Home L’identità dello Stato beneventano
Article Open Access

L’identità dello Stato beneventano

Riflessioni a margine del volume di Giulia Zornetta
  • Federico Marazzi EMAIL logo
Published/Copyright: November 22, 2024

Abstract

The article offers a short reflection on the state of research on Lombard Southern Italy in light of the recent book by Giulia Zornetta, „Italia meridionale longobarda. Competizione, conflitto e potere politico a Benevento (secoli VIII–IX)“. Starting from a brief survey of the most important publications on this topic between the end of the 19th and the 20th century, it discusses the extent to which and from what perspectives this new study has enriched scholarly debate.

Dopo diversi decenni di stasi, negli ultimi anni hanno ripreso ad apparire opere di sintesi sul Meridione italiano altomedievale, che rappresentano perciò il frutto delle fatiche di una generazione di studiosi completamente nuova, rispetto a quella che si era cimentata in analoghi sforzi nello scorcio finale del XX secolo.

A quest’ultima, che si colloca a un dipresso tra la fine degli anni ʼ60 e gli ʼ80 del 1900, si ascrivono le opere di Nicola Cilento (1914–1988), seguite poi da quelle di Paolo Delogu (1940) e di Huguette Taviani-Carozzi (1938).[1] Esse, a loro volta, si ponevano sulla scia di una stagione di ricerche pubblicate nei primi decenni del XX secolo, che furono davvero le prime a trattare dei secoli dell’Alto Medioevo meridionale in modo attendibile. Nomi come quelli di Ferdinand Hirsch (1843–1915), Michelangelo Schipa (1854–1939), Jules Gay (1867–1935), di René Poupardin (1874–1927), di Karl Voigt (att. 1891–1939) e, infine, di Giuseppe Pochettino (1880–?), hanno prodotto opere grazie alle quali oggi è possibile disporre di un’impalcatura di date, di cronologie, di successioni dinastiche, di analisi politico-istituzionali e geopolitiche senza la quale la ricerca non avrebbe potuto procedere in alcuna direzione.[2]

A fare da ‚pontiereʻ fra quella generazione di studiosi e quella che avrebbe operato nella seconda metà del ʼ900 vi fu – mi si perdoni il gioco di parole – la monumentale produzione di Ernesto Pontieri (1896–1980), all’interno della quale – nella prospettiva che qui ci interessa – spicca lo sforzo di collegare l’analisi dei cambiamenti apportati dalla conquista normanna al retroterra degli equilibri geopolitici della fase precedente.[3] Questa sensibilità si sarebbe un po’ persa, successivamente, a favore di una polarizzazione degli studi sul Mezzogiorno medievale a partire dal momento della conquista normanna, che talora è sembrato descrivessero quasi l’impatto di quel fenomeno all’interno di un territorio privo di precedenti fasi di frequentazione umana. Un atteggiamento, questo, che avrebbe reso meno fecondo di quanto ci si sarebbe potuto immaginare l’impatto delle importantissime ricerche condotte contemporaneamente sull’età longobarda, che in alcuni casi avevano avuto anche il pregio di iniziare a leggere quei secoli non solo alla luce delle fonti scritte, ma anche di quelle materiali. Questa stagione è stata seguita di nuovo da un certo silenzio, rotto principalmente dalla continuità con cui Jean-Marie Martin (1938–2021) ha continuato non solo a produrre ricerca storica di altissimo livello sul Meridione prenormanno, ma anche a portare avanti un’opera indefessa di edizione di fonti, alla base della cui disponibilità credo si possa collocare la fioritura di nuovi studi avvenuta in questi ultimi anni e all’interno della quale si pone anche il libro di Giulia Zornetta di cui qui si tratterà.[4]

