Abstract
Following thematic and theoretical lines set out in two recent ground-breaking studies by Emanuele Senici on Rossini’s music, this article questions Italian discourse on the Rossini renaissance. It thus highlights the identity-related meanings for Italians of three crucial moments in the history of this renaissance: in 1925, with the ‚cycle Rossini‘ at the Théâtre des Champs-Élysées in Paris; in 1952, with the „Armida“ at the Maggio musicale fiorentino with Maria Callas in the title role; in 1969, with the Italian debut of the critical edition of the „Barber of Seville“ at the Scala in Milan.
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In tempi recenti la bibliografia rossiniana si è arricchita di due contributi a firma di Emanuele Senici particolarmente innovativi per temi, metodi e risultati: „Music in the Present Tense. Rossini’s Italian Operas in Their Time“ e „Puccini, Rossini e noi“.[1] Monografia densa la prima, articolo agile il secondo, dalla loro messa in dialogo si può ricostruire un percorso intellettuale organico, e ricco di stimoli molteplici. „Music in the Present Tense“ sviluppa una tesi forte che vuole la produzione operistica italiana di Rossini, concentrata in poco meno di un quindicennio (1810–1824), e i discorsi che essa suscitò come l’espressione del trauma vissuto dagli italiani al loro primo contatto con la modernità, portata nella penisola dal vento della rivoluzione francese del 1789 e dalla stagione napoleonica. „Puccini, Rossini e noi“ interroga invece i significati che le opere e i discorsi di Rossini (e, più in generale, dei cinque grandi operisti dell’Ottocento italiano: Rossini Bellini Donizetti Verdi Puccini) assumono per gli italiani di oggi, in particolare nella prospettiva degli heritage studies. Accomuna i due testi l’intenzione di interpretare le opere di Rossini e i suoi discorsi come fatti della cultura italiana. In ossequio a principi dell’archeologia foucaultiana che informano l’approccio metodologico generale, Senici pone l’accento anzitutto sulle discontinuità, cioè sui significati distinti che opere e discorsi assumono in contesti peculiari della storia italiana (il passato degli anni di Rossini in un caso, la contemporaneità nell’altro), a evidenziare così la distanza che separa le percezioni dei ‚noi‘ d’oggi da quelle dei ‚loro‘ di ieri. Emerge nondimeno nelle argomentazioni dell’autore un filo rosso che implica il ricorrere nel tempo di una medesima preoccupazione: l’identità italiana. Riassumo qui grossolanamente tesi che Senici sviluppa con acume. Negli anni Dieci e Venti dell’Ottocento le opere di Rossini diedero voce a quella che si potrebbe definire un’identità ‚disorientata‘: la sensazione di eterno presente che il ricorso pervasivo al meccanismo della ripetizione produce nelle strutture temporali delle loro drammaturgie musicali ben rispecchiava la sensazione preminente dell’incapacità di capire il proprio tempo, e quindi di dare significato al proprio passato e immaginare il futuro possibile, esperita dagli italiani traumatizzati dalla modernità. Oggi, invece, gli stessi oggetti contribuiscono a costruire un’identità ‚nostalgica‘: i discorsi dell’oggi mostrano come le opere di Rossini (e di Bellini Donizetti Verdi Puccini) siano riconosciute quali eredità culturali di un passato che si vuole glorioso, e tanto più glorioso rispetto al presente da essere non solo evocato con rimpianto, ma da contribuire alla costruzione di fondamenta solide su cui poggiare le costruzioni fragili (o presunte tali) dell’identità italiana (anche e soprattutto nazionale) contemporanea.
Queste riflessioni dischiudono un campo di ricerca nuovo e per certo suscettibile di sviluppi ulteriori, alcuni dei quali additati da Senici stesso. Nell’epilogo di „Music in the Present Tense“, in particolare, si sottolinea a giusta ragione che la cosiddetta ‚Rossini renaissance‘ è da considerare il fenomeno cruciale della storia di Rossini dopo Rossini. Secondo Senici, tuttavia, lo studioso che volesse sondare i significati profondi della renaissance dovrebbe rinunciare a seguire piste d’indagine esclusivamente nazionali, posta la natura eminentemente transnazionale del fenomeno, e interessarsi più ai discorsi visuali (cioè le messinscene delle opere) che a quelli verbali. A me sembra invece che le parole e i contesti italiani della renaissance molto abbiano da dire proprio se indagati nella prospettiva identitaria additata da Senici. Lo scopo delle pagine che seguiranno sarà fornire alcuni spunti utili a una prima e provvisoria messa a fuoco di questo tema.
