Il rischio dei ‚Giusti‘
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Amedeo Osti Guerrazzi
Abstract
The Italian „Righteous Among the Nations“, those non-Jews who saved Jewish lives during the Nazi occupation and officially recognised by the State of Israel, number over seven hundred. According to the most recent historiography, only five of them lost their lives. The essay analyses the risks run by the „Righteous“ by reconstructing the laws passed by the Italian Social Republic between October 1943 and June of the following year, and reconstructing the entire legislative apparatus and the practice of repression against any opponent of Fascism and Nazism. The text then reconstructs the repressive practices of Fascists and Nazis, which often followed neither laws nor precise rules. The central section of the text is dedicated to some examples of individuals, some of them unknown, imprisoned and deported for helping Jews, with particular attention to Fernanda Wittgens, a Milanese intellectual who set up a group to help Jews escape to Switzerland in 1944. Wittgens and her collaborators were discovered by the Fascist police and sentenced to prison. The study reaches the conclusion that there were laws against those who helped Jews, and that in any case, though the practice of persecution was very haphazard and did not follow laws and regulations, anyone assisting Jews ran a very high risk of deportation and death.
Per molti anni, soprattutto all’estero, l’Italia ha goduto di una sorta di pregiudizio positivo per quanto riguarda l’atteggiamento della sua popolazione e delle sue istituzioni durante la Shoah. Il basso numero di ebrei deportati dall’Italia hanno convinto molti storici che il popolo italiano, in generale, ha aiutato gli ebrei.[1] La storiografia più recente ha profondamente modificato questo pregiudizio positivo sugli italiani, e sul fascismo.[2] Tuttavia sull’argomento dei ‚Giusti‘ italiani, e soprattutto su cosa rischiassero effettivamente nell’aiutare un ebreo, la ricerca non ha ancora fatto chiarezza. Per essere dichiarato ‚Giusto‘ dallo Stato di Israele, infatti, una persona deve aver rischiato la propria vita per salvare un ebreo,[3] mentre secondo Liliana Picciotto, in Italia il rischio era molto meno alto. Picciotto scrive:
„È bene ricordare che non ci fu specifico pericolo incombente su chi dava protezione agli ebrei in particolare. Voci, successive alla guerra, di fantomatici proclami che diffidavano la popolazione dall’aiutare ebrei non sono avvalorate da documenti. Malgrado la pesantissima atmosfera di intimidazione generale per chi non si conformava all’ordine costituito veniva arrestato e punito con la deportazione chi faceva parte o era sospettato di far parte di un movimento organizzato, o veniva colto a possedere una radio clandestina o armi. Alcuni dei nostri Giusti sono stati in questo senso doppiamente eroici, furono arrestati e deportati per avere generosamente soccorso degli ebrei nel quadro di una cosciente attività politica. Essi sono Odoardo Focherini, Torquato e Franco Fraccon, Giovanni Palatucci, padre Giuseppe Girotti.“[4]
La stessa autrice, nel suo più recente volume „Salvarsi“, ha scritto molto chiaramente che il rischio, per chi aiutava gli ebrei, era in pratica non esistente.[5]
Lo scopo di questo saggio è di approfondire proprio il tema del rischio corso da chi decideva di andare contro le leggi fasciste, e la prassi repressiva nazista, aiutando gli ebrei in Italia tra il 1943 ed il 1945.
A questo scopo sarà necessario dare una rapida ricostruzione delle leggi italiane riguardo l’aiuto agli ebrei; le leggi italiane sulla repressione dell’antifascismo e di ogni forma di opposizione; le pratiche di repressione naziste in Italia nel periodo dell’occupazione; le ragioni che portavano ad aiutare gli ebrei. Infine saranno riportati alcuni esempi di persone arrestate e deportate per aver aiutato gli ebrei.
Le leggi contro gli ebrei della Repubblica di Mussolini
La questione dei ‚Giusti‘ è particolarmente complessa in quanto l’Italia ha una posizione particolare all’interno dell’Europa occupata. Come scritto da Lutz Klinkhammer, la Repubblica Sociale Italiana di Mussolini è „l’Alleato occupato“, cioè uno stato ufficialmente riconosciuto dal Reich (Rudolph Rahn, nel dicembre del 1943, presentò le sue credenziali di ambasciatore a Mussolini) e nello stesso tempo sottoposto ad un duro regime di occupazione.[6] Abbiamo quindi da una parte le leggi italiane, valide su tutto il territorio della RSI, ma dall’altra la prassi tedesca di occupazione, che in alcune zone era ufficialmente prevalente rispetto alle leggi italiane e, spesso, applicata senza alcun riguardo per la ‚sovranità‘ della Repubblica fascista. In pratica Wehrmacht ed SS facevano tutto ciò che volevano, nonostante le proteste sia delle autorità fasciste, sia dello stesso Mussolini. Un tipico caso di Doppelstaat, dove le leggi esistevano, ma venivano interpretate o addirittura ignorate dalle forze di occupazione.[7]
Come se non bastasse, anche le varie forze di polizia italiane spesso ignoravano le leggi della Repubblica. Nel caos dal quale era nata la RSI, si formò spontaneamente un numero molto alto di gruppi armati, più o meno riconosciuti dalle autorità, estremamente violenti e soprattutto estremamente indisciplinati. Se, sulla carta, esistevano leggi e regolamenti, nella realtà ogni forza armata seguiva una sua prassi persecutoria. Tutto ciò aveva ovviamente conseguenze anche sui ‚Giusti‘ i quali, quando scoperti, potevano essere puniti, ma potevano anche essere ‚perdonati‘, a seconda della polizia che li scopriva.
Ufficialmente, la legislazione anti ebraica vigente nella Repubblica sociale italiana era ancora quella del 1938, con tutte i vari decreti e circolari applicative emanate fino all’estate del 1943. Le leggi italiane escludevano gli ebrei da quasi tutti i posti di lavoro (sia statali che privati, sia subordinati che autonomi), dalla società (a cominciare dalla possibilità di sposare degli ‚ariani‘), dalle forze armate e dal Partito. Dal 1940 erano stati istituiti dei campi di concentramento nei quali furono rinchiusi ebrei stranieri e italiani, questi ultimi però arrestati in quanto soggetti potenzialmente pericolosi. Nel 1942 gli ebrei maschi adulti erano stati costretti ai lavori forzati. Le leggi italiane, però, non prevedevano la ‚marchiatura‘ e la ghettizzazione, così come non era prevista in alcun modo la deportazione verso i campi tedeschi.[8]
Durante i 45 giorni del governo di Badoglio (26 luglio 1943–8 settembre 1943), le leggi contro gli ebrei non furono abrogate, per non ‚irritare‘ ulteriormente l’alleato nazista. Soltanto nel gennaio del 1944, come imposto dall’armistizio con gli Anglo-americani, Badoglio si decise a fare qualcosa per cancellare gli odiosi provvedimenti.[9] Ma questo valeva soltanto per la porzione meridionale della Penisola già liberata. Al Nord, sotto l’occupazione tedesca e sul territorio della RSI, le leggi non furono mai cancellate. La stampa fascista in ottobre ribadì che le leggi del 1938 erano „tornate in vigore“ anche se, come appena detto, non erano mai state ufficialmente abrogate.[10]
Nonostante il riconoscimento ufficiale della RSI da parte del Reich, i primi provvedimenti contro gli ebrei furono presi dai nazisti, che fecero capire immediatamente chi comandava nell’Italia centro settentrionale. Le prime deportazioni avvennero da Cuneo, dove gli ebrei in fuga dalla Francia meridionale furono rastrellati e deportati a cura di un reparto di SS. In questo caso, gli ebrei di nazionalità italiana furono si arrestati, ma non deportati. Le SS si limitarono a deportare gli ebrei francesi e di altre nazionalità di loro competenza, rilasciando gli italiani.[11] Da Trieste, invece, furono deportati anche ebrei di nazionalità italiana, in quanto la città faceva parte della Zona d’Operazioni del Litorale Adriatico, direttamente amministrata dai tedeschi. La svolta arrivò nei giorni tra il 16 e il 18 ottobre 1943, quando Theodor Dannecker, inviato da Himmler a Roma, arrestò e deportò oltre 1000 ebrei. In questo caso, nonostante il totale disprezzo per le leggi vigenti in Italia e per la sovranità della RSI, Dannecker fece delle distinzioni. Gli arrestati durante la Judenaktion del 16 ottobre erano stati circa 1250, dei quali più di 200 rilasciati in quanto ‚misti‘ o battezzati, per i quali si era mosso il Vaticano. Soltanto dopo questo controllo, durato due giorni, il 18 ottobre 1022 vittime furono caricate su un treno che arrivò ad Auschwitz il 23 successivo. Secondo Kertzer, fu per non irritare il Vaticano che i misti e i battezzati furono rilasciati,[12] non certo per rispetto delle leggi italiane.
