero ottomano tramite la quale, approfittando della debolezza navale turca conseguente alla vittoria di Lepanto, si sarebbero potute aggirare le allertate difese delle regioni di frontiera, sia terrestri sia marittime, degli infideli per colpire a sorpresa la testa del nemico onde paralizzarne l’intero corpo. Nella pragmatica logica del portoghese, l’obiettivo da perseguire non era tanto l’espugnazione di Costantinopoli quanto la demolizione dell’architettura economica che sosteneva lo Stato turco e la sua capitale. La prospettiva di Biqudo, in parte, era vicina alla strategia di crociata elaborata un secolo prima da papa Callisto III il quale, volendo evitare lo scontro aperto con Maometto II – dopo i traumatici precedenti scanditi dalla disfatta di Nicopoli (settembre 1396) e Varna (novembre 1444) nonché dalla caduta di Bisanzio (29 maggio 1453) – aveva preferito intraprendere una guerra marittima, incentrata su azioni di conquista e razzia a danno delle isole e delle coste ottomane nel Mediterraneo orientale, volta a recidere le arterie economico-commerciali del Turco.[28] Del resto, anche per il portoghese un’offensiva terrestre contra infideles nella regione danubiano-balcanica non sarebbe stata fruttuosa, a meno che non si fosse riusciti a far aderire l’imperatore asburgico alla Lega Santa. Questa valutazione era stata esposta alla Curia romana, già un anno prima, dal celebre condottiero Ascanio Della Cornia (1516–1571) in una lettera per il fratello, il cardinale Fulvio Giulio (1517–1583), proprio in rapporto all’organizzazione, in atto, della crociata cristiana voluta da Pio V. Il capitano perugino, infatti, aveva messo in guardia il fratello sul fatto „che la lega qual si tratta fra ’l Papa, Re Cattolico e Venetiani senza l’Imperatore non possa fare cosa sostantiale ad offensione de Turchi qualora l’obiettivo fosse stato scacciarli dal suolo europeo“.[29] Anche sulla base di simili considerazioni, papa Ghislieri si era mobilitato, fin dalle prime fasi del negoziato dell’alleanza politico-militare, al fine di ampliare il fronte anti-ottomano, come riferito dalle parole dell’ambasciatore veneto Michele Surian che, nella sua relazione sullo svolgimento delle trattative per la lega, aveva riportato la determinazione del pontefice ad „invitare l’Imperatore et altri Principi Christiani, li quali era di sperare, che prontamente concorrerebbono a questa Santa Impresa et l’Imperatore per il primo“.[30]
In realtà la prospettiva economica del conflitto che, secondo il Biqudo, la Lega Santa avrebbe dovuto intraprendere a danno del Turco, trova maggiore esplicitazione in un ulteriore disegno strategico consigliato dal portoghese alla Curia e che costituisce, in sostanza, il punto di arrivo delle sue precedenti esperienze, riflessioni e trattative. Dopo aver scartato l’opzione di invadere la Grecia, ritenuta povera di risorse e ricchezze ma abbondante di solide fortificazioni nemiche sparse in un territorio impervio, Matthias Biqudo svelava i suoi intenti concreti, cioè la conquista di Egitto e Siria. È evidente, in questo proposito, il collegamento con il piano suggerito a Filippo II e a don Giovanni d’Austria, pochi mesi prima, per impadronirsi di Alessandria e della costa egiziana.[31] In tale direzione, come sopra osservato, l’agente portoghese si era già mosso a più riprese, tra il 1570 e il 1571, arrivando a proporre anche a Francesco Ferdinando d’Avalos di „entrar en tratos con ‚un gran señor de El Cairo‘“ proprio per organizzare la suddetta azione a danno dei turchi nei confronti dei quali il marchese di Pescara, in diverse occasioni, aveva intrapreso bellicose iniziative, soprattutto dopo essere stato nominato viceré di Sicilia.[32]
