Abstract
This essay reflects on the role of monasteries in the process of defining the structure of the aristocracy in Norman Sicily, with the aim of contributing to scholarship on this theme on the island in the 12th century. The topic is addressed starting from an analysis of the political and devotional choices made by the Aleramici, the most important Sicilian lords of the 12th century, within their domains, where they founded or restored churches and monasteries linked to the Benedictine order and to Palestinian shrines. This made it possible to examine the processes underlying the establishment of the monastery of Santa Maria di Licodia in 1143, on the initiative of Simone del Vasto. As can be deduced from the study of the privilege issued by the island lord, this foundation had a multiplicity of motivations, principally religious and devotional, but also linked to the control and management of the vast Aleramic lordship. Established as a family monastery, this cenoby was granted by Simone to the abbey of Sant’Agata in Catania, one of the most important monastic and episcopal sees of Sicily in the 12th century. The extent of the lands assigned by the Aleramico, the rights granted to goods and men, combined with the initiative shown by the priors of the monastic community of Licodia, must have allowed Santa Maria to become an abbey in the early thirteenth century. Over the following centuries, it thus became one of the most important meeting places for the Sicilian aristocratic élite.
1 Introduzione
Il tema della signoria è entrato a far parte del dibattito storiografico sulla Sicilia normanna soltanto da circa un ventennio. È stato in primo luogo Giuseppe Petralia a soffermarsi sulla questione, auspicando, da un lato, una rilettura delle fonti documentarie, e proponendo, dall’altro, riflessioni che hanno riguardato, tra gli altri, il problema del villanaggio, ossia i rapporti sussistenti tra i signori e i loro sottoposti, e i processi di colonizzazione del territorio. Così, lo studioso ha potuto concludere che anche nell’isola, tra XI e XII secolo, si delineò un contesto in cui si originarono strutture e meccanismi tipici del dominio di un’aristocrazia occidentale militare sulle res e sugli homines.[1] Su questo tema, pressappoco negli stessi anni, è ritornato anche Pietro Corrao, il quale, presentando un quadro minuzioso delle vicende relative alla conquista normanna dell’isola, ha posto in luce il ruolo svolto dai più importanti concessionari siciliani: concessionari che, una volta ottenuto il riconoscimento della terra e l’immunità da ogni servizio e diritto di natura pubblica dovuta al conte, erano divenuti veri e propri signori territoriali.[2] Da ultimo, è stato Sandro Carocci con il suo lavoro sulle signorie di Mezzogiorno, a proporre nuove interpretazioni in merito alle questioni concernenti lo sviluppo dei poteri signorili, l’evoluzione della società rurale e le azioni politiche intraprese dalla monarchia nel meridione della penisola e in Sicilia.[3]
Tuttavia, se le riflessioni su tali argomenti, portate avanti dai tre studiosi, sono stati determinanti per gettare maggiore luce sulla signoria nell’isola, un aspetto dei suoi processi di radicamento, quello riguardante i rapporti sussistenti tra gli enti monastici e i loro fondatori, ha trovato poco spazio nell’ambito della ricerca sulla Sicilia normanna. In tal modo, scarsamente esplorati sono state le dinamiche sottese all’istituzione di chiese e monasteri privati da parte dell’aristocrazia siciliana, i cui istituti rivestirono un ruolo di primo piano nello sviluppo delle strutture signorili.[4] I dominatores isolani dovettero, infatti, intravedere nei cenobi strumenti adatti non solo a procurarsi meriti ultraterreni, a contenere la presenza musulmana in Sicilia e ad assicurare un servizio religioso alle popolazioni locali, ma anche mezzi efficaci per riuscire a concretizzare il radicamento delle loro signorie in un territorio di recente conquista.
