Abstract
Introducing a new Special section on the material legacies of Italian colonialism, this article takes the moves from the exhibition „Freed Art. Masterpieces Salvaged from the War, 1937–1947“, held in Rome in 2023, in order to highlight the ongoing deficiencies in Italy’s postwar memory of fascist-era spoliations of cultural heritage across Italy and especially in its former colonies. By combining the now established historiography on material culture with the growing field of colonial and post-colonial studies, it aims to show how the analysis of the signifying and re-signifying of colonial objects can prove particularly useful in deciphering the uses, abuses and „adaptive re-uses“ of the past in the broader context of post-1945 Italian history. By integrating the (post)colonial experience into the current debate on the role of cultural heritage in the Italian nation-(re)building process, the study takes an interdisciplinary approach, at the crossroads between history, art history and law, that focuses on different types of material culture (buildings, monuments, frescos, mosaics, plaques, street signs and other objects) from a variety of perspectives, including Ethiopia and Libya as well as Italy and especially its ‚peripheriesʻ.
Nel dicembre 2022, le Scuderie del Quirinale aprivano i loro prestigiosi battenti a una mostra intitolata „L’arte liberata. Capolavori salvati dalla guerra, 1937–1947“, dedicata al salvataggio di opere d’arte d’inestimabile pregio conservate nei musei italiani durante la Seconda guerra mondiale.[1] La mostra illustrava nel dettaglio le imponenti misure di salvaguardia del patrimonio nazionale attuate a partire dal 1937, all’indomani della sanguinosa occupazione dell’Etiopia, attraverso un allestimento capace di emozionare i visitatori attraverso la giustapposizione delle opere a gigantografie o cartografie dell’epoca. Memori del disastro della Prima guerra mondiale, durante la quale gli attacchi aerei avevano portato al danneggiamento o addirittura alla distruzione di diversi monumenti e edifici del nord-est, Venezia in primis,[2] le Soprintendenze e il Ministero dell’educazione nazionale, allora guidato da Giuseppe Bottai, misero in atto un ampio piano di classificazione e messa in sicurezza del patrimonio mobile e immobile in vista della nuova guerra, dichiarata dall’Italia nel giugno del 1940.
Fascista della prima ora, entusiasta sostenitore della colonizzazione dell’Africa orientale e dei provvedimenti antisemiti, nella mostra Bottai e alcuni degli altri dirigenti compromessi con gli aspetti più violenti del regime venivano tratteggiati come degli eroi al pari di quei funzionari che, a rischio della propria vita, si opposero alla dittatura, alla persecuzione razziale e all’occupazione nazista. Esemplare in questo senso è l’esaltazione di figure come quella di Vittorio Moschini, soprintendente alle Gallerie ed alle opere d’arte di Venezia, che si adoperò con ogni mezzo per impadronirsi dei beni artistici di proprietà delle famiglie ebraiche veneziane,[3] equiparato a personalità del calibro di Giorgio Castelfranco, direttore della Galleria di Palazzo Pitti fino alla sua estromissione in seguito alle leggi razziste del 1938 e in seguito fautore di gran parte delle restituzioni di opere d’arte trafugate dalla Germania nazista,[4] o di Fernanda Wittgens, direttrice della Pinacoteca di Brera nonché prima donna alla guida di un museo pubblico di rilievo, condannata al carcere nel 1944 come nemica del fascismo per aver aiutato ad espatriare amici e conoscenti ebrei.[5]
Arte liberata, sì, ma da chi, e soprattutto perché? Nella narrazione proposta dalla mostra non vi è traccia del perché l’Italia fosse in guerra, né da cosa effettivamente dovesse essere liberata, se non dai tedeschi, presentati come invasori sbucati dal nulla, piuttosto che ex alleati dell’asse Roma-Berlino-Tokyo. Non esistono più i fascisti, gli anti-fascisti, la repressione delle libertà politiche e civili, la persecuzione razziale o lo scellerato bellicismo ma solo i (buoni) italiani contro i (cattivi) tedeschi, portando così a compimento il processo di rimozione dei crimini del fascismo inaugurato a partire dall’immediato secondo Dopoguerra.[6] Si tratta infatti di una Liberazione senza fascismo né Resistenza, in cui la dittatura e il disastro bellico vengono del tutto espunti dalla storia del nostro paese per proiettare la falsa immagine di un’Italia del tutto estranea al conflitto e popolata di eroi per caso, italiani e non partigiani.