Dannecker continuò le sue razzie muovendosi verso Nord, continuando ad ignorare la sovranità della RSI per la quale, ufficialmente, gli ebrei erano cittadini italiani, perseguitati e discriminati, ma le cui vite erano ancora sacre. Soltanto con la partenza di Dannecker, nel dicembre del 1943, le razzie si fermarono.
Nel frattempo, però, anche la RSI aveva cominciato a inasprire la propria politica anti ebraica. Nell’autunno del 1943 alcune federazioni fasciste avevano richiesto a Mussolini di aprire campi di concentramento per gli ebrei o, comunque, di inasprire la persecuzione.[13] Il 14 novembre 1943 si aprì il primo e unico congresso nazionale del Partito Fascista Repubblicano. In questa riunione venne approvata per acclamazione la cosiddetta Carta di Verona, una specie di costituzione della Repubblica, scritta da Mussolini, suddivisa in 18 punti. Il punto 7 diceva: „Gli ebrei sono stranieri. Durante questa guerra essi appartengono a nazionalità nemica.“[14] Per quanto la Carta non avesse un valore di legge, aveva comunque un significato politico enorme. In quanto nemici, gli ebrei perdevano ogni diritto, ed ogni cittadino rispettoso della Repubblica aveva il dovere politico e morale di considerarli, appunto, nemici.
Nel dicembre 1943 fu il turno del Ministro degli interni, Guido Buffarini Guidi, che emanò tre circolari riguardanti gli ebrei. La prima, del 30 novembre 1943, imponeva ai prefetti di arrestare gli ebrei e rinchiuderli in appositi campi di concentramento. La seconda, del 10 dicembre, escludeva dall’arresto gli ultra settantenni e i membri di matrimonio misto. La terza, di pochi giorni successiva, precisava che le esclusioni erano soltanto temporanee. Si trattava, ovviamente, di circolari di polizia, e non di leggi. Però la prima, quella del 30 novembre, venne pubblicata dai giornali e dalla radio, forse su iniziativa del ministro Mezzasoma (Ministro della propaganda), rendendo quindi pubblico il fatto che tutti gli ebrei dovevano essere rinchiusi in campi di concentramento. Queste furono le norme che regolavano le leggi conto gli ebrei, a cui si aggiunsero altre riguardanti il sequestro dei loro averi.[15]
Teoricamente, fino a dicembre, le leggi italiane prevedevano soltanto l’arresto e la reclusione degli ebrei ‚puri‘ fino ai settanta anni, mentre escludevano i membri di famiglie ‚miste‘. Non erano previste punizioni o sanzioni contro chi aiutava gli ebrei. Tuttavia chiunque credesse nella legittimità della RSI non poteva ignorare che l’articolo 7 della Carta di Verona proclamava gli ebrei nemici, e che l’Ordine di polizia nr. 5 ne imponeva l’arresto e la detenzione. Il 21 giugno 1944 venne pubblicato il Decreto legislativo del duce nr. 352, che puniva con la reclusione chiunque aiutasse persone „sottoposte a vigilanza“, anche se non specificava quali tipi di persone. L’articolo 1 del suddetto decreto diceva: „Chiunque tiene intelligenza con prigionieri di guerra o con internati civili, onde facilitarne la fuga dai luoghi ove sono sottoposti alla vigilanza dell’autorità, è punito con la morte. Se tiene intelligenza con detti prigionieri o internati, allo scopo di averne o dar notizie, senza il permesso dell’autorità, è punito con l’ergastolo.“[16] Il decreto non parlava esplicitamente di chi aiutasse gli ebrei, tuttavia almeno in un caso, come vedremo, fu applicato a dei ‚Giusti‘.
Molto più esplicite erano invece le leggi contro gli oppositori politici, i renitenti alla leva o i partigiani. Per i renitenti, dall’aprile 1944, era prevista la pena di morte, così come per i partigiani catturati armi alla mano. Per gli oppositori politici era prevista la galera o la deportazione. Ad esempio dopo gli scioperi del marzo del 1944, migliaia di operai furono deportati in Germania, su richiesta tedesca, ma arrestati dalle autorità fasciste.[17] Anche per i familiari dei renitenti e dei partigiani era previsto l’arresto e la reclusione.[18] Nei documenti delle forze armate fasciste gli episodi di rappresaglia nei confronti della popolazione civile sono innumerevoli, così il numero delle „persone fermate“, della cui sorte nulla sappiamo.[19] In sintesi i partigiani venivano fucilati, così come i renitenti alla leva; chi collaborava con la Resistenza in altre maniere (ad esempio le ‚staffette‘ partigiane, le ragazze utilizzate come porta ordini), o chi forniva cibo e rifugio, veniva arrestato e deportato in Germania. Chi era considerato colpevole di reati politici, come lo sciopero, veniva ugualmente deportato in Germania. Per quanto riguarda la competenza dei tribunali, chi si macchiava del reato di „intelligenza con prigionieri di guerra ed internati civili e loro favoreggiamento“, secondo il Decreto legislativo del duce del 21 giugno 1944, veniva giudicato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Chi invece disertava, era renitente alla leva o apparteneva ad una ‚banda‘ (i partigiani) veniva giudicato da un tribunale militare.[20]
Un decreto di Mussolini (9 luglio 1944, nr. 4), prevedeva la fucilazione sul posto di chiunque fosse stato trovato in possesso illegale di armi. Anche chi scontava una pena in un carcere italiano rischiava la deportazione in Germania come lavoratore coatto, per un accordo stipulato tra il Ministero della giustizia con ‚l’Autorità germanica‘, secondo il quale le Militärkommandanturen avevano il diritto di selezionare nelle carceri gli uomini o le donne che ritenevano atti al lavoro.[21] Era quindi molto facile finire in un rastrellamento ed essere fucilato per rappresaglia oppure arrestato e consegnato ai tedeschi per essere in seguito deportato in Germania o, peggio, ad Auschwitz.[22] Dopo ogni attentato a un fascista o a un soldato tedesco, i prigionieri politici (o ebrei), potevano finire al muro pur non avendo alcun rapporto con l’attentato stesso. I casi di fucilazione di coloro che la stampa fascista indicava come i ‚mandanti morali‘ degli attentati sono numerosissimi. I primi casi avvennero già nell’autunno del 1943, con le stragi di Brescia (13 novembre) e Ferrara (14 novembre), dove oppositori politici furono uccisi come rappresaglia per la morte di un fascista. A Ferrara, tra l’altro, furono uccisi quattro ebrei che, come le altre vittime, nulla avevano a che fare con l’attentato.
Il caso più clamoroso fu il massacro delle Fosse Ardeatine, dove (il 24 marzo 1944) 335 persone furono fucilate per vendicare l’attentato subito da un reparto della polizia a via Rasella, tra le quali più di settanta ebrei. Chiunque finiva in galera, per qualsiasi motivo, rischiava o la morte o la deportazione in Germania. E questo rischio lo correva anche chiunque fosse stato arrestato per aver aiutato degli ebrei.
