Abstract
This paper stems from the research for my PhD thesis to identify, survey and classify the surviving documentary sources, published and unpublished, on Irpinia and the Sannio Beneventano: almost 1600 documents, both public and private, produced in the Lombard and Norman period. More specifically, this study investigates the conservation methods adopted within the archives of religious institutions whose existence and functioning depended on their titula and munimina. While the sources are very reluctant to provide information on the archival practices adopted in major churches and monasteries, the analysis of the diplomatic-archival notes affixed to the verso of the charters nevertheless provides some additional information. Adopting an approach combining palaeography, diplomatics and archive science thus allows us to paint a less generic picture than that hitherto known. The survey and examination of the verso annotations, usually given little attention in editions of the documents, proved highly significant for the identification of historic ecclesiastical archives, for the practices of archiving and preserving the papers, as well as for the identification of specific and recurrent methods of managing and conserving the documentary heritage of the old churches and monasteries, urban or rural, which represented significant gathering and reference places for the territory under their control. For some of these foundations, moreover, the study of unpublished documents has made it possible to add new evidence to what is already historically known.
E questo non è niente.
Cercate. C’è dell’altro.
(Pedro Salinas, „La voce a te dovuta“)
1 Tra cautela e memoria: la conservazione dei documenti
È ben noto che anche nel Meridione, così come nel resto d’Italia e d’Europa a partire dalla seconda metà dell’XI secolo, le carte redatte da notai e professionisti della scrittura nell’esercizio della loro attività, conservate originariamente negli archivi di piccole istituzioni ecclesiastiche, iniziarono a confluire negli archivi dei vescovati, dei capitoli cattedrali e delle fondazioni religiose da cui dipendevano. L’esigenza di un’accurata gestione della documentazione, avvertita soprattutto in occasione di particolari avvenimenti storici o quando piccole chiese e monasteri venivano donati ad altre fondazioni ecclesiastiche, oppure nel momento in cui si procedeva a una riorganizzazione dei beni immobili e dei terreni posseduti, o si rendeva necessario un accertamento patrimoniale, portò con sé una maggiore attenzione nella conservazione dei munimina in archivi sempre meglio custoditi e organizzati, nonché un irrobustimento dell’attività amministrativa, finalizzata alla stabilitas e alla firmitas del patrimonio ecclesiastico. E le carte superstiti si riferiscono soprattutto alle fondazioni religiose e ai laici che con queste avevano rapporti giuridici, essendosi conservati i documenti, per la quasi totalità, per il tramite di archivi ecclesiastici.
La necessità di custodire la documentazione prodotta è stata sempre una delle maggiori priorità per le istituzioni religiose, ricadendo anche sul documento scritto la possibilità di dimostrare la legittimità del possesso di beni e diritti loro spettanti: prova e allo stesso tempo „arma“, munimen e „munizione“,[1] come ben espresso dal celebre motto abbaziale, frequente nei testi del XII secolo, „claustrum sine armario est quasi castrum sine armamentario“. Chiese e monasteri conservavano quindi gli atti e i documenti prodotti nel corso dell’attività di gestione del loro patrimonio per finalità concrete: quell’„endiadi di memoria e cautela“ che Francesco Senatore definisce „il fondamento della scrittura e archiviazione amministrativa“.[2] Siamo pertanto nel pieno di quel fenomeno ben conosciuto e definito da Paolo Cammarosano come „l’egemonia della tradizione ecclesiastica“, che tanto condizionò la fisionomia delle fonti documentarie secondo caratteristiche più o meno uniformi in tutta Italia fino al XII secolo.[3] Soltanto da allora il panorama delle scritture iniziò a differenziarsi nelle diverse regioni della penisola, modellandosi sia in relazione agli eventi storico-politici e ai particolarismi territoriali, sia, soprattutto, in funzione degli scopi pratici che chiese e monasteri intendevano perseguire.
In area beneventana e irpina, oltre alle grandi fondazioni ecclesiastiche di impianto cittadino o rurale, che in età longobarda e normanna rappresentavano significativi poli di aggregazione per il territorio ad esse soggetto, pressoché inesistenti sono le testimonianze circa le modalità di conservazione documentaria: un gran numero di carte erano conservate anche all’interno delle piccole chiese e dei piccoli cenobi, dove plausibilmente le scritture si accumulavano spontaneamente e venivano conservate dal sacerdos o dal clericus della chiesa, o dall’abate stesso o dal prepositus che si occupava dell’amministrazione. Pure se non documentata, è tuttavia ipotizzabile anche per quest’epoca, in analogia con altre realtà della Penisola, l’esistenza di capsae e sacculi, facilmente trasportabili qualora necessario, e forse successivamente anche di armaria o altri ripostigli in cui titula e munimina venivano custoditi con cura dai religiosi. Nelle carte superstiti esaminate non vi è alcun accenno a locali, stanze o mobili in cui era raccolta la documentazione prodotta e non si rinvengono termini quali chartarium, tabularium, archivum o scrinium. Possiamo soltanto presupporre che i documenti fossero collocati in un luogo sicuro insieme alle scritture più antiche e ai codici della bibliotheca – termine invece sporadicamente attestato nelle carte – tutti insieme a formare il cosiddetto archivio-thesaurus, in cui i documenti più solenni quali gli atti di fondazione di chiese e monasteri, gli atti di dotazione, i privilegi e le esenzioni loro concessi si conservavano molto spesso insieme ai documenti di natura privata e ad altri titoli di proprietà, ai manoscritti e agli oggetti preziosi.
La definizione di ‚tesoro di carte‘, tuttavia, deve essere adattata e applicata alle singole realtà monastiche di quest’epoca: nel suo ben noto contributo sulla natura e la struttura degli archivi, Filippo Valenti, nel definire l’archivio-thesaurus in opposizione all’archivio-sedimento come una „deliberata, sistematica e ordinata selezione, costituita sempre per scopi pratico-operativi …, di titoli giuridici e di altri documenti, carteggi, memorie, dati e notizie utili, estrapolati o richiamati per lo più, ma non necessariamente, dall’archivio-sedimento del titolare stesso o di enti od uffici ad esso subordinati“, avverte che „tra l’uno e l’altro di questi due estremi corre non solo tutta una gamma di realtà archivistiche obiettive, ma anche tutta una gamma di modi soggettivi di concepire l’entità archivio: vuoi da parte di chi la produce o la costituisce, vuoi da parte di chi vi lavorerà poi come ordinatore o ricercatore, vuoi infine da parte di chi la consideri oggetto astratto di elaborazione dottrinale“. Sulla stessa linea interpretativa, pure se la definizione è elaborata in riferimento ai secoli successivi al Duecento, anche Andrea Giorgi e Stefano Moscadelli descrivono l’archivio-thesaurus come un „deposito di materiali archivistico-documentari“ funzionale alla tutela dei diritti della comunità“, in opposizione all’archivio sedimentazione, „funzionale all’attività di gestione ordinaria dell’ente“,[4] che a partire dal XIII secolo si affiancherà all’archivio-thesaurus, nettamente preponderante nei secoli dell’alto e pieno medioevo. Infine, per chiudere con l’assertiva definizione di Elio Lodolini, recentemente scomparso, „il trésor de chartes non è un archivio: anzi, esso costituisce proprio l’opposto di un archivio“, in quanto il materiale documentario „non è archivisticamente organizzato“ e si concreta in una „collezione di documenti“.[5]
Siamo in ogni caso ben lontani, in quest’epoca, non soltanto da una coscienza archivistica tout court, ma anche da quel custos cartarum al quale, negli anni Trenta della Bobbio del IX secolo, era stato affidato l’incarico di custodire le carte del monastero di S. Colombano.[6] Occorrerà attendere almeno il XIV secolo perché i grandi monasteri inizino ad annotare in registri e platee, più o meno dettagliatamente, gli atti più recenti attestanti i loro possedimenti e i censi dovuti dai loro affittuari: finalità ancora ben concrete e contingenti, limitate ad alcuni periodi e ad un numero limitato di carte, quelle che oggi definiremmo parte dell’archivio corrente dell’ente. E soltanto a partire dal Cinquecento si incontreranno indici ed elenchi più corposi, comunque sommari e parziali, che ancora nulla avranno a che vedere con i più metodici repertori settecenteschi.
È evidente, in un contesto siffatto, che gli antichi archivi non rispondevano alle sistematiche logiche di gestione e tenuta di quelli di età moderna e contemporanea e che una descrizione di archivio in questi secoli debba necessariamente tener conto delle molte variabili che ne determinavano esigenze e caratterizzazioni, difficilmente inquadrabili in una definizione statica.[7] Se già Claudio Pavone aveva messo in discussione la cosiddetta teoria del rispecchiamento, vale a dire l’assunto secondo cui „l’archivio rispecchia … il modo con cui l’istituto organizza la propria memoria, cioè la propria capacità di autodocumentarsi in rapporto alle proprie finalità pratiche“,[8] a maggior ragione, nei secoli dell’alto e del pieno medioevo, l’archivio sembrerebbe essere „il risultato finale di un percorso di aggregazione e dispersione di documentazione non casuale, ma legato alla forza di chi lo conserva“,[9] vale a dire il prodotto delle „manipolazioni che nel corso del tempo l’archivio ha subito“,[10] in quanto memoria scritta „di volta in volta locupletata o ridotta, registrata, ordinata, catalogata, trasmessa o sequestrata dai conservatori ufficiali che la custodiscono, la studiano e ne costituiscono i riconosciuti mediatori“.[11] La documentazione veniva infatti raccolta in base a logiche selettive, dipendenti dalla personalità dei diversi enti religiosi, che nulla aveva ancora di spontaneo e naturale, dando luogo a „una conservazione generalmente mirata alla tutela di ciò che all’epoca si giudicava ancora passibile di utilizzazione per scopi correnti o per la difesa di diritti“, soprattutto in sede processuale. Dovevano quindi esistere „strategie – anche minime – di conservazione, pur mancando ovviamente ogni riferimento a motivazioni diverse da quelle amministrative“.[12] Gli stessi cartulari prodotti nel corso del XII secolo, senza entrare nel merito delle ragioni per le quali furono redatti e quindi della loro funzione giuridica,[13] sono anche – ma non solo – espressione spontanea di queste logiche conservative, contenendo una più o meno corposa selezione di scritture documentarie ritenute maggiormente significative per la storia e i diritti della fondazione, inserite all’interno di una strutturata cornice formale, che conferisce vis, robur, e quindi fides all’intera compilazione, utile ad essere presentata come prova processuale in occasione di controversie e dispute patrimoniali.[14] Inoltre, soltanto in rari casi, cui si accennerà in prosieguo, i documenti provenienti delle varie celle e dipendenze, che nel corso del tempo erano confluiti negli archivi delle fondazioni da cui dipendevano, sono andati a formare fondi o serie separate; per lo più queste carte hanno finito per confondersi con la restante documentazione lì custodita. Nessuna attenzione, quindi, come ovvio, per quelli che oggi definiamo ‚principio del rispetto dei fondi‘ e ‚principio di provenienza‘ delle carte, non soltanto per la scontata inesistenza di una moderna coscienza archivistica, ma soprattutto perché le singole chiese soggette, ben lungi dal rappresentare unità indipendenti e autonome, erano considerate parte integrante e costitutiva della fondazione da cui dipendevano, e di conseguenza anche i loro documenti, se pure conservati in loco, erano funzionali a garantire i diritti e il prestigio della casa madre. In alcuni casi, tuttavia, sono stati individuati alcuni nuclei documentari prodotti da piccole obbedienze cittadine o rurali che in seguito confluirono negli archivi delle fondazioni religiose cui erano soggette: si considerino, per esempio, i molti documenti riconducibili al monastero di S. Michele Arcangelo di Ariano Irpino e alle chiese di S. Colomba e S. Pietro ad Caballum di Benevento, dipendenti dall’abbazia beneventana di S. Sofia; al monastero di S. Maria di Porta Somma, il cui archivio è confluito poi in quello di S. Pietro intra muros di Benevento; al monastero di S. Leonardo di Avellino e alle chiese di S. Maria de Archi o de Mortuis di Atripalda e S. Cataldo di Taurasi, soggetti all’abbazia di Cava de’ Tirreni; alle chiese dei SS. Filippo e Giacomo nella città nuova di Benevento e di S. Nicola di Mercogliano, dipendenti dall’abbazia di Montevergine. Gli esempi sono molti e non sempre le carte sono facilmente individuabili e raccolte a formare nuclei documentari ben identificabili: non esiste infatti ad oggi alcuna informazione certa sulla cronologia degli incameramenti e non si dispone di inventari o anche solo semplici elenchi relativi ai possedimenti più antichi delle fondazioni religiose e alla documentazione ad esse collegata.
Tutto ciò premesso, per citare ancora le parole di Armando Petrucci, „non si conserva mai tutto ciò che si è scritto o tutto lo scritto che si è ricevuto“:[15] non è pensabile infatti che tutta la documentazione prodotta e ricevuta da queste grandi fondazioni si sedimentasse nel corso del tempo senza alcun intervento da parte dei religiosi che ne avevano cura. Selezioni e scarti dovevano essere effettuati di continuo, qualora non vi fosse più né spazio sufficiente né ragione di conservare tutte quelle carte che avevano ormai esaurito la loro funzione: si valutino in particolare le carte che attestavano patti agrari, in qualunque forma e tipologia documentaria redatti, la cui validità era limitata a 29 anni o a tre generazioni, salvi eventuali rinnovi specificamente previsti negli accordi stessi, oppure quei negozi che prevedevano la concessione di esenzioni, privilegi e diritti in genere, solitamente circoscritti alla vita del beneficiario. Ma si pensi anche a tutti quegli atti che certificavano pagamenti effettuati o documentavano promesse di vario genere, come le carte di morgengabe e le wadiationes, oppure documenti di pegno, cessioni di garanzie reali e personali, e tutte le altre fattispecie giuridiche, solitamente legate alla struttura formale del memoratorium, che perdevano la loro rilevanza nell’arco di un tempo relativamente circoscritto e non avevano motivo di essere conservati una volta che l’atto da cui dipendevano aveva perso la sua efficacia giuridica, oppure quando il passare del tempo aveva sfumato anche la loro residua funzione probatoria.[16] Documentazione di questo genere finiva certamente per essere stipata in qualche armadio prima che il tempo ne guastasse il supporto o eliminata alla prima occasione utile.[17] Alle naturali – e necessarie – dinamiche di conservazione interne agli archivi, a cui non si può non correlare, purtroppo, anche la manchevole scarsa attenzione e l’inadeguata conservazione dei documenti da parte di chi vi era preposto, occorre poi aggiungere gli accidenti naturali come terremoti, crolli e incendi, nonché i conflitti bellici e le turbolenze che coinvolsero la popolazione, i governanti delle città e le istituzioni civili ed ecclesiastiche, tutti fattori che hanno contribuito sinergicamente alla rarefazione della documentazione più antica, insieme a quella „casualità della trasmissione“ di cui parla Arnold Esch, che proprio in quanto „libera da ogni intenzione“ è „forse ancora più insidiosa per la nostra conoscenza“.[18]
2 Carte private e munimina: ospiti inattesi in archivio
Sembrerà banale ricordare qualcosa che gli archivisti danno per scontato, e cioè che il soggetto produttore non è necessariamente l’autore dei documenti presenti in archivio, ma nel medioevo questo fenomeno assume proporzioni notevoli: accanto alla consistente documentazione prodotta nel corso della loro attività e a quella proveniente dalla cancelleria pontificia e dalle cancellerie sovrane laiche, presso le istituzioni ecclesiastiche si conserva infatti anche un consistente numero di documenti che sono pervenuti negli archivi per ragioni diverse e che risalgono spesso a periodi ben anteriori alla loro fondazione. Basti pensare, un esempio per tutti, che nell’abbazia di Cava de’ Tirreni si conservano almeno 600 pergamene anteriori alla sua erezione, che furono trasferite insieme ai beni e alle proprietà, oppure acquisite nel corso dei secoli insieme alle chiese e ai monasteri che i proprietari donavano all’abbazia per la salvezza delle loro anime.
Frequente era la prassi di depositare gli atti privati negli archivi delle fondazioni ecclesiastiche, per evitare che andassero perduti, a testimonianza dello stretto legame, attestato fin dall’antichità classica, tra funzione di custodia e luogo di conservazione: era più che naturale nel medioevo seguire „l’antica costumanza di depositare talvolta e temporaneamente nel cimeliarchio, nel sacrario delle nuove basiliche le cose più preziose, comprese le scritture“.[19] Sono infatti ben documentati i casi di disposizioni testamentarie in cui il testatore dichiara manifestamente la propria volontà a che i propri strumenti e le proprie carte debbano essere consegnati agli archivi di monasteri e chiese. Presso la Biblioteca Capitolare di Benevento sono conservate molte carte che documentano atti tra privati che non hanno alcuna attinenza con l’attività del Capitolo, inducendo a pensare, come già suggerito da Vincenzo Matera, che l’archivio „sia servito da archivio di deposito di pergamene di privati“.[20]
Come nel resto d’Europa, signori e feudatari depositavano spesso i documenti che riguardavano gli affari di famiglia all’interno delle chiese da loro fondate o nelle fondazioni presenti sul territorio:[21] si sono individuati talora anche piccoli dossier documentari, custoditi accuratamente per decenni dai proprietari e poi trasferiti insieme ai beni, a testimonianza non solo dell’esistenza di una catena ininterrotta di danti causa (garanzia necessaria in un sistema giuridico come quello longobardo in cui l’autore di un’azione giuridica aveva l’obbligo di presentarsi in giudizio per antestare et defendere il suo avente causa, cioè di assumere su di sé l’onere della difesa del bene che aveva trasferito), ma anche della forte connessione tra luogo di conservazione, trasmissione della memoria ed esercizio del potere.[22] Più spesso si tratta di documenti attestanti contratti traslativi della proprietà avvenuti ab antiquo, conservati dai privati e poi consegnati agli abati e ai prepositi di chiese e monasteri quale prova di giusto possesso in seguito a successivi atti di trasferimento di beni e diritti a loro favore. Così, per esempio, nell’archivio dell’abbazia di Montevergine sono conservati non soltanto i documenti prodotti a partire dalla sua fondazione nel 1125, ma anche, ovviamente, tutti quei munimina che costituivano il titolo di possesso dei beni successivamente incamerati dal cenobio benedettino.
In mancanza di riferimenti e annotazioni archivistiche chiare nel verso delle membrane, le carte sembrano essere presenti nell’archivio quasi per caso e non è sempre agevole chiarire le dinamiche e le circostanze che hanno portato questi documenti nel patrimonio documentario di un soggetto conservatore: se a prima vista possono infatti sembrare depositati in archivio per garantirne la conservazione, potrebbe tuttavia trattarsi anche di munimina, per i quali si è però perso il ricordo dei negozi e dei beni a cui erano collegati, essendo andati dispersi gli originali e gli elenchi in cui furono annotati (se mai esistiti).
La presenza in archivio di queste carte è tuttavia estremamente significativa in quanto, anche se difficilmente potremo conoscerne le procedure di trasmissione, attesta l’esistenza di pratiche di conservazione private, volte a garantire il possesso dei beni di famiglia e ad affermare l’esistenza del giusto possesso di beni e diritti. Ne è testimonianza un dossier, attualmente in corso di studio, che è conservato presso la Badia della SS. Trinità di Cava de’ Tirreni e proveniente probabilmente dall’archivio del monastero di S. Benedetto di Avellino ad essa soggetto, che raccoglie documenti relativi ad alcuni terreni a Capriglia in località Baneo (AV), datati tra il 956 e il 1025, in cui è evidente una sincera attenzione per la conservazione e la trasmissione delle membrane da parte dei membri della famiglia, di generazione in generazione.[23]
3 Il verso delle carte: una finestra sugli archivi
L’individuazione degli istituti di conservazione e lo studio della loro storia istituzionale, nonché il riconoscimento, attraverso le date di luogo dei documenti, di quei centri minori del territorio longobardo meridionale in cui si produceva documentazione, ha reso possibile tracciare una ‚mappa documentaria‘, cioè una topografia dei centri di rogazione localizzati sul territorio. Tale mappatura, elaborata sulla base di circa 1400 documenti pergamenacei conservati attualmente (con l’esclusione pertanto di circa 250 carte di cui si ha notizia da una tradizione indiretta e sui cui originali non è possibile condurre alcuna indagine), ha restituito una ‚cartografia‘ completa di tutto il territorio esaminato, evidenziando l’importanza di alcuni di questi centri che, pure se non completamente indipendenti dal punto di vista istituzionale e amministrativo da Benevento o da altri luoghi importanti della regione, si sono tuttavia evoluti seguendo percorsi di relativa autonomia, ognuno con le sue caratteristiche, che si definiranno più precisamente a partire dalla prima metà del XIII secolo. Si pensi ad Avellino, a Benevento e a Mercogliano, ma anche a Montefusco, ad Ariano Irpino, all’area del Castrum Tocci, a Summonte e a Taurasi, che superano le trenta unità documentarie ciascuna, nonché a Monteforte Irpino, a Montevergine, a Limata, ad Atripalda e a Flumeri, dove è stato rogato un discreto numero di carte ancora oggi conservate e che certo dovevano essere originariamente in numero molto maggiore.
In queste pergamene sono attestati numerosi chiese e monasteri, molti dei quali, tuttavia, rappresentano spesso soltanto uno dei tanti punti di riferimento topografico per la localizzazione delle terre, delle vigne, dei boschi e di tutti gli altri beni immobili di cui si disponeva attraverso la documentazione:[24] la formula „prope ecclesiam Sanctae/i …“ compare infatti in più del 13 % del totale delle carte prese in considerazione e la loro citazione costituisce soltanto un’attestazione storica e una sorta di terminus, un elemento a forte connotazione territoriale, noto a tutti e quindi in grado di identificare e delimitare uno specifico luogo senza alcuna incertezza. Numerose altre chiese e monasteri invece, oltre a costituire un riferimento geografico e territoriale, compaiono come emittenti o destinatari di atti giuridici, titolari di diritti e obblighi nei confronti di soggetti terzi, pure se dipendenti da altri istituti ecclesiastici e quindi magari soltanto titolari di una più o meno marcata autonomia amministrativa, e si identificano come soggetti produttori di archivi, partendo dall’assunto che ogni fondazione ecclesiastica conservasse in qualche modo, se pure semplice ed embrionale, le carte su cui si fondava il giusto possesso dei propri beni e diritti. Nella fig. 1 si rappresentano i dati relativi ai documenti presenti negli istituti di conservazione indagati in questa ricerca,[25] distinguendo, accanto al totale dei documenti, il numero e la percentuale di quelli in cui chiese e monasteri rappresentano un semplice punto di rèpero topografico, oppure si caratterizzano per essere parte attiva del negozio giuridico:

Chiese e monasteri citati nei documenti.
Nella documentazione esaminata sono stati individuati 202 istituti ecclesiastici giuridicamente attivi, per alcuni dei quali, pur conoscendo la zona in cui erano edificati, non è stato purtroppo possibile procedere ad una identificazione, nell’impossibilità, ad oggi, di rinvenire riscontri storici, citazioni o elementi di altro genere utili al loro riconoscimento. Questa documentazione è stata in gran parte ricondotta agli archivi dei soggetti produttori attraverso l’analisi paleografica e diplomatistica delle note di carattere archivistico apposte sul verso delle carte. Solitamente lasciato un po’ in ombra nelle edizioni dei documenti, il rilevamento degli attergati, che ha interessato tutte le carte esaminate e tutte le fondazioni ecclesiastiche giuridicamente attive,[26] si rivela invece uno strumento molto importante per l’individuazione degli antichi archivi ecclesiastici e per indagare le coeve pratiche di conservazione della documentazione. Nel verso delle pergamene sono infatti spesso appuntate con precisione, da mani diverse e spesso molto risalenti, informazioni relative all’atto giuridico vergato sul recto, quali per esempio la tipologia negoziale, la localizzazione e il titolo delle chiese coinvolte, nonché brevi compendi del documento, integrati o affiancati in età moderna da regesti più elaborati, testimonianza di ordinamenti archivistici effettuati negli archivi dei soggetti conservatori.
Lo studio delle scritture, la collazione tra le diverse mani che hanno scritto sul supporto, la ricerca di somiglianze e differenze e la posizione stessa delle note dorsali sono tutti elementi in grado di fornire informazioni preziose sulle dinamiche di sedimentazione e conservazione delle carte e sui successivi spostamenti della documentazione all’interno degli archivi, integrando così, con nuovi dettagli, quanto già noto circa la storia archivistica e le vicende di alcune piccole chiese e di piccoli monasteri incastonati in aree rurali e periferiche, di cui si darà conto nelle prossime pagine.
Se pure gran parte della documentazione di età longobarda e normanna prodotta nelle zone di Benevento e Avellino è andata dispersa per le ragioni dette sopra, una gran parte di essa è conservata ancora oggi presso gli originari soggetti produttori (e conservatori finali), che si caratterizzano in questi casi per aver prodotto l’archivio e per aver mantenuto la custodia ininterrotta delle carte nel corso del tempo. Tra questi rivestono primaria importanza gli archivi delle abbazie della SS. Trinità di Cava de’ Tirreni, di Montecassino e di Montevergine, nonché la Biblioteca del Capitolo della Chiesa cattedrale di Benevento. Un cospicuo numero di carte sono reperibili tuttavia anche presso la Biblioteca Apostolica Vaticana e l’Archivio romano della Procura Generale della Congregazione dei Canonici Regolari Lateranensi a S. Pietro in Vincoli, in cui sono confluite per vie diverse nel corso del tempo. In seguito a ripetuti versamenti si sono formati anche i cosiddetti fondi antichi conservati presso alcuni archivi pubblici e privati, come l’Archivio di Stato e la Biblioteca Nazionale di Napoli, la Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria, l’Archivio Storico Provinciale di Benevento presso il Museo del Sannio, e l’Archivio della famiglia Aldobrandini a Frascati, in provincia di Roma.
4 Benevento: un particolarismo archivistico
Benevento non fa eccezione: anche qui un gran numero di carte sono andate distrutte e disperse nel corso del tempo per le ragioni già dette. In particolare, il pomeriggio di sabato 5 giugno 1688 un violento terremoto colpì la zona a nord-ovest di Benevento e a sud-ovest dei Monti del Matese, radendo al suolo molti paesi del Molise e della Campania, uccidendo circa 1400 dei 7500 abitanti della città e distruggendo più dell’80 % degli edifici. Le perdite per il patrimonio documentario conservato all’interno delle chiese e dei monasteri furono incalcolabili: una gran quantità di scritture dovette rimanere sotto le macerie e andare distrutta o dispersa, fatto questo che determinò il deciso intervento del cardinale Vincenzo Maria Orsini – il futuro papa Benedetto XIII – nominato arcivescovo di Benevento nel concistoro del 18 marzo 1686. L’Orsini, resosi ben presto conto che negli archivi dell’arcidiocesi non vi era stata alcuna attenzione per la conservazione delle antiche carte, organizzò una sistematica operazione di recupero e riordinamento delle scritture conservate presso la Curia beneventana, estendendola poi anche a tutte le chiese e ai conventi della città (fig. 2).