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In via preliminare mi preme però soffermarmi sulla locuzione ‚Rossini renaissance‘, di diffusione larga e dal significato almeno in apparenza scontato, eppure non poco problematica se adoperata, come solitamente avviene, con funzione di concetto storiografico. Secondo un’accreditata definizione proposta da Charles S. Brauner, alla quale rimanda anche Senici, con ‚Rossini renaissance‘ è da intendersi „la riapparizione“ delle „opere dimenticate“ di Rossini „dopo decenni d’abbandono“, dove l’aggettivo ‚dimenticate‘ va riconosciuto come discrimine fondamentale, „poiché un’opera, ‚Il barbiere di Siviglia‘, non fu mai dimenticata, e rimase di fatto una presenza costante nei teatri d’opera fin dalla sua première nel 1816“.[2] Questa definizione non è a mio avviso soddisfacente, poiché al tempo stesso eccessivamente e insufficientemente restrittiva. Eccessivamente restrittiva perché configura la renaissance come un fenomeno legato essenzialmente al recupero dei testi operistici, laddove il processo di riappropriazione ha riguardato anche altri aspetti dell’universo rossiniano, per esempio quello delle prassi esecutive. Anche l’accento posto sull’aggettivo ‚dimenticate‘ appare troppo limitante: seguire alla lettera l’invito a non considerare il „Barbiere di Siviglia“ nel computo della renaissance condurrebbe, per esempio, al paradosso di scartare un momento riconosciuto come cruciale della renaissance stessa, ovvero lo storico allestimento del „Barbiere“ firmato Abbado-Ponnelle montato prima a Salisburgo e poi a Milano fra il 1968 e il 1969. D’altro canto, la definizione di Brauner mi sembra insufficientemente restrittiva perché presuppone coordinate cronologiche più o meno nette per la renaissance, ma rinuncia a fissarle, il che, a ben guardare, è sintomatico di una incertezza diffusa nel periodizzare il fenomeno. Secondo alcuni la renaissance può considerarsi oggi conclusa, dato il pieno e completo accoglimento di Rossini e la sua musica nel canone, mentre per altri è processo tuttora in fieri. Più spinoso è il problema delle origini: come vedremo nelle prossime pagine, esistono varie proposte circa la data d’avvio della renaissance, il che implica una diversificazione delle interpretazioni storiografiche del fenomeno.
Date queste premesse, le riflessioni che svilupperò presuppongono un’accezione diversa della locuzione, ispirata da riflessioni teoriche sviluppate in studi recenti dedicati al fenomeno del revival musicale e dal concetto di ‚discorso‘ che Senici, guardando implicitamente a Foucault, delinea nelle pagine introduttive di „Music in the Present Tense“.[3] Con ‚Rossini renaissance‘ intenderò una costellazione discorsiva fatta di opere, eventi e parole che attestano intenzioni manifeste di recuperare da un passato percepito come irrimediabilmente disgiunto dal presente oggetti facenti parte dell’universo rossiniano, e di stabilizzarli nel presente anche a beneficio del futuro. In questa prospettiva, il senso e lo scopo principali della renaissance sono la monumentalizzazione del passato rossiniano. A differenza di quella di Brauner, una definizione di questo genere permette di iscrivere nella renaissance le attività umane più variegate (allestimenti operistici, edizioni critiche, contributi accademici, pratiche esecutive ecc.), e aggira il problema della periodizzazione legittimando confini cronologici flessibili, dal momento che il discrimine principale per ammettere o meno un fatto alla renaissance non sarà tanto la sua collocazione in un lasso temporale definito, bensì l’intenzione al recupero dichiarata ab origine oppure attribuita ex post (un fatto ‚neutro‘ può diventare recupero retroattivamente). Presupporre una siffatta definizione mi sarà soprattutto utile per mettere in rilievo come la ‚Rossini renaissance‘ sia una categoria storiografica tutt’altro che omogenea, comprendente fatti e intenzioni diversificati, complessi e continuamente rinegoziati. Se nell’accezione comune essa ha le fattezze di un ‚termine ombrello‘, a me interessa soprattutto porre l’accento sulle differenze interne al fenomeno, differenze che, esagerando ma non troppo, possono addirittura legittimare la declinazione di ‚renaissance‘ al plurale.
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Come accennavo sopra, alla ‚Rossini renaissance‘ sono state attribuite date di nascita diverse. La più antica (a proporla, fra gli altri, Bruno Cagli[4]) è il 28 novembre 1925, giorno in cui il Teatro di Torino fu inaugurato con „L’italiana in Algeri“, assente da decenni dai cartelloni teatrali italiani. Uno sguardo ai documenti sembra però negare che chi visse quell’evento lo percepì come un deliberato recupero rossiniano, e tantomeno come l’inizio di una riscoperta complessiva di Rossini. Dalle lettere che si scambiarono Guido Maggiorino Gatti e Vittorio Gui, rispettivamente direttore artistico e direttore d’orchestra del teatro, parrebbe che la scelta dell’„Italiana“ fosse stata dettata anzitutto dalla volontà di offrire uno spettacolo gradevole e disimpegnato, „una cosa viva e piacevolissima“,[5] adatta insomma alla festosità della circostanza. Né la stampa si discostò molto da quell’interpretazione, mostrandosi tutt’al più sorpresa dall’alta qualità musicale di un’opera ai più sconosciuta, senza però che questo si traducesse in auspici di stabilizzazione in repertorio. Siamo insomma già di fronte alla casistica di cui parlavo prima, quella cioè dell’inscrizione retroattiva di un fatto alla renaissance: l’„Italiana“ torinese è stata riconosciuta ex post come il momento in cui s’avvio il graduale ritorno sul palcoscenico delle opere dimenticate di Rossini.
