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Memorie di pietra del colonialismo italiano

I monumenti e la storia d’Italia
  • Valeria Deplano EMAIL logo
Published/Copyright: November 22, 2024

Abstract

This essay aims to historicize the presence of colonial monuments in Italian public space from the liberal to the republican period, investigating the meanings that they were constructed to convey. Using both published studies and primary sources, the essay traces the history of some 19th-century and fascist monuments, demonstrating their contribution to the national projects enacted by successive governments. The article then focuses on the history of the Monument to the Worker in Africa, ordered by fascism and initially erected by the Republic in Syracuse. Specifically, it investigates the relationship between the city and the monument, and its uses from the 1960s to the present, in order to offer a more general reflection on the relationship between public space, colonial memory, and Italian society.

1 Il colonialismo nello spazio pubblico italiano tra difese e contestazioni[1]

La questione della presenza di monumenti, lapidi, riferimenti toponomastici connessi alla storia coloniale italiana da diversi decenni si ripropone ciclicamente, con modi e referenti diversi, all’attenzione del dibattito pubblico. Era stato per primo lo storico del colonialismo Angelo Del Boca a proporre di rinominare le strade dedicate a celebri colonialisti; e a notare come alcuni protagonisti dell’espansione coloniale, di cui era stata acclarata la responsabilità criminale, continuassero ad essere celebrati nello spazio pubblico.[2] Con gli anni Duemila arrivò a conclusione, non senza polemiche, la vicenda dell’obelisco di Axum, collocato dal 1937 a Roma dopo essere stato portato via dall’Etiopia, e smantellato solo nel 2002.[3] Nel 2012 a suscitare un aspro dibattito è stata la costruzione, nella cittadina laziale di Affile, di un mausoleo dedicato al generale Rodolfo Graziani, responsabile di crimini e massacri in Libia e in Etiopia e poi ministro della Difesa della Repubblica Sociale Italiana.[4] Il tema trovò nuova attenzione due anni dopo, quando fu pubblicato „Roma negata“, libro con cui la scrittrice italosomala Igiaba Scego attraversava Roma mostrando i segni lasciati dal colonialismo nello spazio urbano.[5]

Fuori dai confini italiani, nel 2015 in Sud Africa iniziava la campagna „Rhodes must fall“, inizialmente finalizzata alla rimozione della statua di Cecil Rhodes dalla università di Cape Town e più in generale alla decolonizzazione dell’università; la mobilitazione approdò anche in Gran Bretagna, a Oxford, e in generale l’attenzione nei confronti dei segni del colonialismo aumentò in tutta Europa.

Anche in Italia nacquero i primi movimenti e progetti finalizzati a far uscire dall’oblio e problematizzare le tracce del colonialismo: il primo fu il collettivo „Resistenze in Cirenaica“ di Bologna, che nel 2015 organizzò una prima azione di ‚guerriglia odonomastica‘ a partire dalla rinominazione di via Libia;[6] la guerriglia odonomastica fu anche una delle azioni promosse dal collettivo Wu Ming all’interno del festival „Manifesta“, svoltosi nel 2018 a Palermo.[7] Nello stesso anno, a marzo, fece clamore la colata di vernice rosa versata dal collettivo femminista „Non una di meno“ sulla statua eretta a Milano in ricordo di Indro Montanelli, contestato perché a più riprese aveva rivendicato i rapporti sessuali con una bambina eritrea durante il periodo coloniale.[8] A dicembre, infine, il tema specifico dei lasciti materiali del colonialismo nello spazio pubblico italiano approdò anche nell’accademia,[9] e più specificamente nell’ambito dell’European University Institute: a partire da Firenze, Markus Wurzer e Daphné Budasz lanciarono il progetto „Postcolonialitaly“, che ha portato a documentare una presenza consistente delle tracce materiali visibili nello spazio pubblico di diverse città.[10]

Nel 2020 fu nuovamente una spinta esterna a sollecitare nuove mobilitazioni, ma anche un rinnovato interesse accademico: l’eco europea del movimento „Black Lives Matter“, in seguito all’uccisione di George Floyd da parte della polizia statunitense, ha portato ad una ulteriore stagione di contestazioni ai simboli del passato coloniale e schiavista nello spazio pubblico del continente. In quell’occasione al centro dell’attenzione mediatica italiana è stata posta nuovamente la statua di Montanelli,[11] ma più in generale quel clima favorì la proliferazione, in diversi contesti locali, di gruppi decisi a riportare l’attenzione su strade, monumenti, lapidi che negli spazi urbani ed extraurbani del territorio nazionale continuano a fare riferimento al colonialismo italiano.[12]

Contemporaneamente, studiose e studiose hanno iniziato ad indagare il passato di alcuni segni e monumenti specifici, analizzandoli e storicizzandoli: nel solo 2022 sono stati pubblicati il volume in cui Carmen Belmonte ha ricostruito la genesi della erezione del monumento ai caduti di Dogali a Roma; la collettanea curata da Andrea Bui e Latino Taddei del Centro studi movimenti di Parma[13] sulla figura, il mito e la commemorazione e la monumentalizzazione di Vittorio Bottego; e infine il libro in cui Roberta Biasillo offre una prima ricostruzione della vicenda del monumento ai caduti d’Africa costruito a Siracusa.[14]

Tenendo in considerazione proprio questi recenti lavori, e affiancandoli con nuove ricerche su fonti giornalistiche e archivistiche, questo saggio intende ragionare sul rapporto tra segni coloniali nello spazio pubblico e storia d’Italia dall’età liberale sino al XXI secolo. L’obiettivo che si pone è duplice: in primo luogo, intende individuare le dinamiche comuni ai singoli casi e le motivazioni per cui lo spazio italiano è stato segnato nel tempo da riferimenti coloniali, analizzando i significati di cui questi ultimi sono stati incaricati di essere portatori. In quest’ottica, si ripercorrono assieme le narrazioni che accompagnano nell’Ottocento la monumentalizzazione della figura di Pietro Toselli e la realizzazione dell’obelisco per i caduti di Dogali a Roma, quelle che accompagnano la costruzione del monumento del primo Novecento innalzato a Parma in onore di Bottego, e le vicende dell’obelisco di Axum, portato sempre a Roma nel 1937 e restituito all’Etiopia all’inizio del XXI secolo: individuandoli come casi studio utili per ragionare sul ruolo dei monumenti connessi col colonialismo nel processo di formazione della nazione, dall’età liberale alla Repubblica. Come ha scritto Keith Lowe, infatti, i monumenti „riflettono i valori che ogni società, ingannandosi, considera eterni, e quindi li incide nella pietra e li issa su un piedistallo“.