Dalle ricerche condotte da Enrique García Hernán nell’archivio di Simancas, si evince che le osservazioni del Biqudo, avvalorate dalla sua approfondita conoscenza della realtà mediorientale, avevano indotto don Giovanni a inviare alcune spie in Egitto, peraltro suggerite dallo stesso agente portoghese, ma non si conosce l’esito di questa missione.[33] Il 3 aprile 1573, Mattia Biqudo aveva indirizzato, da Napoli, una lunga lettera al fratellastro di Filippo II d’Asburgo in cui, sottolineando la necessità di „ser particularmente y con verdad avisado de los appareios y progressos del Turco“, spiegava a don Giovanni che il modo migliore per avere informazioni sugli ottomani era „que V. A. embie y tenga en Constantinopla un medico, y podiendo ser dos seria mucho meior, con tal que el uno no sepa del otro, al qual será necesario hazer buen partido como requiere la importancia del servicio, y qualidad de la persona“.[34] Un mese dopo, sempre da Napoli, il portoghese riferiva di aver inviato presso dei potenti signori di Egitto e Siria, ostili ai turchi, „algunos hombres aquellos partes con orden de V. A. y instroidos por my de todo lo que allí havían de trattar“.[35] Nella primavera del 1575, una lettera di Biqudo informa che il portoghese percepiva ingenti somme di denaro da rappresentanti spagnoli per pagare i diversi agenti al suo servizio in Levante.[36] Questo sintetico quadro da misura sia del credito che Matthias Biqudo si era guadagnato presso la corte di Madrid sia delle strade sotterranee battute – tanto in quella contingenza quanto nel lungo periodo – dall’apparato spionistico e diplomatico spagnolo in funzione anti-ottomana, onde sfruttare al meglio o, al contrario, reindirizzare le direttrici d’azione della Lega Santa nonché gli orientamenti della stessa politica estera madrilena. Al riguardo, infatti, è altresì interessante notare il riferimento alla possibilità di organizzare una spedizione delle forze cristiane in Egitto, durante la campagna in previsione per il 1572, contenuto in una lettera inviata dal cardinale Girolamo Rusticucci al nunzio Facchinetti a Venezia, il 7 novembre 1571, in cui si legge che „perché a Nostro Signore vien dipinta facile l’Impresa d’Alessandria vorrebbe ancora intendere sopra ciò il parer loro, non gliela proponendo però per risolutione presa, ma come per discorso“.[37] È plausibile che la corte spagnola, motivata dai piani del Biqudo, avesse suggerito a Pio V di considerare, anche con i veneziani, l’eventualità di un’offensiva della lega verso Alessandria in seguito alla vittoria di Lepanto. Anni dopo, il portoghese era ancora operativo al servizio di Madrid, coordinando una rete di agenti che informava i rappresentanti spagnoli sui movimenti e sugli eventi riguardanti l’Impero ottomano e il mondo musulmano.[38]
Ma per quale ragione, secondo Mattia Biqudo, le forze cristiane avrebbero dovuto occupare proprio l’Egitto e la Siria? Nell’ottica della spia portoghese, la motivazione è piuttosto chiara dal momento che, l’armata cristiana „puotrà con facilità empatronirsi di quelli famosi et richi Regni, tanto per causa del poco et cativo presidio che il Turcho lì tiene, come ancora per la grandissima moltitudine d’inimici che in quelli paesi ha, li quolli essendo per la maggior parte christiani, haveressimo sempre in agiuto et favor nostro“.[39] Ricchezza del territorio e debolezza delle difese, dunque, rendevano Egitto e Siria degli obiettivi ideali per Matthias Biqudo il quale, per convincere il papa delle sue asserzioni, si era profuso in una dettagliata descrizione delle forze militari turche presenti in quelle regioni.[40] Al di là del „poco et cativo presidio“ turco, l’agente insisteva molto sull’aiuto che le truppe della lega avrebbero ricevuto dai „mal contenti et sodisfatti popoli sottoposti al giogo del Turco che ningiun’altra cosa tanto desiderano, come esserli offerta occasione di puotersi sciolvere et liberare del grave et importuno giogo del’Imperio et governo turquesco“.[41]
La conclusione dell’articolato discorso del portoghese, a questo punto, risulta evidente: non c’era momento più favorevole, di quello appena dischiuso dalla vittoria lepantina, per passare ad un’offensiva che avrebbe colto di sorpresa i turchi privandoli delle loro maggiori fonti di introito economico-commerciale. Un ruolo nevralgico, come visto, sarebbe poi toccato alle popolazioni locali sulla cui sollevazione contro i dominatori ottomani Biqudo non aveva alcun dubbio, proprio in virtù della sua approfondita conoscenza della regione e dei suoi abitanti.[42] Tuttavia, l’agente puntualizzava che, per assicurare la riuscita del progetto antiturco, „questa impreza si deve fare in Alessandria“.[43] Le ragioni di tale affermazione, come per il piano di conquista della città egiziana già presentato a Filippo II durante l’estate del 1570, rispondevano a criteri di natura pratica in quanto poter contare su una solida base fortificata d’appoggio era funzionale, secondo il portoghese, sia all’attacco cristiano, sul piano logistico, sia nel fomentare la ribellione dei sudditi ottomani contro il sultano.