L’edizione del „Chronicon Sanctae Sophiae“, del „Registrum Petri Diaconi“, ma anche di repertori come il regesto dei documenti dell’Italia meridionale sino all’anno 900 e dei patti fra Longobardi e Napoletani del IX/X secolo (per citare solo le opere più rilevanti), della cui edizione Martin è stato il responsabile o il coordinatore, hanno oggettivamente reso più facilmente accessibili fondi di capitale importanza e quindi, di conseguenza, anche un approccio rinnovato alle problematiche storiche dell’Alto Medioevo del Sud italiano.[5] Ma non dobbiamo neppure dimenticare che alcune fonti narrative di capitale importanza per queste stesse aree e questi stessi secoli sono state recentemente oggetto di nuove edizioni, soprattutto grazie a Luigi Andrea Berto, un allievo della scuola medievistica veneziana trapiantato negli Stati Uniti, al quale si devono ad esempio i lavori sulla Storia dei Longobardi meridionali di Erchemperto e le Gesta de Vescovi di Napoli, ma anche ricerche importanti sulla presenza islamica sul Meridionale della Penisola, tema che, negli stessi anni, è stato al centro di trattazioni importanti da parte di Marco Di Branco e Kordula Wolf.[6]

Si aggiunga a ciò il lavoro intrapreso per l’edizione dei diplomi principeschi longobardi dell’Italia Meridionale, a cura di Bernhard Zeller dell’Istituto di Ricerca sul Medioevo dell’Accademia Austriaca delle Scienze, condotto in collaborazione con l’Istituto Storico Italiano per il Medioevo, nell’ambito dell’antico progetto del „Codice Diplomatico Longobardo“ avviato da Luigi Schiaparelli e poi proseguito sotto la guida prima di Carlrichard Brühl e poi di Herbert Zielinski.[7]

Al coordinamento scientifico di Jean-Marie Martin si deve anche ascrivere un importante rilancio della ricerca medievistica francese (ma non solo) sulla componente bizantina del Meridione d’Italia ed alle sue intersezioni con quella islamica, approdati all’edizione, fra 2011 e 2017, degli atti dei quattro convegni su „L’héritage byzantin en Italie“, cui ha collaborato un gruppo di studiosi di più giovane generazione, quali Vivien Prigent, Anneliese Nef, Annick Peters-Custot e Aurélie Thomas.

Tornando più specificamente sul terreno della Langobardia Minor, oltre a quello di Giulia Zornetta, non si possono dimenticare i lavori della già ricordata Aurélie Thomas e di Vito Loré.[8] Ma va ricordata in questo contesto anche la imponente produzione libraria di Tomaso Indelli, che ha avuto il merito di rendere disponibili schemi attendibili di histoire evénementielle sui fatti di quei secoli, per diversi dei quali non erano proprio disponibili sintesi di alcun tipo: una fatica troppo spesso considerata, con una certa supponenza, non à la page da parte degli storici del nostro tempo e che invece è stata da lui affrontata con caparbia e umiltà, mai scissa da un impeccabile rigore.[9]

Forse proprio perché sono diventate più (o meglio) accessibili tante fonti scritte di capitale importanza, le opere apparse nei tempi più recenti hanno assunto quasi esclusivamente il carattere di riflessioni a partire da queste ultime, rimanendo molto distanti da un’analisi comparata dei dati prodotti dalla ricerca archeologica che, pur se non ai ritmi che si sarebbero potuti auspicare, sono cresciuti comunque in modo significativo. Per certi versi, insomma, è come se il desiderio di interdisciplinarità espresso in modo così lungimirante da Nicola Cilento all’inizio degli anni ’70, si fosse un po’ ripiegato su se stesso e gli storici della documentazione scritta avessero ripreso a credere pienamente ad una completa autosufficienza del proprio ambito epistemologico. Probabilmente non è davvero così e forse ci troviamo solo di fronte ad un momento in cui si avverte la necessità di riordinare le idee di fronte alla rinnovata disponibilità di dati documentari. Sia come sia, il libro di Giulia Zornetta di cui qui parleremo è sicuramente un’espressione di questo momento e delle caratteristiche che abbiamo appena delineato.

La studiosa si è formata all’interno della scuola medievistica fiorita in questi ultimi decenni fra Padova e Venezia, ed è fortemente probabile che l’interesse più volte palesato da Stefano Gasparri per la Longobardia cosiddetta Minor, attraverso contributi che in merito sono stati a lungo riferimenti imprescindibili (penso al lungo articolo sul ducato e principato di Benevento, incluso nel secondo volume della „Storia del Mezzogiorno“ diretta da Giuseppe Galasso e Rosario Romeo, del 1989),[10] abbia costituito uno degli inneschi principali per l’accensione dell’interesse verso questi territori e abbia tracciato una via, poi originalmente percorsa dall’autrice.