Benevento. Localizzazione delle più importanti fondazioni ecclesiastiche e dei punti nevralgici della città.
L’arcivescovo dimostrò in tal modo notevole lungimiranza, se si tiene conto che l’ordinamento orsiniano sopravvive ancora oggi nei fondi della Biblioteca Capitolare e dell’Archivio storico provinciale, che raccolgono la documentazione di molte chiese e monasteri cittadini, rendendo così Benevento un vero e proprio particolarismo archivistico. Fu istituito un archivio presso ogni fondazione ecclesiastica della diocesi, obbligata a procedere a una vera e propria ricognizione a tappeto degli antichi documenti conservati. Con tutta probabilità, l’Orsini fece compilare degli elenchi da seguire in modo rigoroso per organizzare e suddividere coerentemente l’intero patrimonio documentario ecclesiastico beneventano, sulla base dei quali le pergamene di tutte le case religiose furono suddivise per materia, ordinate cronologicamente, piegate e cucite in volumi, che solo recentemente sono stati sciolti per poter spianare e restaurare i fogli pergamenacei.[27]
Il punto di partenza dell’intervento orsiniano fu chiaramente la Biblioteca Capitolare di Benevento, le cui origini possono farsi risalire all’inizio del IV secolo e che si configura sia come soggetto conservatore sia come soggetto produttore dell’archivio. L’ininterrotta conservazione delle carte fin dalla fine dell’VIII secolo e gli interventi di riordinamento operati dall’arcivescovo Orsini hanno limitato significativamente i rischi di sottrazione e dispersione dell’antico materiale pergamenaceo. Esaminando i documenti dell’archivio-biblioteca nel loro insieme, non sembra in alcuni casi potersi rinvenire alcun legame tra le carte e l’ente conservatore, ponendo perfino in dubbio l’esistenza di una prassi consolidata, seguita nel corso dei secoli dai religiosi, per la cura e la registrazione delle carte.[28] Tuttavia, spostando l’attenzione dai documenti della biblioteca come istituto di conservazione a quelli delle singole obbedienze, confluiti nel corso del tempo nell’archivio della Curia, sembra possibile aggiungere qualche particolare in più ad un quadro delineato soltanto nelle sue linee essenziali.
La chiesa di S. Andrea de plazza o de platea maiore
Nel verso di due carte conservate in Capitolare e provenienti dalla chiesa cittadina di S. Andrea de plazza o de platea maiore,[29] la stessa mano di XII–XIII secolo utilizza una minuscola di base carolina per specificare l’ubicazione di una vigna e di un terreno che nell’agosto 1177 furono venduti alla chiesa e di tre terreni che nel maggio 1180 furono oggetto di permuta tra il priore di S. Andrea e il custode della chiesa dei SS. Quaranta Martiri. Un’altra mano di poco successiva annota su una carta del gennaio 1183 la tipologia negoziale attraverso cui viene documentato un atto di disposizione di beni e diritti, il „testamentum Iohannis de Monte Calvo“. Tutti gli attergati sono situati presso il margine superiore del foglio, i primi due nello stesso senso e il terzo capovolto rispetto al testo sul recto, in modo tale da facilitare la ricerca dei documenti all’interno dell’archivio senza bisogno di dover leggere i documenti: questo dato potrebbe far supporre che le membrane venissero conservate arrotolate col testo all’interno oppure, anche se meno probabile, tenute distese su scaffali o in casse, con il testo rivolto verso il basso. Essendo queste le uniche occorrenze riconducibili a questi scrittori nelle carte della Capitolare, si può ipotizzare che queste annotazioni siano state apposte nell’archivio della chiesa di S. Andrea, prima che le membrane entrassero a far parte del fondo diocesano e si confondessero con quelle lì conservate, attestando così l’esistenza, sia pure in nuce, di pratiche finalizzate alla gestione e alla conservazione documentaria.
La fondazione di S. Paolo apostolo secus murum
Un caso particolare è poi rappresentato dalla fondazione beneventana di S. Paolo apostolo, comprendente la chiesa e il successivo annesso monastero, per la quale è stato possibile ricostruire alcune vicende fino all’agosto 1174 sulla base dei documenti conservati in diversi archivi.[30] Costruita „secus murum huius Beneventane civitatis“, nell’area nord della città vecchia, non lontano dall’antica Porta Rettore, „secus trasendam publicam que dicitur de Leone iudice“, è attestata fin dal 762, all’epoca del presbyter Iohannes,[31] ed era soggetta al monastero di S. Benedetto a Pantano presso il fiume Calore almeno dal 18 dicembre 1012, quando i principi longobardi di Benevento Pandolfo II, Landolfo V e Pandolfo III ne confermarono all’abate Amato alcuni possedimenti e prerogative.[32] Ulteriori notizie risalgono al secolo successivo, quando nell’agosto 1109 Guidelmo figlio di Atenolfo e nipote di Pandolfo principe di Capua, donò pro anima al cenobio di S. Sofia di Benevento la sua porzione della chiesa e monastero di S. Benedetto sul Calore, che possedeva insieme ad altri non precisati consortes, insieme alla ecclesia monasterialis di S. Paolo (è questo il primo documento in cui si fa riferimento sia alla chiesa sia all’esistenza di monastero), ancora pertinente alla chiesa di S. Benedetto.[33] Nel novembre dell’anno successivo, un tratto di alveo del fiume Calore, detto Gurgum obscurum, con annessa una terra, un’iscla e un saliceto su cui erano costruite le chiese di S. Benedetto e S. Paolo furono oggetto di una permuta tra il monastero di S. Sofia e un certo Roffredo del fu Giovanni[34] e nel luglio 1112 Landolfo II arcivescovo di Benevento concesse per ventinove anni a Pietro, sacerdote e abate del monastero di S. Paolo apostolo, un terreno nel suburbio della città vecchia, col diritto di costruirvi case ed un pontile.[35] Se pure non è dato conoscerne le ragioni, a questo punto qualcosa sembra cambiare e il ruolo di S. Paolo diviene più rilevante nel contesto cittadino: iniziano ad essere attestati rapporti diretti con l’arcivescovato della città e il monastero inizia a gestire attivamente il proprio patrimonio. Nel febbraio 1118 la fondazione sembra non dipendere più da S. Sofia e viene definita „subdita et pertinens eiusdem archiepiscopii“; emerge la figura di Sannito, diacono dell’arcivescovato e abate di S. Paolo, il quale concesse per tre anni a Pietro mugnaio del fu Giovanni Cappellani un mulino presso il fiume Sabato, non lontano dal Ponte Maggiore, dietro corresponsione di quattro cupellas colme di grano ogni mese, quattro buccellati, venti uova e una spalla di porco a Natale, di altrettanti buccellati e uova a Pasqua e all’Assunzione, di un cappone a Carnevale e di un paio di criscolis a S. Martino; il conduttore era tenuto altresì a macinare per la chiesa senza pretendere compenso e ad installare una ruota di mulino.[36] Ancora Sannito, il mese successivo, affidò per ventinove anni a Martino del fu Fasano, per il canone annuo di dodici denari d’argento, una casalina nelle pertinenze della chiesa e confinante con un terreno in cui lo stesso Martino aveva già edificato una casa.[37]
Tra il 9 febbraio 1119 e il 13 dicembre 1124 Sannito si accordò con Giovanni, abate del monastero di S. Sofia di Benevento, sui confini delle terre del vallone in cui scorreva l’acqua che arrivava fino ai mulini del monastero in località Ponticello.[38] La questione non deve essersi risolta troppo velocemente e deve essere stata dibattuta a lungo negli anni, tant’è che nel verso del documento è presente un regesto molto dettagliato, redatto da una mano trecentesca: ignorandone le ragioni, ed essendo questo l’unico caso a me noto in cui si registra una tale particolarità, si può soltanto ipotizzare che il documento sia stato presentato in qualche processo nel corso del XIV secolo e, per facilitare la lettura di una scrittura ormai non più facilmente comprensibile, i monaci abbiano redatto un compendio nel dorso della membrana (fig. 3):[39]

