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Motivazioni politiche e contesto sociale

La storiografia del Regno di Sicilia (da Alessandro di Telese a Pietro da Eboli) e il problema della causa scribendi
  • Knut Görich EMAIL logo , Markus Krumm

    male

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    and Sebastian Brenninger

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Published/Copyright: November 22, 2024

Abstract

This article addresses the historiographical effects associated with the founding of the regnum Siciliae in 1130 by Roger II and the takeover of Sicilian royal rule by Emperor Henry VI in 1194. The narratives of Alexander of Telese, Falco of Benevento, Petrus of Eboli and the so-called Hugo Falcandus are examples of medieval contemporary historiography. These authors address a history that they themselves lived through. In all cases, changes in the balance of power in the authors’ social environment led them to write their historical works. There was a connection between the political events of their present and their respective intentions to represent them („Darstellungsabsicht“). The question of their specifically local context of origin allows us to make well-founded assumptions about the argumentative intent inherent in the texts, with which the historiographers attempted to influence the political conditions of their own day.

Nel XII secolo, due eventi risultano di cruciale importanza per la storia dell’Italia meridionale dominata dai Normanni: la fondazione del regnum Siciliae da parte di Ruggero II nel 1130 e l’assunzione della corona siciliana da parte dello svevo Enrico VI nel 1194. A entrambi i fatti si legarono trasformazioni di vasta portata che modificarono i precedenti rapporti di potere. In stretta prossimità temporale con queste cesure furono composte le opere storiche più importanti per la nostra conoscenza della storia del regnum: la „Ystoria“ dell’abate Alessandro di Telese, il „Chronicon“ di Falcone di Benevento e il „Liber ad honorem Augusti“ di Pietro da Eboli.

Ai tre i testi si è a lungo rivolta l’attenzione della ricerca, di frequente in una prospettiva positivista finalizzata alla ricostruzione degli eventi storici, ma anche, in misura crescente, secondo una molteplicità di approcci alternativi. A tal proposito è sufficiente solo qualche notazione: con riferimento a Falcone di Benevento si può menzionare la connessione tra la storiografia comunale, la storiografia notarile e la coscienza cittadina, per quanto riguarda invece Alessandro di Telese e Pietro da Eboli, i temi della legittimazione del potere e della propaganda politica per mezzo della produzione storiografica, ma anche i concetti chiave di parenesi del sovrano.

Se torniamo ad analizzare questi testi, lo facciamo principalmente per verificare le potenzialità di un approccio di ricerca, noto in Germania con il nome di „scrittura pragmatica“. I prodotti di tale scrittura pragmatica vanno intesi come testi „che supportano atti direttamente finalizzati a uno scopo o che intendono guidare l’agire umano attraverso la trasmissione di conoscenze“.[1]

I risultati qui presentati sono una breve sintesi di indagini assai più dettagliate condotte nell’ambito di un progetto di ricerca sul tema „Herrschaftsumbruch und Historiographie. Entstehungskontexte der Zeitgeschichtsschreibung im normannisch-staufischen Süditalien (12. Jh.)“ („Cambi di potere e storiografia. Contesti d’origine della storia contemporanea nel Mezzogiorno continentale normanno-svevo – XII secolo“).[2]

Che tale approccio possa essere assai fruttuoso anche per la comprensione delle opere storiche è stato confermato in modo straordinariamente efficace da studi sulla storiografia dell’età ottoniana e salica e, più recentemente, da lavori sulla storiografia genovese e toscana del XII secolo.[3]

Si tratta sempre di opere storiografiche sulla contemporaneità medievale – dunque in contrasto con la cronografia erudita, ad esempio le cronache universali – o di testi i cui autori analizzano periodi storici in cui essi stessi, o i loro informatori, hanno vissuto.[4]

Peculiare in queste opere è la stretta connessione tra i problemi del tempo in cui i loro autori sono vissuti e le finalità narrative da essi perseguite. In „situazioni difficili“, costoro, con i propri testi, hanno evidentemente tentato di esercitare una qualche influenza sul loro presente, avvertito come stagione di crisi.[5] Tuttavia, affermazioni così concrete sulle ragioni della genesi di un testo sono ammissibili solo qualora sia possibile chiarirne il momento d’origine e lo specifico contesto locale, a tale momento collegato, in cui esso sia stato concepito: ciò è alla base della selezione e della descrizione degli avvenimenti riportati, e quindi dell’intento argomentativo proprio del testo.[6] L’origine di un testo, la sua causa scribendi, può quindi essere giustamente descritta come il suo „punto archimedeo“, a partire dal quale il suo scopo diviene riconoscibile.[7]