In secondo luogo, il saggio analizza in maniera più puntuale il rapporto tra società contemporanea e colonialismo, attraverso le vicende più recenti del Monumento per i lavoratori italiani d’Africa di Siracusa. Il monumento, ideato negli anni Trenta ma costruito negli anni Sessanta in Sicilia, e solo di recente inserito in qualche modo nel tessuto sociale della città, rappresenta uno dei casi più evidenti di „difficult heritage“ del colonialismo italiano nel contesto repubblicano.[15] Se il caso di Axum è cruciale per parlare di continuità culturali nell’Italia repubblicana, quello del monumento siciliano consente di complicare il quadro e di ragionare sulle dinamiche attraverso cui l’eredità coloniale e fascista finiscono per essere accettate in un contesto che le percepisce a lungo come problematiche.

2 Segni coloniali per fare l’Italia: l’età liberale

Secondo Angelo Del Boca, una delle prime prove dell’impatto del colonialismo sulla società italiana ampiamente intesa è la diffusione del nome Tosello tra i nuovi nati di fine Ottocento.[16] Il riferimento era a Pietro Toselli, un militare di carriera che partecipò attivamente all’avvio del processo di espansione italiana nel Corno d’Africa. A Toselli sono stati infatti attribuiti alcuni scritti a sostegno della politica coloniale italiana: un pamphlet „Africa“ pubblicato nel 1889, e due anni dopo l’opuscolo „Pro Africa Italica“.[17] Da militare partecipò all’occupazione di quella che nel 1890 sarebbe diventata la prima colonia italiana, l’Eritrea. Inviato in Africa per la prima volta nel 1888, nel 1894 fu chiamato a reprimere una ribellione all’interno del nuovo possedimento. Nel frattempo erano cresciute anche le tensioni con il vicino impero etiopico, verso il quale lo Stato italiano nutriva aspirazioni espansioniste. Nel 1895 Toselli fu mandato a fronteggiare l’esercito dell’imperatore etiopico Menelik; sull’Amba Alagi si trovò contrapposto, con 1800 uomini eritrei, alle truppe dieci volte più numerose del ras etiopico Maconnen; forse anche per ordini non chiari decise di resistere, e fu ucciso.[18]

Dopo la morte Pietro Toselli fu trasformato in un eroe e martire che si era sacrificato per la patria, e offerto come esempio a una nazione che, dopo quelli risorgimentali, aveva disperatamente bisogno di riferimenti. Toselli, nato cinque anni prima dell’Unità, era infatti uno dei primi uomini che non avevano ‚fatto l’Italia‘, ma erano morti per ‚renderla grande‘. In questa veste fu inserito nell’immaginario della nazione: la sua salma fu esumata nel 1897 per essere rimpatriata e sepolta nel suo paese d’origine, Peveragno in provincia di Cuneo; e il viaggio fu raccontato dalla stampa come il ritorno del figlio eroico. Negli anni successivi alla morte gli furono dedicate diverse opere agiografiche,[19] poemi, canzoni, le prime strade.[20] Nel 1899 a Peveragno fu eretto un monumento in suo onore realizzato dallo scultore Ettore Ximenes; sulla base dell’opera, una scritta ne sottolinea il patriottismo. Toselli, si legge, rimase sull’Amba Alagi „con lo sguardo fisso al nemico, il cuore all’Italia“. L’inaugurazione ebbe grande risonanza sulla stampa, e diverse testate contribuirono a presentare Toselli come eroe della nazione. Il quotidiano torinese „La Stampa“ fece dell’inaugurazione la notizia di apertura dell’edizione del 17 luglio 1899: riportò la descrizione del monumento, l’accoglienza ufficiale tributatagli dalle autorità militari e civili, nonché la prolusione dello scrittore peveragnese Vittorio Bersezio, che insisteva proprio sul valore nazionale delle gesta di Toselli:

„Da ultimo una calda parola, una voce commossa io mando a te, o popolo italiano. … Ti conceda fortuna lunghi anni di lavoro e di pace, in cui tu possa esplicare l’attività del tuo genio; ma se mai spuntasse sul tuo orizzonte (che Dio non voglia!) l’ora del pericolo, da questo ultimo lombo d’Italia dove questo monumento starà permanente ricordo del valore dei tuoi figli, l’animo dei conterranei di Pietro Toselli si unirà con ardore all’animo tuo, o popolo italiano, nel grido dei popoli forti: Viva la Patria, viva il Re.“[21]

La narrazione proposta dal „Corriere della Sera“ invece tracciava una linea di continuità tra l’antica Roma, i fasti della Repubblica Veneziana, e il Regno d’Italia: Toselli veniva prima paragonato a Lucio Emilio Paolo, per Plutarco morto eroicamente a Canne, ai dogi Enrico Dandolo, Francesco Morosini, e all’eroe risorgimentale Luciano Manara.[22]

Due anni dopo a Toselli fu dedicato anche un busto a Roma, collocato davanti alla caserma Principe di Napoli di fronte a quello che ritraeva Giuseppe Galliano, il generale che guidava l’esercito italiano durante la disfatta di Adua del 1896. Nell’iscrizione posta alla base del busto, Toselli è nuovamente messo in relazione con un eroe classico, stavolta il re di Sparta Leonida; mentre nel discorso di inaugurazione il ministro Tancredi Galimberti lo paragonò al „legionario romano trovato negli scavi di Pompei, fermo al suo posto e fedele sino all’ultimo alla ricevuta consegna“.[23]