Ancora dalle carte della Capitolare apprendiamo che l’11 maggio 1147 Pietro II arcivescovo di Benevento confermò a Marino, abate del monastero di Cava de’ Tirreni, il possesso della chiesa di S. Nicola de Cibariis, già beneficio di Pietro, abate del monastero di S. Paolo, con l’obbligo di corrispondere a quest’ultimo e ai suoi successori quattro denari pavesi come censo annuo.[40] Sempre alla presenza dello stesso arcivescovo e dei giudici Landolfo, Dauferio e Falco, nel marzo 1150 Pietro chierico e custode della chiesa di S. Paolo concluse un accordo con il monastero di S. Sofia, in persona dell’abate Giovanni, nel tentativo di chiudere la questione pendente circa la costruzione di un vallone sulle terre dell’abbazia che portava al mulino di Ponticello, impegnandosi a non contrastare il passaggio sulla terra con vigna e sull’iscla che da qualche decennio erano oggetto di contestazione.[41]
Al tempo dell’abate e custode Pietro la fondazione di S. Paolo sembra amministrare pacificamente il suo patrimonio. Nel gennaio 1152 Pietro condusse davanti al giudice Benedetto il chierico Nicola, Giovanni Ursiglorie e Unfrido del fu *** perché attestassero che Simeone Bazzario aveva pattuito di acquistare da lui una certa quantità di mosto, da pagarsi a vinificazione avvenuta entro otto giorni dalla richiesta e che, in caso di inadempienza, per Pietro sarebbe decaduto l’obbligo, contratto insieme ad altri, di consegnare 12 romanati per la dote di Maria moglie di Simeone;[42] nel gennaio 1154, desiderando restaurare il tetto di S. Paolo, Pietro vendette a Giovanni di Roberto il legname con cui era stata edificata una casa di proprietà della sua chiesa ricavandone quaranta denari;[43] nell’aprile 1157 l’abate, dopo essersi presentato di fronte a Giovanni rettore di Benevento e ai giudici Benedetto, Pietro, Iechonia e Marco, si accordò per comporre in via amichevole la controversia che lo opponeva al citato Simeone Bazzario del fu Cioffo relativa a un cavallo, a del frumento e a del vino che quest’ultimo gli aveva sottratto, rivendicandoli a completamento della quota di dote che il predetto Pietro si era impegnato a costituire in favore della nipote Maria, moglie di Simeone. L’accordo prevedeva che l’abate di S. Paolo versasse a Simeone due romanati, che, aggiunti ai sei romanati ricavati dalla vendita del cavallo pignorato dal medesimo Simeone, completavano la quota di dote rivendicata dal convenuto e questi, a sua volta, si impegnava a rinunciare ad ogni ulteriore diritto e azione.[44] Infine, nel dicembre 1160, Pietro presentò una querela al rettore di Benevento Landone, lamentando che a causa dei lavori intrapresi da Giovanni e Bartolomeo, figli di Borrello Glorie, l’accesso alla chiesa di S. Paolo e ad alcune case di sua proprietà sarebbe stato impedito: il rettore aveva quindi intimato la sospensione delle opere in attesa della definizione della lite davanti a Giovanni giudice, che si era preoccupato subito di procedere all’ispezione del sito dei lavori.[45]
L’ultima notizia che si ricava dalle carte è del 15 agosto 1174, quando Falco notaio e scriba del sacro palazzo di Benevento, in rappresentanza di Landone custode della chiesa di S. Paolo e già rettore di Benevento, concesse a vita a Magenza, moglie di Pietro calzolaio e figlia del fu Pedemonte, una casalina addossata alle pareti della chiesa, dietro corresponsione di un censo annuo di dieci denari.[46]
L’osservazione delle note dorsali di questi documenti aveva già ad un primo sguardo fatto sorgere dubbi e interrogativi, poiché mani diverse si ripetevano alternativamente nel corso del tempo, indicando chiaramente che i documenti che riguardavano la stessa chiesa erano stati conservati in archivi differenti. Le carte relative alla chiesa di S. Paolo si trovano infatti presso l’Archivio storico provinciale di Benevento, nel fondo S. Sofia, presso l’Archivio storico Aldobrandini, presso l’archivio di Cava de’ Tirreni e presso la Biblioteca Capitolare di Benevento. Sulle pergamene provenienti dall’antico fondo di S. Sofia, che siano conservate oggi presso l’Archivio storico provinciale o presso l’Archivio storico Aldobrandini, non sono riscontrabili annotazioni significative e il documento conservato a Cava de’ Tirreni reca soltanto le annotazioni d’età moderna apposte dagli archivisti cavensi su altre note erase e dilavate, anche queste non risalenti molto indietro nel tempo, come pare, per cui è da escludersi il suo passaggio negli archivi beneventani. Tutti i documenti conservati nella biblioteca della cattedrale di Benevento riportano invece le note di una stessa mano, che scrive con una penna a punta mozza in una minuscola di base carolina tra XII e XIII secolo: poiché l’intervento è stato effettuato soltanto sulle carte di S. Paolo, si presuppone che queste, come quelle di S. Andrea de platea maiore, fossero all’epoca ancora conservate presso l’archivio della chiesa o del monastero e siano soltanto successivamente confluite nel fondo pergamenaceo del Capitolo.
La fondazione di S. Sofia
Rimandano all’abbazia di S. Sofia di Benevento 225 pergamene, rogate nel territorio che si estende dalla città al Molise e all’Irpinia, un’area ancora molto poco indagata dal punto di vista della produzione documentaria, soprattutto nei suoi distretti rurali (fig. 4).

Centri di rogazione citati nelle pergamene dell’abbazia di S. Sofia di Benevento.
È tuttavia possibile provare a identificare e ricostruire alcuni dei possedimenti dell’abbazia gravanti nell’orbita di chiese e monasteri i cui archivi confluirono soltanto in seguito nel più grande fondo documentario. La maggioranza di queste carte testimonia infatti un profondo legame tra S. Sofia e il territorio in cui erano situate le sue dipendenze, in virtù del fatto che il monastero beneventano costituiva non soltanto un punto di riferimento ineludibile per la città e il suo circondario, ma anche per territori più lontani. E questo legame è vieppiù evidente se si considera altresì tutta la più che consistente documentazione, pertinente S. Sofia e le sue dipendenze, di cui abbiamo notizia dalla tradizione indiretta, sia documentaria sia letteraria, estesa a comprendere anche il territorio della Capitanata e di parte della Basilicata. Le aree più interne e periferiche della regione, a causa della lontananza da Benevento, sfuggivano più facilmente ai controlli e necessitavano di una maggiore attenzione, come dimostrano i frequenti accertamenti patrimoniali attestati nelle relazioni degli abati commendatari o dei loro vicari e la frequenza delle cause civili e delle sentenze registrate negli inventari cinque-seicenteschi. Certamente più semplice era salvaguardare, proteggere e gestire beni, chiese e monasteri all’interno della città e nelle località limitrofe, agevolmente controllabili grazie alla presenza forte sul territorio degli abati dei monasteri, dei rettori e prepositi delle chiese.
Molte sono le chiese e i monasteri che un tempo erano soggetti all’abbazia beneventana, ma soltanto per alcuni di questi è stato possibile procedere allo studio degli attergati, non risultando in molti casi sufficiente il numero dei documenti conservati per ciascuna dipendenza per formulare ipotesi sulle strategie di conservazione. Possiamo soltanto dire che, nella maggioranza dei casi, le carte più antiche erano presenti nell’archivio sofiano alla fine del XIV secolo, come attestano le annotazioni dei monaci che procedettero al riordinamento delle carte. Questo vale per alcune delle dipendenze situate nella città di Benevento e nel suo circondario, quali la chiesa di S. Angelo a Porta Aurea o ad Caballum, la chiesa di S. Barbato a Porta Somma, il monastero di S. Benedetto a Pantano, presso il fiume Calore; per la chiesa di S. Colomba infra Beneventanam civitatem; per le chiese di S. Angelo, S. Marciano e S. Menna di Foglianise; per le chiese di S. Cassiano, S. Marciano e S. Pietro al Leocubante, per la chiesa di S. Lorenzo a Flumeri; per la chiesa di S. Magno in Castelmagno, nei pressi di S. Bartolomeo in Galdo; per la chiesa di S. Pietro nel castello dell’Archipresbitero.
In altri casi invece lo studio delle annotazioni dorsali ha consentito di ricostruire virtualmente alcuni dossier documentari costituiti da carte conservate attualmente in archivi diversi, ma appartenenti in antiquo ad un unico fondo e di formulare qualche ipotesi sulle modalità di archiviazione e riordinamento del patrimonio pergamenaceo dell’abbazia beneventana (fig. 5).