In realtà, in un contributo su „la storiografia del Regno di Sicilia“, non dovrebbe mancare la cronaca di Romualdo Salernitano. Tuttavia essa non è stata ancora indagata nell’ottica della causa scribendi, ancorché rappresenti un oggetto utile a tale scopo. Per lo meno con riferimento al ben noto resoconto di Romualdo sulla pace di Venezia, si può affermare che alla sua origine vi fosse l’incarico che Romualdo dovette svolgere, in qualità di ambasciatore del re Guglielmo II di Sicilia, nel corso delle trattative di pace. Indubbiamente questa parte della sua cronaca riguarda vicende contemporanee, che egli ha vissuto in prima persona.[8] Un esame più attento di tali aspetti è però, allo stato attuale, ancora un desideratum, cui non può darsi risposta in questa sede.

Per quanto riguarda gli autori citati – Alessandro di Telese, Falcone di Benevento e Pietro da Eboli – si può constatare che tutti si sono cimentati con la storia contemporanea nel senso sopra indicato, dunque hanno fatto oggetto della propria riflessione il proprio presente. Per comprendere il significato dei loro testi nel momento in cui sono stati prodotti sono necessarie tre cose. Innanzitutto, indagare la situazione degli autori o del gruppo cui essi appartengono; in questo modo assumono plausibilità le riflessioni sulle motivazioni personali degli autori. In secondo luogo, fare emergere le ripercussioni collegate al cambiamento degli equilibri di potere nell’ambiente sociale degli autori; in tal modo potrebbe venire alla luce la causa scribendi e dunque anche ciò che li ha spinti a influenzare la situazione politico-sociale del tempo attraverso le loro opere storiografiche.

Inevitabilmente, da ciò scaturisce il terzo aspetto da tener presente, ovvero la questione dei possibili destinatari dei testi. Nel complesso, la produzione storiografica potrebbe dunque intendersi come comunicazione che in determinate condizioni politiche persegue uno scopo politico specifico. I testi „vivevano nello spazio della contesa politica nel quale la storia poteva avere un ruolo come argomento“, e perciò „la costruzione del ricordo era una dimensione contesa, soggetta alla pressione di attori politici e sociali che volevano affermare il proprio punto di vista“.[9]

La composizione dell’„Ystoria“ dell’abate Alessandro di Telese può essere datata quasi esattamente ai mesi intorno al volgere dell’anno 1135/1136.[10] A quel tempo il suo monastero si trovava in una situazione assai delicata. Telese sorgeva nel territorio del conte Rainolfo di Caiazzo: in che misura quest’ultimo e i suoi antenati siano stati benefattori – se non addirittura i fondatori – del monastero, è difficile a dirsi a causa delle gravi lacune documentarie, ma ammettere perlomeno un qualche sostegno da parte del conte rientra nella logica dei rapporti. Assieme al principe di Capua, Rainolfo faceva parte del gruppo dei più decisi avversari di Ruggero II. Quando Alessandro scrive la sua storia, essi erano stati sconfitti già due volte da Ruggero, tuttavia il conte Rainulfo e il principe si erano ritirati a Napoli rendendo così del tutto imprevedibile l’esito dei combattimenti.

La descrizione di Rainulfo nell’„Ystoria“ è sorprendentemente ambivalente e tutt’altro che negativa come ci si aspetterebbe in un’opera dedicata alle gesta di re Ruggero;[11] piuttosto, gli studiosi hanno più volte richiamato l’attenzione sulla rappresentazione nel complesso positiva che del conte fa Alessandro.[12] Ciò potrebbe attribuirsi a una forma di riguardo da parte dell’abate di Telese nei confronti della moglie di Rainulfo, Matilde, sorella di re Ruggero.[13] Eppure pare anche possibile che Alessandro, con la sua „Ystoria“ dedicata al re, volesse operare da mediatore con il conte: nei punti nevralgici della narrazione egli infatti giustifica ripetutamente le azioni di Rainulfo e, viceversa, mette in bocca al re parole di perdono.[14] Verso la fine della „Ystoria“, in uno dei suoi noti racconti onirici, Alessandro riporta anche come re Ruggero avrebbe potuto giustiziare il conte di Caiazzo e il principe di Capua dopo la loro sottomissione, ma si astenne dal farlo e risparmiò loro la vita in virtù della sua pietas.[15] Dal momento che Alessandro intendeva consegnare la sua „Ystoria“ al re verosimilmente nel contesto temporale della capitolazione di Napoli da lui prevista,[16] il racconto del sogno può interpretarsi come un’esplicita esortazione alle pietas regia. A prima vista, tale funzione della „Ystoria“ pare contraddire l’unico passaggio del testo in cui Alessandro si pronuncia in merito ai suoi stessi rapporti con Rainulfo e gli rimprovera di aver depredato il monastero di tutti i suoi tesori e di aver sottratto all’altare i „divina vasa“ di metallo prezioso.