Il suo lavoro, in effetti, si posiziona piuttosto bene nel panorama della bibliografia disponibile, perché una monografia sulla storia di Benevento longobarda fra VIII e IX secolo mancava da molto tempo, dato che la stagione di ricerche degli anni ’60–’80 si era focalizzata piuttosto su Capua e Salerno e i prodotti della letteratura più recente hanno sì spesso toccato Benevento, ma mai in quanto focus esclusivo delle proprie attenzioni, cosa che invece ha costituito l’obbiettivo dichiarato di Zornetta. A dire il vero, faceva parziale eccezione in questo senso la densa monografia pubblicata nel 2011 da Tommaso Indelli su Arechi II, anche se però più delimitata in quanto all’arco cronologico trattato; ma bisogna dire che quel volume non ha ricevuto tutta l’attenzione che invece avrebbe meritato, e quindi la sua visibilità nel dibattito di questi anni non è stata particolarmente pronunciata.

Il lavoro della Zornetta segue una logica narrativa che si dipana su due livelli. Mentre infatti l’indice suggerisce la prevalenza di un fil rouge di carattere prettamente cronologico, l’intento reale che il libro persegue è in realtà piuttosto quello dello studio dell’evoluzione del potere e della sua gestione nel quadro dello stato beneventano. Anzi, Giulia Zornetta dichiara già nelle pagine di apertura che, più precisamente, è l’analisi della conflittualità per la gestione di cariche e risorse che si coglie intorno e all’interno del palatium beneventano a costituire la cartina di tornasole per comprendere chi e come abbia ambito a gestire le leve del potere, come abbia raggiunto o meno il successo e come lo abbia eventualmente difeso dalle insidie dei competitori. Questa, in effetti, oltre ad essere stata una piste de recherche già chiaramente indicata dagli studi di Gasparri sul mondo longobardo in genere, era stata concretamente e magistralmente praticata da Paolo Delogu nel suo insuperato libro del 1980 su Salerno longobarda,[11] nelle cui pagine sono state raccontate in modo affascinante ma assolutamente rigoroso le gesta degli esponenti della turbolenta, e tuttavia spesso inconcludente, aristocrazia cittadina; soprattutto, vi sono state descritte le reciproche sfide che tali personaggi si lanciavano reciprocamente al fine di tastare la capacità di un determinato individuo o clan familiare di primeggiare sulla scena cittadina e di ottenere spazi di contiguità con il potere principesco.

Giustamente, Giulia Zornetta, riconfermando gli orientamenti degli illustri precedenti appena ricordati, dichiara a sua volta come nell’architettura dello Stato beneventano – almeno nel periodo che ella tratta – il ruolo del ‚palazzoʻ sia rimasto centrale, nel senso che le contese per il potere di cui le fonti ci danno menzione siano tutte sostanzialmente da interpretarsi come contese per accaparrarsi il controllo dell’autorità principesca o quanto meno il suo favore, e non tentativi di indebolirne la centralità. La stessa spaccatura nell’unità politica del principato, avvenuta nell’839 dopo la morte di Sicardo, benché approdata alla creazione di un nuovo ed autonomo palatium a Salerno, era in origine una lotta per l’egemonia su quello beneventano.

A partire da questa riflessione, Giulia Zornetta dipana una serie di ragionamenti che s’irradiano ad investigare i due principali ambiti attraverso cui il potere dei principi poteva essere concretamente esercitato. Il primo è quello della gestione delle terre del fiscus e delle risorse che da esso derivavano e l’altro quello del rapporto del potere principesco con gli enti ecclesiastici sia di ambito secolare sia regolare. È, questo, un tema che ultimamente (e, diremmo, opportunamente) è diventato abbastanza ‚di modaʻ ed è stato oggetto di diversi approfondimenti anche in sede congressuale e questo libro ha il pregio di ricondurne i termini all’interno dello specifico contesto beneventano.[12] Il secondo, invece, è ancora oggetto di un dibattito non pienamente sviluppatosi e quindi le pagine che ad esso il libro dedica sono forse quelle che in assoluto appaiono più innovative.