Fondi archivistici delle dipendenze di S. Sofia di Benevento confluiti nel suo archivio tra XIII e XVI secolo.
Il monastero di S. Michele arcangelo ad reboltam
Un importante gruppo di documenti riguarda i possedimenti di S. Sofia nel territorio di Ariano Irpino, a circa 35 km da Benevento, dove l’abbazia deteneva diversi casali, terre, vigne, boschi e alberi da frutta. La principale obbedienza sofiana nella zona era il monastero di S. Michele arcangelo ad reboltam, o S. Angelo, come frequentemente nominato nelle pergamene, al quale è riconducibile un cospicuo nucleo di 38 documenti conservati presso l’Archivio storico provinciale di Benevento, la Biblioteca Apostolica Vaticana e l’Archivio storico Aldobrandini, già indagato in altre sedi.[47]
La chiesa di S. Martino ad Monte Bonioni
A Venticano, in provincia di Avellino, è stato ricondotto un altro gruppo di pergamene: qui l’abbazia di S. Sofia possedeva la chiesa di S. Martino ad Monte Bonioni [sic] che nel marzo 781, „temporibus domni vir gloriosissimi Arichis summo dux gentis Langubardorum“, era stata confermata da Alfano, arcivescovo [sic] di Benevento[48] al suo fondatore, lo sculdascio Trasemondo, figlio del defunto Costantino, cui era stato concesso anche il privilegio di sceglierne il sacerdote.[49] Quattro anni più tardi questi, essendo malato, aveva donato la chiesa al monastero di S. Sofia, in persona della badessa Eusoffronia, insieme a tutte le sue proprietà, riservandosene comunque l’usufrutto a vita.[50] Non si hanno più notizie della chiesa fino a dopo il 9 maggio 1002, quando il giudice Pietro figlio di Mauro e la moglie Porpora donano per la salvezza della loro anima a S. Martino in Venticano, soggetta al monastero di S. Sofia, una casa in Aquaputida (Mirabella Eclano).[51] Sappiamo che nel maggio 1099 la chiesa era ancora esistente e probabilmente ancora soggetta a S. Sofia in quanto l’abate Madelmo aveva confermato a Borrello del fu Giovanni di San Francone la locazione di terre e vigne presso la chiesa di S. Martino dietro l’annua corresponsione della decima e di un censuo annuo.[52]
Sono probabilmente state scritte nell’archivio di S. Sofia le note di XI secolo che si riscontrano nel verso della copia del documento del 785 e quelle di XII e XIII secolo apposte in quello del 1002, come testimonierebbe anche la presenza, nella parte superiore della carta, di una scritta lunga otto righe e mezzo, scoperta da Vincenzo Matera, che sembrerebbe potersi ricondurre alla stessa mano che aveva scritto il documento sul recto.[53] Nel verso delle altre pergamene prevenienti dall’antico archivio di S. Sofia si alternano numerose annotazioni di mani diverse e risalenti anche all’XI secolo, ma a causa dell’esiguo numero di carte conservate o del pessimo stato di conservazione delle membrane che non consente l’identificazione degli attergati, non è possibile affermare che questi interventi abbiano avuto in origine un carattere ‚archivistico‘ o quantomeno sistematico, volto a organizzare carte e documenti sedimentati nel tempo per assicurarne conservazione e consultazione. Così accade per esempio a Benevento per le chiese di S. Pietro ad Caballum, di S. Salvatore in Palatium, di S. Giovanni a Porta Somma, di S. Marciano presso il ponte della Maurella sul fiume Calore, di S. Matteo a Porta Aurea, di S. Mercurio fuori la città, di S. Nicola de Grecis, di S. Pietro ad Lauritum, di S. Simone e per le chiese di S. Giovanni a Porta Aurea, di S. Paolo apostolo e S. Benedetto a Morcone (le cui carte sono in tutti e tre i casi conservate anche presso la Biblioteca Capitolare), oppure per le chiese di S. Mercurio di Castelpoto, di S. Nicola ad Vallum nel territorio di Caudi, di S. Maria de Sipagno, di S. Pietro in Cucciano, di S. Martino e di S. Menna a Tocco, del monastero di S. Onofrio de Gualdo Mazoca.
La chiesa di S. Marciano sul Calore
Se poco si può dire del suo archivio, è comunque possibile integrare le informazioni conosciute sulla storia della chiesa di S. Marciano di Benevento, situata „foris veterem civitatem“ presso il fiume Calore, „non longe a ponte qui dicitur Marende“, il cosiddetto ponte della Maurella, di cui rimangono oggi soltanto pochi ruderi: la chiesa, come avverte opportunamente Carmelo Lepore, non va quindi identificata con la dipendenza sofiana di S. Marciano al Leocubante, in località Parituli, nel territorio di Montefusco.[54] Alle notizie tràdite dal „Chronicon Sanctae Sophiae“, che attesta l’esistenza della chiesa extramuranea fin dal dicembre 726 e poi ancora nel luglio 881, si può aggiungere che nell’aprile 1028 non vi è in realtà alcun accenno alla comunità monastica e agli abati cui accenna Lepore,[55] in quanto i principi Landolfo V e Paldolfo III si limitarono a concedere al monaco Leo e al sacerdote Iaquintus la chiesa di S. Marciano con i beni ad essa pertinenti, eccettuati gli oggetti preziosi, con la facoltà di nominarne i rettori e di gestirne il patrimonio, esonerando la chiesa e chi vi risiedeva da ogni canone e servizio.[56] Se è noto che nell’ottobre 1101 la chiesa era compresa tra le dipendenze che papa Pasquale II confermò all’abate Madelmo di S. Sofia in un privilegio deperdito emesso a Capua e tràdito dal „Chronicon“,[57] per la prima attestazione di questa soggezione occorre tuttavia tornare indietro di quasi quarant’anni, quando nel 1066 Ludovico del fu Ludovico donò alcune terre in Arquata a Giovanni prete, monaco e custode della chiesa di S. Marciano, che è già detta essere a quel tempo dipendente dal monastero di S. Sofia.[58]
Le incertezze e la confusione con l’omonima chiesa in località Parituli, nel feudo del Leocubante, in cui sono incorsi diversi studiosi più o meno recentemente sulla scia di Augustin Lubin, cadono definitivamente grazie a un documento dell’agosto 1121 secondo il quale Orso chierico del fu Pietro Arnolfi e Arnolfo chierico Rodi …, custodes della chiesa di S. Giovanni a Porta Aurea, permutano con il monastero di S. Sofia, in persona dell’abate Giovanni, le tre chiese di S. Marciano, S. Pietro e S. Cassiano al Leocubante, con le loro terre e iscle, in cambio di vigne e terre presso la chiesa di S. Marciano sul fiume Calore, non lontano dal ponte Marendi.[59] Soltanto nel 1121 le tre chiese costruite al Leocubante entrarono pertanto nella piena disponibilità dell’abbazia di S. Sofia, che fino a quel momento deteneva una sola porzione della chiesa di S. Marciano. Questa era infatti stata donata nel settembre 1058 all’abate Amico da Gaiderissi del fu Madelfrid, che la possedeva insieme ad altri consortes (i quali probabilmente trasferirono in un momento successivo – e prima del 1221 – le porzioni loro spettanti sulla chiesa di S. Marciano a S. Giovanni a Porta Aurea). Che il monastero beneventano fosse estremamente interessato alla proprietà della chiesa si evince dal fatto che l’abate si impegnò con wadia a consegnare al donante dieci tarì d’oro il 1° ottobre di ogni anno, nonché a soddisfare ulteriori condizioni fissate da Gaiderissi quando questi avesse deciso di farsi chierico e monaco.[60] Tale donazione fu poi confermata all’abate sofiano nel luglio 1062 dal conte normanno Guimundo, figlio del conte Guimundo, e dalla moglie Labinia e alla presenza del visconte Bernardo.[61] La chiesa è attestata ancora nel luglio 1138 quando Sannito del fu Roffredo Punianelli si presentò davanti ai giudici chiedendo che Franco, abate del monastero di S. Sofia, lo difendesse dalle pretese del vescovo della città circa i confini di un tratto di alveo sul fiume Calore e di una via fino al guado Carrarium nei pressi delle chiese di S. Marciano e di S. Girolamo, che gli erano stati concessi dallo stesso monastero;[62] e nel febbraio 1178, quando Bernardo Pantasia, figlio del fu conte Riccardo, vendette per il prezzo di 10 romanati al sacerdote Guglielmo, rettore della chiesa di S. Marciano, una terra non coltivata sita nei pressi della stessa chiesa.[63]
L’abbazia di S. Modesto
Un discorso più approfondito può articolarsi per la chiesa di S. Modesto di Benevento, probabilmente fondata nella civitas nova tra il 758 e il 774 a ridosso delle mura, a sud del palazzo arcivescovile, che risulta tra i possedimenti donati da Arechi a S. Sofia. A questa fu presto unito un monastero maschile benedettino e la sua dipendenza dalla badia sofiana – e quindi dall’abbazia di Montecassino – non dovette durare a lungo, in quanto già alla metà del IX secolo la comunità monastica era governata da un suo abate ed era soggetta soltanto al mundium palatii.[64] Non molto si sa sulle più antiche vicende della chiesa e del monastero, i cui possessi erano per lo più localizzati nelle valli Caudina e del fiume Sabato in territorio beneventano, ma estesi anche nelle aree di Avellino e di Salerno.[65] Il complesso fu devastato e incendiato dai Saraceni tra l’857 e l’862 e il vescovo Aione, su istanza dell’abate Pietro, concesse nell’879 alla ricostruita comunità e alle chiese della diocesi che a qualsivoglia titolo spettavano al monastero la perpetua esenzione dalla giurisdizione vescovile.[66] Già dai primi anni del XII secolo sembrerebbe attestato un forte legame con la S. Sede,[67] che certamente condusse al coinvolgimento del monastero nelle questioni politiche e nei conflitti che interessarono la città alla metà del XIII secolo, particolarmente in seguito allo scontro tra il papato e l’imperatore Federico II. La successiva distruzione della città e la devastazione di molti possedimenti del monastero situati nelle immediate vicinanze delle mura urbane ne impoverirono sensibilmente le risorse e neanche l’intervento dell’abate Riccardo, che si adoperò molto per risollevare le sorti della fondazione monastica, valse a strappare i molti possessi del monastero all’incuria e all’abbandono. Non sembra che i monaci benedettini e i successivi abati commendatari, cui fu affidato il cenobio nel corso del XV secolo, siano più riusciti a riconquistare il prestigio politico ed economico di cui S. Modesto aveva goduto fino all’avvento degli Svevi, e poiché „per multos annos conventu monachorum penitus destitutum, et secularibus commendatum, consequenteque bona monasterii distracta, et iura multipliciter imminuta“,[68] il 29 aprile 1505 papa Giulio II affidò il monastero alla Congregazione dei Canonici Regolari Lateranensi del S. Salvatore, che ne avevano fatto richiesta.[69]
Dopo i gravissimi danni subiti a causa dei disastrosi terremoti del 1688 e del 1702, la ricostruzione voluta dall’arcivescovo Orsini e durata circa un decennio, e la soppressione del 1799 durante la repubblica Partenopea, nel 1802 il sacerdote d. Gherardo Frascella comparve dinanzi alla Curia del Cappellano Maggiore a Napoli per procedere alla „reintegra alla Regal Corona di molte badie, tra le quali è quella … dell’ordine medesimo di S. Modesto di Benevento per quei beni che possiede in Regno“, che fu dichiarata regii iuris patronatus il 9 gennaio 1804.[70] I canonici poterono tornare nel monastero soltanto nel 1805, con la restaurazione pontificia in Benevento, ma nel 1806 questo fu di nuovo soppresso insieme con le altre congregazioni religiose. Ripristinato nel 1815 dal governo pontificio, fu nuovamente affidato ai Canonici regolari Lateranensi per poi essere ricompreso, insieme con quello di S. Sofia e S. Vittorino, tra quelli esclusi dal ‚piano di restituzione‘ del 9 aprile 1816, inviato a papa Pio VII dall’arcivescovo Spinucci, con la proposta di sostituire ai canonici i Padri Conventuali.[71] Nel 1818 i Canonici furono definitivamente allontanati, la parrocchia fu affidata a sacerdoti secolari finché, nel settembre del 1943, il complesso di S. Modesto fu quasi completamente distrutto dai bombardamenti dell’aviazione anglo-americana, che rase al suolo molte parti della città.
Le prime informazioni sull’archivio di S. Modesto risalgono alla metà degli anni Venti del XVII secolo, quando il canonico Gabriele Pennotto trascrive parzialmente un privilegio il cui authenticum era conservato nel monastero, insieme ad un altro emesso dai principi Pandolfo e Landolfo, di cui però non si precisa altro.[72] Una decina di anni dopo Mario Vipera dichiara di aver visto in un „fasciculus privilegiorum“ la bolla di unione indirizzata da Giulio II ai Canonici Regolari nel 1505,[73] mentre rinviene altri privilegi in un „sacculus privilegiorum“ e in un „sacculus Machabeorum“.[74] Sulla base di questa affermazione, e tenendo conto della differente terminologia utilizzata dall’arcidiacono beneventano, sembrerebbero potersi distinguere differenti modalità di conservazione e una ben precisa organizzazione del materiale: i privilegi più antichi erano a quanto pare custoditi in un sacculus, così come anche i documenti riguardanti gli aviti possedimenti come il casale dei Maccabei, mentre nel fasciculus sembrerebbero essere conservati i munimina più recenti, forse quelli indirizzati ai Canonici regolari dopo l’unione del monastero alla loro congregazione.