Tuttavia, questo cenno alla rapacità del conte serve all’abate per motivare la sua richiesta di aiuto a Ruggero II. In questo modo Alessandro prende le distanze, in maniera ostentata, dal conte ribelle. Ma, come suggeriscono ulteriori elementi del ritratto di Rainulfo presenti nell’„Ystoria“, il rapporto tra il monastero e il conte potrebbe essere stato più complesso, e non è da escludere che all’inizio del conflitto con il re i monaci abbiano sostenuto Rainulfo anche materialmente: comunque non era proprio il caso di ricordarlo, visti gli sviluppi sfavorevoli al conte.

La rappresentazione che Alessandro propone del conte come ladro poco timorato di Dio è quindi chiaramente situazionale e soddisfa la funzione, facilmente riconoscibile, di dimostrare la fedeltà regia del monastero e del suo abate nella sua „Ystoria“, dedicata al nuovo re e signore di Telese. Vi era una ragione per tutto ciò, e cioè il fatto che il rapporto tra Alessandro e il re non era così stretto come di solito si presume: ciò è dimostrato dalle circostanze delle associazioni di preghiera con cui il re e suo figlio, nel 1134 e 1135 – ogni volta a seguito di vittoriose imprese contro il conte Rainulfo –, si erano congiunti al monastero.[17] Dei doni, che solitamente in queste occasioni venivano elargiti alla comunità monastica, Alessandro non riferisce, ma solo di promesse del re di volerne fare in futuro, e addirittura della necessità di dover far presenti al re tali promesse.[18] All’epoca della composizione della „Ystoria“, la relazione tra il monastero e il suo nuovo signore erano dunque non ancora soddisfacenti. In tale contesto diviene comprensibile anche l’esplicita richiesta di Alessandro di un sostegno per il suo monastero, come contropartita per la stesura della sua opera storica, che egli formulò nella dedica al re.[19] Alessandro voleva quindi indirizzare il favore regio verso il suo monastero, superando in tal modo le incertezze materiali e di dominio in cui esso era venuto a trovarsi a causa degli scontri tra il conte Rainulfo e Ruggero II. Nel contempo tale proposito spiega il tono parenetico con cui Alessandro racconta le guerre che il re condusse tra il 1127 e il 1135, e che, con l’aiuto di Dio, vinse. La prospettiva di questa analisi del passato e del presente è la precaria condizione di Ruggero come re cristiano nel momento della vittoria. I successi ottenuti lo espongono alla tentazione della superbia, una minaccia tanto per la salvezza della sua anima quanto per i suoi successi terreni.[20]

Lo scopo essenziale della rappresentazione non è legittimare il nuovo potere monarchico, bensì esortare Ruggero II all’umiltà: nella dedica che conclude la sua opera, Alessandro ammonisce il re che la lettura delle proprie gesta dovrebbe rammentargli quanto egli debba tutto ciò che ha ottenuto – la dignità regia e la vittoria sui nemici – solamente a Dio.[21]

L’umiltà è la premessa per l’incoronazione del re anche in cielo, incoronazione che, nel suo celebre racconto di un sogno, Alessandro prefigura come ricompensa per un pio esercizio del potere da parte di Ruggero II.[22] È esattamente in questa accentuazione che il piano dell’opera storica si rivela legato al suo contesto di origine locale: poiché naturalmente il sovrano deve dar prova della propria umiltà anche nel sostenere il monastero di Alessandro a Telese.