Comechessia, l’evento in questione mi interessa qui soprattutto in quanto generatore di una successiva operazione di repêchage caratterizzata, quella volta sì, da un’intenzione di recupero inequivocabile, e forse per la prima volta formulata discorsivamente in modo pienamente organico e consapevole. Mi riferisco alla fastosa stagione rossiniana che nel 1929 il Teatro di Torino in trasferta a Parigi diede al teatro degli Champs-Élysées, con le rappresentazioni della solita „Italiana“, della „Cenerentola“ e del „Barbiere di Siviglia“, tutte dirette da Tullio Serafin. L’allestimento scenico e buona parte della compagnia di canto dell’„Italiana“ erano gli stessi visti a Torino quattro anni prima, ma il contesto era affatto diverso. In quel torno d’anni il teatro degli Champs-Élysées era solito accogliere compagini straniere in tournée che, nell’arco di poche settimane, offrivano stagioni monografiche dedicate alle musiche di un singolo compositore (Beethoven, Brahms, Mozart, Wagner ecc.). A scorrere la stampa del tempo si direbbe che tali operazioni incoraggiassero a ripensare in modo complessivo e meditato l’autore di volta in volta al centro della retrospettiva più che a consumare in modo estemporaneo gli spettacoli. Così fu per certo con il „cycle Rossini“ del 1929, che diede origine a un vivace dibattito capace di coinvolgere tanto i critici quanto i musicisti più in vista del momento attorno al tema (per citare il titolo efficacissimo di un articolo del tempo) del „ritorno a Rossini“.[6] Tale dibattito ha già attirato l’attenzione di Emilio Sala, che in un articolo del 1994 metteva in evidenza come le voci moderniste che si levarono in quell’occasione evocassero la „semplicità“ e la „giovinezza“ della musica rossiniana come antidoto contro le „ridondanti affettazioni“ del tardoromanticismo e dell’impressionismo.[7] Qui mi interessa invece porre l’accento sull’affiorare, all’interno di quei discorsi, del tema dell’identità italiana, promosso non a caso e soprattutto da voci italiane.
Fra queste, vorrei soffermarmi anzitutto su quella di Gatti. Nella sua veste di direttore artistico del Teatro di Torino, questi apparecchiò gli spettacoli parigini e curò i rapporti con la stampa. In particolare, ebbe modo di dialogare con il critico del „Journal des débats“ Henri de Curzon, il quale lasciò traccia di tali conversazioni in una recensione alle rappresentazioni dell’„Italiana“ e di „Cenerentola“. Alla richiesta di spiegare le ragioni di una stagione d’opera italiana piuttosto anomala, costruita com’era su un autore del passato laddove in precedenza al pubblico francese era stato proposto soprattutto quanto di più nuovo si produceva al di sotto delle Alpi, Gatti avrebbe risposto che la scelta era stata dettata anzitutto dalla volontà di dimostrare che Rossini fosse il più italiano fra tutti gli operisti italiani: „nessun maestro, Verdi come chiunque altro, caratterizza meglio di Rossini l’anima italiana; nessuno, fra quelli del passato, è rimasto più moderno a tal riguardo, nessuno, fra quelli moderni, sa evocare così perfettamente il genio della razza“.[8] Dove risiedesse, secondo Gatti, il primato d’italianità di Rossini la recensione di de Curzon non lo specifica, ma credo lo si possa dedurre in controluce da un altro testo facente parte della medesima costellazione discorsiva. Sull’onda del successo della stagione degli Champs-Élysées, la rivista dell’editore Pleyel „Musique“ promosse un sondaggio sul ‚ritorno‘ di Rossini (prontamente tradotto per i lettori italiani dalla „Rassegna musicale“ diretta dallo stesso Gatti), domandando a musicisti e letterati se le rappresentazioni parigine potessero essere considerate la rivelazione di un autore misconosciuto.