[44] Questa particolare attenzione, riservata da Matthias Biqudo ai popoli orientali di fede cristiana, ma non solo, sudditi della Porta, esplicita la sua dimestichezza con le eterogenee e intersecate realtà socioculturali e religiose del Medio Oriente e, a sua volta, si associa al più complesso quadro della politica ecumenica perseguita dal Papato della Controriforma nei confronti dei cristiani d’Oriente. Difatti, tra gli anni Sessanta e Ottanta del Cinquecento, la strategia adottata da Roma in Levante aveva manifestato un incremento dell’associazione tra la tradizionale attitudine alla lotta armata contra Turcas e le direttrici unioniste-missionarie alimentate, queste ultime, dalle delibere tridentine ma eredi, anche, di quella vocazione universalistica esplicitata dalla Chiesa nella contesa con il conciliarismo sul finire dell’età medievale. Durante il pontificato di Pio IV Medici, diversi gesuiti – come Giovani Battista Eliano (1530–1589), esperto di lingue e culture orientali – si erano recati in Egitto onde trovare possibili vie di riunione della Chiesa copta a quella romana e tentativi simili erano stati attuati da Pio V e, soprattutto, da Gregorio XIII Boncompagni.[45]
Ma la strategia d’ampia prospettiva su cui il Biqudo insisteva, tanto con Roma quanto con le corti iberiche, spagnola in particolare, andava ben oltre le comunità copte, ortodosse e maronite guardando alla Persia safavide, alla penisola arabica e all’Etiopia del ‚miticoʻ Prete Gianni come validi interlocutori per l’Occidente cattolico, accomunati alla Res publica Christianorum da rivalità e ostilità verso l’Impero ottomano. Difatti, l’ambasciatore Leonardo Donà aveva sottolineato che il piano di conquista di Alessandria era stato definito facile dalla spia portoghese „per la cognitione, ch’egli haveva de due Signori Arabbi sudditi del Turco molto mal contenti vicini a quelle parti“.[46] Nella succitata lettera scritta da Biqudo a don Giovanni il 4 maggio 1573, l’agente riferiva di aver operato, fin dall’inizio del suo servizio per la corte spagnola, proprio „en persuadir y tratar con algunos señores principales del Egitto y Soria, abbrassassen la occasion, que con la gloriosa Vittoria que V. A. hucco del’Armada turquesca, Dios le havia mostrado, paraque entrando en su Amistad y aliándose con el tomassen las armas contra el Turco común enemigo de todos“.[47]
Dunque, una volta destabilizzata la dominazione turca in Egitto e in Siria con l’ausilio delle popolazioni locali, secondo il portoghese si sarebbe innescato un effetto a catena per cui „il medesimo si puoterebbe spettare (essendo come saranno dalla Santità Vostra sollicitati) della Ethiopia, della Persia et Arabia, perché ognu’uno procurarà libertà, recuperare il suo, et levarsi dal collo quello gravoso et importabile giogo del diabolico et tyranno dominio et governo turquescho“.[48] Un’opportunità che Pio V aveva cercato di cogliere indirizzando dei brevi allo shah Tahmāsp I, al sovrano etiope e ai principi arabici per indurli ad approfittare della vittoria cristiana dichiarando guerra alla Porta.[49] Del resto, anche le due corti iberiche – consapevoli delle dinamiche geopolitiche afro-asiatiche e incalzate da Roma – si erano attivate per coinvolgere i persiani e altre popolazioni orientali in un’offensiva congiunta contro il Turco, ancor più dopo la vittoria navale del 7 ottobre.[50] Al riguardo, nel luglio del 1571, l’ambasciatore Donà aveva scritto al Senato veneziano che proprio „una delle utilità che potria prestare il Re di Portogallo alla presente impresa“ sarebbe stata quella di utilizzare i suoi numerosi agenti „che navigano nelle Indie Orientali alli confini di Persia“ al fine di „eccitar in qualche maniera il Signor Soffi contra il Turco“.[51] È con questo intento che, in data 12 gennaio 1572, il nunzio Castagna, da Madrid, aveva informato il collettore di Portogallo, Flaminio Donato di Aspra, che papa Ghislieri, „con il desiderio che ha del’augumento de’ Christiani et diminutione de Turchi“, si era appellato al re portoghese affinché facesse recapitare i brevi pontifici indirizzati ai sovrani safavide, etiope e d’Arabia, „sapendo la gran Christianità del Serenissimo Re di Portugallo et la facultà che (forsi solo) ha di poter fare … et sapendo anchora che il medesimo Re di Portugallo per sua molta bontà, si è offerto a simil cosa“.[52]