Veniamo ora al „Chronicon“ di Falcone di Benevento.[23] Il testo tratta in forma annalistica la storia di Benevento dagli inizi ai primi anni quaranta del XII secolo.[24] Benevento è città pontificia dalla seconda metà dell’XI secolo[25] e questa peculiarità è di fondamentale importanza per la comprensione della storia di Falcone. Il cronista era un esponente del potere papale in città: al più tardi dal 1115 egli fu attivo come scriba sacri palatii, una sorta di notaio personale dei rettori pontifici, e dalla fine dell’anno 1132, in qualità di iudex civitatis, fece parte di quella ristretta cerchia di beneventani che insieme con i rettori governavano la città.[26]

In sostanza, la sua opera si occupa dei seguaci del papa a Benevento, delle loro lotte con i nemici interni ed esterni, ma anche dei conflitti tra loro stessi. Tali conflitti scossero Benevento soprattutto negli anni 1128–1139. Lo scisma, scoppiato nel 1130 con la doppia elezione di Innocenzo II e Anacleto II, a Benevento ebbe conseguenze laceranti. La possibilità di una rapida soluzione delle contese fra le diverse fazioni svanì in seguito allo scisma, dato che ora le parti in conflitto potevano trovare sostegno in uno dei due signori della città, in concorrenza tra loro, e nei rispettivi alleati. Per Anacleto II l’alleato era Ruggero II, per Innocenzo II gli avversari del Sud Italia dello stesso Ruggero e Lotario III.[27] I sostenitori dei due papi rivali si combattevano con successi alterni, pertanto l’obbedienza della città pencolava fra i due pontefici. L’esilio del partito perdente di turno era collegato con la scelta di campo che mutava ogni due o tre anni.[28]

Anche Falcone non fu risparmiato dagli sconvolgimenti della sua città. Con altri beneventani, nei mesi a cavallo fra il 1132 e il 1133 egli sposò apertamente la causa di Innocenzo II, cosa che gli fruttò la nomina a giudice cittadino da parte di uno dei cardinali più fedeli a quel pontefice.[29] Nel 1133 Falcone brandì personalmente la spada in battaglia per impedire la riconquista della città da parte dei seguaci di Anacleto, e alla fine dovette andare in esilio per tre anni allorché gli anacletiani riacquistarono il controllo della città.[30]

Lo scisma si concluse nel 1138 con la morte di papa Anacleto, e molti elementi inducono a ritenere che Falcone abbia concepito e iniziato a comporre la sua storia proprio in quel torno di tempo, quando tali eventi determinarono, anche a Benevento, un mutamento dei rapporti di forza.[31]

La sua scelta di campo nello scisma spiega l’immagine di Ruggero II come tiranno e alleato inaffidabile:[32] nel 1130, questi aveva ricevuto la dignità regia dalle mani di Anacleto. Innocenzo II riconobbe tale elevazione solo quando la sconfitta inflittagli da Ruggero nella battaglia di Galluzzo, nel 1139, e la successiva cattura lo costrinsero a farlo.[33] Ancora la scelta di campo di Falcone spiega perché egli abbia espressamente accolto nella sua opera gli esempi appena menzionati del suo diretto sostegno alla causa di Innocenzo II: in tal modo poteva proporsi al nuovo governo cittadino innocenziano come fidato seguace. La funzione pragmatica del „Chronicon“ non si limitava a ciò. Presumibilmente, il dettagliato resoconto degli eventi di Benevento proposto da Falcone servì anche a informare i rettori di Innocenzo II e dei suoi successori, sulla storia dell’enclave papale e, in particolare, sui conflitti degli ultimi anni.[34] Sebbene nel testo i rettori non siano esplicitamente menzionati come destinatari, Falcone si rivolge al suo lettore come „vestra caritas“ o „vestra paternitas“, cosa che fa pensare a dei destinatari ecclesiastici.[35]

Ciò ben si armonizza col fatto che i rettori provenissero quasi esclusivamente dal collegio cardinalizio o dalla cerchia di suddiaconi romani. Inoltre, Falcone si rivolge ripetutamente a un lettore che evidentemente non ha assistito agli eventi narrati, come suggerisce la formula frequentemente usata: „lector, si adesses“ o „lector, si aspiceres“.[36] Quindi, se un rettore di Innocenzo II o dei suoi legittimi successori leggeva il „Chronicon“, doveva avere l’impressione che, tra i detentori del potere locale, il cronista e iudex Falcone fosse uno dei pochi di cui ci si potesse fidare.

Il terzo testo è il „Liber ad honorem Augusti“ di Pietro da Eboli.[37] L’opera fu composta dopo l’incoronazione di Enrico VI a rex Sicilie nel dicembre del 1194 e prima della morte dell’imperatore il 28 settembre 1197 e, se si presta fede alla celebre miniatura della dedicatio, venne donata dall’autore stesso all’imperatore.[38] Come è noto, si tratta di un codice riccamente corredato di miniature in cui si alternano pagine di testo e di immagini.[39]

La ricerca si è per lo più pronunciata a favore di Palermo come luogo di composizione dell’opera,[40] perché la visione costantemente filosveva e l’altrettanto costante invettiva nei confronti di Tancredi[41] parrebbero richiamare l’orientamento della corte imperiale.[42] Pietro si trasforma così in „,collaborazionista‘ avant-lettre“[43] e la sua opera in „polemica antinormanna“.[44]

Tuttavia, a ben guardare, colpisce lo spazio straordinariamente ampio che nella narrazione della conquista del regnum occupano non tanto le vicende palermitane o siciliane, quanto quelle salernitane.