[9] In risposta a queste sollecitazioni, Gatti si soffermò dapprima sulle ragioni dell’oblio scontato dalla musica di Rossini in Italia, additando quella principale nel lungo predominio dell’estetica wagneriana, la stessa dalla quale erano germinate „quelle diverse forme di decadenza e di oscurantismo che fiorirono in margine al Romanticismo durante gli anni anteriori alla guerra“. Quindi, indicò nella „costruzione solida e abile dei suoi insieme“, nella „chiarezza“ e nella „trasparenza“ del linguaggio, nella „franchezza con cui chiama pane e vino il pane e il vino, senza complicazione né metafora, sino a una certa sfrontatezza e ironia che non sono indifferenza o scetticismo, ma un’alta scienza e saggezza della vita“ le caratteristiche che facevano quella di Rossini una musica che parlava la lingua „del nostro tempo“ e che, „in una parola“, rappresentava „l’espressione più perfetta della gioia di vivere, della salute morale e fisica“. Leggendo queste argomentazioni alla luce dell’immagine riportata da de Curzon di un Rossini ‚arcitaliano‘, si potrebbe dire che, muovendosi entro la cornice delle interpretazioni moderniste di cui scrive Sala, Gatti parlasse anche di identità: Rossini è l’antidoto alle derive decadenti della musica italiana che scimmiotta il non-italiano Wagner, e lo è perché i pilastri su cui si regge la sua arte (vitalità, salute, solidità, chiarezza, schiettezza, esuberanza) sono l’espressione più genuina del „genio della razza“ italiana. A sostegno di questa interpretazione, mi preme sottolineare che le qualità riconosciute da Gatti alla musica di Rossini corrispondono a quelle che i discorsi nazional-patriottici italiani del tempo (soprattutto, ma non solo, quello fascista) si proponevano di instillare nel carattere degli italiani, un popolo che, secondo tali discorsi, doveva essere liberato dalla mollezza, lo scetticismo, l’ambiguità, il decadentismo dello spirito borghese e farsi „italiano nuovo“, cioè attivo, tenace, volitivo, franco, forte, sano.[10]
Ancor più espliciti nel proporre il tema dell’identità furono altri due italiani che presero voce nei discorsi sul „cycle Rossini“: Giuseppe Radiciotti e Dario Niccodemi. Il primo partecipò al sondaggio di „Musique“ nella sua veste di autentica autorità rossiniana, avendo appena licenziato la monumentale biografia „Gioachino Rossini. Vita documentata, opere ed influenza nell’arte“ (1927–1928). Nel suo intervento Radiciotti sviluppò un argomento che compare velatamente anche nel testo di Gatti, ovvero il ruolo salutare svolto dalla Grande Guerra sul carattere italiano e, di riflesso, sul ‚ritorno‘ di Rossini.[11] Grazie all’esperienza bellica gli italiani si sarebbero scrollati di dosso l’„onta“ di un provincialismo declinato in esterofilia ingenua per le cose di Francia e Germania, sostituendolo con il „culto amoroso“ per l’„arte nazionale, ingiustamente disprezzat[a] nel passato“: come, appunto, quella di Rossini. Loro compito, concludeva Radiciotti, era ora „intensificare l’opera di riabilitazione, o, per meglio dire, di rivendicazione col mezzo di scritti e specialmente di esecuzioni sceniche“: il recupero di Rossini, insomma, come forma di affermazione identitaria venata d’autarchia culturale. L’auspicio di un sempre più corposo recupero di Rossini alle scene lo espresse anche Niccodemi, reputatissimo commediografo e capocomico italiano allora di stanza a Parigi, che seguì la stagione degli Champs-Élysées come corrispondente del „Corriere della Sera“. Per Niccodemi,[12] nel „cycle Rossini“ si poteva individuare un chiaro „significato morale“: proporre ai francesi i capolavori dimenticati di Rossini era equivalso a riaffermare, agonisticamente, il primato dell’arte italiana e dell’Italia tout court, appena risorta a „vita nuova“. „L’arte italiana … ha avuto ragione di tutte le resistenze, di tutti i pregiudizi e di tutte le ostilità. Ha messo in ginocchio anche i nemici. Ha vinto una battaglia bellissima e memorabile“: nell’utilizzo reiterato della metafora bellica va riconosciuta la retorica della virtù guerresca della ‚nuova Italia‘ immaginata dal regime mussoliniano,[13] al quale avevano aderito tanto Niccodemi, firmatario del „Manifesto degli intellettuali fascisti“, quanto il „Corriere della Sera“ dell’era post-Luigi Albertini.
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Una seconda data d’inizio della ‚Rossini renaissance‘ molto gettonata è il 26 aprile 1952, giorno in cui al Maggio musicale fiorentino fu allestita „Armida“.[14] La funzione periodizzante che la storiografia musicale ha riconosciuto in questo evento risiede nella partecipazione all’allestimento di Maria Callas, alla quale fu affidato il ruolo del titolo: l’originalità sbalorditiva dello stile interpretativo della cantante greca emersa in quella circostanza è stata interpretata come segno d’avvio della poi fruttuosa stagione di recupero di una vocalità rossiniana considerata perduta. Qui mi interessa però soffermarmi sul contesto discorsivo entro il quale quell’evento fu esperito.