Estremamente indicativo della quantomeno parziale lettura proposta dalla mostra è anche l’appiattimento sui confini nazionali, tanto più curioso dal momento che l’esposizione prende le mosse proprio nell’anno successivo alla proclamazione dell’impero fascista. Due sono infatti i convitati di pietra più evidenti della mostra. Da un lato abbiamo la questione della confisca dei beni culturali di proprietà ebraica, caldeggiata con ogni mezzo da Bottai già agli inizi del 1939[7] e divenuta sistematica durante la Repubblica Sociale Italiana,[8] che nella mostra sono rappresentati unicamente dal pur centrale caso della biblioteca della comunità ebraica di Roma, confiscata dai nazisti nell’autunno del 1943 assieme alla biblioteca del Collegio Rabbinico Italiano e svanita nel nulla da allora.[9] Per quanto il furto della biblioteca rappresenti senza dubbio uno degli esempi più lampanti di razzie a danno dei beni culturali in Italia, data la grandissima rilevanza storica e culturale della collezione,[10] dal momento che fu effettuato da un’agenzia nazista – molto probabilmente l’ERR, Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg – la sua inclusione non va in alcun modo a scalfire il mito di „italiani brava gente“,[11] proiettando l’erronea impressione che la sottrazione di beni ebraici in Italia sia stata effettuata solo dai nazisti, quando in realtà fu il regime fascista prima e la Repubblica di Salò dopo a privare i cittadini di origine ebraica di ogni loro bene (dagli spazzolini da denti per bambini ai ritratti di famiglia), in totale autonomia anzi a volte perfino in competizione con l’alleato nazista.[12]
L’omissione più significativa, tuttavia, è proprio quella della prospettiva imperiale, dal momento che l’Italia del 1937 era immersa in tutto e per tutto in una dimensione coloniale, in cui l’esaltazione del patrimonio culturale d’oltremare giocò un ruolo tutt’altro che trascurabile nella raison d’être dell’impero fascista.[13] Oltre a rafforzare una presunta continuità del regime con l’antico impero romano, l’enfasi sulla cosiddetta protezione del patrimonio coloniale (che prese le forme di una vera e propria appropriazione) costituì infatti una delle costanti della propaganda di regime.[14] Tale tendenza si rafforzò ulteriormente durante il secondo conflitto mondiale come arma contro gli alleati, come dimostrato dalle campagne stampa sui danni arrecati ai siti archeologici della Cirenaica dall’esercito britannico. Se fu proprio nel 1937 che furono trafugati alcuni dei monumenti simbolo del colonialismo fascista – a cominciare dalla statua raffigurante il Leone di Giuda e dalla stele di Axum,[15] la cui restituzione all’Etiopia ebbe luogo solo dopo ben 32 e 68 anni, rispettivamente, pur essendo prevista dal Trattato di pace del 1947 – l’aspetto che più colpisce è come questo segmento di storia d’Italia sia tutt’ora percepito e esaminato come a se stante, piuttosto che parte integrante della formazione identitaria dell’Italia del secondo Dopoguerra.
L’obiettivo di questa Sezione monografica è quello di reintegrare la prospettiva coloniale e post-coloniale nel più ampio dibattito sul ruolo del patrimonio culturale nel processo di (ri)costruzione della nazione a partire dal 1945. A tal fine, questo Themenschwerpunkt si ripropone di focalizzare l’attenzione sulle potenzialità storiografiche della cultura materiale, campo che negli ultimi decenni ha registrato una notevole espansione – a partire dal cosiddetto material turn[16] – e che si rivela particolarmente proficuo se combinato con filoni di ricerca ormai consolidati, quali gli studi coloniali e post-coloniali.[17] Usare la cultura materiale come lente attraverso la quale esaminare processi storici ad ampio raggio, sia temporale che geografico, può infatti aprire nuove prospettive d’indagine, che attraverso la „biografia degli oggetti“[18] possono far luce sugli usi, gli abusi e i „riusi adattivi“[19] del passato, a cominciare da quello coloniale.