Ad esempio, alla rappresentazione dell’accoglienza dell’imperatrice Costanza a Salerno e alla sua successiva cattura – spiegata come conseguenza degli scontri avvenuti in città fra seguaci degli Svevi e loro oppositori[45] – sono dedicate oltre una dozzina di pagine illustrate. Purtroppo, proprio l’immagine con le trattative prima della distruzione di Salerno, che Enrico VI ordinò come punizione, occupava uno dei quattro fogli che furono rimossi dal „Liber“ in un momento imprecisato.[46]

In un punto della sua cronaca, Pietro da Eboli, utilizzando la parola „nostri“, disvela la sua appartenenza al partito filosvevo di Salerno.[47] Tale appartenenza suggerisce che la causa scribendi e la finalità narrativa della sua opera possano avere a che fare con gli interessi di quel partito a Salerno.[48] In effetti, la distruzione della città e soprattutto l’imminente redistribuzione della terra nell’ambito della sua ricostruzione, affidata a Diepold von Schweinspeunt,[49] capo dell’esercito di Enrico, aprì la possibilità di cambiamenti nei rapporti di potere locali.

In questa situazione, era ovviamente nell’interesse del partito filosvevo non essere punito per una politica che aveva portato la città dalla parte di Tancredi di cui non era responsabile. Questa costellazione di interessi, che a prima vista pare piuttosto astratta, può cogliersi con maggiore precisione nelle reti dei rapporti personali. Nel „Liber“, come capo del partito antimperiale figura Matteo da Salerno, dapprima notaio (1154), poi vicecancelliere alla corte normanna e infine, nel 1191, elevato a cancellarius del regnum Siciliae da Tancredi. Suo figlio Nicola, dal 1182 arcivescovo di Salerno, nel 1191 ebbe un ruolo centrale nella difesa di Napoli contro Enrico VI, e alla morte del padre, nel 1193, gli successe alla guida del collegio dei familiari a Palermo. Pietro da Eboli attribuiva a Matteo un ruolo determinante nella decisione di Tancredi di cingere la corona;[50] parallelamente, riteneva il figlio Nicola responsabile del fatto che la vedova di Tancredi, Sibilla, si fosse messa alla testa di una cospirazione ai danni di Enrico VI.[51]

Da cosa traeva origine l’ostilità dell’autore nei confronti della famiglia di Matteo? Un’analisi del materiale documentario, soprattutto dell’abbazia di Cava de’ Tirreni,[52] consente di rilevare che tutti i salernitani che nel „Liber“ appaiono sotto una luce favorevole facevano parte di una rete parentale che ruotava attorno alla famiglia Guarna, che fino ai primi anni ottanta del XII sec. aveva occupato la cattedra vescovile e numerosi altri uffici secolari ed ecclesiastici di Salerno. Dopo la morte dell’arcivescovo Romualdo Guarna, nel 1181, l’allora vicecancelliere Matteo aveva tratto profitto dalla sua eminente posizione alla corte di Palermo e aveva assicurato al figlio Nicola l’arcivescovado di Salerno. Da quel momento, gli equilibri di potere cittadini avevano penalizzato le famiglie, fino ad allora influenti, riunite attorno ai Guarna. È nella cornice temporale e politico-sociale di questa rete di poteri e di personaggi che nacque il „Liber ad honorem“, con la sua chiara scelta di campo ostile a Matteo e alla sua clientela. Inoltre, al tempo della stesura del „Liber“, questione scottante era il ritorno di Nicola alla cattedra vescovile di Salerno: questi era stato condotto come prigioniero nel castello tedesco di Trifels in quanto complice della cospirazione contro Enrico VI, ma il papa ne aveva richiesto il rilascio e di conseguenza il suo ritorno a Salerno era imminente.[53]