Il ‚caso Toselli‘ mette in evidenza come il colonialismo fin dall’età liberale abbia offerto materiali discorsivi considerati utili per impastare lo spirito nazionale: l’amore nei confronti dell’Italia, il sacrificio, il valore militare.[24] In linea con la cultura europea del tempo, anche quella del liberalismo,[25] il fatto che queste qualità si esplichino all’interno di un progetto espansionistico fondato sulla sopraffazione, sull’occupazione dei territori con tutte le conseguenze economiche e sociali sulle popolazioni locali non viene quasi messo a tema.[26] Invece l’espansionismo in sé, oltre che legittimo, è presentato come elemento di manifestazione della forza della nazione e della sua grandezza. I monumenti, dunque, sono uno degli strumenti utilizzati da soggetti diversi – amministrazioni locali, Forze armate, il governo – per rendere un protagonista dell’espansionismo coloniale un punto di riferimento e un esempio per la comunità nazionale.

Con intenti simili furono realizzati altri monumenti costruiti in età liberale. Il più celebre, antecedente alla eroicizzazione di Toselli, è quello dedicato ai caduti della battaglia di Dogali, del gennaio 1887. Si trattava della prima pesante sconfitta subita dall’esercito regio nel Corno d’Africa, e contò 435 vittime italiane. La decisione di ricordarne pubblicamente i caduti fu immediata: come ha ricostruito Carmen Belmonte, l’idea di erigere un monumento fu lanciata dall’Associazione Stampa nel febbraio dello stesso anno, ed era giugno quando il consiglio comunale di Roma decise di raccogliere la proposta e programmare l’erezione di un monumento di fronte alla recentemente inaugurata stazione Termini. Alla battaglia sarebbe stata intitolata anche la piazza prospicente la stazione, che proprio in riferimento ai caduti di Dogali divenne piazza dei Cinquecento. È evidente il valore esemplare che si volle attribuire alla vicenda, per quanto tragica; nel 1887 la politica coloniale italiana è ancora al suo inizio, l’Eritrea non è ancora stata dichiarata ufficialmente una colonia italiana, eppure quella politica incerta viene considerata degna di essere ricordata e additata a tutti gli italiani che arrivano nella capitale come simbolo di nuovo del valore e dell’amore nazionale.

Della storia del monumento tracciata da Belmonte son da ricordare almeno due elementi: innanzitutto il fatto che, anche in questo caso, l’esaltazione dell’Italia ottocentesca sia ricercata attraverso la costruzione di un legame delle vicende coloniali col passato.[27] In quest’ottica, per la realizzazione del monumento fu utilizzata una vestigia egiziana. La linea di continuità fu inoltre sottolineata discorsivamente: durante l’inaugurazione, il sindaco Leopoldo Torlonia affermò che „La città immortale, che temprò la spada nelle guerre puniche, consegna alla storia, alla pietà ed all’esempio dei presenti, e dei futuri, questo monumento.“[28] L’iscrizione posta sul monumento paragonava infine i caduti di Dogali ai Fabii, morti combattendo contro gli etruschi per la grandezza di Roma.[29]

In secondo luogo, Belmonte mostra come il monumento non raccolga il favore che forse Torlonia avrebbe voluto: pur carico di simbolismo, l’obelisco fu subito al centro di polemiche e attacchi giornalistici. In particolare, il giornale del Vaticano, in quella fase storica in aperta contrapposizione con lo Stato italiano, derise il monumento per le sue dimensioni modeste, inadatte a celebrare quella che il sindaco voleva esaltare come una grande impresa del Regno.[30] Forse anche per questo nel 1925, in concomitanza di lavori di risistemazione della piazza e della stazione, esso fu spostato da una posizione centrale a una più defilata, nei giardini davanti alle terme di Diocleziano.

Fortune alterne, e dibattiti, avrebbero accompagnato anche il monumento a Vittorio Bottego, inaugurato a Parma nel 1907. Bottego, vissuto nello stesso periodo di Toselli (1860–1897), fu un ufficiale dell’esercito e membro della Società Geografica Italiana di Parma. Si recò più volte nel Corno d’Africa nei primi anni dell’occupazione italiana, diventando tra l’altro il primo europeo a percorrere la rotta da Massaua ad Assab e a raggiungere le sorgenti del fiume Giuba. Restò ucciso nel 1897, durante la sua ultima spedizione finalizzata a conoscere il corso del fiume Omo. Bottego aveva documentato i suoi viaggi attraverso relazioni ufficiali e libri: i suoi scritti testimoniano razzie e azioni sanguinose e violente sistematicamente messe in atto contro le popolazioni locali. Questo comportamento fu denunciato già al tempo da uno dei membri della sua spedizione, Matteo Grixoni, le cui parole però non riuscirono a scalfire l’immagine pubblica di Bottego. Questi, invece, si avviò a diventare un’altra figura da celebrare nello spazio pubblico.[31]

Come per Toselli, anche nel suo caso fu la comunità del luogo di provenienza, Parma, a pensare di dedicargli un monumento, completato dopo alcune traversie dallo stesso Ettore Ximenes che aveva realizzato l’opera di Peveragno. E come per quello ai caduti di Dogali, anche la decisone di erigere il monumento a Bottego fu oggetto di qualche malumore e polemica, come hanno ricostruito Becchetti, Taddei e Vitale. Il giornale della locale Camera del Lavoro non mancò di ricordare la ben poca onorabilità delle azioni compiute in Africa da parte del personaggio celebrato; e di raccontare anche le contestazioni degli operai nel giorno dell’inaugurazione.[32]

Perché il colonialismo iniziasse a entrare in maniera più consistente e visibile nella vita quotidiana degli italiani si sarebbe dovuta aspettare la guerra di Libia del 1911–1912, quando la stampa illustrata, i fumetti, ma anche la Chiesa diedero un importante contributo alla divulgazione della causa coloniale, che iniziò ad essere più ricorrente anche nell’onomastica e nell’odonomastica;[33] ciononostante, lo spazio pubblico aveva iniziato a portare i segni della politica espansionista dalla fine del XIX secolo. Le tre vicende analizzate mostrano come i monumenti coloniali inizino ben presto ad essere utilizzati per sostenere l’idea di nazione ottocentesca, basata sulla celebrazione del valore e del sacrificio individuale. Contemporaneamente, provano come le opere celebrative siano tutt’altro che neutrali o portatrici di un interesse generale, ma siano spesso accompagnate, fin dalla loro erezione, da dibattiti e contestazioni.