Bisogna anche aggiungere che, date le condizioni della guerra civile e dell’occupazione tedesca, praticamente ogni maschio adulto era in condizione di pericolo. Finire in una retata della polizia poteva significare l’invio al lavoro obbligatorio, in Italia o in Germania. Due casi abbastanza noti sono le retate avvenute a Roma nel dicembre 1943, e a Milano nel marzo del 1944, quando centinaia di giovani furono presi a caso e inviati al lavoro coatto.[23]
Gli apparati repressivi e l’applicazione delle leggi
Il rischio di finire arrestati per aver avuto in qualche modo a che fare con ebrei era piuttosto alto. Il sistema repressivo della RSI, seppure caotico, era estremamente efficiente. La RSI aveva a sua disposizione un numero imprecisato di polizie e di gruppi armati semi-autonomi che lavoravano indipendentemente uno dall’altro, impegnati nella repressione di qualsiasi forma di dissenso. Nelle città operava la Polizia repubblicana, la Guardia nazionale repubblicana, con i suoi UPI (Uffici politici investigativi), vari reparti speciali (passati alla storia con il nome generico di ‚bande di polizia‘), e gli uffici politici di quasi tutti i reparti dell’Esercito (le divisioni di fanteria, l’Aeronautica e la Marina). Fuori dalle città operavano sia l’Esercito con i suoi reparti specializzati nella controguerriglia (riuniti nel Co. Gu., comando controguerriglia), le unità della GNR e le numerose ‚legioni‘ autonome (come la cosiddetta ‚Sicherai‘, nella zona di Pavia o la ‚Legione autonoma Ettore Muti‘, in Piemonte e Lombardia). Sulle montagne al confine con la Svizzera operavano la Guardia repubblicana di finanza e la GNR di frontiera. Da luglio 1944 cominciarono anche le loro operazioni le ‚Brigate nere‘, il corpo armato del Partito fascista repubblicano. Per dare un esempio del caos amministrativo, basti dire che solo a Milano operavano quasi venti corpi di polizia.[24] I fascisti, in generale, erano inoltre estremamente irritati nei riguardi del clero. I rapporti della polizia e della GNR sono pieni di lamenti per l’atteggiamento ‚passivo‘ o addirittura ‚ostile‘ di preti e vescovi. Le autorità della RSI sapevano inoltre che moltissimi istituti religiosi ospitavano antifascisti, renitenti alla leva ed ebrei. Non furono pochi i prelati uccisi nel corso di operazioni antiguerriglia, e non furono pochi anche i conventi sottoposti a perquisizioni da parte della polizia fascista.
La prassi tedesca della repressione era altrettanto radicale di quella fascista. I primi proclami delle forze armate tedesche, del settembre 1943, prevedevano la pena di morte per un notevole numero di reati, tra i quali quello di possedere armi.[25] In seguito le forze armate tedesche operarono secondo il cosiddetto „Merkblatt 69/1“, una direttiva per la lotta contro i partigiani emanata in URSS nel novembre del 1942. „L’uccisione di civili, – scrive Klinkhammer – anche di donne, ragazze e bambini, era in queste ‚direttive‘ espressamente contemplata. Al numero 84 della direttiva si diceva che di norma i partigiani catturati dopo un breve interrogatorio dovevano essere fucilati sul posto.“[26]
Nell’ottobre del 1944, il Feldmaresciallo Kesselring organizzò una grande operazione anti ribelli, denominata „Settimana di lotta contro le bande“. Complessivamente la „Settimana“ ottenne i seguenti risultati: in operazioni su larga scala, 1539 partigiani uccisi; 1248 sospetti catturati; 1973 inviati nei campi di lavoro. In operazioni minori: 531 partigiani uccisi; 868 prigionieri; 1101 sospetti catturati; 907 inviati nei campi di lavoro.[27] Complessivamente, dall’Italia furono quasi 24 000 i deportati per motivi politici, e circa 30 000 le vittime civili di stragi.[28]
All’interno delle città la repressione era affidata alla SiPo-SD, il cui comandante era Wilhelm Harster. Seppure con pochi uomini, circa 1500 complessivamente, i comandi locali (denominati Außenkommandos), erano estremamente efficienti. Oltre a lavorare in stretto contatto con la Polizia repubblicana, le SS potevano disporre di una rete molto estesa di informatori (i cosiddetti V-Männer), e su gruppi di collaborazionisti, alle volte alle loro dirette dipendenze.[29] La Gestapo poteva inoltre contare sulle denunce anonime di migliaia di italiani, ansiosi di veder ‚sparire‘ antifascisti, ebrei, nemici personali. Tanto esteso era il fenomeno della delazione anonima che già nell’autunno del 1943 il cardinale Schuster (vescovo di Milano), emanò un decreto di condanna di questo odioso fenomeno.[30]
Nei riguardi degli ebrei, da gennaio 1944, la responsabilità della persecuzione venne affidata ad Harster e al suo Judenreferent, Friedrich Bosshammer. Non furono più organizzate razzie in maniera autonoma, ma gli arresti furono affidati agli italiani i quali, dal febbraio 1944, consegnarono le vittime ai tedeschi trasferendoli al campo di concentramento di Fossoli (fino a luglio 1944), e poi a quello di Bolzano.[31] In pratica la „questione ebraica“, a partire da questo periodo, venne presa in mano dai nazisti, con gli italiani nel mero ruolo di esecutori degli arresti. Anche le leggi riguardanti gli ebrei divennero, nella prassi, quelle tedesche. L’Ordine di polizia nr. 5 emanato da Buffarini, infatti, non prevedeva la consegna ai nazisti, ma a seguito di una probabile trattativa tra i vertici della RSI e delle autorità di polizia tedesche sul territorio italiano, l’ordine di Buffarini venne facilmente ignorato e gli ebrei italiani e stranieri cominciarono il loro triste viaggio verso Auschwitz.[32]
Anche sul delicato tema dei ‚misti‘ la legge italiana venne spesso ignorata, anche se non sempre. Abbiamo visto come il 16 ottobre 1943 i ‚misti‘ fossero stati rilasciati. L’Ordine di polizia escludeva l’arresto dei membri ebrei delle famiglie ‚miste‘, ribadita da una successiva circolare, sempre di Buffarini Guidi, del 7 marzo 1944.[33] Secondo Alessandro Minerbi, fino al febbraio del 1944 i ‚misti‘ furono rilasciati, ma successivamente furono invece arrestati e deportati.[34]
Il 16 ottobre 1944, il capo della Polizia Montagna dispose che i nati da matrimonio misto, considerati ebrei dalla legge italiana, andavano inviati nei campi di concentramento. I coniugi ebrei di matrimonio misto continuavano ad essere esclusi dall’internamento ma, comunque, segnalava il capo della Polizia fascista: „sta di fatto, però, che, salvo poche eccezioni, da parte delle autorità tedesche viene proceduto al fermo ed all’invio in campi di concentramento in Germania o in campi siti in Italia ma esclusivamente sotto il controllo delle Autorità militari germaniche [ovvero prima Fossoli poi Bolzano e Trieste] di tutti gli ebrei compresi gli ammalati ed i vecchi oltre i settanta anni, nonché gli appartenenti alle famiglie miste“.[35] Un esempio di questi casi si evince da un breve messaggio del questore di Modena al Ministero dell’Interno, che parla di Mario Castelnuovo. Nato a Roma nel 1897, Castelnuovo era finito nel campo di Fossoli il 17 febbraio 1944, e „come altri ebrei misti, si attendono disposizioni dalle competenti autorità Germaniche, per l’eventuale liberazione“.[36]
Il 24 aprile, a Torino, la cattolica Teresa Chiorino scrisse disperata al Capo della provincia perché „due signori“ con documenti delle SS avevano arrestato il marito, ebreo, tale Rossi.[37] Un mese dopo un’altra cattolica, Antonietta Vietti, scrisse sempre al Capo della provincia per lamentare l’arresto del marito, Carlo Cingoli, „perché di razza ebraica“, da parte di poliziotti tedeschi. La signora Vietti rimarcava, nella sua lettera, che l’arresto era in aperto contrasto con le disposizioni italiane.[38] Trasmettendo queste lettere al Ministero dell’Interno, il capo della Polizia della RSI non poteva che sottolineare il fatto che: „gli arresti di ebrei misti continuano a verificarsi in questa provincia e la polizia Tedesca non sembra uniformarsi ai provvedimenti razziali del Governo italiano“.[39]
Raffaele Jaffe, un professore di Asti, famoso per essere stato il fondatore della squadra di calcio del Casale, venne arrestato nel febbraio del 1944. Dopo pochi giorni la prefettura di Alessandria lo trasferì a Fossoli, nonostante fosse sposato con una „ariana“, fosse battezzato e avesse due figlie, come lui cattoliche. Il questore, su sollecitazione della moglie, aveva richiesto che fosse rilasciato. Il prefetto aveva quindi scritto al comando italiano di Fossoli per chiederne il rilascio ma, come si legge in una lettera del prefetto stesso: „La direzione predetta ha ora informato che, per disposizione del Comando SS di quel campo, l’ebreo in parola non può essere liberato.“ Tuttavia, siccome la deportazione era contraria alle leggi italiane, il prefetto aveva scritto anche al Ministero dell’Interno, ma senza successo.[40] Jaffe fu deportato ad Auschwitz nell’agosto successivo, da dove non fece ritorno.