Nell’ultimo decennio, soprattutto grazie all’attivismo di movimenti di rivendicazione sociale e civile quali „Black Lives Matter“, la questione dei monumenti che celebrano il passato coloniale è venuta alla ribalta con prepotenza in diversi paesi.[20] Esemplari sono state la campagna „Rhodes must fall“, lanciata in Sud Africa nel 2015, che si inseriva in un più ampio tentativo di decolonizzare il mondo accademico o, nel contesto italiano, il lancio di vernice rosa sulla statua dedicata a Indro Montanelli – strenuo difensore del colonialismo ‚dal volto umanoʻ nonché del suo ‚matrimonioʻ con una bambina bilena di dodici anni[21] – nonché le azioni di „guerriglia odonomastica“ a Bologna[22] e a Roma, in occasione dell’anniversario della strage di Addis Abeba (Yekatit 12).[23] A queste si aggiungono i recenti lavori di mappatura digitale del patrimonio e della toponomastica coloniali „Viva Zerai!“, lanciato dal collettivo Wu Ming in onore del giovane interprete eritreo Zerai Deres, che nel 1938 venne internato per poi morire in un carcere siciliano dopo aver ferito alcuni astanti che volevano impedirgli di rendere omaggio alla statua del Leone di Giuda,[24] nonché il progetto „Postcolonialitaly.com“, concepito da Markus Wurzer e Daphné Budasz (European University Institute).[25]
Complementare alla sorte dei lasciti coloniali è la questione della mancata restituzione di oggetti sottratti in contesti coloniali o di „colonialità“,[26] che nell’ultimo decennio si è imposta all’attenzione del grande pubblico in diversi paesi europei, Francia e Germania in primis,[27] suscitando reazioni in gran parte avverse in Italia, come dimostrato dal già menzionato caso della stele di Axum o della Venere di Cirene, trasportata in Italia nel 1915 dopo esser stata rinvenuta durante l’occupazione militare della Cirenaica, e restituita solo nel 2008.[28] Si tratta infatti di iniziative tutt’altro che condivise da ampi settori della società italiana, in cui alla generale rimozione del passato coloniale è subentrata prima una riabilitazione e, a partire dagli anni Duemila, una vera e propria esaltazione.[29] Ciò nonostante, importanti progressi istituzionali sono stati compiuti negli ultimi anni, a cominciare dal riallestimento delle collezioni dell’ex Museo Coloniale di Roma all’interno del Museo delle Civiltà,[30] dalla riapertura delle collezioni confluite nell’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO) nonché la creazione, in seno al Comitato Restituzioni del Ministero della Cultura, di un Gruppo di lavoro per lo studio delle tematiche relative alle collezioni coloniali.[31]
I progressi più evidenti, tuttavia, sono stati fatti in campo storiografico, dove a un’ormai solida letteratura sull’architettura, i monumenti e i luoghi del fascismo[32] è andato a sommarsi un numero crescente di studi sulle „memorie di pietra“ del colonialismo italiano, per usare la suggestiva espressione di Valeria Deplano. Partendo dal concetto di difficult heritage applicato non solo al regime fascista ma anche al colonialismo italiano più in generale[33] – concetto la cui problematicità nel contesto italiano è stata acutamente messa in discussione da Hannah Malone[34] – negli ultimi anni si sono fatti strada importanti studi sulla materialità coloniale, a cominciare dall’architettura e dai monumenti.[35] Manca, tuttavia, uno sguardo d’insieme, capace di illustrare quanto lo studio della cultura materiale possa dirci sul processo di significazione e risignificazione del passato attraverso gli oggetti, e in cui l’approccio interdisciplinare si combini ad approfondimenti locali al fine di offrire una panoramica complessiva dell’impero coloniale italiano, dall’Albania al Peloponneso fino al Corno d’Africa.[36]
Le basi per questo volume sono state gettate durante un convegno organizzato dalla sottoscritta per conto dell’Istituto Storico Germanico di Roma e della Max Weber Stiftung e intitolato „The Return of Looted Artefacts since 1945. Post-Fascist and Post-Colonial Restitution in Comparative Perspective“.[37] Tenutosi al Goethe-Institut di Roma nel maggio del 2022, il simposio era incentrato sul tema della restituzione di beni culturali in prospettiva globale a partire dal 1945, e in particolare sull’analisi diacronica dei processi di restituzione di beni trafugati o confiscati ai cittadini di origine ebraica durante il periodo fascista e nazista, da un lato, e di quelli rapinati o rimossi in epoca coloniale, dall’altro. Basandosi sul principio che comparare non significa certo equiparare, tantomeno stabilire astorici parallelismi tra l’Olocausto e le violenze coloniali,[38] l’approccio diacronico si è rivelato particolarmente utile per far luce su alcuni degli aspetti di maggiore rilevanza emersi nei diversi contesti di rielaborazione di un passato ‚scomodoʻ e della giustizia di transizione, quali la questione dell’agency dei gruppi sociali coinvolti o il ruolo del patrimonio nella loro costruzione identitaria.[39]