L’„Armida“ fiorentina si inseriva in una cornice poetica per certi versi simile a quella del „cycle Rossini“ parigino del 1929. Nel 1952, infatti, il Maggio musicale aveva preparato come piatto forte della sua stagione annuale un „profilo“ di Rossini, allestendo, nell’arco di poco più d’un mese, nell’ordine, „Armida“, „Il conte Ory“, „Tancredi“, „La scala di seta“, „La pietra del paragone“, „Guglielmo Tell“. Se le due opere francesi (in quell’occasione date in traduzione italiana) apparivano con una certa frequenza nelle programmazioni teatrali (anche italiane), le restanti quattro erano autentici repêchages da un oblio lungo oltre un secolo. Secondo i principi estetici sui quali il Maggio musicale storicamente si reggeva, una simile operazione aveva intenzioni culturali elevate: la scelta di titoli inconsueti andò di pari passo con un’oculata ricerca d’originalità negli allestimenti (quello d’„Armida“ in particolare, firmato da Alberto Savinio, si distinse per un certo sperimentalismo scenografico e registico[15]) e con la creazione di una cornice concettuale di alto profilo. A quest’ultimo scopo, la direzione del Maggio musicale arruolò come „suo osservatore e consigliere estetico“ Riccardo Bacchelli. Letterato italiano fra i più reputati del tempo e musicofilo appassionato, Bacchelli poteva vantare vari scritti sul Pesarese (su tutti una fortunata monografia pubblicata per la prima volta nel 1941 e più volte ristampata), che gli avevano guadagnato la patente di esperto rossiniano. In tal veste, egli fu chiamato a redigere il „manifesto“ programmatico della stagione fiorentina.[16]
Il testo di Bacchelli è particolarmente interessante nella prospettiva della mia indagine perché le argomentazioni che vi sono sviluppate muovono tutte da un’urgente preoccupazione identitaria. Avendo per scopo d’illustrare quale fosse (almeno a suo avviso) il „significato“ profondo del „Profilo Rossiniano“ in programma a Firenze, Bacchelli prese le mosse dal presupposto secondo il quale l’Italia sarebbe stata responsabile della circolazione di un’immagine fallace di Rossini e della sua musica:
„di questo genio della musica e del teatro, di questo bellissimo e italianissimo genio [corsivo mio], proprio l’Italia lascia andare per il mondo una idea e presentazione estetica e musicale e scenica meno che parziale, monca, peggio che decaduta, contraffatta, sciocca in gran parte, e, com’egli stesso ebbe a dire delle sue biografie e della sua leggenda, sovente assai ‚disgustosa‘“.
Una „presentazione“ fondata sugli annosi stereotipi di Rossini crapulone e del „Barbiere di Siviglia“ opera vacuamente „farsesca e virtuosistica“. Ma non è tutto: secondo Bacchelli „scorno e danno d’Italia“ era soprattutto l’aver perso il contatto diretto con larga parte del catalogo rossiniano (la stessa su cui si concentrava la programmazione del Maggio musicale), e quindi „la nozione esatta“ di essa e „la capacità di darne degna esecuzione in teatro“. L’onta italiana della dilapidazione di questo patrimonio artistico appariva tanto più grave se si gettava uno sguardo a quel che avveniva al di fuori dei confini nazionali:
„la comprensione, il rispetto, la scuola, lo stile[:] … di queste cose, tanto per dire, riguardo a Mozart e al suo teatro, vediamo Austria e Germania, pur nelle recenti catastrofiche vicissitudini, tanto sollecite e studiose. Anzi è proprio il caso, se le cose andranno avanti così, che perfino la Russia sovietica dove proprio quest’anno si sono fatte grandi celebrazioni rossiniane, diventi operosa, a mantenere la gloria e il gusto di Rossini, che non il Paese nativo di lui. Che sarebbe, non vogliam dire sarà, un bel caso e veramente confortante!“
Citando Austria e Germania Bacchelli pensava probabilmente ai festival mozartiani di Salisburgo e Würzburg, allora da poco rinati, mentre per quanto riguarda Rossini in Unione Sovietica aveva forse in mente una recentissima intervista a Šostakovič pubblicata dall’„Unità“ nella quale il compositore russo riferiva appunto di „una solenne celebrazione di Rossini“ a Mosca, chiosando, certo iperbolicamente, „abbiamo dato tutte le sue opere“. Comechessia, quel che mi interessa soprattutto sottolineare è il meccanismo ideologico in azione nel testo di Bacchelli. Le ‚disletture‘ e l’oblio che affettavano Rossini, le sue opere e la loro pratica, altro non erano, agli occhi dello scrittore, che una macchia sull’onore italiano, tanto più evidente se osservata alla luce di esperienze analoghe maturate in altri contesti nazionali. Si potrebbe dire, per rifarsi a un concetto di Alberto Mario Banti,[17] che per Bacchelli il Maggio musicale stesse conducendo un atto di nazionalizzazione dell’onore: ‚recuperare‘ Rossini, cioè liberarlo dagli stereotipi, riportarlo alle scene e riscoprirne i significati e le pratiche ‚autentiche‘, equivaleva a restituire dignità all’Italia. Un’interpretazione, questa, che assume ulteriore spessore ideologico se la si cala nel suo contesto precipuo: quello dell’Italia che stava ricostruendo faticosamente la propria identità nazionale dopo il trauma della seconda guerra mondiale e aveva in Bacchelli un intellettuale particolarmente propenso a indossare „i panni dell’ideologo moralista e conservatore“.[18]