A Roma, invece, il caso di Casimiro Frank si concluse in maniera diversa. Frank era un ebreo di Varsavia trasferitosi in Italia nel 1912 dove era diventato libero docente a „La Sapienza“ di Roma. Nel febbraio 1944 il commissario Raffaele Alianello, ufficiale di collegamento tra la Questura romana e via Tasso (sede della Gestapo), scrisse al questore Pietro Caruso che: „Alla Polizia Germanica è risultato che l’ebreo originario polacco ora cittadino italiano Prof. Frank Casimiro, detenuto a Regina Coeli, nel reparto tedesco, è coniugato con donna ariana. Trattandosi di famiglia mista, la Polizia Tedesca non ha fatto luogo al trasferimento del Frank in Germania, e lo ha passato nel reparto italiano di Regina Coeli.“[41] Trattandosi di elemento infido, i tedeschi richiesero al questore Pietro Caruso di trasferirlo comunque in un campo di concentramento italiano. Caruso predispose per il trasferimento a Villa Oliveto, un vecchio campo di internamento per ebrei ormai in disuso, ma Frank non partì mai. Il 22 marzo 1944 risultava ancora all’interno del carcere romano, ma non venne inserito nella lista dei fucilandi delle Fosse Ardeatine.[42]
Questo rapido accenno ai ‚misti‘ serve unicamente a segnalare come, in realtà, le leggi italiane venissero completamente ignorate dai tedeschi dal 1944, anche se ci potevano essere delle eccezioni. Non esisteva un criterio unico e chiaro. Era il regno del più totale arbitrio nel quale i comandanti degli Außenkommandos avevano l’ultima parola.
Le motivazioni per aiutare gli ebrei
I „Giusti tra le nazioni“ italiani, riconosciuti dallo Yad Vashem, sono 734.[43] Di questi, secondo Liliana Picciotto, solo cinque furono deportati e morirono nei campi di concentramento nazisti. Per capire anche quali furono i rischi a cui si esposero, bisogna capire le motivazioni delle loro azioni.
La prima, e più evidente, motivazione fu quella umanitaria. In questo caso furono i religiosi cattolici ad essere in prima fila. Non è il caso di tornare sulla discussa figura di Pio XII e sull’atteggiamento ufficiale della Chiesa cattolica, su cui Kertzer ha recentemente pubblicato un libro estremamente dettagliato.[44] Nonostante la ‚timidezza‘ delle gerarchie vaticane, furono centinaia i preti e le suore coinvolti nel salvataggio degli ebrei, talvolta dietro diretta indicazione di cardinali, come Pietro Boetto di Genova, e Ildefonso Schuster di Milano. La motivazione dei religiosi era prettamente umanitaria,[45] anche se ci furono casi nei quali bambini ebrei furono spinti alla conversione.
Anche privati cittadini aiutarono ebrei in fuga senza altra motivazione che quella di salvare delle vite. Casi come quello della cittadina di Olevano Romano, un piccolo paese fuori Roma dove praticamente l’intera comunità nascose un gruppo di ebrei, è solo uno dei casi evidenti di salvataggio „umanitario“ da parte di persone di qualsiasi livello sociale.[46] Abbiamo però dei casi di aristocratici, come la famiglia Afan de Rivera che, abitando nell’ex Ghetto di Roma, nascose decine di ebrei. Il salvataggio in questo caso fu dovuto unicamente a motivi umanitari, dato che il capo della famiglia, Achille, aveva avuto dei ruoli di un certo rilievo durante il regime fascista.[47]
La seconda motivazione era politica. Molti dei salvatori di ebrei erano attivamente impegnati nella Resistenza, attiva o passiva. Ad esempio Odoardo Focherini aiutava a fuggire ebrei, militari alleati e antifascisti. Lo stesso faceva Torquato Fraccon, organizzatore partigiano, o la famiglia Jemolo, impegnata nella ricostituzione dei partiti politici antifascisti.[48] Non si trattava di motivazioni esclusivamente umanitarie, ma gesti di opposizione politica al fascismo e al nazismo. Molti soldati e ufficiali della Guardia di Finanza, notoriamente un corpo antifascista, aiutarono gli ebrei, assieme ad altre categorie di perseguitati, per evidenti motivi politici.[49]
La terza motivazione era economica. Nascondere un ebreo poteva essere una discreta fonte di guadagno. L’aiuto in cambio di soldi avveniva sia nelle città che nella campagna. Pagare per farsi aiutare rappresentava un rischio altissimo per gli ebrei, che potevano finire i soldi e quindi perdere l’unica motivazione che spingeva ‚l’arianoʻ a nasconderli o a non denunciarli. Ci furono anche casi di ebrei denunciati proprio per questo motivo. Nelle provincie al confine con la Svizzera, i cosiddetti ‚passatoriʻ (contrabbandieri), fecero del contrabbando di esseri umani una notevole fonte di guadagno.[50] Anche in questo caso si trattava di persone altamente inaffidabili, pronte ad abbandonare gli ebrei nelle zone di montagna non appena si presentasse un minimo pericolo, o addirittura a consegnarle ai tedeschi e ai fascisti. Ci furono anche casi di finte organizzazioni di ‚passatori‘ che in realtà avevano l’unico scopo di consegnare le vittime ai loro carnefici.[51]
Ognuna di queste categorie venne trattata in maniera diversa dai nazifascisti.
Casi concreti
Paradossalmente, i primi italiani che ebbero problemi a causa del loro atteggiamento nei confronti di ebrei in fuga non furono dei ‚Giusti‘, ma dei perpetratori.
Il 27 novembre 1943 i vertici del Partito fascista di Roma furono arrestati dal vice capo della Polizia, Travaglio, su sollecitazione dei tedeschi. Una delle motivazioni che portarono all’arresto del Federale Gino Bardi, del capo delle squadre paramilitari, Guglielmo Pollastrini, ed un’altra ventina di camicie nere, fu il saccheggio dei negozi abbandonati dagli ebrei. Durante uno di questi saccheggi furono arrestati sette ebrei che vi si erano nascosti. Questi sventurati furono consegnati ai nazisti e in seguito deportati ad Auschwitz. Alcuni giorni prima, inoltre, un ebreo, Giuseppe Di Porto, era stato arrestato e torturato dai membri della ‚Banda di Palazzo Braschi‘, come era stato soprannominato il Partito dai romani. Il ritrovamento di Giuseppe Di Porto nelle celle della sede della ‚Banda‘, assieme ad altre vittime ‚ariane‘, in condizioni orribili, fu un altro dei capi d’accusa che i fascisti dovettero affrontare quando, nel 1944, furono processati da un tribunale anch’esso fascista. Bardi e Pollastrini furono inviati per alcuni mesi agli arresti in una clinica di Modena, e poi rilasciati, mentre i loro sottoposti finirono prima nel carcere di Castelfranco Emilia, e poi nel Lager di Bolzano.[52]
Il caso di Bardi e Pollastrini è interessante perché è l’unico, a quanto emerso fino ad ora, di fascisti arrestati per aver saccheggiato negozi di ebrei e per averne arrestati illegalmente alcuni. All’epoca dei fatti di Roma, infatti, l’Ordine di polizia nr. 5 non era stato ancora emanato, e comunque i fascisti romani non avevano alcun diritto, in quanto privati cittadini, di arrestare nessuno. Non furono però condannati per altri arresti illegali nei confronti di antifascisti, anch’essi poi consegnati ai nazisti. Si era ancora nell’autunno del 1943, e la RSI non aveva ancora avviato quel processo di radicalizzazione che avrebbe portato alla collaborazione illimitata nella persecuzione antiebraica.
Passando ad alcuni casi concreti di persone arrestate per aver aiutato degli ebrei, gli archivi italiani hanno rivelato alcuni esempi a Roma e nelle provincie di Como e Varese. Roma aveva la più numerosa presenza ebraica in Italia, circa 10 000 persone nel 1938, di cui alcuni erano scappati prima del 16 ottobre, ma anche molti erano arrivati contando sulla protezione del Vaticano, dalle bombe e dalle deportazioni. Anche contando le perdite dovute al 16 ottobre 1943, nella città sacra vi erano ancora alcune migliaia di ebrei nascosti. Dalle provincie di confine era ovviamente necessario passare per scappare in Svizzera, sia dai valichi di frontiera (corrompendo le guardie e con documenti falsi), sia dalle montagne.