Accusando Nicola di aver dimenticato la sua religione,[54] Pietro da Eboli ne disconosceva anche l’idoneità alla carica ecclesiastica. Nello scontro per la cattedra arcivescovile, candidato per la formazione filosveva era forse quell’arcidiacono Aldrisius – la cui fede Pietro considerava più pura del fuoco e che, in qualità medico, aveva assistito Enrico VI nella sua malattia durante l’assedio di Napoli[55] – che, fra testo e immagini, figura sei volte nel „Liber“. Questi avrebbe perlomeno potuto apparire particolarmente idoneo al partito cui Pietro apparteneva dal momento che, avendo seguito l’esercito imperiale in esilio, aveva trascorso gli ultimi anni a corte vicino all’imperatore[56] ed era pertanto del tutto estraneo alla cattura e alla consegna dell’imperatrice. Tuttavia a essere eletto vescovo di Salerno non fu Aldrisius bensì Giovanni, anch’egli membro della famiglia dei Princeps[57] e altresì menzionato nel „Liber ad honorem“.[58]

Se riassumiamo quanto detto, sotto la superficie del racconto della conquista del regnum normanno appare evidente la prospettiva narrativa tutta locale del partito salernitano favorevole agli Svevi. Ciò non si giustifica semplicemente con una committenza da parte della corte imperiale. Si offre invece un’altra spiegazione. Il „Liber ad honorem“ attribuisce la responsabilità di ogni sventura occorsa a Enrico VI e a sua moglie nel regnum Siciliae a Matteo da Salerno e a suo figlio Nicola. Questa colpevolizzazione trovava una sua giustificazione nelle lotte intestine che a Salerno opponevano due gruppi di persone, a uno dei quali, quello filo imperiale, apparteneva anche Pietro da Eboli. Con il „Liber“ egli fornisce una precisa interpretazione della storia che discolpa una parte della popolazione di Salerno e nel contempo scredita la figura del precedente arcivescovo. È presumibile che in cambio del dono del prezioso codice all’imperatore, quel gruppo cittadino confidasse in una contropartita: il sostegno dei propri interessi da parte del nuovo sovrano e l’opposizione al ritorno di Nicola alla cattedra vescovile di Salerno.

In conclusione, vorremmo dedicare qualche riflessione a un quarto autore, non meno importante, il cosiddetto Ugo Falcando. Anche in questo caso, interrogarsi sulla causa scribendi risulta a nostro avviso assai proficuo, anche se non possiamo ancora riportare i risultati di un’indagine conclusa, ma solo abbozzare alcune linee già riconoscibili.[59]

Per quanto concerne l’identità di Ugo Falcando, ognuno di noi ha probabilmente il suo punto di vista. Reputiamo piuttosto improbabile che egli possa venire dalla Sicilia,[60] visti i suoi giudizi sprezzanti sull’infedeltà, il tradimento e l’astuzia di praticamente tutte le popolazioni del regnum: siciliani, pugliesi, greci e musulmani.[61] Il fatto che egli sottolineasse l’alta considerazione che Ruggero II, dipinto come sovrano modello, aveva dei francesi,[62] e il suo giudizio sui rappresentanti dell’amministrazione del Regno – giudizio che culminava nello sfogo per cui sarebbe stato meglio che il regnum Siciliae fosse afflitto da conquistatori stranieri piuttosto che saccheggiato da questi banditi indigeni[63] – ci inducono a pensare che si tratti di uno straniero. Molti elementi farebbero propendere per il priore e futuro abate del monastero di St. Denis vicino a Parigi di nome Ugo Fulcaudus; sebbene nulla sia noto dei suoi servizi resi alla corte siciliana, sappiamo che egli scrisse un tractatus che, da quanto afferma Pietro di Blois, a sua volta temporaneamente attivo a Palermo, trattava „de statu aut potius de casu vestro in Sicilia“.[64]