Durante il convegno è emersa con forza la necessità di concentrarsi sugli aspetti materiali del colonialismo italiano, in particolare, sia perché legato spesso in maniera solo tangente al tema della risemantizzazione dei luoghi del fascismo, come recentemente sottolineato da Giulia Albanese e Lucia Ceci,[40] sia perché simbolo tangibile della volontaria rimozione – quando non di una vera e propria riabilitazione – del periodo coloniale dallo spazio pubblico e dalla storia del nostro paese. Questa Sezione monografica, concepita come un incontro interdisciplinare tra la ricerca storica, le discipline storico-artistiche e gli studi giuridici, si ripropone di interpretare la memoria del colonialismo concentrandosi su diversi tipi di cultura materiale (edifici, monumenti, affreschi, mosaici, lapidi, odonomastica e oggetti) da prospettive incrociate, con particolare attenzione all’Etiopia e alla Libia, oltre che all’Italia e soprattutto alle sue „periferie“, vista l’attenzione già dedicata a Roma in questo contesto.[41] Il volume avrebbe dovuto includere anche un contributo di Uoldelul Chelati Dirar sulle memorie del colonialismo in Eritrea, nonché un’analisi delle rappresentazioni monumentali degli ascari in Italia di Carmen Belmonte, motivo per cui si rimanda ai pregressi studi dell’autore e dell’autrice.[42]
Nel contributo d’apertura, Valeria Deplano offre una panoramica dell’evoluzione del ruolo delle eredità materiali del colonialismo nel processo di formazione della nazione italiana dall’età liberale fino ai giorni nostri. Sottolineando come durante il periodo liberale la monumentalizzazione dell’espansionismo colonialista diventò parte integrante del „fare gli italiani“, l’autrice rileva come questo processo fu sì appoggiato da più parti politiche ma fu quasi sempre accompagnato da contestazioni e dibattiti. Il costante riferimento al passato – l’antica Roma in primis, ma anche l’Egitto o Sparta – che aveva animato la retorica liberale sarebbe poi stato ripreso e amplificato in epoca fascista. Durante la dittatura, all’enfasi alquanto generale sul carattere patriottico delle invasioni coloniali subentrò infatti una strumentalizzazione dei monumenti coloniali finalizzata a presentare il regime come degno erede dell’antica Roma, da un lato, e a dimostrarne la superiorità rispetto ad altri popoli e al suo predecessore liberale, dall’altro.
Nel sottolineare continuità alquanto rivelatorie tra l’età liberale, il fascismo e il secondo Dopoguerra, Deplano contestualizza i tentativi di risignificazione delle memorie materiali del colonialismo nello spazio pubblico dell’Italia repubblicana attraverso l’esempio del monumento a celebrazione dei lavoratori italiani in Africa, progettato negli anni Trenta e eretto negli anni Sessanta a Siracusa.[43] Simbolo di quella formale separazione tra fascismo e colonialismo operata dai primi governi repubblicani senza mai riconoscere il carattere predatorio del colonialismo italiano, anzi edulcorandolo tramite un’enfasi sul lavoro degli italiani „in Africa“, il monumento fu oggetto di diverse critiche dalla sua erezione fino agli anni Ottanta, per poi esser riscoperto a partire dalla fine degli anni Novanta come luogo di celebrazione dei militari caduti „oltremare“ e, più recentemente, di formazioni di estrema destra come Casa Pound.
Arianna Visconti ci offre un ricco excursus dell’evoluzione della legislazione italiana in materia di beni culturali a partire dal XV secolo fino ai giorni nostri, al fine di contestualizzarne l’atteggiamento protezionistico dimostrato in materia di restituzione di oggetti sottratti in epoca coloniale. Ricostruendo l’accidentato percorso che ha condotto alla restituzione della stele di Axum, da un lato, e della Venere di Cirene, dall’altro, Visconti sottolinea come le maggiori difficoltà siano dovute ad alcune disposizioni di diritto pubblico e civile, sia per oggetti di provenienza ‚discutibileʻ entrati a far parte delle collezioni pubbliche che, soprattutto, nel caso di beni in regime di proprietà privata, particolarmente favorevole agli acquirenti „in buona fede“.