3 Impero e colonie nello spazio pubblico dell’Italia fascista

Con l’avvento del fascismo, il colonialismo assunse un significato ulteriore: era lo strumento e allo stesso tempo il terreno su cui il governo di Mussolini poteva dimostrare innanzitutto il proprio essere erede dell’antica Roma, la potenza bellica, la supremazia sugli altri popoli ma anche sul modello d’Italia e di italianità proposta dall’Italia liberale.[34] Nel Ventennio, dunque, il colonialismo continuò a segnare lo spazio pubblico italiano per celebrare questi valori, e non più un generico ideale patriottico. Da un punto di vista discorsivo, il regime mussoliniano recuperò alcuni personaggi del periodo liberale, considerati pionieri e precursori della grandezza dell’Italia e dell’impero fascista. Il caso più emblematico è quello di Bottego, la cui figura fu riutilizzata e celebrata; al punto che nel 1940, nel luogo della sua morte in Etiopia, fu eretta una stele commemorativa.[35]

Sul suolo italiano, invece, la colonizzazione dello spazio pubblico da parte del regime non si caratterizzò tanto per l’erezione di nuovi monumenti dedicati a vecchi e nuovi protagonisti dell’espansione, quanto per un grosso investimento nella toponomastica celebrativa: dei cosiddetti pionieri del colonialismo, dei luoghi occupati dall’espansione coloniale che erano inclusi nell’immaginario geografico degli italiani, ma anche dei momenti simbolici della ‚costruzione dell’impero‘. Via dell’impero, via 9 maggio (data di proclamazione della nascita dell’impero) compaiono nelle città e nei paesi italiani, dall’inizio degli anni Trenta e ancora di più dopo la guerra d’Etiopia del 1935–1936. Dopo la guerra d’Etiopia in diverse località furono anche installate mappe murarie che riproducevano l’impero italiano: la più celebre è quella che fu collocata in via dei Fori imperiali accanto alle mappe che rappresentavano tre fasi dell’espansione dell’Impero Romano;[36] ma mappe analoghe furono installate e in alcuni casi segnano ancora lo spazio pubblico di altre città, come accade a Padova.

Infine, il fascismo scelse di segnare lo spazio pubblico con vestigia portate in Italia dai territori occupati, per celebrare la capacità di sottomettere e umiliare i nemici. Dopo l’occupazione dell’Etiopia arrivano a Roma due di questi monumenti: uno è la statua del Leone di Giuda, simbolo della monarchia etiopica, portata nel 1937 da Addis Abeba e collocata sotto l’obelisco eretto per ricordare i 500 italiani morti a Dogali. Sotto un obelisco che celebra una battaglia di occupazione fallimentare, il Leone di Giuda celebrava invece una campagna di occupazione formalmente vittoriosa. Anche la vicenda del Leone mostra però quante storie diverse possono insistere su uno stesso monumento. Nel 1938, infatti, il giovane eritreo Zerai Deres, giunto in Italia l’anno prima per fare da interprete agli etiopici deportati dal regime, si inginocchiò di fronte alla statua per renderle omaggio. Di fronte al tentativo di alcuni astanti farlo smettere l’uomo reagì ferendoli: a seguito di tale gesto, Zerai Deres fu internato nell’area psichiatrica di un carcere siciliano, dove rimase sino alla morte, nel 1945.[37]

Sempre nel 1937 a Roma arrivò un altro monumento etiopico: l’obelisco prelevato dalla zona sacra di Axum e installato a piazza di Porta Capena, vicino al Circo Massimo, in occasione del quindicesimo anniversario della marcia su Roma.[38] L’obelisco fu collocato di fronte al luogo in cui sarebbe dovuta sorgere la nuova sede del Ministero dell’Africa Italiana; ma la guerra non rese possibile la fine dei lavori, e nel dopoguerra il palazzo fu adibito a sede della FAO.

Il fascismo provò anche a compiere l’azione contraria, cioè ad affermare il proprio dominio sui colonizzati segnando con monumenti celebrativi lo spazio delle colonie. Oltre alla già citata stele di Bottego innalzata in Etiopia nel 1940, è emblematico – anche per i suoi risvolti repubblicani – il caso dei due monumenti che nel 1938 Mussolini diede mandato di costruire ad Addis Abeba: uno a celebrazione del legionario e l’altro al lavoratore in Africa.[39] Il primo si sarebbe dovuto realizzare subito, per affidamento diretto allo scultore Romano Romanelli; mentre la progettazione del secondo fu rimandata. Romanelli, accademico dei Lincei, consegnò i materiali marmorei utili alla costruzione del monumento nel maggio del 1940, poco prima dell’ingresso dell’Italia in guerra: questi furono dunque custoditi in diversi magazzini in Italia, e di fatto non sarebbero mai arrivati in Africa.[40]

4 Il colonialismo nello spazio pubblico repubblicano: ricostruzioni e riusi del Monumento ai lavoratori italiani in Africa

Alla fine del conflitto il fascismo era crollato, le colonie africane erano occupate dagli Alleati e in Etiopia era tornato Haile Selassie. Con la ratifica del trattato di pace del 1947 l’Italia rinunciava formalmente alle colonie, anche se subito dopo avrebbe tentato di riacquistare un ruolo nei territori occupati in età liberale, ottenendo dall’Onu l’amministrazione fiduciaria della Somalia dal 1950 al 1960.[41] Le rivendicazioni nei confronti di Eritrea, Libia e Somalia si fondavano discorsivamente sulla esaltazione del lavoro italiano e dell’impatto civilizzatore e modernizzatore dei coloni italiani; mentre non menzionavano i crimini e le violenze compiuti in Africa. Inaugurando una narrazione che avrebbe condizionato il modo con cui si sarebbe parlato del tema nei decenni successivi, lo Stato italiano operava così una separazione tra fascismo e colonialismo, condannando a parole il primo senza prendere le distanze dall’esperienza coloniale in sé.[42]

Se analizzare i monumenti coloniali realizzati in età liberale e fascista permette di comprendere meglio i progetti nazionali delle istituzioni che li avevano prodotti, studiare i monumenti coloniali nello spazio pubblico del secondo Novecento e del XXI secolo ci aiuta a vedere quali idee (di nazione, innanzitutto) abbiano inteso veicolare le classi dirigenti repubblicane.