Al primo tema si collega anche quello del concorrere della struttura amministrativa palatina alla gestione del potere. Su questo aspetto, qualche riflessione in più sarebbe stata sicuramente utile per capire meglio se, nella visione di Zornetta, il palatium beneventano abbia costituito solo il luogo di convergenza di carriere ed ambizioni personali, o se – differentemente da altre realtà statuali contemporanee – il ducato/principato beneventano avesse sviluppato la capacità di formare, al proprio interno, una classe di commis di stato, che fosse anche capace di svolgere la funzione – per così dire – di ‚riserva della repubblicaʻ, chiamata in causa per facilitare il superamento di momenti di particolare complessità.

Il fatto che noi abbiamo due personaggi apparentemente provenienti dalla burocrazia palatina e privi di un retroterra familiare particolarmente rilevante, come Grimoaldo IV e Radelchi I, in grado di assurgere alla dignità principesca in circostanze assai delicate, può suggerire l’ipotesi di uno stato longobardo meridionale avviato verso una prospettiva di consolidamento amministrativo sviluppata in rapporto a suggestioni di origine bizantina?[13]

Al secondo tema si connette invece la necessaria riflessione su un altro ‚misteroʻ che si cela nella storia dello Stato beneventano, e cioè quello della vita delle sue istituzioni ecclesiastiche. Zornetta sottolinea come, nella geografia ecclesiastica del ducato beneventano nell’VIII secolo, si registri una rudimentalità persistente della rete episcopale. Anche se il tema è qui solo accennato e meriterà sicuramente ulteriori approfondimenti, è abbastanza chiaro che la resurrezione della sede episcopale beneventana nel terzo quarto del VII secolo non fu seguita da un ripristino della densa rete di episcopati attestati fra Campania, Puglia e Molise in epoca tardoantica. Nel periodo di cui il libro di Zornetta si occupa, le sedi episcopali attive nel territorio beneventano sono veramente poche e sappiamo anche che il loro ripristino sarebbe effettivamente avvenuto solo nel tardo X secolo, dopo la elevazione di Benevento, Capua e Salerno e sedi metropolitiche.

Il fatto che la sede beneventana sia rimasta a lungo, di fatto, l’unica attiva su una giurisdizione territoriale molto ampia è da considerarsi come un fatto casuale o come il frutto di una scelta deliberata dei duchi e poi dei principi? Com’è da interpretare il fatto che dalla fine dell’VIII secolo in poi, i principi inizino a sostenere in modo deciso la sede episcopale beneventana, ma tuttavia senza che le venga ricostituita una rete di diocesi suffraganee? Quale relazione ci fu – se ci fu – tra questa rete episcopale rudimentale e la presenza di enti monastici molto potenti e, di fatto, egemoni almeno su alcuni quadranti del territorio? Su questi temi c’è sicuramente ancora bisogno di riflessioni ulteriori, anche se il libro ha il merito di averli posti di nuovo al centro dell’attenzione.

D’altra parte, il lavoro di Zornetta evidenzia bene che il ducato di Benevento è un territorio nel quale è piuttosto chiaro l’impegno del potere ducale (e poi principesco) a fondare direttamente monasteri o sostenerne indirettamente (ma convintamente) la (ri-)fondazione, come nel caso di Montecassino e San Vincenzo al Volturno. E se inizialmente, accanto alle azioni dei duchi, a questi processi fondativi partecipa anche di una platea più ampia di soggetti appartenenti alla società del ducato, molto precocemente (già intorno alla metà dell’VIII secolo) si avverte un fenomeno di concentrazione delle piccole fondazioni nelle mani di quelle maggiori, sulle quali il potere ducale esercitava un’attenzione non secondaria.