Rintracciandone le cause nell’approccio „ancora prevalentemente autoreferenziale e nazionalistico della società italiana al tema del patrimonio culturale“, Visconti non manca di sottolineare anche i fattori storico-culturali – a cominciare dall’imperituro mito degli „italiani brava gente“ e dalla minimizzazione o addirittura dalla rivalutazione positiva dell’impatto del colonialismo italiano – nonché contingenti, come l’instabilità politica in cui versano molti dei paesi richiedenti. Come sottolinea l’autrice, è proprio questa combinazione di pressioni interne ed esterne che ha portato alla ribalta del dibattito pubblico la questione della restituzione dei beni d’epoca coloniale in altri paesi europei, come la Francia o la Germania, mentre come abbiamo visto in Italia le poche restituzioni effettuate finora sono tutt’ora oggetto di aspre critiche e obiezioni. Ciò nonostante, gli ultimi anni hanno visto l’introduzione di alcune novità istituzionali e legislative, in particolare la parziale apertura del 2022 che, nel quadro di una riforma del delitto di importazione illecita, ha esteso l’ambito di tutela al patrimonio di tutti i paesi, aprendo così la strada a un’interpretazione più „solidaristica“ della legislazione nostrana.
Con il saggio di Selena Daly entriamo nel vivo dei casi studio, grazie a un’analisi comparativa di tre opere monumentali a tema coloniale commissionate dal regime fascista in Sicilia: due affreschi di Alfonso Amorelli nella Galleria delle Vittorie di Palermo, un mosaico di Michele e Basilio Cascella alla stazione marittima di Messina, e una serie di affreschi di Gino Morici e Pippo Rizzo per il Palazzo del Governo di Ragusa. Parte di una ben più ampia operazione per fare della Sicilia il centro geografico dell’impero fascista, che animò numerosi interventi sul paesaggio urbano dell’isola, queste opere vengono analizzate da Daly nel contesto della recente storiografia sul difficult heritage del fascismo con particolare attenzione, oltre che alla loro genesi, alla loro ricezione e risignificazione dalla fine degli anni Ottanta fino ai giorni nostri, al fine di far luce sul processo di rielaborazione del passato coloniale nel contesto siciliano.
Dopo la caduta del fascismo nel 1943, nessuna politica coerente fu adottata per la gestione del patrimonio d’epoca fascista, motivo per il quale il destino di queste opere variò notevolmente a secondo della loro ubicazione, del merito artistico e di chi ne era proprietario. Per quel che riguarda il „Mosaico dell’Impero“ di Messina, solo l’immagine di Mussolini venne coperta con dello stucco nell’immediato dopoguerra, per poi essere restaurata alla fine degli anni Novanta al fine di restituire alla fruizione pubblica un’opera giudicata di grande valore estetico, a lungo „vittima“ di un presunto condizionamento „ideologico“. Gli affreschi di Amorelli invece rimasero visibili nella galleria palermitana fino alla sua chiusura, negli anni Settanta, per poi venir lavati via dalla pioggia – ma sono oggi al centro di un progetto di restauro. Nel caso ragusano, infine, gli affreschi furono coperti „per sottrarli al fanatismo degli antifascisti e alle preoccupazioni dei fascisti che vi erano raffigurati“, stando a Leonardo Sciascia, che in seguito divenne un improbabile difensore delle opere, giudicate secondo motivazioni esclusivamente estetiche. Negli ultimi anni, tuttavia, alcuni collettivi di artisti e attivisti hanno riportato l’attenzione sulla problematicità di un approccio puramente storico-artistico a queste opere, risignificandole attraverso mostre temporanee o installazioni che ne contestualizzano i contenuti.
Per certi versi complementare è l’intervento di Gianmarco Mancosu, che si concentra sul processo di risemantizzazione dei lasciti materiali dell’impero fascista a cavallo tra Etiopia, Eritrea e Italia durante il secondo regno di Haile Selassie, e in particolare tra il 1956 e il 1974, anno della caduta dell’imperatore. Attraverso l’esempio delle negoziazioni italo-etiopiche per la restituzione del Leone di Giuda e della stele di Axum e soprattutto dell’operato dell’architetto toscano Arturo Mezzedimi, Mancosu si ripropone di triangolare le sorti dei monumenti e degli edifici legati all’impero con il ruolo giocato dalla comunità italiana nell’Etiopia post-coloniale e le nuove relazioni diplomatiche tra i due paesi, a cominciare dalla questione degli aiuti economici allo sviluppo.