Appare interessante, così, provare a ragionare sul ruolo assunto dai monasteri nel processo di penetrazione signorile nell’isola, allo scopo di contribuire allo studio della signoria nella Sicilia del XII secolo. Lo si vuole fare, presentando in questa sede, un case study che riguarda la fondazione del monastero di Santa Maria di Licodia da parte di Simone aleramico.[5] Una fondazione compiuta dal più importante signore siciliano negli anni del Regnum di Ruggero II, la quale scaturì non solo da ragioni spirituali e devozionali, ma anche da motivazioni legate al controllo e alla gestione dell’ampio territorio aleramico.
2 Simone del Vasto
Simone del Vasto fu il più importante titolare di signoria nella Sicilia della prima metà del XII secolo.[6] La sua posizione di rilievo derivava, oltreché dalla diretta discendenza da Ruggero I, essendo figlio di Flandina Hauteville, anche dalla consanguineità con la comitissa Adelaide, poiché sorella del padre Enrico.[7] Le fortune degli aleramici in Sicilia, grande casato insediato nell’Italia settentrionale tra Piemonte e Liguria, a cui appartenevano i del Vasto, avevano avuto inizio con il padre di Simone.[8] Esse erano collegate a una precisa strategia politico-familiare concordata tra gli Hauteville e gli aleramici, secondo accordi che prevedevano una pluriarticolata politica matrimoniale. L’unione di Ruggero I con Adelaide del Vasto si accompagnava, infatti, a quella di Enrico con Flandina e i legami avrebbero dovuto ulteriormente rafforzarsi con lo sposalizio di due figli del comes con altre due sorelle della contessa aleramica. I vincoli familiari dovevano sugellare un’alleanza, tramite la quale Enrico avrebbe acquisito potenza e ricchezza mediante le concessioni territoriali effettuate dal conte di Sicilia.[9] Tuttavia, nei fatti, la costituzione della signoria aleramica nell’isola dovette concretizzarsi solo con l’ascesa di Ruggero II. Essa ebbe in Paternò e Butera i suoi principali centri, ma si ramificò in maniera più diffusa nel settore centrale e orientale dell’isola, grazie alla proliferazione degli insediamenti in cui si stanziarono i lombardi, per lo più gente proveniente dal Piemonte, dalla Liguria e dalla Lombardia.[10]
Enrico del Vasto e poi il figlio Simone, durante la prima metà del XII secolo, grazie al loro largo seguito, furono in grado di esprimere notevoli capacità militari, tanto da rappresentare il braccio armato dei comites sul territorio isolano e continentale.[11] Negli anni della reggenza di Adelaide, infatti, il marchese aleramico riuscì a garantire un’efficiente protezione alla sorella, mentre negli anni Trenta del XII secolo, Enrico, insieme ai suoi figli, divenne il principale sostenitore nell’ascesa di Ruggero II a re di Sicilia.[12] Le azioni intraprese dal marchese, nel corso del primo trentennio del XII secolo, riuscirono, così, a rafforzare l’autorità degli Hauteville, ma anche a consolidare la sua posizione in seno all’alta aristocrazia normanna. In seguito alla morte di Enrico, infatti, Ruggero II concesse a Simone di divenire titolare della vasta signoria aleramica e di ricoprire importanti uffici nel Regnum, tra i quali soprattutto quello di connestabile, il cui ruolo gli fu conferito in occasione della spedizione pugliese organizzata per contrastare le truppe dell’imperatore Federico Barbarossa.[13] Una serie di eventi avversi occorsi durante la campagna militare, tra cui la fuga del nemico Roberto di Loritello, ma soprattutto gli intrighi di corte, macchinati, secondo Ugo Falcando, da Maione di Bari furono alla base della rimozione dal suo incarico.[14] Probabilmente nel 1156, Simone fu tradotto in carcere a causa delle imputazioni mosse dal cancelliere Askettino. Solo grazie alle rimostranze dei lombardi, ovvero del suo numeroso seguito armato, l’aleramico fu rilasciato da re Guglielmo, un anno prima, tuttavia, che la morte lo cogliesse.[15]