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Un terzo momento spesso evocato come punto d’avvio della ‚Rossini renaissance‘ corrisponde all’apparizione del già menzionato „Barbiere di Siviglia“ firmato da Abbado e Ponnelle alla Scala di Milano il 9 dicembre 1969. Questo allestimento è passato agli annali per l’innovatività straordinaria dell’interpretazione registica e musicale; ma la funzione periodizzante ad esso assegnata si deve anzitutto al fatto che in quella circostanza fu utilizzata l’edizione critica dell’opera, fresca di stampa, confezionata da Alberto Zedda su commissione di Casa Ricordi, primo caso di un’opera italiana dell’Ottocento sottoposta a un processo ecdotico: da cui l’idea che a partire da quell’evento la musicologia irruppe nella renaissance, iniziando a svolgere un ruolo cruciale nel recupero rossiniano, e ridefinendo in particolare, proprio grazie alle edizioni critiche, l’approccio ai testi operistici e alle pratiche esecutive.[19] Ora, quel che mi interessa mettere in rilievo è come nei discorsi che nel torno d’anni del „Barbiere“ ‚di‘ Zedda si svilupparono sulle edizioni critiche rossiniane emergesse spesso il tema dell’identità italiana, declinata in particolare nelle sue valenze nazionali.
Un buon punto di partenza per le mie riflessioni lo fornisce un editoriale di Bruno Cagli apparso nell’annata 1971 del „Bollettino del centro rossiniano di studi“, il periodico della Fondazione Rossini di Pesaro.[20] Quest’ultima stava vivendo allora profonde ristrutturazioni, che la portarono in breve a trasformarsi da istituzione con orizzonti scientifici piuttosto ristretti in un centro di ricerca di respiro internazionale, all’avanguardia nel campo degli studi musicologici sull’opera. Uno dei fautori di questa svolta fu proprio Cagli: nel 1971 fresco di nomina a direttore artistico della Fondazione, egli tracciò le linee programmatiche del suo lavoro a venire nell’editoriale sopra evocato, dal titolo „Momento di Rossini“. Quel che Cagli mirava a dimostrare era che, a dispetto di un ritorno della musica di Rossini alla vita teatrale ormai più che ventennale (per lui il punto d’avvio della „rinascita“ erano quei primi anni Cinquanta dell’„Armida“ del Maggio fiorentino), lo stato degli studi fosse ancora drammaticamente arretrato, legato a „pregiudizi accumulatisi in almeno cento anni di critica ottusa e miope“, una critica (parola che Cagli usa come sinonimo di ‚musicologia‘) capace di ergere una „grande muraglia che ha cinto una gloriosa civiltà rendendola di difficile e distorta comprensione“. Paradossale, agli occhi di Cagli, era soprattutto il fatto che a generare simili „mostruosità musicologiche“ fosse stata la stessa „nazione che nel passato ha prodotto un così grande numero di capolavori, che è stata caposcuola per più secoli“: „si parla di critica musicale e di civiltà italiane“, precisava l’autore, enfatizzando non a caso l’attributo. I modi in cui la musicologia italiana aveva fino ad allora osservato Rossini, secondo Cagli, erano gravati da due opposte e ugualmente deleterie zavorre: da un lato, la concezione del dramma di marca tedesca, e wagneriana in particolare, che distorceva la comprensione delle specificità della drammaturgia rossiniana, e dell’opera italiana ottocentesca in generale; dall’altro lo sciovinismo („nessuno ha prodotto maggiori guasti in questo campo quanto coloro che hanno proclamato, sulle lapidi e sulle gazzette, Rossini‚ genio italico per eccellenza‘ e rappresentante della ‚genialità latina‘“). Ebbene, per Cagli l’antidoto principale a queste derive non poteva che essere la filologia delle fonti musicali e la sua ricaduta ecdotica, campi che stavano allora dissodando coloro che per diversi decenni a venire avrebbero condiviso con lui le sorti della Fondazione e che questi additava nel suo editoriale come gli esempi da seguire per la nuova generazione di studiosi rossiniani: Philip Gossett, responsabile di un lavoro „paziente e tenace“ di ricognizione documentaria, e Zedda, a cui andava il merito di aver „restituit[o] alla vera lezione“ „Il barbiere di Siviglia“ e „La Cenerentola“ (della seconda avendo preparato una revisione critica data alla Scala in quello stesso 1971). Che la linea programmatica tracciata da questo editoriale, poiché deliberatamente scientifica, parlasse una lingua universale lo dimostrano i successivi sviluppi internazionali delle attività della Fondazione a cui accennavo poc’anzi; eppure, mi sembra più che evidente che Cagli si rivolgesse anzitutto alla musicologia italiana, evidenziando la fallacia delle sue interpretazioni del passato rossiniano troppo o troppo poco attente alle specificità identitarie italiane, e indicando le vie virtuose che essa avrebbe dovuto seguire nel futuro per ridare dignità alla propria „gloriosa civiltà“.