Che il materiale documentario conservato nell’archivio del monastero fosse conservato con cura e più volte riordinato è evidente dalla presenza di una o più lettere maiuscole oppure di una cifra romana progressiva apposta sul verso – e qualche volta sul recto – di quasi tutti i documenti che si sono conservati. Tuttavia il primo riordinamento di cui abbiamo notizia fu quello orsiniano all’inizio del Settecento.[75] Poco dopo, negli anni Venti, Ferdinando Ughelli riferisce l’esistenza di un „repertorium antiquum“ del monastero in cui erano stati annotati „multa alia privilegia“ concessi da pontefici, imperatori, re, duchi e principi, nonché „multas concessiones ab abbatibus factas de ecclesiis sibi subiectis viris nobilissimis“, dalle quali risultava evidente la ricchezza del patrimonio una volta in possesso della fondazione benedettina.[76] È di estremo interesse in questa sede l’affermazione dello studioso che, dopo aver consultato tutto l’archivio, scrive di aver potuto reperire soltanto quattro privilegi originali: la dispersione di buona parte dei titula del monastero dovrebbe pertanto essere avvenuta successivamente al riordinamento orsiniano ma prima del 1721, data di pubblicazione dell’ottavo volume della sua „Italia Sacra“, dedicato alla chiesa metropolitana beneventana e alle sue suffraganee. Ben si concilierebbe con questa ipotesi il fatto che verso gli anni Sessanta del XVIII secolo, Stefano Borgia conferma la mancanza degli antichi privilegi dall’archivio del monastero, che dice di avere „esattamente ricercato quando era Governatore di Benevento“,[77] e attesta invece la presenza di „un libro ms. in carta bombicina fatto nel secolo passato, nel quale registrati leggonsi molti antichi strumenti e privilegi appartenenti a quel monistero, che ora più non esistono ne’ loro originali“, definito altrove nelle sue „Memorie“ come „ms. de’ privilegj“.[78]
In seguito alle soppressioni del 1799 e del 1806 parte del rimanente patrimonio documentario del monastero è andato ulteriormente disperso. Sappiamo da Kehr che nel 1891 Schiaparelli vide molti documenti privati provenienti dal monastero di S. Modesto nell’Archivio Comunale di Benevento e che undici volumi di pergamene risalenti all’ordinamento orsiniano erano nell’archivio parrocchiale,[79] dove si trovavano ancora nove anni più tardi.[80] Schiaparelli riferì anche che in quest’ultimo archivio era un „Liber iurium“ del XVI secolo,[81] da identificarsi probabilmente con il repertorium antiquum e il libro manoscritto cui fanno riferimento Ughelli e Borgia, nonché con quel „volume compendio de’ titoli“ della soppressa abbazia di S. Modesto, consegnato in deposito il 6 aprile 1906 dal parroco don Giuseppe Ranaudo alla Biblioteca Capitolare, purtroppo irreperibile già all’epoca dell’edizione delle carte del monastero curata da Bartoloni.[82]
Ciò che rimane dell’antico archivio del monastero è attualmente conservato a Benevento in due sedi diverse: dodici cartelle – ciascuna corrispondente agli antichi tomi orsiniani – si trovano nella Biblioteca Capitolare e due presso l’Archivio storico provinciale. Scorrendo l’indice dei tomi e risalendo da questo alle indicazioni date dall’arcivescovo Orsini per procedere all’organizzazione del materiale documentario, appare evidente che la sequenza delle varie sezioni è la medesima seguita negli archivi delle altre chiese della città: dal confronto con gli indici dei volumi dell’archivio di S. Sofia, ma anche tenendo presente l’indice preposto al ventesimo volume del monastero di S. Modesto, pare estremamente probabile che il volume nr. 1 dell’archivio, oggi deperdito, dovesse contenere i privilegi dei sovrani, le esenzioni, le bolle e le lettere pontificie, ecc., vale a dire la documentazione pubblica più importante, quella su cui si fondava l’esistenza stessa della fondazione ecclesiastica e che pertanto doveva essere conservata con grande cura. Cioè proprio quella documentazione che l’Ughelli non era riuscito a reperire nell’archivio all’epoca della sua ricognizione. Che il volume degli atti pubblici più importanti – se davvero esistente – fosse stato estratto dall’archivio? E da chi? In quale occasione e per quali ragioni? Sono chiaramente interrogativi a cui non è possibile dare risposta allo stato attuale delle nostre conoscenze.
In un privilegio di conferma concesso all’abate Leone dai principi di Benevento Pandolfo II e Landolfo V tra il 991 e il 992, sono citate alcune dipendenze del monastero di S. Modesto, e precisamente il „monasterium Sancti Benedicti qui constructo est in ipso monticello iuxta civitate Sancte Agathe …, et ecclesia Sancti Georgi de loco Vico …, et ecclesia Sancte Marie de Monte Virgine finibus Abellino“.[83] Quest’ultima è identificata nei documenti come S. Maria de Monte Virgine e in seguito, dopo la fondazione del monastero di Montevergine, come S. Maria de Preposito, nome che dette origine anche al relativo toponimo accanto a quello di Submonte. Ritiene Bartoloni che l’attributo de Preposito sia da mettere in relazione con la „necessità di distinguere la chiesa, obedientia di S. Modesto e perciò retta da un praepositus, dall’omonimo monastero governato dall’abbas, che era sorto in cima alla montagna“.[84]
Risale invece al 1172 la prima menzione della chiesa di S. Bartolomeo de Campolactaro soggetta al monastero di S. Modesto, oggetto di una locazione vitalizia conclusa tra l’abate Beraldo e il prete Rinaldo Scifaporro, che si obbligava a corrispondere un censo annuo di settantacinque pizze di grano e di altrettante scodelle, a curare la manutenzione della chiesa e i beni posseduti, ad officiarla e a fornire, se necessario, alloggio, vitto e foraggio per le cavalcature agli abati, ai frati e ai messi del monastero.[85] La chiesa era ancora soggetta al monastero nel 1284, quando ancora una volta veniva locata a vita dall’abate Iechonia a un tal chierico Giovanni, in cambio di un censo annuo e dell’assunzione dell’obbligo di provvedere alla sua manutenzione e ad officiarla una volta a settimana e nei festivi.[86]
Gli attergati di XII, XIII e XIV secolo apposti sulle carte del monastero non offrono tuttavia alcuno spunto di riflessione, non ripetendosi mani e scritture da confrontare, e le annotazioni di età moderna non restituiscono alcun indizio sulla provenienza delle carte. Si può soltanto affermare, secondo quanto suggerito da Franco Bartoloni, che „il materiale fu più volte riordinato e si conservò, almeno per un certo periodo, distribuito in buste, classificate secondo la natura dei documenti e gli oggetti a cui essi si riferivano“.[87] L’esistenza di pratiche di archiviazione e conservazione si evince anche dalla presenza di cifre romane apposte nel verso e a volte nel recto delle carte e tenendo conto dell’alto numero di catena attribuito ad alcuni documenti conservati, può dedursi che nell’archivio di S. Modesto erano conservate un gran numero di pergamene: in due attergati della stessa mano si legge infatti „CCCC“ e „CCCC …“ (la brevità della nota e il ripetersi soltanto della medesima lettera non consente di suggerire qualsivoglia ipotesi di datazione). Il dato confermerebbe così quanto scrivevano Ughelli e Borgia nel Settecento circa la ricchezza del patrimonio documentario conservato nel monastero beneventano.
La chiesa di S. Maria di Porta Somma e il monastero di S. Pietro intra muros
Non molte osservazioni possono elaborarsi sulle vicende archivistiche della chiesa di S. Maria di Porta Somma e del monastero di S. Pietro intra muros a Benevento. La prima testimonianza della chiesa, „sita inter duas vias foras ante porta Summa cum propria terra sua que dicitur domnica“, sembrerebbe risalire al novembre 774, quando il principe Arechi la concesse al monastero di S. Sofia, precisamente nell’area in cui fu poi costruita la Rocca dei Rettori;[88] la prima attestazione documentaria del monastero risale invece al 1086, quando la badessa Lavinia acquistò una vigna, una terra, un bosco e un castagneto a Monte Saliceto.[89] La prosperità della chiesa attirò ben presto le attenzioni del monastero di S. Pietro intra muros,[90] tanto che il 23 febbraio 1122 la badessa Agnese cercò di rivendicarne la soggezione di fronte a papa Callisto II, che in quei giorni si trovava a Benevento, esibendo un precetto del duca Liutprando in cui si attestava la soggezione della chiesa di S. Maria, connotata come semplice cella del monastero urbano, nonché altri privilegi concessi dai principi beneventani che avevano poi confermato la chiesa di S. Maria sotto la giurisdizione e il controllo di S. Pietro.[91] Bethlem, badessa di S. Maria, obiettò sostenendo che una badessa era stata continuativamente a capo del monastero „a quinquaginta annos iam preteritis et usque ad presens“, e produsse a sostegno delle sue affermazioni una serie di atti in cui ne erano attestati i nomi a partire da Lavinia, Sichelgarda e altre, le quali avevano sempre diretto e trattato autonomamente questioni ed affari. La sentenza, emessa dai cardinali e poi confermata dal pontefice, stabilì che il monastero di S. Maria avesse da quel momento una propria badessa scelta liberamente dalle monache, fermo restando il tributo annuale di quattro pani da ostia e due ceri da corrispondersi al monastero di S. Pietro il giorno di Natale, il giorno di Pasqua e il giorno dell’Assunzione della Vergine, e fosse da quel momento immediatamente soggetto alla sede apostolica.[92] Tra XII e XIII secolo il monastero incrementò il proprio patrimonio fondiario, che si estendeva non soltanto nel territorio beneventano, ma anche in Irpinia, nell’alto Sannio, in Puglia e nella baronia di Trevico, ma già nel secolo successivo sono testimoniati un rilassamento dei costumi e l’inevitabile decadenza, sancita da papa Bonifacio VIII nella bolla Inter ceteras sollicitudines dell’8 giugno 1302 con cui si annullava l’elezione della badessa Letizia e si stabiliva l’aggregazione disciplinare delle monache al monastero femminile di S. Lorenzo. Infine, il 22 settembre 1321, il monastero fu definitivamente soppresso da Papa Giovanni XXII con la bolla Cum in loco per consentire l’edificazione della Rocca dei Rettori e le monache furono trasferite, il 26 aprile 1323, nel monastero di S. Pietro intra muros.[93]
Quest’ultimo, assoggettato alla giurisdizione vescovile fra XIII e XIV secolo, nel 1372 passò alle dirette dipendenze della sede apostolica, per essere poi nuovamente ricondotto da Sisto IV sotto la giurisdizione ordinaria. Grazie anche all’incorporamento dei beni e dei possedimenti del monastero di S. Maria di Porta Somma, fu per molti secoli il monastero femminile più ricco della città. Più volte ampliato e restaurato, fu poi gravemente danneggiato dai terremoti del 1688 e del 1702, ma entrambe le volte fu ricostruito e i suoi altari riconsacrati. Tra XVIII e XIX secolo fu coinvolto nelle vicende dell’occupazione napoleonica di Benevento e dell’unificazione italiana: evacuato temporaneamente nel 1799 quando le truppe francesi occuparono la città e nel 1806, fu poi soppresso da Talleyrand, ma risultò incluso dall’arcivescovo Spinucci tra i monasteri da restaurare, indicati nel citato Piano delle Corporazioni del 9 aprile 1816.[94] Dopo una cinquantina d’anni, il 20 settembre 1865, il monastero fu definitivamente chiuso per effetto delle leggi di soppressione postunitarie, fu incamerato dal demanio e infine raso al suolo dai bombardamenti del settembre 1943.[95] In seguito all’unione dei due monasteri la documentazione pertinente S. Maria di Porta Somma entrò a far parte del fondo archivistico di S. Pietro, attualmente conservata sia presso l’Archivio storico provinciale di Benevento, in cui si sono individuati otto documenti che ricadono nell’arco cronologico considerato, sia presso la Biblioteca Capitolare di Benevento, in cui è custodita un’altra cartella di 14 documenti riguardanti il monastero. Le carte, tra cui un privilegio emesso nel 1140 da Gregorio arcivescovo di Benevento su istanza di Bethlem, badessa del convento di S. Maria di Porta Somma, furono infatti trafugate all’epoca delle soppressioni e poi recuperate dal canonico Antonio De Rienzo in una casa privata e riscattate nell’ottobre del 1908.[96]
Nulla sappiamo circa gli antichi archivi dei due monasteri. Dai dati raccolti, tuttavia, la documentazione proveniente dall’archivio di S. Maria a Porta Somma sembrerebbe aver costituito un fondo a parte nell’archivio di S. Pietro, rimanendo distinta dal resto delle carte lì conservate, forse in una cassa o in sacchi di tela. Potrebbe essere stata questa la ragione per la quale le carte di S. Maria di Porta Somma, „spectantes ad monasterium S. Petri“, furono regestate separatamente da quelle del resto dell’archivio all’epoca del riordinamento promosso dall’arcivescovo Orsini (fig. 6).[97]