A Roma vi sono alcune tracce di ‚Giusti‘, o almeno di persone sospettate di aver aiutato ebrei, nelle carceri. Della prigione nazista di via Tasso, sede dell’Außenkommando Rom, disponiamo di una lista di detenuti realizzata nel luglio del 1944 da un reparto dei servizi segreti del governo monarchico, il centro ‚A‘ del Sim (Servizio informazioni militari), e comprende 210 nomi di arrestati, con accanto la data dell’arresto, la motivazione, la sorte dell’arrestato e il nome del funzionario che aveva effettuato l’arresto.[53] Le categorie sono sette: comunisti, partigiani, ebrei, prigionieri di guerra, criminali comuni (in genere mercato nero), soldati tedeschi e fascisti. I partigiani e gli antifascisti, cioè persone che avevano, ad esempio, diffuso propaganda antitedesca, sono la maggioranza, con 78 persone arrestate. I comunisti sono la seconda categoria più numerosa, 70 persone che rappresentano esattamente un terzo degli arresti. I criminali comuni sono 35, i prigionieri di guerra sono 7, gli ebrei sono 11. Un solo soldato tedesco risulta in questa lista, così come un solo fascista, che tra l’altro era Armando Testorio, un collaborazionista probabilmente messo in prigione come agente provocatore allo scopo di ottenere informazioni dagli altri prigionieri.
Tra i 70 comunisti, ben 27 risultano rilasciati, ma 10 risultano fucilati. 20 furono mandati a Regina Coeli e uno alla caserma dell’81° reggimento fanteria e quindi poi probabilmente deportato nei campi di concentramento in Germania. 11 furono invece mandati ai lavori forzati in Italia.
Tra i partigiani, 29 risultano liberati e 17 fucilati (tra i quali un generale). Sette furono invece mandati ai lavori forzati e 17 furono mandati a Regina Coeli, per cui anche loro probabilmente furono successivamente deportati nei campi di concentramento in Germania. Tra i 35 arrestati per reati comuni, uno solo risulta fucilato (si ignora per quale motivo), gli altri furono in maggioranza rilasciati (23). Due furono mandati in campo di lavoro, tre consegnati alla Questura italiana e quattro spediti a Regina Coeli.
Tra gli 11 ‚ebrei‘, otto risultano essere arrestati in quanto „di razza ebraica“. Furono tutti mandati a Regina Coeli, e quindi anche loro poi deportati, anche se non tutti risultano nel „Libro della memoria“ di Liliana Picciotto.[54] Per quanto riguarda gli altri tre arrestati, si tratta di ‚ariani‘, dei quali due sono classificati come „organizzatori ebrei“ ed uno come „fabbricatore di documenti falsi per ebrei“. Probabilmente, quindi, persone che avevano cercato di aiutare in qualche modo la fuga o la clandestinità degli ebrei nascosti a Roma. Tutti e tre furono comunque rilasciati, non sappiamo se perché ritenuti innocenti, o perché l’aver aiutato degli ebrei non era considerato un caso così grave da far deportare gli accusati.
Un altro documento parla di Luigi Tedesco, segretario della questura di Pescara, che fu arrestato e trasferito a Regina Coeli per „favoreggiamento verso il nemico e per non aver osservato il divieto di frequentare ebrei“.[55] Frase abbastanza strana, dato che non esisteva alcun „divieto di frequentare ebrei“. Molto probabilmente, quindi, Luigi Tedesco aveva cercato di aiutare degli ebrei.[56]
Un altro caso evidente di ‚Giusti‘ non arrestati, e men che mai deportati, è quello relativo alle due irruzioni compiute dalla polizia fascista in due grandi istituti religiosi: il pontificio collegio Russicum e la basilica di San Paolo Fuori le Mura. Le irruzioni avvennero nel dicembre (la prima), e in marzo 1944 (la seconda). In entrambi questi grandi edifici i fascisti fecero irruzione scoprendo decine di militari alla macchia, antifascisti ed ebrei. Tutti i fuggiaschi furono arrestati e successivamente deportati. Non risultano però arrestati i religiosi che avevano palesemente contravvenuto alle leggi della Repubblica sociale.[57] Alcuni ebrei arrestati furono rilasciati grazie al commissario Angelo De Fiore, un funzionario di polizia poi riconosciuto come ‚Giusto fra le nazioni‘. Gli altri, che non poterono essere aiutati, furono deportati ad Auschwitz.[58]
Roma era sicuramente una città con una situazione molto particolare. L’ambasciatore tedesco, von Weizsäcker, fece pubblicare un comunicato congiunto con il Vaticano, il 30 ottobre 1943, secondo il quale gli edifici religiosi sarebbero stati considerati zona extra territoriale, e quindi rispettati dalle truppe tedesche.[59] Per questo motivo le uniche incursioni furono fatte dalla polizia italiana, mentre le SS, almeno ufficialmente, non parteciparono. Migliaia di ebrei trovarono rifugio nei conventi, in istituti e case religiose. Soltanto nella zona attorno all’ex Ghetto, almeno tre edifici, in pieno centro e sotto gli occhi della polizia e dei tedeschi, nascondevano ebrei.[60] Lo stesso maresciallo Graziani, ministro della Difesa della RSI, aveva messo le figlie negli edifici del complesso della basilica di San Giovanni in Laterano. Che parrocchie e conventi nascondessero antifascisti ed ebrei non era un segreto per nessuno, eppure nessun religioso fu arrestato, o almeno non ne risulta nessuno allo stato delle ricerche. Nazisti e fascisti, se si eccettuano le due incursioni al Russicum e a San Paolo, rispettarono l’accordo tra l’ambasciata tedesca e il Vaticano anche perché, come scritto chiaramente dal quotidiano ufficiale „L’Osservatore romano“, dopo l’incursione a San Paolo, „Hodie mihi, cras tibi“, ovvero oggi a me domani a te.[61] Un chiaro avvertimento sul fatto che Roma stava per essere liberata, che la guerra stava per finire e che in un futuro, assai vicino, anche nazisti e fascisti avrebbero avuto bisogno dell’aiuto di Santa Romana Chiesa, cosa che poi puntualmente avvenne.
Al Nord la situazione era diversa. La direttrice Milano-Como era la via più sicura, o meno pericolosa, per fuggire in Svizzera. A Milano era possibile occultarsi e soprattutto trovare aiuto.[62] Como era un passaggio non troppo difficile, in quanto alcuni funzionari di polizia erano corrotti o conniventi, mentre la Guardia di Finanza era nota, e denunciata dai fascisti, per aiutare ebrei e militari a fuggire in Svizzera.[63] Per tutti questi motivi l’attenzione della Guardia nazionale repubblicana di frontiera e delle questure di Milano e di Como era particolarmente alta, così come quella del comando tedesco di frontiera, impegnato nell’impedire la fuga degli ebrei.
Un rapporto della GNR di frontiera, relativo al periodo 8 settembre 1943–29 febbraio 1944, segnalava 117 arresti per „favoreggiamento di espatrio clandestino“, e 137 „arresti di ebrei“.[64] I protagonisti della ‚caccia all’ebreo‘ nella provincia furono il questore, Lorenzo Pozzoli, e il comandante della Guardia nazionale repubblicana di frontiera, Italo Mereu.
Alcuni rapporti della polizia fascista raccontano come funzionava la repressione degli espatri clandestini. In un’altra provincia di confine, Varese, nel dicembre del 1943 un poliziotto fascista, Gaddo Jermini, entrò in contatto con Bruno Mazza, il gestore di una trattoria a Brunate. Jermini finse di essere un ebreo molto ricco che voleva scappare in Svizzera. Ovviamente fece anche finta di avere molta paura, ma Mazza lo assicurò dicendo che i controlli dei finanzieri erano inesistenti, perché „trafficavano con il loro pieno consenso“.[65] Jermini cominciò varie trattative con altri personaggi di Brunate per cambiare valuta italiana in franchi svizzeri e oro, in modo da poter essere accolto più facilmente, e per pagare le guide.