L’invito alla filologia espresso da Cagli non era una novità. Già nel 1967 Alberto Pironti, predecessore di Cagli alla direzione artistica della Fondazione Rossini, aveva indicato nell’edizione critica delle opere del Pesarese uno dei „compiti“ che gli studiosi avrebbero dovuto affrontare per condurre „a completa maturazione“ la renaissance.[21] Ma indizi prodromici della creazione di un contesto favorevole a una svolta filologico-ecdotica si trovano nella già menzionata biografia rossiniana di Bacchelli del 1941, dove si lamentavano le edizioni coeve della musica di Rossini, al pari di „troppa parte della musica antica, e specialmente di quella di teatro, edita in testi difettosi, alterati, monchi, che attendono ancora l’inizio di una revisione critica“.[22] Anche se posto in una nota bibliografica in calce al volume, questo commento era tutt’altro che marginale nelle intenzioni, al punto che, nella terza edizione della biografia, Bacchelli ritornò proprio su questa chiusa per aggiungervi una frase lapidaria e polemica: i testi „difettosi, alterati e monchi“ bisognosi di „revisione critica“ del 1941 diventarono, nel 1954, „uno sconcio nazionale“.[23] Non è forse casuale che questa modifica avvenne dopo che Bacchelli maturò un’esperienza diretta con le pratiche esecutive della musica di Rossini nel suo ruolo di consulente del già menzionato Maggio fiorentino nel 1952; ma quel che qui importa soprattutto sottolineare è che la ‚nazionalizzazione‘ del problema e dell’esigenza di „revisione critica“ avvenne in una stagione di generale fibrillazione attorno allo statuto di ‚autenticità‘ dei testi delle opere italiane dell’Ottocento. Da lì a poco l’Italia musicale, e l’Italia tout court, sarebbe stata scossa da una vivace polemica che riguardò l’affidabilità delle edizioni delle opere di Verdi e di Puccini. La vicenda è nota.[24] Nell’estate del 1958 il periodico „La Scala“ pubblicò un intervento a firma del direttore d’orchestra australiano Denis Vaughan nel quale si dava conto di moltissime discrepanze fra le edizioni correnti del „Falstaff“ e del „Requiem“ verdiani pubblicate da Ricordi e i rispettivi autografi, e di conseguenza si metteva implicitamente in dubbio il valore di ‚autenticità‘ della tradizione interpretativa italiana, che sempre si era servita di quelle edizioni. L’articolo destò scalpore in Italia e fuori: nel 1961 fu rivolta al Ministro della pubblica istruzione un’interrogazione parlamentare sull’opportunità di favorire l’avvio di progetti di edizioni critiche delle opere verdiane e pucciniane; l’anno successivo si tenne un infuocato e seguitissimo dibattito pubblico al Conservatorio di Milano che oppose Vaughan al critico ‚ricordiano‘ Giulio Confalonieri, al termine del quale una giuria composta da musicisti italiani di spicco respinse senza appello le tesi del direttore australiano. Questa vicenda segnò una tappa cruciale nella storia delle edizioni critiche delle opere italiane, poiché fu proprio allora che si gettò il seme dal quale, nel giro di qualche anno, sarebbe scaturita la svolta filologico-ecdotica della Ricordi; ciò che qui importa mettere in rilievo, però, sono le preoccupazioni identitarie che emersero in quel frangente: una questione tutto sommato di nicchia quale il grado d’autenticità dei testi operistici e delle loro interpretazioni diventò uno scottante problema patrio. Come notava Philip Gossett, in quella circostanza Vaughan „offese l’onore nazionale italiano“.[25]
Non tutti, però, s’arroccarono in difesa di Ricordi e della tradizione esecutiva italiana. Chi fin dapprincipio sostenne le ragioni di Vaughan fu Massimo Mila, che sarebbe poi più volte tornato sulla vicenda per mettere in luce la miopia dimostrata in quell’occasione dall’establishment musicale italiano. Ciò avvenne, in particolare, quando Mila recensì con entusiasmo il „Barbiere“ scaligero del 1969, „ripulito dalle incrostazioni“ grazie all’edizione critica di Zedda commissionata da Ricordi:
„Si saluta con soddisfazione la conversione della grande casa editrice [Ricordi], che pochi anni or sono non aveva esitato a mobilitare i più bei nomi della musica italiana per farsi assicurare che le sue edizioni verdiane andavano benissimo così com’erano, pullulanti di contraddizioni. La verità finisce sempre col venire a galla, e tutto è bene quel che finisce bene.“[26]
Per Mila l’edizione critica del „Barbiere“ appariva insomma come una forma di compensazione tardiva della colpa di cui s’erano macchiati i massimi rappresentanti del mondo musicale italiano quando respinsero a viva forza le ragioni di Vaughan.