Il destino della stele di Axum e del Leone di Giuda dimostra come i governi repubblicani non fossero disposti ad ammettere ufficialmente il carattere predatorio dell’espansionismo italiano: il Leone di Giuda fu rimosso dalla base dell’obelisco di Dogali nel 1944, ma restituito all’Etiopia solo nel 1969, in occasione della prima visita italiana di Haile Selassie. Ancora più dissestata fu la vicenda della stele di Axum, ben ricostruita da Massimiliano Santi: benché inserita da subito in un elenco di oggetti reclamati dal governo di Addis Abeba e inclusa anche negli accordi firmati dai due paesi nel 1956, la stele fu reclamata invano dagli etiopici per oltre un cinquantennio. L’opposizione attiva dei governi italiani alla restituzione – motivata anche col malcontento che tale azione avrebbe suscitato nella società italiana – era in linea con un generale atteggiamento adottato dall’Italia repubblicana, che evitava di riconoscere le responsabilità italiane per i crimini e le violenze compiute nel Corno d’Africa.

La svolta arrivò nel 1997: a seguito della prima ammissione ufficiale dello Stato italiano, per bocca del presidente Oscar Luigi Scalfaro, del portato criminoso dell’occupazione coloniale,[43] si decise di restituire finalmente il monumento, che fu smantellato nel 2005 ed eretto nuovamente ad Axum nel 2008. La restituzione non fu però scevra da polemiche; l’allora sottosegretario degli Esteri, ad esempio, scelse di non pronunciare la parola „restituzione“, affermando invece che l’Italia „contribuiva all’identità etiopica“: il messaggio era che l’Italia non aveva rubato nulla in passato, mentre nel presente era una nazione benevola che continuava ad aiutare l’Africa.[44]

La vicenda della stele di Axum mostra in maniera efficace come non sia possibile leggere l’atteggiamento dello Stato italiano nei confronti del passato coloniale in termini di disinteresse, rimozione o inerzia, per cui semplicemente si evitò di prendere decisioni in merito; ma ci fu invece una precisa scelta di non aprirsi a un dibattito critico sul tema. La difesa attiva, nel corso dei decenni, della permanenza della stele in piazza di Porta Capena emerge come la conseguenza di una ribadita indisponibilità ad ammettere, di fronte agli etiopici ma soprattutto gli italiani, l’inconsistenza del mito della ‚brava gente‘, e a prendere in carico le responsabilità coloniali.

Se il reiterato rifiuto della restituzione della stele racconta di un’azione ‚in negativo‘ dei governi repubblicani, le vicende dell’opera scultorea affidata da Mussolini a Romanelli consentono invece, innanzitutto, di riflettere sull’intervento attivo dello Stato italiano per costruire e sostenere, attraverso una nuova opera di monumentalizzazione, la narrazione repubblicana sul colonialismo.

Avevamo lasciato i vari elementi marmorei e bronzei che avrebbero dovuto costituire il monumento al Legionario chiusi dal 1940 nei magazzini in diverse parti d’Italia. Come ha ricostruito Biasillo, nel 1947 la ditta che si occupava del deposito presentò il conto allo Stato: il governo, non disposto a spendere ancora per la custodia del monumento fascista, e vista sfumare la possibilità di costruirlo in Etiopia, nel febbraio 1948 pensò dapprima di vendere le parti marmoree, di pregio artistico; cambiò però idea nella primavera di quell’anno, anche a causa della ventilata possibilità di un ritorno dell’Italia in Africa. Si decise allora di ricostruirlo altrove, previe alcune modifiche degli elementi figurativi. Insieme allo stemma dell’Italia fascista, tra le statue bronzee realizzate dallo scultore quella del soldato della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale fu considerata incompatibile con i valori della neonata Repubblica. Le altre (raffiguranti un ascaro, un marinaio, un aviatore, un fante, e un ‚conducente di cavallo‘) e le iscrizioni riprodotte sul monumento non furono considerate, invece, compromettenti. Nel frattempo le carte avevano smesso di definire l’opera come monumento al Legionario, per indicare invece – con varie formule – che il monumento era dedicato ai lavoratori d’Africa.[45] Si trattava di una modifica in linea con la narrazione usata dal governo per sostenere il ritorno dell’Italia nelle colonie liberali; il sottosegretario dell’Africa Italiana Giuseppe Brusasca affermò che ragioni di natura morale rendevano „utile che rimanga in Italia un ricordo dell’opera svolta dagli italiani in Africa“.[46]

Dopo alcuni tentativi andati a vuoto con altri interlocutori, il governo trovò la disponibilità ad accogliere l’opera da parte della Regione Sicilia, che sempre Brusasca aveva indicato come il luogo più adatto per la collocazione del monumento, perché geograficamente vicino all’Africa e per la notevole presenza nell’isola di profughi coloniali, il cui lavoro aveva portato alla „valorizzazione del territorio africano“.[47] La legge del 26 novembre del 1952, n. 1993 stabilì ufficialmente la donazione dell’opera alla regione siciliana, che la destinò alla città di Siracusa: come avrebbe scritto il giornale locale „La Sicilia“, che seguì con entusiasmo la vicenda del monumento, la scelta aveva, „un valore simbolico per noi siracusani che dal nostro porto vedemmo salpare le navi coi soldati e coi lavoratori italiani che si sacrificarono in terra africana per lasciarvi l’impronta indelebile della nostra civiltà“.[48]

Le casse contenenti gli elementi bronzei e marmorei arrivarono a Siracusa nella primavera del 1953, ma la costruzione del monumento dovette aspettare ancora degli anni, per motivi di natura diversa. Il primo riguardava i danni subiti da una parte del materiale, da sostituire; il secondo l’area in cui costruirlo, attorno a cui il dibattito durò ancora a lungo. Nel 1957 si trovò un accordo per erigerlo sul lungomare dei Cappuccini;[49] mentre l’ufficio tecnico siracusano si occupò delle modalità di costruzione del monumento, avvalendosi anche dei consigli dello stesso Romanelli, l’amministrazione si occupò di espropriare i terreni nell’area individuata.