Frontespizio di un volume di indici approntati al termine del riordinamento orsiniano (a. 1709).
Risale probabilmente ad un momento di poco successivo al trasferimento delle monache di S. Maria nel monastero di S. Pietro il primo controllo delle carte di cui si abbia notizia dagli attergati. Per lo più prive di note dorsali, in tre carte residuano tuttavia labili tracce, visibili quasi esclusivamente alla lampada di Wood, di una mano che scrive in una corsiva cancelleresca di XIV secolo e che trascrive sul verso delle membrane, presso il margine superiore o inferiore, regesti più o meno articolati, forse frutto di una operazione di ricognizione effettuata sul materiale documentario nel monastero di S. Pietro subito dopo l’arrivo dell’archivio di S. Maria di Porta Somma (vedi fig. 7).[98]

Il monastero di S. Lupo
Nulla si sa poi delle origini del monastero maschile di S. Lupo di Benevento, sito nella civitas nova in contrada Morticelli, alle spalle del Teatro romano. Il cenobio era originariamente dedicato ai SS. Lupolo e Zosimo, ma con il tempo la doppia dedicazione andò perduta e la fondazione rimase intitolata al solo S. Lupo.[99] Immediatamente soggetto alla Santa Sede, il patrimonio fondiario del monastero, relativamente modesto se confrontato con quello posseduto dagli altri monasteri cittadini, si estendeva nel territorio compreso tra le città di Benevento, Raviscanina, Boiano e S. Severo. Già esistente nel febbraio 949 in quanto parte in causa, in persona del suo abate Giovanni, nella controversia sul possesso di alcuni beni in Alife presso Torano,[100] fu oggetto di concessioni e conferme da parte dei principi longobardi, tra le quali possono annoverarsi, nell’ottobre 980, la facoltà di erigere fortificazioni nell’ambito dei possessi del monastero[101] e, nel settembre 1015, il possesso della chiesa di S. Maria del Vivario vicino a Boiano, e delle chiese di S. Martino e S. Bartolomeo edificate sul monte detto Macchia Gòdena, ancora nel territorio di Boiano.[102] Nell’aprile 1022 l’abate Adelberto fu convenuto presso la chiesa di S. Pietro fuori le mura dall’abate di S. Vincenzo al Volturno in un placito presieduto dai vescovi di Vercelli e di Parma e dal gastaldo e giudice Auderico: accusato di detenere ingiustamente alcuni beni nel territorio di Telese e dopo le verifiche del caso, Adelberto „fuga petiit“, nonostante fosse stato più volte convocato in giudizio, cosicché il monastero vulturnense fu investito dei beni contesi in contumacia dell’altro contraente.[103] Che l’abate dei SS. Lupolo e Zosimo rivestisse nell’XI secolo un ruolo rilevante nel contesto cittadino, lo dimostra il fatto che il 1 aprile 1075 lo troviamo membro del collegio giudicante del citato placito presieduto nella basilica di S. Maria da Milo dall’arcivescovo di Benevento, di fronte al quale l’abate Madelmo di S. Sofia si presentò per rivendicare il possesso delle chiese di S. Maria in Olicino e di S. Benedetto di Dragonara usurpate dal vescovo Campo,[104] ma già nell’agosto 1135 il monastero deve aver attraversato qualche difficoltà perché l’abate Poto, facendo presente le difficoltà economiche in cui versava l’abbazia, chiese alla comunità monastica il consenso per la vendita di due distinti pezzi di terreno, in parte incolti ed in parte coltivati a vigneto, siti fuori Benevento nella località Pino, al fine di realizzare 45 crivelli di grano per un valore complessivo di 20 romanati.[105] Nel novembre 1178 l’abate Giovanni concesse a due generazioni al sacerdote Pietro del fu Dodato le tre parti di un casale con una casa e tre parti di un terreno con una vigna nel territorio di Boiano, rispettivamente presso il monastero di S. Maria de Vivario ed in località Casale presso la chiesa di S. Vito, ricavandone il censo annuo di due libbre di cera.[106] Le ultime notizie tratte dai documenti censiti riguardano una vicenda privata iniziata il 23 maggio 1190, quando Gervasio, figlio naturale del defunto monaco Giovanni „de domna Ylaria“, citò in giudizio l’abate Pietro per ottenere i munimina di una vigna in località Pino, nei pressi di Benevento, che questi non intendeva rilasciargli perché, a suo dire, quella vigna era stata acquistata con i soldi del monastero. Senza attendere la sentenza del giudice le parti giunsero tuttavia ad una transazione in base alla quale l’abate cedette a Gervasio i munimina per il quieto possesso della vigna in cambio di un’oncia d’oro e di un’ipoteca sulla stessa vigna di un’altra oncia e mezza d’oro, da riscuotersi alla morte di Gervasio o qualora avesse deciso di vendere la vigna.[107] Nel mese di agosto dello stesso anno Gervasio, però, offre pro anima al monastero di Montevergine se stesso e tutti i suoi beni, tra i quali proprio la vigna e i due pezzi di terra oggetto della controversia appena conclusa, impegnando lo stesso monastero a fornirgli il mantenimento per tutto il resto della sua vita, sia che rimanga nello stato laicale, nel qual caso dovrà essere trattato come un qualsiasi oblato, sia che intenda vestire l’abito religioso e quindi accolto in comunità come un qualsiasi altro monaco.[108] Non sappiamo se l’abate di SS. Lupolo e Zosimo abbia richiesto il versamento dell’ipoteca o se ci siano state altre conseguenze e contenziosi in seguito alla donazione di Gervasio, che appare quantomeno ben pianificata e già decisa prima ancora della richiesta dei munimina all’abate Pietro: quello che è certo è che tutti questi documenti furono consegnati da Gervasio all’abbazia virginiana, presso il cui archivio sono ancora conservati. Sappiamo poi che dopo il 1234 il monastero cedette a titolo di permuta al monastero di Montevergine la chiesa di S. Maria di Boiano in cambio della chiesa di S. Giorgio in Vallata (AV)[109] e che agli inizi del XV secolo il monastero attraversò un periodo di profonda decadenza, finché fu soppresso nel 1450 da papa Niccolò V. Il patrimonio e le rendite furono annesse alla mensa del Capitolo metropolitano di Benevento e la chiesa cadde in completo abbandono: diruta nel 1579, fu profanata prima del 1628, in seguito adibita ad abitazione finché, il 12 gennaio 1688 l’arcivescovo Orsini la destinò a cimitero della città.
Due delle carte superstiti relative al monastero di S. Lupo sono conservate presso la Biblioteca Capitolare e tre presso la Biblioteca dell’abbazia di Montevergine. Nulla sappiamo dell’antico archivio del monastero: in attergato ai due documenti beneventani si è rilevata soltanto una nota riconducibile al XII secolo, che però non trova alcun riscontro su altre carte e non fornisce indizi utili a formulare alcuna ipotesi circa le modalità di gestione e conservazione del patrimonio documentario del monastero. Le tre pergamene virginiane, invece, offrono qualche spunto di riflessione in più: sembrerebbero non essere mai passate per l’antico archivio del monastero ed essere entrate fin dall’origine a far parte dell’archivio di Montevergine, come si deduce dalla presenza di annotazioni dagli archivisti dell’abbazia nel corso del XIII secolo e dall’assenza di annotazioni più antiche (figg. 8 e 9).[110]


Confrontando le testimonianze relative alla vicenda di Gervasio con gli altri documenti esaminati, e concentrandosi sui dati prosopografici e topografici, sembra possibile attribuire almeno ad uno di questi la qualifica di munimen, forse proprio uno di quelli reclamati da Gervasio nel maggio 1190. La donazione conclusa nell’agosto successivo da Gervasio aveva infatti ad oggetto „vineam et terram et terram vacuam … foris in loco Pini“, probabilmente la stessa che aveva dato origine alla transazione conclusa tra le due parti il 23 maggio dello stesso anno. La vigna, insieme a „terram et silvam“ in località Pino, era stata però acquistata da Corrado figlio del monaco Corrado ad opera di Giovanni figlio del fu Mercurio per conto di Gervasio, a quel tempo ancora minorenne, come attestato da una mano di XIII secolo che ricorre in poche occasioni nel verso delle pergamene verginiane e che, dopo un breve regesto, scrive nel verso di un scriptum memorie del maggio 1181: „modo est pro defensione“.[111]
5 Le chiese e i monasteri in Irpinia
L’abbazia di Montevergine
Le 694 pergamene prodotte tra X e XII secolo in territorio irpino e beneventano (che costituiscono peraltro, tra quelli censiti, il nucleo documentario più consistente dal punto di vista numerico) sono state pubblicate nei primi dieci volumi del „Codice Diplomatico Verginiano“ e sono conservate presso la biblioteca abbaziale di S. Maria di Montevergine, che si configura anch’essa sia come soggetto conservatore sia come soggetto produttore dell’archivio. La maggior parte dei documenti proviene da un’area molto vasta su cui l’abbazia esercitava la propria influenza, e lo studio delle date di luogo ha consentito di individuare tutti i centri di rogazione attivi in età longobarda e normanna citati nei documenti superstiti: molti provengono, come ovvio, dalla zona di Avellino, che costituisce un vero e proprio distretto amministrativo e documentario, comprendente, tra gli altri, i centri di Mercogliano, Monteforte, Montevergine e Summonte; altri sono stati scritti anche a Benevento e nel suo circondario e in altri centri del Sannio e dell’Irpinia, tra i quali si segnalano, per il numero di carte conservate, Montefusco e Taurasi, San Mango sul Calore e Grottaminarda (fig. 10).
Come riferito dal p. archivista Giovanni Mongelli, che per molti anni si è occupato della storia dell’abbazia e del suo archivio, non vi sono notizie circa i locali in cui erano originariamente conservati i documenti, né sulle modalità adottate ab antiquo per la loro conservazione: con tutta probabilità le carte erano conservate dai monaci all’interno del santuario in casse o armadi, come d’uso, e forse soltanto in seguito alla sempre maggiore attività amministrativa della congregazione e all’acquisizione di documentazione proveniente dalle dipendenze del monastero si rese necessario destinare un apposito locale alla conservazione dei documenti.[112]

Centri di rogazione citati nelle carte dell’abbazia di Montevergine.
Il primo riordinamento di cui abbiamo notizia è quello fissato nel „vecchio inventario“ della seconda metà del XV secolo, dal quale sappiamo che le pergamene erano distribuite in „scansie“[113] e organizzate a seconda del paese di provenienza, senza alcun rispetto dell’ordine cronologico.[114] Già nel XIII secolo, tuttavia, le carte furono oggetto di un capillare controllo condotto contemporaneamente – o in momenti di poco successivi – da più persone. Mani diverse hanno infatti annotato nel verso delle membrane le medesime informazioni relative ai negozi giuridici attestati nel recto, secondo lo stesso schema e nello stesso ordine: espressione palese di un piano di riordinamento delle pergamene organizzato dai vertici del monastero e che sembrerebbe aver interessato l’intero archivio abbaziale. Le annotazioni sono state scritte in minuscola notarile con elementi goticheggianti, evidenti soprattutto nelle iniziali più o meno elaborate e completamente estranee alla scrittura beneventana, già diffuse in ambito documentario in quest’area a partire dalla seconda metà dell’XI secolo. Le scritture di tutti coloro che parteciparono a questa operazione, probabilmente gli stessi monaci dell’abbazia, sono espressione di una cultura scrittoria riconducibile ad un sistema grafico comune – quello della minuscola carolina – anche se risultano chiaramente declinate secondo modalità personali: il modulo può essere più o meno regolare, la forma delle lettere più o meno tondeggiante, il tracciato più o meno angoloso, la compressione laterale più o meno accentuata, il chiaroscuro e gli artifici grafici più o meno evidenti, legamenti e ponti più o meno frequenti. Caratteristiche comuni sono la presenza della d onciale, con asta inclinata verso il rigo di base, le aste sviluppate verso l’alto e variamente svolazzanti, la c maiuscola caratterizzata da piccoli triangolini o semicerchi o da una o più linee verticali inseriti nel corpo della lettera. Una decina sono le mani che compaiono più frequentemente negli attergati delle pergamene di Montevergine, tra le quali (figg. 11–17):

mano a.

mano b.

mano c.

mano d.

mano e.

mano f.

mano g.
Le carte verginiane testimoniano anche successivi controlli effettuati sul patrimonio documentario nel XIV secolo, che hanno tuttavia interessato soltanto alcune pergamene e non sembrano aver assunto un carattere sistematico, probabilmente a causa dell’accuratezza del riordinamento del secolo precedente (figg. 18–20):



Nel XV secolo, invece, l’archivio abbaziale fu sottoposto ad una nuova revisione, in occasione della quale fu probabilmente compilato il primo inventario conservato, che rispecchia, come detto, la distribuzione delle carte nelle loro scansie. I documenti furono organizzati per paese in ordine alfabetico e la descrizione degli atti giuridici è ridotta all’essenziale, prestando attenzione anche allo stato di conservazione delle membrane e distinguendo le carte che riguardavano direttamente l’abbazia da quelle che invece avevano ad oggetto interessi di terzi e che venivano conservate soltanto a fini probatori o altre ragioni (figg. 21–22).


Al XVI e XVII secolo risalgono poi alcune annotazioni da cui trapela la sopravvenuta incapacità degli archivisti verginiani di leggere le antiche scritture, dal generico „non s’intende“ a locuzioni più elaborate (figg. 23–28):

„non s’intende“.

„non s’intende“.

„Carta senza fede de notaro et segno et mala lettera non bene se può legere“.

„Est lacerato et ammachiato et non se puo bene legere“.

„È longobardo et non s’intende bene“.

„Io non lo sazo legere lealo chi sa“.
In questo quadro generale colpisce la presenza di un esiguo numero di attergati precedenti al XIII secolo, frequenti invece nelle carte conservate negli altri archivi esaminati e spesso riconducibili a munimina o a carte provenienti dalle dipendenze delle fondazioni religiose più importanti: annotazioni risalenti all’XI e XII secolo sono infatti molto rare e spesso difficilmente leggibili, riducendosi a poche lettere difficilmente individuabili, spesso non consecutive. Sono invece evidenti le tracce di un’operazione di raschiatura e/o dilavatura condotta sul verso di numerose membrane e immediatamente riconoscibile sia per il diverso colore del supporto, sia per la presenza di veri e propri graffi lasciati dal coltellino o dal raschietto utilizzato per rimuovere l’inchiostro, nonché dello sbiadimento delle membrane causato da sostanze liquide (figg. 29–33).