Se negli anni Cinquanta e Sessanta il problema delle edizioni critiche era investito di significati identitari contraddittori, la pubblicazione del „Barbiere“ ‚di‘ Zedda può essere considerata lo spartiacque oltre al quale a prevalere fu l’idea che lo sviluppo dei cantieri filologico-ecdotici delle opere italiane dell’Ottocento fosse un dovere nazionale. È sintomatico in tal senso che proprio queste ultime parole accompagnarono l’avvio di un altro momento cruciale della renaissance rossiniana, il Rossini Opera Festival di Pesaro, che sulle edizioni critiche costruì ab origine la propria identità. In una conferenza stampa svoltasi alla vigilia dell’edizione inaugurale del 1980, l’ideatore della rassegna Gianfranco Mariotti, allora assessore della cultura di Pesaro e poi per decenni direttore artistico del festival, individuò il significato ideologico profondo del progetto nella possibilità di contribuire alla riuscita dell’impresa nazionale delle edizioni critiche:
„C’è un ritardo nazionale per quel che riguarda le edizioni critiche di Rossini. Il recupero di questo ritardo è stato avviato dalla Fondazione [Rossini], e le manifestazioni, già sin da quest’anno, rappresenteranno il ‚prolungamento‘ ideale (con le esecuzioni) del lavoro di ricerca critica. Crediamo davvero che la città di Rossini si senta titolare di questo dovere nazionale.“[27]
6
Giunti a questo punto, mi sembra si possa affermare che il tema dell’identità italiana fatto emergere da Senici nelle sue indagini sul passato ottocentesco e sul presente sia un ingrediente di importanza cruciale anche nella ‚Rossini renaissance‘ (o nelle ‚Rossini renaissances‘) in Italia. Con questo non voglio dire, beninteso, che tutti gli italiani percepirono sempre e, soprattutto, sempre allo stesso modo i recuperi di Rossini come fatti riguardanti la loro identità: la diversità delle voci alle quali s’è dato qui spazio e la messa a fuoco delle specificità dei contesti presi in esame dovrebbe aver lasciato almeno intuire che a recuperi rossiniani diversi corrisposero declinazioni diverse del tema identitario. Resta però il fatto che nei vari modi in cui in Italia la ‚Rossini renaissance‘ (così come l’ho definita nel secondo paragrafo di questo articolo) si è via via manifestata sia connaturata un’idea che, come sottolinea Senici, sta alla base dei processi di costruzione delle identità (anche) nazionali: la continuità fra passato e presente. Mirando letteralmente a ‚riportare in vita‘ oggetti ‚morti‘ (opere dimenticate, stili vocali perduti, testi ‚autentici‘), la renaissance implica la possibilità di ristabilire una consequenzialità temporale fra ieri e oggi che si vuole naturale, ma che, in realtà, è artificiale. Il Rossini recuperato non è il Rossini perduto, così come l’italianità del passato non è quella del presente. Ne consegue che i valori identitari che gli italiani hanno riconosciuto e continuano a riconoscere nella renaissance rossiniana sono proiezioni di istanze proprie degli stessi italiani esperenti la renaissance piuttosto che elementi congeniti degli oggetti rossiniani recuperati: detto altrimenti, e mutuando concetti formulati da Emilio Sala nel suo studio sulla cosiddetta ‚trilogia popolare‘ verdiana,[28] essi non afferiscono all’ordine delle cose, cioè alla loro ontologia, ma all’ordine del discorso, cioè alla loro storia (o, se vogliamo, a un’ontologia fondata sulla storia).
Per restare nel solco metodologico tracciato da Sala, questa presa di coscienza può aprire a nuove opportunità storiografiche: da un lato quella decostruttiva, finalizzata a sottolineare il carattere ‚inventato‘ dei contenuti identitari della ‚Rossini renaissance‘ italiana, dall’altro quella ricostruttiva, orientata a mettere in luce la capacità dei discorsi identitari di ristrutturare retroattivamente i significati, e quindi le narrazioni, del passato. Ma rimarcare lo statuto storico delle costruzioni identitarie (siano esse dei discorsi della ‚Rossini renaissance‘ oppure di altri fenomeni che implicano l’idea della continuità fra passato e presente) può anche assumere un valore etico profondo. In tal senso, non posso non essere d’accordo con Senici quando afferma che
„[n]el nostro mondo, e forse soprattutto nella nostra Italia, mettere l’accento sulla possibilità della discontinuità, e in ogni caso sulla complessità e sulla latente contraddittorietà di ogni discorso identitario, specialmente quello che si impernia sulla nazione, anche solo quando scriviamo la storia del melodramma italiano, mi sembra possa costituire, nel suo piccolo, un contributo positivo ai nostri discorsi e alle nostre fantasie, in Italia e altrove“.[29]
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