Sempre fingendosi ebreo, il poliziotto entrò in contatto con le famiglie Campi e Calò, provenienti da Trieste e anche loro in cerca di un modo di scappare verso la Confederazione. Per accaparrarsene la fiducia, finse con le due famiglie di poterle aiutare anche economicamente. Il piano prevedeva di prendere il battello da Como fino ad Urio. Da qui, dopo una notte passata evidentemente in un posto sicuro, le guide li avrebbero portate al confine. Attraverso tutti questi contatti Jermini riuscì a scoprire tutta la rete: dagli organizzatori, il signor Mazza e sua moglie, alle guide, ai cambiavalute. L’11 dicembre le due famiglie ebraiche salirono sul traghetto assieme ad un altro ‚fuggiasco‘, un ufficiale della milizia che si fingeva un disertore. Una volta saliti l’ufficiale si rivelò e arrestò tutto il gruppo. L’operazione fruttò l’arresto, secondo Jermini, di sei ebrei, trentatré guide, due ‚favoreggiatori‘, 13 mediatori e trafficanti di valuta e tre commercianti.[66] Non sappiamo però cosa successe a Bruno Mazza e agli altri organizzatori della tentata fuga. Mazza non risulta nel „Libro dei deportati“, e non vi sono altre sue tracce.
Ancora a Milano, Giuseppe L. si infiltrò in una organizzazione che organizzava espatrii clandestini di ebrei via Varese. Riuscì a far arrestare tre persone, tutte successivamente deportate in Germania. Una di queste, la signorina Lanella, morì a Bergen Belsen.[67] Non è chiaro se questa organizzazione aiutasse gli ebrei per motivi umanitari o per soldi, dato che chiedeva una cifra non molto alta, 8000 lire, ai fuggiaschi. Dato che i prezzi per la fuga erano in genere molto più alti, è probabile che le 8000 lire fossero per i ‚costi vivi‘ dell’operazione, e non per arricchire i membri dell’organizzazione.
Ovviamente anche lungo il confine l’attenzione delle varie polizie nazifasciste era estremamente vigile. La ‚Cronaca‘ del comando della polizia tedesca di frontiera di Como-Varese registra tre operazioni di arresti di ‚contrabbandieri di ebrei‘, uno il 22, uno a Ponte Tresa il 10 dicembre e uno il 18 dicembre 1943.[68]
Come si è già visto, il clero era sottoposto ad una stretta sorveglianza da parte della polizia, ma non soltanto per il suo atteggiamento nei confronti della politica fascista, ma anche perché erano molti i religiosi che aiutavano gli ebrei (e non solo loro) a passare in Svizzera. Ad esempio un collegio religioso, diretto da Don Luigi Del Re in località La Motta, sul confine tra la provincia di Varese e la Svizzera, era fortemente sospettato di essere un centro molto attivo per il passaggio verso la Confederazione di ex militari e di ebrei. Per questo motivo la Polizia fece numerose incursioni nell’istituto, senza peraltro riuscire mai a sorprendere i rifugiati.[69]
Un lungo rapporto di Pozzoli, del 27 settembre 1944, raccontava come una vasta rete di ‚favoreggiatori‘, formata da preti legati al Partito d’azione, stava aiutando partigiani, rifornendoli di cibo e documenti falsi, ed ebrei a fuggire in Svizzera. A capo degli esponenti del clero era Don Luigi Marnati, rettore dell’Opera Don Guanella, che ospitava ebrei e li riforniva di documenti falsi, oltre a trovargli le guide per scappare in Svizzera.
„Era stato segnalato alcuni mesi or sono che le persone in oggetto si dedicavano all’organizzazione e all’assistenza di bande partigiane, alcune delle quali armate ed all’espatrio di ebrei“ scriveva Pozzoli, che chiese alla Federazione fascista il personale da infiltrare nell’organizzazione.[70] Gli agenti riuscirono a scoprire che Marnati organizzava gli espatrii clandestini e faceva passare lettere tra i rifugiati in Svizzera e i loro parenti rimasti in Italia. L’intero gruppo, formato da sette preti e 11 altre persone, fu arrestato. I preti, grazie all’intervento del vescovo, furono rilasciati, rimessi all’autorità del vescovo stesso e se ne ignora la sorte. Per i laici, il questore proponeva: per quattro di essi la scarcerazione; per altri tre l’invio al lavoro obbligatorio; uno, Zelioli Amilcare, fu consegnato al comando delle SS.
L’atteggiamento del clero comasco rispondeva a delle sollecitazioni da parte della Arcidiocesi di Milano. Erano infatti numerosi gli istituti religiosi che aiutavano la fuga in Svizzera. Uno di questi era l’Istituto Palazzolo, diretto da Madre Donata Castrezzati, che agiva su indicazione del cardinale Schuster. Secondo Dorina Di Vita, una studiosa che ha analizzato l’azione della chiesa lombarda: „L’arresto di alcuni ebrei a Como, che rivelarono l’indirizzo del loro precedente rifugio e fecero nomi, provocò l’arresto della Madre e la fine dell’opera. Quando i tedeschi effettuarono la perquisizione del Palazzolo, vi erano ancora 17 ebrei. Le suore riuscirono a farne nascondere alcuni fra le macerie, altri nell’ascensore fermato tra i due piani. Il giorno dopo le SS tornarono e scoprirono solo tre donne ebree. Ne portarono via due, lasciarono la terza perché moribonda.“[71] Madre Donata fu arrestata e inviata nel carcere di San Vittore, assieme a due consorelle. L’intervento del cardinale Schuster permise la loro scarcerazione ma non la loro liberazione, dato che furono internate a Grumello Del Monte, fino alla Liberazione.[72]
Un altro religioso arrestato a Milano per motivi politici, ma anche per aver aiutato ebrei, fu Don Paolo Liggeri. Nell’istituto religioso Casa Cardinal Ferrari, di cui era direttore, Don Liggeri nascondeva antifascisti ed ebrei, questi ultimi inviati dal cardinale Schuster e dal cardinal Fossati. Il rifugio venne scoperto il 24 marzo 1944, a causa di una donna ebrea che usciva „troppo spesso“ dalla casa.[73] Don Liggeri venne arrestato e, dopo una sosta a San Vittore, deportato a Mauthausen, Gusen e Dachau.[74]
Un altro caso di irruzione in una casa religiosa, finita con l’arresto dei preti, avvenne a Torino, quando l’UPI della GNR irruppe nella Casa dei Sacramentini, vicino a Moncalieri, nel luglio del 1944. Quattro sacerdoti, tra i quali il segretario del vescovo di Torino, furono arrestati e portati nella caserma di via Asti, noto luogo di tortura.[75]
Si poteva finire nelle mani della polizia anche per la denuncia di un privato cittadino, come successe alla signorina Aldrighetti. Questa ragazza nascondeva in casa Pio Castelfranco, un industriale ebreo suo ex datore di lavoro. Giuseppina B., saputo che Castelfranco era nascosto presso la Aldrighetti, tentò una estorsione chiedendo una somma di denaro in cambio del silenzio. Non sappiamo come sia finita la storia. Pio Castelfranco non fu deportato, ed anche la Aldrighetti nel dopoguerra poté denunciare la B., segno che, molto probabilmente, non fu né arrestata né deportata.[76] Diversa invece fu la sorte di Linda Pini. Di questa donna, nata nel 1907, sappiamo soltanto che fu arrestata dalla ‚Muti‘ il 17 marzo 1944 „con l’accusa di favoreggiamento di ebrei“. Fu consegnata all’Ufficio politico investigativo della GNR di Milano e successivamente inviata a Fossoli. Di lei si interessò Carlo Silvestri, ma non conosciamo l’esito del suo intervento.[77]
Il ‚caso Wittgens‘ è sicuramente quello di cui esistono più notizie. Fernanda Wittgens è stato un importante personaggio della cultura milanese. Fu la prima donna a dirigere l’Accademia di Belle Arti di Brera, l’istituto artistico più importante d’Italia. Nel 1943–1944 organizzò una rete di salvataggio per gli ebrei, che forniva documenti falsi, rifugi e la fuga verso la Svizzera. La sua rete era costituita sia da religiosi che da laici. Come tutte le organizzazioni di questo tipo, come l’OSCAR,[78] un’altra struttura clandestina cattolica, era a forte rischio di infiltrazione da parte della polizia, cosa che avvenne puntualmente. Due agenti della questura di Milano, Egidio Calesella, e Vito D’Ippolito, forse casualmente, scoprirono che tale Ettore Pagani era il nome falso di H. N.[79], un ebreo tedesco residente a Milano dal 1936. H. N. era in seguito emigrato in Svizzera ma nel dicembre 1943 era rientrato a Milano. Qui era stato aiutato da Fernanda Wittgens,[80] che gli aveva trovato un alloggio nella casa delle sorelle Ambrogina e Maria Rosa Tresoldi. I due agenti, sotto la direzione di Pozzoli, avevano arrestato H. N., arrivando prima dei tedeschi, che stavano anche loro indagando sull’organizzazione. In un rapporto di Pozzoli, del 1944, si dice che:
„Sul conto delle persone citate si interessò quindi anche il locale comando Germanico SS, senza peraltro accertare elementi concreti di responsabilità nei loro riguardi. Ad ogni buon fine questo ufficio provvedeva al fermo del Pagani Ettore, il quale, nel corso di uno stringente interrogatorio, finiva col confessare la sua vera identità in quella di N. H. di …, nato a …, di razza ebraica, residente a Milano dal 1936 in … Egli dichiarava di essere fuggito in Svizzera con la sua famiglia in seguito allo sbandamento dell’8 settembre e di essere rientrato in Italia alcuni mesi dopo, insoddisfatto del trattamento fattogli in quella nazione e perché richiamato dalla nostalgia che aveva per il suolo italiano dove aveva vissuto la sua adolescenza.“[81]
H. N. fu utilizzato come infiltrato nell’organizzazione. Accettò di presentare alla Wittgens i due poliziotti, sotto le mentite spoglie di due evasi in fuga, che furono a loro volta ospitati dalle Tresoldi, che gli fornirono anche i documenti falsi per fuggire in Svizzera. Nel luglio 1944 fu quindi organizzata la fuga dei due ‚evasi‘. Calesella, D’Ippolito, H. N. e un altro fuggiasco, tale Renzovich, si imbarcarono su un battello che dalle sponde italiane del lago di Como doveva portarli in Svizzera, dove però furono fermati dalla polizia.