3 Le donazioni alle Chiese siciliane e palestinesi
Motivazioni di carattere spirituale, unite alle esigenze di controllo e gestione del territorio, spinsero Simone, a partire dagli anni Quaranta del XII secolo, a fondare e dotare chiese urbane e rurali all’interno della sua signoria. In questo senso, il conte aleramico, nel corso della sua vita, incarnò sempre di più il modello del benefattore cristiano, convinto che le concessioni effettuate a favore degli enti monastici rappresentassero un mezzo vantaggioso per procurarsi meriti ultraterreni, ma anche consapevole del riflesso pratico di questo tipo di interventi. I monaci, infatti, erano considerati veri e propri intermediari tra il cielo e la terra, in grado di provvedere con le loro preghiere non solo ai bisogni spirituali degli uomini, ma sovente anche a quelli materiali. Così, la protezione accordata alle chiese e ai monasteri dagli aleramici rispondeva anche a un progetto politico perseguito dall’aristocrazia normanna, proteso, da un lato, al riordino territoriale dell’isola e, dall’altro, all’affermazione signorile in seno a suoi possedimenti. La conquista della Sicilia da parte di Ruggero I aveva seguito, infatti, di pari passo il rilancio del monachesimo di tradizione greca nel Val Demone, il ripristino delle sedi episcopali e, nel contempo, l’istituzione di monasteri latini in tutta l’isola.[16]
La fondazione di tali cenobi avvenne, pertanto, principalmente su iniziativa del comes, il quale era fortemente impegnato a recuperare la Sicilia alla christianitas e a consolidare il suo prestigio personale. Ben presto, però, gli atti compiuti dall’Hauteville furono emulati dagli esponenti dell’alta aristocrazia isolana. Così, anche Enrico del Vasto fece importanti donazioni alle Chiese di Catania e Patti, concedendo antichi edifici sacri, terre e diritti, soprattutto presso Butera e Paternò.[17] Le concessioni operate dal signore aleramico nei confronti degli ordini monastici scaturirono principalmente da motivazioni devozionali; ma, tra i suoi intenti, vi furono anche quelli di consolidare i rapporti con le gerarchie ecclesiastiche locali e di fornire supporto logistico ed economico alle abbazie palestinesi, impegnate a preservare i loca sancta. Gli antichi edifici sacri, concessi ai monasteri siciliani e ai santuari di Terrasanta, in altri termini, furono comunità di preghiera che funsero pure da centri di conduzione delle tenute assegnate dal dominus. I religiosi, in questo modo, se, da un lato, apparirono impegnati a pregare e a raccomandare a Dio le anime dei loro protettori, dall’altro, portarono avanti opere di colonizzazione del territorio e di messa a coltura dei campi rimasti abbandonati.
Durante il secondo venticinquennio del XII secolo, Simone proseguì negli atti di governo compiuti dal padre, sostenendo in maniera incondizionata gli Hauteville e perseguendo il radicamento del suo casato nel settore centrale e orientale dell’isola. Uno sforzo di potenziamento della struttura signorile, che si sostanziava non solo mediante un’accorta politica matrimoniale e un rafforzamento della già vasta clientela armata, ma anche attraverso il ripristino di antichi edifici sacri e la fondazione ex novo di chiese urbane e rurali. In tal senso, a partire dal 1141, Simone fece importanti concessioni all’abbazia di Catania, il cui superiore, per volere di Ruggero I, dalla fine dell’XI secolo, ricopriva pure la carica vescovile. Il monaco Ansgerio e i suoi successori ebbero, così, il compito di guidare l’abbazia di Sant’Agata, di governare la vasta diocesi etnea e di amministrare le città di Catania e Aci, delle quali avevano ricevuto dall’Hauteville la signoria. Durante gli anni Quaranta del XII secolo, il conte aleramico concesse ai monaci etnei la chiesa di Santa Maria del Patrisantòs di Piazza, insieme alle case che erano state edificate dal cavaliere Giotzo.