Non si conoscono le ragioni di questa operazione, che coinvolge in modo così massiccio soltanto le pergamene conservate nell’abbazia di Montevergine, ma si può ipotizzare che le eliminazioni di testo siano state effettuate sulle annotazioni più antiche perché non più comprensibili, oppure perché troppo sintetiche, oppure ancora per eliminare tutte quelle note ormai superflue che potevano creare confusione e che erano state sostituite da altre più recenti apposte nelle successive operazioni di ordinamento. Tutto ciò limita fortemente la possibilità di ricondurre le carte verginiane ai loro archivi originari, soprattutto considerando il cospicuo numero di munimina conservati a Montevergine, che non trova eguali negli altri archivi esaminati nel corso di questa ricerca e che avrebbe potuto fornire preziose informazioni sull’argomento. Così, nonostante presso la biblioteca di Montevergine siano conservate molte carte riguardanti il monastero beneventano dei SS. Filippo e Giacomo, situato nella città nuova di Benevento, così come del monastero di S. Benedetto di Avellino (per il quale si dispone anche di documenti custoditi presso l’archivio di Cava de’ Tirreni), nessuna informazione sulle pratiche di gestione del patrimonio documentario seguite presso gli archivi originari può ricavarsi dagli attergati, quasi tutti riconducibili alle operazioni di ordinamento condotte dal XIII secolo in avanti.
Nella fig. 34 sono rappresentati soltanto le dipendenze del monastero i cui nuclei documentari, in base all’indagine sugli attergati, sembrerebbero essere stati incamerati dall’abbazia nel corso del tempo, indipendentemente dai luoghi di rogazione dei documenti che le riguardano:[115]

Nuclei documentari delle dipendenze verginiane incamerati dall’abbazia nel corso del tempo.
Come si vede, le fondazioni ecclesiastiche indicate non sono molte, considerando l’area di influenza dell’abbazia in territorio irpino rappresentata in fig. 10. Questa ‚cartografia documentaria‘, ricostruita anche sulla base della documentazione conservata negli altri archivi che conservano la documentazione meridionale, restituisce un panorama assai meno vasto di quello rappresentato sopra, a testimoniare così la necessità di indagare la documentazione superstite tenendo conto della sinergia di molti e diversi fattori, per evitare di tratteggiare un quadro dalle tinte e dai contorni sempre troppo sfumati.
Chiesa di S. Giovanni a Marcopio
L’unica informazione utile può ricavarsi dal testo di un documento della fine del XII secolo riguardante la chiesa di S. Giovanni a Marcopio, situata nelle pertinenze di Montefusco presso l’antica S. Maria in Vico, in località Ginestra, e oggi nel territorio di San Giorgio del Sannio. Che un archivio esistesse presso questa chiesa è desumibile dal fatto che nel marzo 1179 Guglielmo, monaco del monastero di Montevergine e priore della chiesa, presentò ai giudici Riccardo e Matteo di Montefusco uno scriptum offertionis dell’aprile 1174 richiedendone copia autentica, in modo che una scrittura potesse conservarsi nell’archivio della casa madre di Montevergine e l’altra nell’archivio della dipendenza monastica di S. Giovanni a Marcopio, alla quale era affidata l’amministrazione del terreno donato.[116]
Pare quindi evidente che già nella seconda metà del XII secolo, a distanza di soli cinquant’anni dalla fondazione, le pratiche di archiviazione dei documenti nell’archivio dell’abbazia e negli archivi di chiese e monasteri a questa soggetti dovessero seguire regole precise a garanzia della conservazione delle carte. Non sappiamo se in quest’epoca il versamento nell’archivio della casa madre dovesse essere effettuato per tutte le carte o soltanto per alcune, né se le dipendenze conservassero l’originale o la copia autentica: possiamo soltanto registrare il dato che lo scriptum offertionis del 1174 è deperdito e che sulla copia autentica in questione troviamo le tracce del sistematico controllo archivistico effettuato nel XIII secolo all’interno dell’abbazia (mano c).
Può forse ipotizzarsi, inoltre, che altri documenti provengano dalla chiesa di S. Giovanni. Nel giugno 1135 Iterno, signore di Montefusco, donò la chiesa al monastero di Montevergine, insieme ad un vasto appezzamento di terreno, ad un bosco e a tutti i diritti laicali e feudali che egli possedeva su quella chiesa e su quelle terre,[117] ma poco più di due anni dopo Iterno rimase ucciso nella guerra tra re Ruggiero ed il conte Rainulfo nei pressi di Siponto. Nel novembre 1137 la moglie Proserpina chiese così ad Alberto, rettore e custode dell’abbazia, di inviare in terra di Puglia alcuni suoi religiosi per ritirare le spoglie mortali del marito e dargli onorevole sepoltura nel santuario, offrendo all’abbazia una vigna in località S. Angelo a Marcopio.[118] Sul verso di entrambe queste pergamene una stessa mano ne specifica la provenienza utilizzando una scrittura databile al XII–XIII secolo che non si rinviene su alcuna altra carta esaminata (figg. 35–36).


Potrebbe quindi essere possibile che gli attergati siano stati apposti nell’archivio della chiesa di S. Giovanni e che subito dopo le carte siano state incamerate nell’archivio dell’abbazia, riscontrandosi su entrambe le tracce del già detto controllo effettuato nel corso del Duecento a Montevergine (rispettivamente mano b e mano d). Tuttavia, l’assenza di uguale intervento sugli altri documenti riguardanti la stessa chiesa, non consente di formulare attualmente alcuna ipotesi definitiva circa il percorso delle carte e le modalità di archiviazione seguite nella dipendenza verginiana.
6 Per concludere
Per concludere, pur nel quasi totale silenzio delle fonti, si può tuttavia presumere, anche per l’epoca considerata e in analogia con altre realtà della Penisola, l’esistenza di capsae e sacculi, facilmente trasportabili qualora necessario, e forse successivamente anche di armaria o altri ripostigli in cui titula e munimina, funzionali all’esercizio dell’attività di queste piccole chiese e monasteri e costitutivi della loro stessa esistenza, venivano custoditi con cura dai religiosi, probabilmente in un luogo sicuro insieme alle scritture più antiche e ai codici della bibliotheca. Quando soggetto produttore e soggetto conservatore coincidono, come nel caso delle grandi abbazie meridionali, il rischio di corruzione e perdita del materiale pergamenaceo è abbastanza limitato, come si può osservare per i fondi pergamenacei delle abbazie di Cava de’ Tirreni e Montevergine, mentre negli altri casi gran parte della documentazione è andata dispersa in seguito ad eventi naturali o bellici, come per gli archivi beneventani. È comunque possibile, basandosi sull’esame delle note archivistiche e diplomatistiche apposte sul verso delle carte, provare a ricostruire le dinamiche di archiviazione e conservazione della documentazione. Nella maggior parte dei casi sono infatti riconoscibili comportamenti ripetitivi finalizzati alla gestione e alla conservazione dei documenti. La posizione delle annotazioni tergali dimostra che le membrane venivano conservate già nei loro archivi originari, prima ancora di confluire in quelli delle case madri, in modo da proteggerne il contenuto: arrotolate col testo all’interno, oppure distese su scaffali o in casse, con il testo rivolto verso il basso, come per la chiesa beneventana di S. Andrea de platea maiore, in modo tale da facilitare la ricerca dei documenti all’interno dell’archivio senza bisogno di dover leggere i documenti, là dove la lettura e lo srotolamento delle pergamene avrebbe non soltanto rallentato le ricerche, ma a lungo termine influito negativamente sull’integrità dei supporti. L’osservazione delle note dorsali, inoltre, ci consente di seguire gli spostamenti della documentazione da un archivio all’altro, per esempio nel caso di documenti riguardanti la medesima chiesa, annotati da mani diverse e con modalità diverse, riconoscibili e tipiche di una determinata prassi archivistica seguita in un determinato archivio, come nel caso della chiesa di S. Paolo apostolo di Benevento. Oppure ancora, possiamo stabilire un terminus prima del quale la documentazione di un’obbedienza ecclesiastica è confluita negli archivi della casa madre, come nel caso della chiesa di S. Martino in Venticano. Intorno alla metà degli anni Trenta del XVII secolo sappiamo da Mario Vipera che gli antichi privilegi della fondazione beneventana di S. Modesto e i documenti riguardanti i possedimenti aviti del monastero erano conservati in sacculi, mentre i documenti più recenti in un „fasciculus privilegiorum“, attestando così una differente strategia di conservazione dovuta forse all’antichità delle pergamene, forse alla loro tipologia, forse al loro emittente. L’esistenza, attestata negli anni Venti del Settecento da Ferdinando Ughelli, di un „repertorium antiquum“ contenente le trascrizioni dei privilegi concessi al monastero da pontefici, imperatori, re, duchi e principi, nonché di altre concessioni effettuate dai fedeli alle chiese ad esso soggette, conferma la pratica di raccogliere in uno volumine i munimina che rappresentavano il titolo di possesso per i beni e i diritti delle fondazioni ecclesiastiche, nonché il successivo calo di attenzione per i documenti originali che ormai avevano ricevuto una ‚nuova veste‘, tant’è che lo studioso afferma di aver consultato tutto l’archivio e di aver potuto reperire soltanto quattro privilegi originali. Anche dalle sintetiche cifre appuntate sul verso delle carte è possibile quantificare la ricchezza del patrimonio documentario conservato negli archivi: dall’alto numero di catena attribuito ad alcuni documenti può dedursi che nell’archivio era conservato un gran numero di pergamene, sicuramente quelle con un numero di catena inferiore che, ancora nel caso di S. Modesto, ammontavano ad almeno 400 unità. Se generalmente i documenti provenienti dalle obbedienze delle case madri non sono andati a formare fondi o serie separate e hanno finito per confondersi con la restante documentazione, entrando a far parte degli archivi delle fondazioni da cui dipendevano, in alcuni casi, come per il monastero beneventano di S. Maria di Porta Somma, il cui archivio confluì in quello del monastero di S. Pietro intra muros negli anni Venti del XIV secolo, le carte sembrerebbero essere state conservate separatamente e aver costituito un fondo a parte, conservate forse in una cassa o in sacchi di tela. Infine, la richiesta di Guglielmo, monaco del monastero di Montevergine, ai giudici di Montefusco di redigere una copia autentica di uno scriptum offertionis affinché una pergamena potesse conservarsi nell’archivio della casa madre di Montevergine e l’altra nell’archivio della dipendenza monastica di S. Giovanni a Marcopio, delinea l’esistenza di regole e pratiche di archiviazione seguite nella seconda metà del XII secolo a garanzia della conservazione delle carte, sia dalla casa madre sia dalle sue dipendenze. Questo porta ovviamente a supporre che pratiche simili esistessero all’epoca in ogni fondazione religiosa che produceva e custodiva documentazione.
Fonti delle illustrazioni
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- Fig. 1–2, 4–5, 10, 34: Immagini create da Paola Massa.
- Fig. 3: ASA, I, nr. 8, © Paola Massa.
- Fig. 6: Benevento, Museo del Sannio – ASPB, fondo S. Pietro, © Paola Massa.
- Fig. 7: Benevento, Museo del Sannio – ASPB, fondo S. Pietro, VI, nr. 1, © Paola Massa.
- Fig. 8: AMV, perg. 220.
- Fig. 9: AMV, perg. 830.
- Fig. 11: AMV, nr. 270.
- Fig. 12: AMV, nr. 265.
- Fig. 13: AMV, nr. 786.
- Fig. 14: AMV, nr. 8.
- Fig. 15: AMV, nr. 54.
- Fig. 16: AMV, nr. 609.
- Fig. 17: AMV, nr. 831.
- Fig. 18: AMV, nr. 248.
- Fig. 19: AMV, nr. 730.
- Fig. 20: AMV, nr. 2190.
- Fig. 21: AMV, nr. 6.
- Fig. 22: AMV, nr. 724.
- Fig. 23: AMV, nr. 20.
- Fig. 24: AMV, nr. 117.
- Fig. 25: AMV, nr. 114.
- Fig. 26: AMV, nr. 225.
- Fig. 27: AMV, nr. 236.
- Fig. 28: AMV, nr. 105.
- Fig. 29: AMV, nr. 3.
- Fig. 30: AMV, nr. 13.
- Fig. 31: AMV, nr. 220.
- Fig. 32: AMV, nr. 159.
- Fig. 33: AMV, nr. 240.
- Fig. 35: AMV, nr. 218.
- Fig. 36: AMV, nr. 239.
© 2023 bei den Autorinnen und den Autoren, publiziert von De Gruyter.
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