Ovviamente, la Curia si era raccomandata, con i suoi rappresentanti a Madrid e a Lisbona, che i documenti in questione venissero debitamente tradotti e affidati ad agenti di „prattica et discrettione“ i quali „sappiano quello che portano“.[53] Dal canto suo la corte lusitana, soprattutto all’indomani della battaglia di Lepanto, era stata a più riprese sollecitata da Pio V ad intervenire militarmente contro i turchi ma, nonostante le fiduciose aspettative ispano-veneziane e le promesse di Sebastiano I, peraltro rinnovate a Gregorio XIII, i portoghesi limitarono la loro mobilitazione al piano diplomatico, senza inviare uomini e navi in supporto della Lega Santa. Gli interessi del Portogallo infatti, minati dalle continue guerre in Africa e in Asia, si stavano spostando verso il quadrante atlantico, in direzione del Brasile, allontanandosi sempre più dalla prospettiva di un confronto diretto con gli ottomani che avrebbe unicamente giovato ai veneziani e, in parte, agli spagnoli.[54] Dunque, benché da una prospettiva autocratico-profetica tipica del suo modus operandi, papa Ghislieri aveva battuto diverse piste per ingrossare le fila della lega contra Turcas ma tale strategia, articolata tra lotta armata, attività missionaria e politica unionista, avrebbe compiuto un salto di qualità con il fondamentale pontificato del suo successore.[55]
In questo complesso quadro politico-diplomatico, Matthias Biqudo aveva avuto un ruolo non secondario nel favorire il dialogo delle corti di Roma e Madrid ma anche di Lisbona e Venezia con l’Oriente, in particolare egizio-persiano, sempre in funzione antiturca. La dinastia sciita dei Safavidi, in particolare, rappresentava un nemico naturale del sunnita Impero ottomano e, dopo l’intermittente conflitto svoltosi tra il 1532 e il 1554, lo shah Tahmāsp I era in attesa dell’occasione favorevole per riprendere le armi a danno del Turco. Difatti, con la pace raggiunta ad Amasya nel 1555, le tensioni tra i due Stati islamici si erano progressivamente acuite a causa del dominio sultanale sull’Iraq – che aveva sottratto agli sciiti il controllo diretto sui loro principali luoghi di culto – della conseguente penetrazione turca nell’Oceano Indiano, a pregiudizio degli interessi espansionistici e commerciali di portoghesi e persiani, nonché per l’aggressiva politica ottomana rivolta all’Azerbaigian e al Caucaso, regioni ambite dal sovrano safavide.[56]
Anche sulla base di questi presupposti, tutt’altro che ignorati dalle corti cristiane d’Europa, non soltanto il Biqudo aveva indotto Filippo II a inviare più volte ambasciatori spagnoli in Persia ma era stato altresì coinvolto in alcune missioni dirette da Roma verso i cristiani copti e maroniti onde favorire i correlati propositi unionisti e crociati perseguiti dalla Chiesa postridentina. Non a caso, nella lunga missiva a Pio V, l’agente portoghese scriveva che „il breve per il patriarcha di Monte Libano mi pare molto bene“, e suggeriva persino un corriere adatto per consegnare il documento papale avvertendo però la Curia su come interagire al meglio con i cristiani del Monte Libano i quali „hanno in questi tempi più tosto bisogno di freno che d’esperonii, et di questo bisognarà advertirli, accioché non si muovano in tempo et congiuncione, che a noi non sia utile, et possa a loro esser dannoso“.[57] Effettivamente, nei primi anni Settanta del XVI secolo, molte popolazioni orientali sottoposte alla dominazione ottomana – in Siria e in Africa, lungo le coste del Golfo Persico e nella penisola arabica – erano in fermento contro l’autorità sultanale, come riportato dal nunzio Facchinetti in un dispaccio per il cardinale Rusticucci, redatto a Venezia il 26 gennaio 1572. Nella lettera, il nunzio riferiva di essere stato informato da un agente, di ritorno da una missione biennale tra Aleppo e Tripoli, „che la sollevatione degli Arabi del Iemen non era mai stata repressa“ nonostante gli sforzi bellici di Costantinopoli, „che gli Arabi stavano con occupatione di tutto quel Paese; che similmente i Popoli della Balsera [Golfo Persico] s’erano sollevati et negavano l’obbedienza al Turco. L’istesso anco facevano alcuni Popoli d’una Provincia chiamata Bagadeth [Baghdad]“.[58] Un anno dopo, nel marzo del 1573 – in una lettera per don Giovanni in cui venivano considerate le modalità più opportune per trattare con i persiani e i popoli mediorientali in funzione antiturca – Mattia Biqudo ricordava che il papa, con l’ausilio dello stesso agente portoghese, aveva inviato degli emissari „a los patriarcas de Monte Libano y de Damasco, y a uno de los mos principales y poderosos Señores Arabios del Egitto“ affidandogli „una instrucion ordenada por mi, que al Papa y a Vostra Altezza, parescio bien“.[59]