[18] Questa donazione scaturiva da motivazioni di carattere religioso e politico: mentre Simone, infatti, cercava di rendere ancora più saldi i rapporti con l’abate vescovo, ai monaci veniva data la possibilità di espandere la loro influenza nel settore centrale della Sicilia; un’area in cui la presenza dei benedettini appariva particolarmente importante per gli aleramici, i quali erano interessati a ridimensionare la presenza dei musulmani all’interno dei loro possedimenti. I monaci erano, così, chiamati a fungere da argine nei confronti di un islam che, a metà del XII secolo, era ancora preponderante nella zona compresa tra Piazza e Castrogiovanni. Non a caso, nel corso degli stessi anni, Simone effettuò altre concessioni sia nei confronti del monastero di Sant’Agata sia verso taluni santuari palestinesi. Nel 1147, egli donò all’Ospedale di San Giovanni tutti i beni che Oberto di Savona aveva posseduto presso Piazza;[19] mentre, l’anno dopo concesse al santuario del Santo Sepolcro la terciaria della cappella di Sant’Agata, la chiesa di San Giorgio, il casale di Gallinica e ancora diversi appezzamenti di terra.[20]
Risulta assai interessante notare come gran parte delle concessioni effettuate dal conte aleramico abbiano riguardato beni situati nel territorio di Piazza. Questo centro, d’altronde, pare fosse stato rifondato dai del Vasto dopo l’abbandono dell’abitato musulmano di Anaor-Monte Navone. La deduzione della villanova nel settore centrale dell’isola da parte degli aleramici comportò, oltre al coinvolgimento di loro fideles e di gente lombarda, pure la partecipazione della comunità monastica di Catania e dei santuari di Terrasanta. Milites, monaci e uomini provenienti soprattutto dall’Italia settentrionale furono, così, impiegati dai del Vasto per costituire il nuovo insediamento di Piazza. È probabile che la Chiesa catanese avesse giocato un ruolo di primo piano in questa vicenda sia perché la villanova rientrava all’interno della diocesi etnea sia perché gli aleramici, sin dai primi anni del loro stanziamento a Paternò, istituirono buoni rapporti con i benedettini etnei. Questo dato sembra essere suffragato pure dalla consacrazione a Sant’Agata della loro cappella castrense di Piazza. Il rientro a Catania delle presunte reliquie della martire, giunte secondo l’abate Maurizio da Costantinopoli nel 1126, era stato determinante per la propagazione del culto agatino in Sicilia e nella penisola italiana. Si può, dunque, ipotizzare che l’intitolazione di questa cappella rivelasse sia gli interessi dell’abbazia etnea per il settore centrale dell’isola sia la devozione nutrita dagli aleramici verso la patrona di Catania.
Gli edifici sacri concessi da Simone, a partire dagli anni Quaranta del XII secolo, alla comunità di Sant’Agata e agli ordini palestinesi presso Butera, Piazza e Paternò ebbero lo scopo di costituire punti di riferimento per la pietas religiosa. Essi funsero anche da centri di coesione, filtro e promozione del lignaggio aleramico, divenendo strumenti chiave per la strutturazione di saldi poteri signorili. In questo senso, il monastero di Santa Maria di Licodia, rifondato dal conte del Vasto presso Paternò, oltre a essere un mezzo per assicurare una presenza religiosa nel territorio etneo dovette rappresentare anche un tramite per rivelare la sua potenza signorile nella Sicilia centro-orientale.