Il ricorso di uno degli espropriandi, nel 1961, sollevò nuovamente la questione del portato simbolico del monumento; e mise in luce come il progetto del governo, in un momento in cui le aspirazioni africane della Repubblica si erano esaurite, iniziasse ad essere percepito come problematico. Sosteneva il ricorsista che l’opera

„non solo esaltava programmi di conquista coloniale ormai superati, ma portava chiaramente gli emblemi dell’epoca fascista in cui fu concepita (legionari in camicia nera, moschetti, fasci littori etc.). Il monumento sarebbe probabilmente finito in un magazzino o, la massimo, in un museo, se la Regione non avesse tratto dall’imbarazzo lo Stato italiano, facendo richiesta di cessione gratuita del monumento stesso“.[50]

Di nuovo, in un monumento che includeva un elenco delle battaglie coloniali incise sulle lastre marmoree, bassorilievi delle suddette battaglie, oltre che le statue bronzee delle forze armate, le istituzioni individuarono come problematica la sola statua del soldato della milizia volontaria. Questa, si rassicurava, sarebbe stata sostituita con una statua di un lavoratore, già commissionata dalla presidenza della Regione per 4 400 000 lire a Giovanni Rosone.[51] In questo modo si riteneva completato il processo di defascistizzazione dell’opera, e se ne consacrava figurativamente la nuova intitolazione.

Se i monumenti raccontano quali valori voglia esprimere il soggetto che li erige, quello siracusano conferma come, dall’immediato dopoguerra agli anni Sessanta, Stato italiano e istituzioni locali non individuino nessuna problematicità specifica nella vicenda coloniale, che invece poté essere celebrata nel contesto repubblicano purché teoricamente epurata dei riferimenti espliciti allo Stato fascista. Anche l’aspetto bellico dell’occupazione è in qualche modo accettato (tramite il mantenimento delle statue), benché l’enfasi narrativa sia posta, in linea col discorso pubblico elaborato nel dopoguerra, sul lavoro italiano.

Le vicende successive del monumento raccontano la fortuna ondivaga e la non piena accettazione di tale discorso da parte della società siracusana nella seconda metà del Novecento e nei primi decenni del XXI secolo.

I lavori per la costruzione del monumento furono appaltati nell’autunno del 1963,[52] e un anno dopo risultavano a buon punto, anche se il Comune chiese ancora una volta a Romanelli una consulenza per le modalità di assemblaggio.[53] Così come le carte comunali anche la stampa locale, che pure aveva seguito con attenzione le vicende del monumento per quindici anni, non riporta notizia di alcuna inaugurazione ufficiale: nel novembre 1968, però, il monumento risulta allestito sul lungomare dei Cappuccini e il Consiglio comunale approva dei lavori di consolidamento dell’area. Già l’anno successivo l’opera risulta abbandonata e sprovvista dell’arredo urbano che avrebbe dovuto fargli da contorno, mentre ancora sei anni dopo viene definita „incompiuta“, priva anche di strade d’accesso.[54] Erano i primi segni di come quel monumento, dopo qualche entusiasmo iniziale, avesse finito per essere accolto con freddezza dalla città: nei decenni successivi l’opera scultorea fu sistematicamente fatta oggetto di atti vandalici, mentre dal punto di vista ufficiale non risulta utilizzata per nessun tipo di commemorazione o evento pubblico. Negli anni Ottanta il sindaco di allora decise per la sistemazione dell’area, ma l’intervento non migliorò il rapporto con la città. Un articolo del 1987, ripercorrendo le vicende del monumento che si diceva improntato alle scelte architettoniche del periodo fascista, e commentando le „pennellate sfregiative“ che di nuovo lo imbrattavano, restituisce quello che probabilmente era un sentimento presente nel contesto cittadino:

„Quel monumento è lì, alla nostra vista svogliata e negligente, pressoché relegato nell’anonimato, quasi a testimonianza storica delle cocenti delusioni. … Auguriamoci comunque che questi interventi [di riqualificazione] possano essere presto eseguiti perché quel monumento conservi i suoi propri significati che per un popolo civile non possono essere apologetici ma costituiscono un severo monito alle generazioni future, per un deciso rifiuto dell’idolatria.“[55]

Un certo imbarazzo nel rapporto tra la città e l’opera è testimoniato dalla stampa locale anche in altre occasioni: un articolo del 1997 segnala come non fossero mancate nel corso del tempo „polemiche sull’estetica e sul senso geografico del monumento stesso“,[56] mentre un altro del 1999 afferma che il consigliere regionale poi nel 1961 presidente della Regione Salvatore Corallo „non immaginava si trattasse di un’opera dove soldati, avieri e bersaglieri inneggianti all’azione militare fossero i veri protagonisti“.[57] Il disagio, è interessante notare, sembra sempre rivolto ai rimandi fascisti dell’opera, mentre la problematicità del colonialismo non è messa a tema.