L’operazione continuò con numerosi arresti, come raccontato nel rapporto di Pozzoli:
„Parallelamente a questa azione il Calesella ed il H. N. prendevano contatto con alcuni elementi ebrei di Milano, che si nascondevano molto abilmente, e si dedicavano al commercio di preziosi e alla falsificazione di passaporti e documenti in genere. Dopo aver realizzato le prove materiali dei loro traffici loschi, si procedeva all’arresto degli ebrei Chopman Natan di Salomone, apolide polacco, di Joheli Jehuda, turco e di Bindefeld Mayer, apolide tedesco al quale è stata sequestrata una carta d’identità del Comune di Milano con apposta la sua fotografia ed intestata al nome di Bissdone Mario di Giovanni da Foggia. Il Bindefeld ha dichiarato che tale documento gli era stato procurato dal Chopman dietro compenso di L. 2000. Il Chopman da parte sua ha affermato che il vero falsificatore del documento era stato certo Figehut, ebreo fuggito in Svizzera. Si ha ragione di ritenere però che le asserzioni del Chopman siano false e che lui stesso si dedicasse a tali attività con la complicità di qualche elemento del Comune di Milano, com’ebbe a dichiarare in precedenza al Calesella conosciuto dal Chopman come renitente agli obblighi di leva. Prova ne sia che egli già aveva promesso al Calesella e al N. di procurare loro le carte d’identità false dietro il versamento di L. 5000 complessivamente. Agli ebrei arrestati sono state sequestrate L. 28000, un anello di oro con brillanti, una spilla con brillante e un marengo d’oro svizzero.“
Alla fine dell’operazione erano state arrestate 19 persone, tra queste la professoressa Wittgens. Alcuni di loro furono portati davanti al Tribunale speciale, e processati.
Il capo d’accusa recitava:
„Imputati del reato p. e p. dall’art. 4 del D. L. 21/6/1944 nr. 352, per avere, in correità tra di loro, nonché con Maccia avv. Guglielmo, Zannocchio Giuseppe e Longoni Giovanni (attualmente in Germania per servizio del lavoro) aiutato ad eludere le investigazioni delle Autorità ed a sottrarsi ai provvedimenti di questa delle persone che dovevano essere sottoposte a vigilanza ed internamento come N. H. ed altri ebrei. Ciò dopo il 21 giugno 1944/XXII° in Milano e Brienne.
Nonché di correità nei reati p. e p. dagli art. 246, 247 e 265 C. P. per avere, in correità, svolta attività tale da arrecare nocumento agli interessi nazionali col cercare di favorire l’espatrio oltre che degli ebrei, di disertori come … e … ed altri; e ciò in seguito ad intelligenza col nemico e lo straniero, in epoca dal Novembre 1943 al 14/7/1944 in Milano e Brienne.“[82]
Ma la cosa importante è che le sorelle Tresoldi e Fernanda Wittgens furono condannate per lo specifico reato di aver aiutato degli ebrei. Al processo, infatti le Tresoldi si difesero dicendo che non sapevano che il H. N. fosse ebreo, e che la legge della RSI (Decreto legislativo del duce del 21 giugno 1944, nr. 352) puniva genericamente chi avesse dato aiuto a persone sottoposte a vigilanza. Insomma avevano sì aiutato un fuggiasco, ma non sapevano perché H. N. fosse in fuga. Ma la corte respinse queste eccezioni affermando che i tratti somatici del H. N. „indubbiamente ne tradivano la nazionalità ebraica“. Inoltre, e questa è forse la parte più importante della sentenza:
„Ma il Collegio giudicante, prendendo le mosse dalla ordinanza di polizia 4 dicembre 1943 [sic] (comunicata anche per la stampa), secondo cui tutti indistintamente gli ebrei, residenti nel territorio nazionale, dovevano essere inviati in appositi campi di concentramento, ritiene che già dal dicembre 1943 il N. aveva acquistato la condizione giuridica di internato civile, anche se nei suoi confronti non era intervenuto il provvedimento coattivo che quella condizione di diritto avesse tramutata in condizione di fatto, e ritiene ancora che tale condizione in cui, da quella epoca, si trovavano tutti gli ebrei era nota ai cittadini italiani.
Ciò premesso, il Collegio giudicante ritiene che non possa una eventuale omissione degli organi di polizia immutare la condizione giuridica di una categoria di persone disposta con norma di rigoroso ordine pubblico e che, perciò, debba la dizione letterale della legge comprendere anche le persone che, non ancora sottoposte al provvedimento di internamento, di esso siano, però, suscettibili in via generica e astratta.
Da tali considerazioni il Collegio trae la conseguenza che, nella specie, si debba affermare la colpevolezza delle quattro imputate, in ordine al primo reato.“
Secondo il Tribunale, quindi, l’Ordine di polizia nr. 5 era una legge, e chiunque avesse dato aiuto agli ebrei diventava loro complice e un criminale. Vennero invece assolte dall’accusa di aver favorito altre categorie di persone. Insomma furono condannate soltanto per aver dato aiuto ad un ebreo.
Il risultato fu che Fernanda Wittgens fu condannata a quattro anni di reclusione, le sorelle Tresoldi a tre anni.
Per quanto riguarda altri arrestati durante l’operazione l’avvocato Guglielmo Maccia, Giuseppe Zanocco, Giovanni Longoni e Vito d’Ippolito, furono messi a disposizione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Furono poi ‚prelevatiʻ dalle autorità germaniche per „l’invio al lavoro in Germania“ prima del processo[83] assieme ai due ebrei Bindefeld e Joeli. Non sappiamo la sorte degli ‚arianiʻ, che non compaiono nel „Libro dei deportati“, mentre i due ebrei finirono ad Auschwitz.[84]
Conclusioni
Anche se pochi, gli esempi di casi concreti ricostruiti in questo saggio permettono di fare alcune ipotesi. Chiunque aiutasse un ebreo si esponeva e si metteva in pericolo. Anche se non esistevano leggi che indicassero specificatamente nell’aiuto agli ebrei un crimine, il Tribunale speciale fascista, nel ‚caso Wittgensʻ, interpretò i decreti e le circolari di polizia come una legge che rendeva l’aiuto agli ebrei un reato penale. Il ‚caso Wittgensʻ è però l’unico esempio, a mia conoscenza, di condanne nei confronti di persone che avevano soltanto aiutato degli ebrei. Altre persone che avevano aiutato ebrei furono arrestate e consegnate ai tedeschi, ma la documentazione rimasta non consente di capire se furono deportate per questo motivo, oppure perché erano antifasciste che, tra le altre cose, aiutavano gli ebrei. L’antifascista Odoardo Focherini, ad esempio, fu deportato e morì in un campo di concentramento anche perché aiutava gli ebrei, mentre Fernanda Wittgens, pur arrestata e incarcerata, non subì la stessa sorte. Inoltre decine di preti e suore, pur sorpresi nell’atto di nascondere degli ebrei, non furono né arrestati, né deportati. Il caso di Don Marnati è altrettanto ambiguo. I preti furono rilasciati, mentre i laici furono arrestati e almeno uno consegnato ai tedeschi, ma anche in questo esempio, non sappiamo se la persona consegnata al comando delle SS sia stata perseguitata come salvatore di ebrei, oppure perché la sua organizzazione aiutava, assieme agli ebrei, partigiani e militari in fuga.