Conclusione
Benché non abbia trovato concreta applicazione, il progetto di offensiva antiturca proposto da Matthias Biqudo Furtado alle corti cattoliche d’Europa, al fine di trarre il massimo vantaggio dalla recente vittoria di Lepanto, esprimeva una peculiare prospettiva d’analisi strategica, pragmatica e ad ampio raggio insieme, che congiungeva molteplici fattori – socioeconomici, geopolitici, diplomatici, militari e religiosi – sulla base delle conoscenze acquisite dall’agente portoghese attraverso la sua lunga esperienza spionistica nel Levante ottomano e, più in generale, all’interno del mondo islamico mediorientale. Ciò è avvalorato dall’attenta disamina con cui Biqudo insisteva sull’importate ruolo delle province egiziana e siriana per l’economia della Sublime Porta.
„Del Turcho parlando non è chi non sappia la grandissima utilità et tesoro che ong’anno del’ Egitto cava, sendo fertilissimo et per causa del fiume Nilo abundantissimo di frumento, biava, lente, fava, rizo, zuccharo et dogn’altra sorte di vittovaglie … Ma che dirò io della grandissima copia d’oro che di tuta l’Ethiopia per mare et per terra al Caiero vene, che delle odorifere specie et altre preciose merce che fin della grand’isola di Somatra (già per il passato detto Taprobana) et di tutta l’India per la via del mar Rosso, al Caiero et da lì in Alessandria vengono … Et quello che del’ Egitto ò detto si può medesimamente della Soria intendere.“[60]
Lo scenario tratteggiato dalla lettera di Matthias Biqudo a Pio V, dunque, teso a sottolineare la dipendenza di Costantinopoli dagli introiti provenienti da Egitto e Siria, verteva su una strategia diretta a paralizzare l’economia ottomana nonché ad innescare e sfruttare tensioni e ribellioni contro la dominazione turca provocando, così, il collasso della macchina di governo sultanale. Una prospettiva peculiare, quella suggerita dalla spia portoghese, rispetto a molti altri disegni di lotta agli infideli nati sull’onda di Lepanto – più focalizzati su considerazioni prettamente militari o ideologiche – ma che, come la maggior parte di questi progetti, non aveva perso di vista il fine ultimo dell’impresa cristiana nell’ottica del Papato, ma non soltanto in quella romana, cioè la conquista di Gerusalemme. In linea con il modus operandi dei numerosi agenti e informatori che, nel corso del XVI secolo, offrirono i loro servigi alle corti europee in cambio di protezione, pensioni e possibilità di carriera, Mattia Biqudo sperava di entrare nelle grazie del pontefice proprio facendo leva, tra gli altri, su un elemento, la recuperatio Terrae Sanctae appunto, che il portoghese sapeva perfettamente essere molto caro a papa Ghislieri, al di là del carattere variamente retorico di questo obiettivo. Durante le trattative per la stipulazione della Lega Santa, infatti, l’intransigente Pio V aveva manifestato in diverse occasioni la necessità di trovare „la via d’acquistare il Regno di Gierusalemme et il Sepolcro di Christo“[61] e questa volontà del pontefice era stata ribadita, in via ufficiale, sia all’interno dei capitoli relativi all’alleanza cristiana, scaturita dall’offensiva turca contro la Cipro veneziana, sia nei negoziati diplomatici successivi alla battaglia di Lepanto.[62] Sulla base di queste premesse, nel memoriale rivolto al pontefice, il Biqudo aveva sottolineato che si dovesse agire rapidamente seguendo i suoi consigli al fine di „consolar quanto primo seia possibile l’afflitta Christianità et restituirli quelli Santi Luochi, che tanti anni fa sono, tanto danno et vergogna nostra, nelle mani del’enemici di Christo, havendo profanato li Sacri altari et Santi Luochi ennalsati di maggiori nostri“.[63]
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