Il rapporto con la città iniziò a cambiare alla fine del secolo: nel 1997 i consiglieri comunali di Alleanza nazionale chiesero un intervento del comune per preservare il decoro del monumento, ritenuto opera di „valore storico e nazionale“, senza ulteriori specificazioni. Due anni dopo il comune appaltò un nuovo restauro, e affidò alla sezione locale dell’Associazione nazionale paracadutisti italiani la gestione e la salvaguardia dell’opera.[58] È in seguito a questo affidamento che il monumento iniziò ad essere utilizzato per celebrazioni e a diventare un luogo della memoria, seppure di una memoria composita: come già annotato da Biasillo, prima nel 1999 l’Associazione paracadutisti collocò nell’area del monumento una lapide commemorativa di Giovanni Alberto Bechi Luserna, militare di carriera e paracadutista. Benché la lapide non ne faccia cenno, Bechi Luserna partecipò sia alla repressione della resistenza libica, sia alla guerra d’Etiopia. Era solo il primo di una serie di utilizzi sistematici, e del tutto nuovi, del sito monumentale: nel 2003 l’associazione scelse l’area per celebrare, alla presenza delle autorità civili e militari, un aviatore marconista morto „mentre sorvolava i cieli africani“ nel 1942.[59] Dal 2005 l’associazione ricerca storica sulla Seconda guerra mondiale, Lamba Doria, utilizzò la stessa area per commemorare i soldati, diretti sul fronte africano ma morti durante l’affondamento del piroscafo „Conte Rosso“ nel 1941;[60] ad essi dedicò nel 2007 una targa commemorativa. La prima decade del nuovo secolo è dunque caratterizzata da un nuovo utilizzo dell’opera scultorea come luogo di commemorazione di caduti, in particolare militari. La nuova risignificazione del monumento ha trovato una ufficializzazione tra il 2009 e il 2010, quando il colonnello dei carabinieri Massimo Mennitti propose di cambiare la dedica dell’opera „ai caduti d’oltremare“: un’etichetta più adatta all’uso pratico del XXI secolo rispetto a quella scelta nel dopoguerra, quando era dominante il discorso sul lavoro. La giunta comunale decise invece per una aggiunta, e non per una sostituzione:

„Premesso che nella nostra città non esiste un monumento dedicato ai caduti delle FF AA, che in città invece è presente un monumento dedicato ‚al Soldato e al lavoratore italiano in Africaʻ … che la legione Carabinieri Sicilia – Comando provinciale di Siracusa ha chiesto di esaminare la possibilità di intitolare il monumento ai caduti d’oltremare; che tale richiesta risponde ai sentimenti della popolazione siracusana che già oggi si riferisce al monumento indicandolo come ‚monumento ai caduti d’oltremareʻ; che questo monumento è spesso sede di manifestazioni a carattere prettamente militare … propone di cambiare l’intitolazione del monumento oggi individuato come ‚al Soldato e al lavoratore italiano in Africaʻ con ‚monumento al soldato, al lavoratore italiano in Africa e ai caduti d’oltremareʻ.“[61]

Si decise anche che l’area attorno al monumento potesse essere utilizzata – come di fatto già avveniva – per l’installazione di effigi e lapidi a ricordo dei caduti italiani anche di epoche recenti, mentre il monumento diventava il luogo deputato per celebrazioni ufficiali: a quella per i caduti del Conte Rosso, ormai periodica, si aggiunse quella per le vittime delle foibe, a cui nel 2020 è stata dedicata una nuova lapide.[62] La decisione della giunta lasciò parzialmente scontento Mennitti, che affermò di non ritenere „legittimo il riferimento ai lavoratori civili caduti in Africa, frutto, probabilmente, dell’epoca in cui fu allestito a Siracusa. Ne fuorvia l’originaria destinazione che chiaramente si evince dalle incisioni e statue raffiguranti soldati, e non civili, delle varie armi e specialità“.[63]

I fregi e i riferimenti militari, evidenti a chiunque osservi il monumento ma del tutto rimasti in ombra nel dibattito che ne accompagnò la ‚risignificazioneʻ post-bellica, acquistavano in quella prima parte degli anni Duemila una nuova centralità, e diventavano utili per sostenere un nuovo utilizzo del monumento. L’enfatizzazione del messaggio militarista fu garantita anche dalla creazione di un comitato incaricato di prendersi „cura dello studio per le integrazioni da apportare al monumento affinché lo si completi di tutti i riferimenti necessari agli eventi bellici degli anni successivi al 1936. Comprenderanno i fatti d’arme che hanno impegnato i carabinieri sui fronti di guerra e nelle missioni internazionali di pace con caduti italiani“.[64]

Quale spazio aveva il colonialismo in questa nuova narrazione il cui baricentro tematico è spostato sui soldati caduti ampiamente intesi, e che cronologicamente guarda sino al XXI secolo? Gli elementi da notare sono almeno tre. Innanzitutto, il fatto che la ‚riscopertaʻ e il riutilizzo del monumento a inizio del Duemila siano stati accompagnati da discorsi esplicitamente celebratori del passato coloniale. Ad esempio, superate anche le cautele con cui anche la stessa AN aveva preso parola alla fine degli anni Novanta, nel 2006 Alberto Moscuzza, presidente dell’associazione Lamba Doria, affermava di fronte agli ennesimi attacchi all’opera che „che è stato oltraggiato un monumento che ricorda le gesta dei nostri soldati nelle guerre coloniali in Africa“ e attaccava i „teppisti locali che non meritano neanche la cittadinanza italiana, sconoscendo anche per l’ignoranza trasmessa dalle nostre scuole, il valore della storia e dei soldati morti in terre lontane e in un periodo ancora oggi tanto discusso“.[65]

Da un altro punto di vista, dopo che la precedente narrazione incentrata sul lavoro l’aveva edulcorato, il colonialismo sembra definitivamente scomparire dietro una acritica celebrazione dei soldati caduti. Non è, questo, l’unico caso in cui ciò avviene: come emerso in altri contesti, l’elaborazione nel secondo dopoguerra di un discorso che depoliticizza le diverse guerre ha costituito il contesto in cui poter continuare a celebrare acriticamente e al riparo da contestazioni gli eventi coloniali, i loro protagonisti, e in definitiva il colonialismo stesso.[66] Infine, come ha scritto sempre Biasillo citando Wu Ming,[67] si pone il problema delle „narrazioni tossiche“. Seppure fosse utilizzato come luogo di altre memorie (e come visto, non è esattamente questo il caso), è difficile affermare che un monumento che riproduce militari e ascari, che con gli stilemi degli anni Trenta riproduce una barca rivolta verso l’Africa, che include bassorilievi di truppe coloniali, che riporta incisi i nomi delle battaglie africane e i profili di carri armati e camion, possa smettere di parlare di colonialismo, e di proporlo come un’epopea.