L’interpretazione di questi peculiari meccanismi che caratterizzano la geografia ecclesiastica dello Stato beneventano è ancora un tema su cui c’è molto da lavorare. Ma la celeberrima diatriba esplosa negli anni ’70 dell’VIII secolo per il controllo del monastero vulturnense (e di cui ci danno notizia alcune lettere scritte da Adriano I a Carlo Magno, tramandate dal „Codex Carolinus“) rivela indiscutibilmente che le fondazioni monastiche costituivano un asset importante per il controllo del potere all’interno del territorio beneventano; e l’apparente prudenza mostrata da Carlo Magno nell’addentrarsi personalmente in tali aree ha un sorprendente rovescio della medaglia nell’attenzione che egli dedicò ai fatti interni di questo apparentemente periferico avamposto monastico dell’Italia del Sud.[14] E se Giulia Zornetta prova qualche remora a sposare l’idea che il conflitto all’interno del monastero vulturnense fosse scoppiato in ragione di una contrapposizione fra monaci longobardi e monaci franchi, è però pur vero che le lettere di Adriano I fanno esplicito riferimento al fatto che esisteva una fronda all’interno della comunità, composta da monaci che si qualificavano come ‚longobardiʻ che avversava l’idea che il monastero entrasse in modo esplicito entro l’orbita carolingia (come poi sarebbe accaduto nel 787, come conseguenza dell’unico viaggio di Carlo Magno nel meridione d’Italia); d’altra parte, abbiamo molti indizi del fatto che anche a San Vincenzo, come già a Montecassino, fossero entrati monaci di provenienza transalpina sin dai decenni centrali dell’VIII secolo.

L’epigrafia funeraria altomedievale cassinese, di cui una recentissima edizione ha dato un quadro molto chiaro, dimostra senza ombra di dubbio che, in questi monasteri, i monaci venivano ricordati molto spesso in rapporto alle loro origini,[15] e non può essere considerato un caso il fatto che all’infiltrazione di Franchi in alcune cruciali abbazie del centro-sud, come la stessa Montecassino, Farfa e San Vincenzo all’epoca dello zenit del regno di Carlo Magno, corrisponda la presenza di abati di origine transalpina alla guida delle rispettive comunità. Immaginare che non vi sia stata una lotta per il potere all’interno di quelle che, come Montecassino, si trovavano lungo un delicato confine, e che questa lotta non sia stata generata dall’intento di sottrarne il controllo economico e spirituale al potere beneventano appare francamente un po’ difficile da ammettere.

Possiamo perciò anche non caratterizzare in senso strettamente ‚etnicoʻ la fazione che favoriva l’idea che a San Vincenzo si pregasse per la salute di Carlo Magno e del popolo franco, se questo tranquillizza il lato inclusivo della nostra coscienza contemporanea, ma sicuramente è difficile immaginare che fra quelli che auguravano al re cattiva sorte o che non ne riconoscevano l’autorità vi fossero dei Franchi …

In ogni caso, è chiaro che il controllo dei monasteri in genere e di quelli maggiori in particolare (con i loro patrimoni) abbia costituito una posta in gioco non irrilevante per la definizione degli equilibri del potere nello Stato beneventano. Giustamente Zornetta rievoca una serie di episodi (a suo tempo analizzati già da Willard e Citarella in alcune opere su Montecassino ancora oggi di fondamentale importanza)[16] in cui i principi di Benevento nel corso del IX secolo trattarono le grandi abbazie come ‚cosa propriaʻ, soprattutto in rapporto alla titolarità eminente sui beni che esse possedevano. E, a tal proposito, non può essere neppure dimenticato che, proprio nel testo della „Divisio Ducatus“ dell’849 viene evidenziato che i due monasteri cassinese e vulturnense erano stati espunti da Ludovico II rispetto alle terre da suddividere fra Radelchi di Benevento e Siconolfo e assegnati direttamente alla giurisdizione palatina. Dunque, essi erano posta in gioco di rilevanza decisiva per lo stabilimento di un’egemonia piena sull’Italia meridionale, e il fatto che Carlo e i suoi successori si fossero occupati delle loro faccende interne conferma il profilo politico alto rivestito da queste istituzioni e dai loro reggitori.