Mentre un partigiano rischiava di essere fucilato sul posto, e un operaio che scioperasse rischiava la deportazione ad Auschwitz, un prete sorpreso a nascondere degli ebrei non rischiava praticamente nulla e un laico poteva finire nelle mani delle SS dalle quali, spesso, non si usciva se non per finire in un Lager in Germania, ma poteva anche essere rilasciato. Ciò non toglie nulla all’eroismo di queste persone. Bisogna sempre tener conto dell’atmosfera di terrore sempre presente durante i quasi due anni di occupazione tedesca, e della fittissima rete di polizie e di delatori che avvolgeva l’intera società italiana. L’opinione pubblica era terrorizzata dalle frequenti stragi di civili, dalle impiccagioni pubbliche, dall’esposizione dei cadaveri, dai bandi draconiani delle forze di occupazione. Chi finiva nelle mani della polizia italiana o delle SS, non aveva idea di cosa lo attendesse, e molto probabilmente riteneva probabile una condanna assai severa. Una denuncia, anche per infrazioni minori, poteva portare alla deportazione e alla morte per malattia, maltrattamenti, denutrizione e super lavoro.
In conclusione aiutare gli ebrei era, teoricamente, molto rischioso, ma sicuramente molto meno che partecipare attivamente alla Resistenza.
La domanda successiva è: per quale motivo si rischiava così poco quando si aiutava un ebreo in fuga?
Non è semplicissimo rispondere. Prima di tutto perché in realtà, allo stato della ricerca, non è possibile dire con sicurezza quanto si rischiava. La grande maggioranza di ciò che sappiamo dei ‚Giustiʻ lo abbiamo acquisito dalle testimonianze degli ebrei salvati. Non abbiamo quindi notizie di chi tentò di salvare degli ebrei, e non ci riuscì. Chi finì ad Auschwitz non poté poi raccontare le vicende di chi aveva tentato di salvarlo, e che forse concluse anch’egli tragicamente la sua vita.
In secondo luogo, pur avendo ricostruito il quadro giuridico della persecuzione dei ‚Giustiʻ, non sappiamo se venisse applicato. Non sappiamo se ogni salvatore veniva effettivamente mandato davanti al Tribunale speciale o invece veniva giudicato da un tribunale penale ordinario, o se non veniva giudicato affatto e spedito direttamente in Germania. Non sappiamo neanche quanti ‚favoreggiatoriʻ di renitenti e di antifascisti siano stati condannati anche per aver aiutato degli ebrei. Il quadro complessivo della repressione, legale o illegale, è troppo caotico per poter trarre delle conclusioni.
È effettiva però la diversa rigidità delle istituzioni fasciste quando si trattava di giudicare i ‚Giustiʻ. Anche nel ‚caso Wittgensʻ, ad esempio, nonostante che il decreto del duce prevedesse la morte, le tre imputate furono condannate alla reclusione. In moltissimi casi, abbiamo visto, altre persone furono semplicemente rilasciate. Come spiegare questa mitezza?
Per prima cosa bisogna tener conto che moltissimi dei ‚Giustiʻ sorpresi dalla polizia italiana erano dei religiosi, verso i quali la RSI, e i tedeschi, avevano un grandissimo rispetto. In secondo luogo bisogna tener conto che gli ebrei, nel territorio della RSI erano pochissimi, meno di 30 000 dopo le deportazioni. Questo vuol dire che non rappresentavano un pericolo reale per i fascisti, e che comunque il fenomeno dei ‚Giustiʻ era talmente piccolo da essere considerato irrisorio. Inoltre, per quanto radicalizzati, i questori e i prefetti della RSI erano molto più preoccupati per i partigiani e per la Resistenza (attiva o passiva), questa sì un fenomeno di massa. I responsabili dell’ordine pubblico, evidentemente, sapevano distinguere tra un problema effettivo, da stroncare senza alcuna pietà, e un nemico ideologico, che in realtà non rappresentava alcuna minaccia reale. Infine, a partire dal febbraio 1944, il ‚problema ebraicoʻ, con tutti i suoi annessi, era stato affidato ai nazisti, che si erano incaricati della ‚soluzione finaleʻ anche in Italia.
Per concludere queste conclusioni. Seppure in questo saggio siano state fornite alcune indicazioni, appare evidente che soltanto dopo studi negli archivi locali molto più approfonditi si potranno proporre delle ipotesi più solide.
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- L’Italia dal Settecento a oggi: un Sonderweg?
- 1820 – Eine Weltkrise der politischen Souveränität?
- Allgemein, Mittelalter, Frühe Neuzeit, 19.–21. Jahrhundert
- Verzeichnis der Rezensentinnen und Rezensenten
- Register der in den Rezensionen genannten Autorinnen und Autoren
Articles in the same Issue
- Titelseiten
- Jahresbericht des DHI Rom 2023
- Themenschwerpunkt The Material Legacies of Italian Colonialism/I lasciti materiali del colonialismo italiano herausgegeben von Bianca Gaudenzi
- Cultura materiale e memorie del colonialismo italiano dal secondo dopoguerra a oggi
- Memorie di pietra del colonialismo italiano
- Legislazione e prassi italiane in materia di beni culturali tra protezionismo e universalismo
- Monumental Artworks as Difficult Heritage
- „Italia si, Italia no“. Materialità transimperiali e soggetti (post)coloniali tra Italia ed Etiopia (1956–1974)
- Una ‚reliquia colonialeʻ
- Artikel
- „Actus Beneventus in filicissimus palatio“?
- Annone di Colonia, Enrico IV e Anselmo III da Rho
- Motivazioni politiche e contesto sociale
- Signori e signorie nella Sicilia normanna
- Processi pontifici in partibus. La giurisdizione papale delegata nel XIII secolo: alcuni casi in Puglia
- Wofür und auf welche Weise Herzog Magnus II. von Mecklenburg 1487 von Papst Innozenz VIII. die Goldene Rose erhielt
- Una spia portoghese e la crociata all’indomani di Lepanto
- Die Korrespondenz des Kardinalnepoten Francesco Barberini mit P. Alessandro d’Ales, seinem Agenten am Kaiserhof (1634–1635)
- Konkurrenz um das kulturelle Gedächtnis?
- Il fascismo recensito
- Il rischio dei ‚Giusti‘
- „Die Steine zum Sprechen bringen“
- L’espansione del quadrante occidentale della Capitale negli anni Cinquanta e il complesso architettonico della Congregazione di Santa Croce oggi Istituto Storico Germanico di Roma
- Fantasma totalitario e democrazia blindata
- Per un catalogo delle opere di Luigi Nono, con „pochi dati e alcune idee vagabonde sulla diversa natura della ‚tradizione‘ delle opere di Nono in quanto ‚testo‘“ e una cronologia
- Forschungsberichte
- L’identità dello Stato beneventano
- Dall’edizione cartacea alla pubblicazione su piattaforma
- Tagungen des Instituts
- Administration in Times of Crisis. The Roman Papacy in the Great Western Schism
- Apparati, tecniche, oggetti dell’agire diplomatico (secc. XIV–XIX)
- Nuove prospettive di ricerca su stato di eccezione e di emergenza. Un dialogo italo-tedesco
- (De)Constructing Europe. Tensions of Europeanization
- Circolo Medievistico Romano
- Circolo Medievistico Romano 2023
- Rezensionen
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