È proprio attorno al portato narrativo che dalla metà degli anni 2010 si è assistito ad una inedita attenzione pubblica nei confronti del monumento siracusano. Da una parte il monumento è stato denunciato come esempio delle continuità tra periodo coloniale, fascista e repubblicano, e come simbolo della necessità di una decolonizzazione della società italiana.[68] Dall’altra, è divenuto oggetto di attenzioni di segno opposto. Il gruppo siracusano del movimento politico di estrema destra Casa Pound ha scelto il monumento come una delle sedi privilegiate per le proprie battaglie commemorative: organizzando ad esempio un presidio nella „Giornata del ricordo“ del 2016, illuminandolo di luce tricolore per ricordare la battaglia di Caporetto nel 2018,[69] o ancora per celebrare il 4 novembre nel 2021. Sempre del 2021 è l’iniziativa più indicativa della lotta discorsiva attorno al monumento: in uno dei momenti in cui in Italia e in Europa era più acceso il dibattito sull’opportunità di abbattere o risignificare i segni del colonialismo nello spazio pubblico, Casa Pound pubblicizzava l’iniziativa di recupero dei marmi del monumento dalle acque circostanti, e rivendicava l’area come un proprio punto di riferimento identitario: „Per noi questo è un luogo sacro a cui va dimostrato il massimo rispetto. Noi siamo i figli e i nipoti degli eroi a cui è stato dedicato questo bellissimo monumento.“[70]

5 Conclusioni: guardare ai monumenti per guardare all’Italia

Reinserire nella storia monumenti, lapidi, nomi delle strade connessi col colonialismo consente innanzitutto di comprendere la funzione per cui essi sono stati collocati nello spazio pubblico. Come questo breve e parziale excursus ha mostrato, i monumenti hanno avuto il compito di sostenere, divulgare e consolidare narrazioni e valori funzionali di volta in volta agli obiettivi delle istituzioni che li hanno voluti erigere. I casi esaminati ci confermano quel che gli studi hanno già dimostrato su altri terreni: e cioè che il colonialismo ha supportato i progetti di nation-building dello stato liberale fin dai suoi esordi; e ha fornito materiali utilizzati dal regime fascista per convincere gli italiani a sentirsi parte di un progetto egemonico e vincente. Il caso del monumento di Romanelli conferma anche la Repubblica italiana non fu fondata sull’anticolonialismo; ma che da quella storia cercò di elidere le parti più compromesse col fascismo, per poi rivendicarla. La grossolanità con cui quel monumento fu ‚risignificatoʻ mostra come tra le classi dirigenti non ci fosse una grande attenzione verso la scivolosità del discorso proposto: al fine di celebrare quel lavoro italiano su cui lo Stato italiano aveva incentrato la sua narrazione, si mantennero simboli e segni che evocavano direttamente il militarismo e la sopraffazione. I ritardi nella costruzione dell’opera di Romanelli, l’incompiutezza, la mancanza di utilizzo per tutto il secondo Novecento e gli atti vandalici raccontano però che la presunta dimenticanza di certi simboli, spesso segno di inconsapevolezza e rimozione, può anche essere spia di un disagio nei confronti dei discorsi veicolati dai monumenti.

Proprio perché i monumenti sono l’esito della volontà di consolidare specifici valori e visioni, essi sono spesso oggetto di contestazioni e reazioni discordanti e, nel corso del tempo, di utilizzi diversi, modifiche, nuove destinazioni d’uso e anche rimozioni. Reinserire anche questi aspetti nella storia è utile per capire le società su cui quei segni insistono, la loro complessità, e la loro mutevolezza nel corso del tempo.

Le citate critiche al monumento a Bottego da parte del giornale della Camera del lavoro e al monumento ai caduti di Dogali da parte dell’„Osservatore Romano“ mostrano una società in cui la politica espansionistica è tutt’altro che condivisa; mentre la vicenda di Zerai Deres dà visibilità a un dissenso che, per quanto silenziato, continuava ad esistere sotto il fascismo. Le vicende più recenti del monumento siracusano mostrano dapprima una società in cui, all’inizio degli anni Duemila, il patriottismo viene riscoperto come il terreno su cui le scivolosità di richiami fascisti e colonialisti possono venire assorbite: l’analisi limitata al singolo caso non consente di approfondire ulteriormente il tema, ma un allargamento dell’indagine consentirebbe di verificare se e in che modo questa riscoperta si inserisca nel rilancio delle forze armate come simbolo dell’unità nazionale, promosso in quegli anni dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.[71]

I discorsi che hanno riguardato il monumento dalla metà degli anni 2010 in avanti, conseguenza di un nuovo interesse per l’opera di Romanelli anche oltre la dimensione locale, appaiono invece il sintomo di una società italiana polarizzata: da una parte c’è chi difende il monumento come simbolo e baluardo di valori da rivendicare; dall’altra c’è chi lo vede come emblema di uno Stato che non ha fatto i conti con il colonialismo, il fascismo, e i valori ad essi sottesi: razzismo, militarismo, sopraffazione.

Come quelli dell’età liberale e del Ventennio fascista, e come altri più contemporanei, si tratta di un dibattito che ha poco a che fare con la materialità dell’opera, e quasi niente con la storia dell’espansione italiana. Al contrario, dato che la costruzione dei monumenti è simbolo e strumento di specifici progetti di costruzione valoriale, le dispute attorno alla loro presenza e alle modalità di permanenza nello spazio pubblico sono simbolo e strumento di specifiche rivendicazioni finalizzate a un mantenimento, o a un profondo cambiamento, dei valori su cui si basa la società attuale. La posta in gioco non è dunque il passato, bensì il presente e il futuro.

Published Online: 2024-11-22
Published in Print: 2024-11-18

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