La seconda parte del volume si sofferma sulla stagione successiva all’estinzione del lignaggio di Arechi II e sull’analisi dei meccanismi che portarono all’esplosione del principato dopo l’839 e alla lunga guerra civile che oppose Salerno e Benevento su cui, com’è noto, s’innestarono la penetrazione islamica e i tentativi (falliti) di Ludovico II di attrarre il sud nell’orbita dell’Impero occidentale, modificando in maniera decisiva quello che era stato l’orientamento assai più guardingo in tal senso espresso da Carlo Magno.

La ricostruzione di queste vicende all’interno del libro rappresenta un punto di ripartenza di grande utilità per tornare ad analizzare il quadro degli indirizzi politici tardocarolingi nei riguardi dell’Italia del Sud e sulle ambiguità con cui, da un lato, essi vennero formulati e, dall’altro, vennero accolti dai poteri locali, sino al clamoroso episodio dell’arresto di Ludovico II nell’871 da parte del principe beneventano Adelchi. È importante perciò che l’autrice abbia richiamato la rilevanza dell’inserimento della dinastia spoletina all’interno delle faccende beneventano-salernitane del maturo secolo IX, perché poi, nel X, questi legami s’infittiranno ulteriormente e daranno l’esito di incroci dinastici di alto livello all’interno della dinastia principesca capuana e di livello meno eclatante, ma altrettanto importante in una serie di centri di rilevanza più locale, come ad esempio presso la dinastia comitale di Alife.

Il tardo IX secolo è però anche il periodo in cui la stella di Benevento inizia ad appannarsi, in ragione del fatto che il suo spazio vitale viene progressivamente compresso dalla ricomparsa attiva di Bisanzio sul suolo italiano e dalla pressione esercitata sul suo territorio residuo dal Regnum Italiae e dalle sue aristocrazie; ciò mentre Salerno (alla cui parabola politica è dedicata la parte finale del libro) inizia a ritagliarsi quel ruolo sostanzialmente appartato dal punto di vista geopolitico che ne produrrà lo splendido isolamento dei secoli X e XI. Forse, per meglio comprendere il punto di approdo del libro sarebbe stato utile agganciarne la parte finale della narrazione all’evoluzione del ruolo di Capua nel corso del IX secolo, la cui famiglia egemone – com’è noto – avrebbe preso le redini del principato beneventano nella data fortemente suggestiva dell’anno 900, quasi a marcare simbolicamente il passaggio da un’epoca all’altra nella storia della Langobardia Minor.

Per concludere: il libro di Giulia Zornetta s’inserisce pienamente all’interno del rinnovato dibattito sull’Italia meridionale altomedievale, in questo caso eleggendo come prospettiva quella della realtà beneventana. L’analisi delle strutture dello Stato beneventano e, in particolare, delle leve del potere principesco e della sua propagazione sul territorio, rappresentano spunti importanti che quest’opera offre a tale dibattito. Sicuramente ci troviamo di fronte ad un lavoro che non ha temuto di affrontare la complessità dell’analisi del soggetto prescelto. E, in questo senso, il fatto che esso apra alla discussione più problemi di quanti poi non risolva compiutamente non è necessariamente da considerarsi un difetto, poiché rivela non solo una sana attitudine alla prudenza, ma rappresenta plasticamente anche quanto vasti siano ancora gli spazi di approfondimento su un’epoca per la quale la scarsità di fonti induce all’erronea conclusione che non vi sia possibilità di ridiscutere schemi interpretativi consolidati.

La lettura sinottica tra i dati delle fonti scritte e quelli delle fonti materiali è sfruttata per la discussione del progetto di capitale principesca voluto per Benevento da Arechi e Grimoaldo III, ma forse avrebbe potuto essere utilmente richiamata in modo più diretto anche in altre parti dell’opera, come ad esempio quelle dedicate alla struttura dei patrimoni fondiari e alle ripercussioni sull’assetto del territorio ai conflitti interni al principato beneventano nel corso dei decenni centrali del IX secolo.