Chiunque egli sia stato, anche il cosiddetto Ugo Falcando scrisse una storia contemporanea dei rivolgimenti di un regno: quando, dopo la morte di re Guglielmo I, il francese Stefano di Perche, su invito della regina, sua cugina, agì da cancelliere e arcivescovo di Palermo dal 1166 al 1168, i precedenti equilibri di potere dell’élite politica presso la corte furono radicalmente sconvolti. Nella cerchia della nobiltà allogena che dall’Europa occidentale o dall’Italia peninsulare giungeva in Sicilia, dominava perlomeno l’incomprensione verso quell’aspetto della monarchia normanna orientato al modello arabo-islamico e il risentimento verso la sua élite di funzionari eunuchi insediata nel palazzo regio, la cui autorità e il cui potere non si fondavano affatto sull’origine aristocratica, né sulla proprietà e sulle ricchezze, ma unicamente sulla sua stretta relazione con il re stesso.[65] Di questa nobiltà d’importazione faceva parte Stefano di Perche e probabilmente anche Ugo Falcando. Non avendo familiarità con le pratiche di governo dei re normanni, Ugo Falcando si sdegna proprio dei suoi aspetti più caratteristici: l’isolamento del re nel palazzo e il monopolio dell’accesso al sovrano riservato a persone dal suo punto di vista sbagliate, vale a dire non selezionate per origine, ma ‚solo‘ agli eunuchi di comprovata esperienza. Per contro, per Ugo non merita alcuna critica la posizione dominante del francese Stefano di Perche, probabilmente non solo perché egli stesso potrebbe aver fatto parte del seguito di Stefano, ma perché, nella sua prospettiva, il cancellierato di un nobile avrebbe ripristinato l’ordine sovvertito: ripetutamente Falcando riferisce di consultazioni che avrebbero preceduto le decisioni di Stefano;[66] l’argomento implicito al suo racconto è che Stefano sarebbe tornato alla pratica di governo di Ruggero II, considerata esemplare, col cui elogio Ugo Falcando apriva la sua narrazione. In modo del tutto coerente, nel suo resoconto egli individuava la causa della caduta e della destituzione del cancelliere nell’invidia dei grandi funzionari, relegati in seconda fila, che attribuivano al francese e al suo entourage la responsabilità della propria esclusione dalla precedente partecipazione al potere e dalle ricchezze ad essa associate. In realtà, il resoconto che Ugo Falcando fa della rivalità interna alle élite di corte è il racconto della sconfitta subita dal suo stesso partito. Tuttavia, la storia di una sconfitta notoriamente richiede strategie narrative speciali, soprattutto quando il narratore stesso appartiene alla parte soccombente.

Riassumiamo brevemente. La questione della causa scribendi consiste in definitiva nello stabilire quale sia lo scopo che le opere storiche perseguono o si propongono di perseguire nel contesto socio-politico in cui vengono concepite. Questa domanda, per così dire, rimette i testi nel loro contesto d’origine e rende riconoscibili le motivazioni che in un determinato momento erano connesse con la messa per iscritto di una certa interpretazione della storia. I risultati sono in estrema sintesi i seguenti: con la sua „Ystoria“ Alessandro di Telese voleva serrare i legami con il re vittorioso, in quanto vertice del nuovo ordine politico, e orientarne il favore verso il suo monastero, la cui posizione era minacciata dall’avvicendamento al potere nella contea di Caiazzo. Dopo la fine dello scisma di Anacleto, Falcone di Benevento mise a disposizione dei rettori innocenziani il suo „Chronicon“ come miniera di informazioni sulle relazioni nella città pontificia, consolidando così la propria posizione personale. Il „Liber ad honorem Augusti“ di Pietro da Eboli trasmise alla corte sveva di Palermo la visione della storia del partito filosvevo di Salerno e dovette rafforzarne la posizione. Nel caso di Ugo Falcando, il quadro è ancora poco chiaro, ma le sue critiche feroci all’amministrazione del regnum normanno e le lodi incondizionate di Stefano di Perche potrebbero aver favorito la memoria del gruppo riunito attorno al cancelliere, il quale si era impegnato per una riforma della corte siciliana sul modello delle monarchie dell’Europa occidentale.

Infine, pare metodologicamente opportuno sottolineare che le motivazioni alla base della redazione di un testo erano senza dubbio molteplici, pertanto potrebbe risultare discutibile identificare un’unica causa scribendi.[67] Tale obiezione è in linea di principio giustificata e, naturalmente, nella maggior parte dei casi non è possibile individuare le cause d’origine di un testo con lo stesso grado di certezza con cui, ad esempio, possiamo farlo per i modelli delle citazioni. In una prospettiva filologica passa in primo piano l’intertestualità, in altre parole la comunicazione tra i testi, che può trovare espressione nella sintassi, nelle relazioni di contenuto, nelle citazioni letterali e negli strumenti retorici. La questione della causa scribendi porta invece, in definitiva, alla comunicazione tra gli uomini. Per quanto siano poi giustificate indagini di natura filologica e di storia della formazione (Bildungsgeschichte), difficilmente esse consentono di comprendere perché un testo sia stato scritto, e d’altro canto non introducono al contesto sociale e politico dell’autore al quale la sua opera è in un modo o nell’altro collegata. Per esempio, la constatazione che nel „Liber ad honorem Augusti“ siano state apportate delle correzioni autografe e che il libro potrebbe quindi non essere stato consegnato alla corte imperiale[68] nulla toglie al fatto che alla produzione della cronaca miniata dovesse comunque associarsi uno specifico intento. Quale fine l’autore perseguisse, come abbiamo detto, non può essere provato con la chiarezza che ci si augurerebbe. Ma la serie di indizi che il testo mette a disposizione per rispondere a tale domanda schiude una dimensione cui l’analisi puramente filologica non consente di accedere. Beninteso, non si tratta di dare la priorità a un singolo metodo, ma di applicare una molteplicità di metodi per rivelare il maggior numero possibile di aspetti della tradizione.