Arrivato in Eritrea nel 1940, dopo la fine del secondo conflitto mondiale Mezzedimi si affermò come uno dei più stretti collaboratori di Selassie, che gli commissionò alcuni edifici di grande prestigio, quali il nuovo municipio di Addis Abeba e l’Africa Hall, sede dell’United Nations Economic Commission for Africa, nonché del primo incontro dell’Organizzazione dell’Unità Africana, nel 1963. Coinvolto anche nel restauro di luoghi e monumenti fascisti, il percorso di Mezzedimi è esemplare della mediazione effettuata da alcuni soggetti (post)coloniali nel risignificare spazi e infrastrutture dell’impero fascista nel contesto delle nuove relazioni politiche ed economiche tra Italia ed Etiopia. Esaltato dalla stampa italiana come esempio dell’operosità italiana, al fine di sottolineare le continuità positive della presenza italiana nel Corno d’Africa, omettendo alcun riferimento alla violenta occupazione coloniale, da parte etiope Mezzedimi venne spesso menzionato per suffragare nuove narrazioni identitarie finalizzate a dipingere l’Etiopia di Selassie come un impero dalla grande carica modernizzatrice, il cui carattere multietnico e multireligioso lo rendeva il leader naturale dell’utopia pan-africana, nascondendone gli aspetti più repressivi.
Il valore di oggetti altamente simbolici è al centro del contributo di Beatrice Falcucci, dedicato alle ‚apparizioniʻ di diverse copie degli occhiali del leader della resistenza anti-italiana in Libia, Omar al-Mukhtar, sulle varie sponde del Mediterraneo, tra Roma, Tripoli e Aleppo. Emblema della sanguinosa „pacificazione“ della Libia da parte dell’Italia fascista, a partire dai primi Trenta gli occhiali furono esposti come trofeo al Museo Coloniale di Roma, dove rimangono tutt’oggi, nonostante le ripetute richieste di restituzione avanzate dalla Libia in età repubblicana. Negli ultimi anni un paio di occhiali appartenenti al ‚martireʻ politico e religioso al-Mukhtar sono tuttavia entrati nella collezione dell’Assaraya Alhamra Museum di Tripoli, mentre un altro paio è comparso in vendita presso un antiquario di Aleppo. Piuttosto che presentare un ostacolo, tuttavia, l’autrice identifica nella questione della non originalità una possibile risorsa finalizzata alla riappropriazione culturale e alla rivendicazione dell’agency del soggetto derubato, a maggior ragione in caso di mancata restituzione.
Oggetto di significazione, stratificazione e risignificazione, gli occhiali sono a loro volta portatori di significati stratificati e mutabili, che ben illustrano l’evoluzione – o, per certi aspetti, l’involuzione – della memoria dell’occupazione coloniale sia in Libia che in Italia. Nel ricostruire le motivazioni addotte nel negarne la restituzione, Falcucci rileva quell’evidente scollamento tra colonialismo e fascismo già sottolineato da Valeria Deplano, ed esemplificato dall’apparente divario tra la presunta „opera civilizzatrice“ dell’Italia e la sua realtà di violenza e oppressione percepito dai funzionari della neonata Repubblica negli anni Quaranta e Cinquanta. Al contempo, a partire dal colpo di stato di Gheddafi del 1969 fino alla guerra civile del 2011, i simboli della lotta per l’indipendenza libica, e in particolare personalità come Suleiman al-Barouni e Omar al-Mukhtar, hanno assunto una valenza sempre maggiore nella costruzione della nazione libica, e sono tutt’oggi contesi da schieramenti politici opposti.
Come ha rilevato Tomaso Montanari, colpisce che „questo impressionante ‚pienoʻ di memoria materiale e oggettiva“ corrisponda ad un sostanziale „,vuotoʻ di memoria viva e soggettiva, anzi ad una sostanziale rimozione collettiva“.[44] Come testimoniano i contributi di questo volume, lo studio della risemantizzazione delle tracce materiali del colonialismo italiano può tuttavia rivelarsi particolarmente utile nel ricostruire il modo in cui fu costruita e coltivata quella „memoria indulgente“ del regime fascista, che, come ha recentemente sottolineato Giulia Albanese, „fu considerata separabile dalla memoria fascista e quindi replicabile e adattabile al nuovo contesto“.[45]
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