Vi saranno sicuramente altre occasioni in futuro di incontrare i frutti prodotti dalla ricerca condotta da questa nuova voce attiva nell’ambito delle ricerche sull’Alto Medioevo meridionale, ma di certo questo libro ha avuto il merito di riproporne un tema centrale, il cui approfondimento potrà fruttificare anche in opere di altri, che da questa avranno ricevuto impulso e suggestione.

Published Online: 2024-11-22
Published in Print: 2024-11-18

© 2024 bei den Autorinnen und den Autoren, publiziert von De Gruyter.

Dieses Werk ist lizensiert unter einer Creative Commons Namensnennung - Nicht-kommerziell - Keine Bearbeitung 4.0 International Lizenz.

Articles in the same Issue

  1. Titelseiten
  2. Jahresbericht des DHI Rom 2023
  3. Themenschwerpunkt The Material Legacies of Italian Colonialism/I lasciti materiali del colonialismo italiano herausgegeben von Bianca Gaudenzi
  4. Cultura materiale e memorie del colonialismo italiano dal secondo dopoguerra a oggi
  5. Memorie di pietra del colonialismo italiano
  6. Legislazione e prassi italiane in materia di beni culturali tra protezionismo e universalismo
  7. Monumental Artworks as Difficult Heritage
  8. „Italia si, Italia no“. Materialità transimperiali e soggetti (post)coloniali tra Italia ed Etiopia (1956–1974)
  9. Una ‚reliquia colonialeʻ
  10. Artikel
  11. „Actus Beneventus in filicissimus palatio“?
  12. Annone di Colonia, Enrico IV e Anselmo III da Rho
  13. Motivazioni politiche e contesto sociale
  14. Signori e signorie nella Sicilia normanna
  15. Processi pontifici in partibus. La giurisdizione papale delegata nel XIII secolo: alcuni casi in Puglia
  16. Wofür und auf welche Weise Herzog Magnus II. von Mecklenburg 1487 von Papst Innozenz VIII. die Goldene Rose erhielt
  17. Una spia portoghese e la crociata all’indomani di Lepanto
  18. Die Korrespondenz des Kardinalnepoten Francesco Barberini mit P. Alessandro d’Ales, seinem Agenten am Kaiserhof (1634–1635)
  19. Konkurrenz um das kulturelle Gedächtnis?
  20. Il fascismo recensito
  21. Il rischio dei ‚Giusti‘
  22. „Die Steine zum Sprechen bringen“
  23. L’espansione del quadrante occidentale della Capitale negli anni Cinquanta e il complesso architettonico della Congregazione di Santa Croce oggi Istituto Storico Germanico di Roma
  24. Fantasma totalitario e democrazia blindata
  25. Per un catalogo delle opere di Luigi Nono, con „pochi dati e alcune idee vagabonde sulla diversa natura della ‚tradizione‘ delle opere di Nono in quanto ‚testo‘“ e una cronologia
  26. Forschungsberichte
  27. L’identità dello Stato beneventano
  28. Dall’edizione cartacea alla pubblicazione su piattaforma
  29. Tagungen des Instituts
  30. Administration in Times of Crisis. The Roman Papacy in the Great Western Schism
  31. Apparati, tecniche, oggetti dell’agire diplomatico (secc. XIV–XIX)
  32. Nuove prospettive di ricerca su stato di eccezione e di emergenza. Un dialogo italo-tedesco
  33. (De)Constructing Europe. Tensions of Europeanization
  34. Circolo Medievistico Romano
  35. Circolo Medievistico Romano 2023
  36. Rezensionen
  37. Verzeichnis der Rezensionen
  38. Leitrezensionen
  39. Ist das „Mittelalter“ am Ende?
  40. L’Italia dal Settecento a oggi: un Sonderweg?
  41. 1820 – Eine Weltkrise der politischen Souveränität?
  42. Allgemein, Mittelalter, Frühe Neuzeit, 19.–21. Jahrhundert
  43. Verzeichnis der Rezensentinnen und Rezensenten
  44. Register der in den Rezensionen genannten Autorinnen und Autoren
Downloaded on 24.9.2025 from https://www.degruyterbrill.com/document/doi/10.1515/qufiab-2024-0023/html
Scroll to top button