Solo di rado le indagini sulla causa scribendi producono nuovi risultati in materia di storia evenemenziale o sul piano filologico. Il loro contributo di conoscenza si colloca, a nostro avviso, su un livello differente: la causa scribendi può mettere in luce le finalità di un testo nel contesto storico-politico in cui esso nasce secondo le concezioni del suo autore. Certo, anche nel Medioevo le opere storiche non erano rappresentazioni oggettive, ma narrazioni intrise di interessi soggettivi: si tratta di testi per mezzo dei quali i loro autori hanno addotto argomenti e perseguito specifici propositi e obiettivi. Uno degli obiettivi principali fu sempre quello di stabilizzare o, prima ancora, di costruire legami politici a proprio vantaggio. In quest’ottica, scrivere opere storiografiche e dedicarle a personaggi illustri erano pratiche connaturate alla politica e alla comunicazione nel regnum Siciliae prima normanno e poi svevo.


Anmerkung

Gli autori ringraziano sentitamente Francesco Filotico (Università del Salento) per la traduzione del presente contributo.


Über die Autoren

Dr. Markus Krumm

male

Sebastian Brenninger

male

Online erschienen: 2024-11-22
Erschienen im Druck: 2024-11-18

© 2024 bei den Autorinnen und den Autoren, publiziert von De Gruyter.

Dieses Werk ist lizensiert unter einer Creative Commons Namensnennung - Nicht-kommerziell - Keine Bearbeitung 4.0 International Lizenz.

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  13. Motivazioni politiche e contesto sociale
  14. Signori e signorie nella Sicilia normanna
  15. Processi pontifici in partibus. La giurisdizione papale delegata nel XIII secolo: alcuni casi in Puglia
  16. Wofür und auf welche Weise Herzog Magnus II. von Mecklenburg 1487 von Papst Innozenz VIII. die Goldene Rose erhielt
  17. Una spia portoghese e la crociata all’indomani di Lepanto
  18. Die Korrespondenz des Kardinalnepoten Francesco Barberini mit P. Alessandro d’Ales, seinem Agenten am Kaiserhof (1634–1635)
  19. Konkurrenz um das kulturelle Gedächtnis?
  20. Il fascismo recensito
  21. Il rischio dei ‚Giusti‘
  22. „Die Steine zum Sprechen bringen“
  23. L’espansione del quadrante occidentale della Capitale negli anni Cinquanta e il complesso architettonico della Congregazione di Santa Croce oggi Istituto Storico Germanico di Roma
  24. Fantasma totalitario e democrazia blindata
  25. Per un catalogo delle opere di Luigi Nono, con „pochi dati e alcune idee vagabonde sulla diversa natura della ‚tradizione‘ delle opere di Nono in quanto ‚testo‘“ e una cronologia
  26. Forschungsberichte
  27. L’identità dello Stato beneventano
  28. Dall’edizione cartacea alla pubblicazione su piattaforma
  29. Tagungen des Instituts
  30. Administration in Times of Crisis. The Roman Papacy in the Great Western Schism
  31. Apparati, tecniche, oggetti dell’agire diplomatico (secc. XIV–XIX)
  32. Nuove prospettive di ricerca su stato di eccezione e di emergenza. Un dialogo italo-tedesco
  33. (De)Constructing Europe. Tensions of Europeanization
  34. Circolo Medievistico Romano
  35. Circolo Medievistico Romano 2023
  36. Rezensionen
  37. Verzeichnis der Rezensionen
  38. Leitrezensionen
  39. Ist das „Mittelalter“ am Ende?
  40. L’Italia dal Settecento a oggi: un Sonderweg?
  41. 1820 – Eine Weltkrise der politischen Souveränität?
  42. Allgemein, Mittelalter, Frühe Neuzeit, 19.–21. Jahrhundert
  43. Verzeichnis der Rezensentinnen und Rezensenten
  44. Register der in den Rezensionen genannten Autorinnen und Autoren
Downloaded on 27.9.2025 from https://www.degruyterbrill.com/document/doi/10.1515/qufiab-2024-0010/html
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