4 La fondazione del monastero di Santa Maria di Licodia
Nel 1143, Simone, insieme alla moglie Thomasia e con il concorso di Guglielmo, suo stratigoto e baiulo di Butera, donò al monaco Geremia, proveniente dall’abbazia di Sant’Agata, il cenobio di Santa Maria di Licodia.[21] Questo piccolo monastero rurale doveva essere un metochion di epoca bizantina, forse rimasto in auge durante la dominazione islamica dell’isola.[22] Era già stato il marchese Enrico a ripristinare alcuni antichi edifici sacri cristiani esistenti nel territorio di Paternò e ad assoggettarli nel contempo alle abbazie isolane e palestinesi. In tal senso, il padre di Simone aveva rifondato sul versante meridionale dell’Etna le chiese di Santa Maria in Valle di Iosaphat e il monastero di San Leone in Monte Gibello.[23] Erano state molteplici le motivazioni che avevano spinto Enrico a ricostituire questi luoghi sacri. Egli era stato mosso innanzitutto dalla devozione verso i monaci catanesi e verso i culti che essi promuovevano sia nei confronti della Madre di Dio sia dei santi Agata e Leone. La devozione verso la patrona di Catania era rifiorita nel corso degli anni Venti del XII secolo, in seguito al rientro in città delle sue presunte reliquie. La cronaca di Maurizio narra le molte grazie concesse dalla santa: non solo miracoli di guarigione, ma anche prodigi che avevano riguardato tutta la popolazione catanese, come quando le forze cittadine riuscirono a respingere un attacco musulmano proveniente dal mare. Sant’Agata sarebbe persino apparsa in sogno al marchese aleramico, inducendolo a riconciliarsi con i monaci, forse perché da tempo questi aveva cercato di estendere la sua influenza sul capoluogo etneo.[24]
Nella ricostituzione di tali luoghi di culto, cionondimeno, dovevano aver avuto il loro peso anche fattori che riguardavano il contenimento della presenza musulmana nel territorio di Paternò e le limitazioni imposte nei confronti del cristianesimo di rito greco. Gli aleramici, infatti, furono campioni della latinità e, in quanto tali, essi promossero e sostennero fortemente il radicamento nell’isola del monachesimo latino e di una chiesa soggetta al pontefice romano. Il ripristino di cenobi e chiese, già di tradizione greca, assegnate dai del Vasto nella prima metà del XII secolo ai benedettini e agli ordini palestinesi, intendeva rivelare anche la loro autorevolezza nel contesto isolano: essi, d’altro canto, sin dal loro insediamento a Paternò furono impegnati a costituire un saldo potere signorile in una vasta area che dal declivio meridionale dell’Etna si spingeva sino alla Piana di Catania, per incunearsi nel settore centrale dell’isola, giungendo a meridione sino a Butera e a settentrione sino a Capizzi e Cerami. Simone, pertanto, attraverso il ripristino dell’antico metochion di Santa Maria di Licodia desiderava, da un lato, manifestare la sua devozione per la Madre di Dio e l’attaccamento verso i monaci catanesi e, dall’altro, creare un monastero di famiglia, in grado di fungere da nucleo di coesione del suo lignaggio, attorno a una vasta proprietà inalienabile. Il cenobio di Licodia, infatti, sin dalla sua rifondazione fu dotato dal conte aleramico di estesi possedimenti che palesavano sia le ampie disponibilità di beni sia la liberalità del dominus di origine piemontesi.[25]
Nell’agosto del 1143, alla presenza dei suoi barones e dei suoi milites, Simone rilasciò il privilegio al monaco Geremia, il quale probabilmente era stato incaricato dall’abate di Sant’Agata di prendere possesso del nuovo priorato. Questo sorgeva all’interno del territorio di Paternò, nella contrada Licodia, in un’area occupata sin dall’età tardoantica.[26] La ricerca archeologica, a questo proposito, ha potuto appurare l’esistenza all’interno delle proprietà monastiche di un sistema di strutture idriche che da contrada Botte conduceva l’acqua sino alla città di Catania, dove riforniva fontane e terme pubbliche.[27] Il privilegio dato da Simone, che definiva i termini della donazione, restituisce anche alcune informazioni sulle fasi altomedievali di questo territorio. Da esso, è possibile, così, apprendere della presenza nei pressi dell’antico cenobio di ulteriori strutture idriche, forse realizzate in età bizantina o musulmana, ma soprattutto dell’esistenza di casali rurali come quelli denominati Sarracenorum e Kephen.[28] Su questi ultimi, tuttavia, nessun dato si possiede, cosicché risulta attualmente difficoltoso potersi esprimere circa le loro fasi di formazione e poi di abbandono. Cionondimeno, l’attività di promozione condotta da Simone nei confronti della contrada Licodia, attraverso l’istituzione di un priorato benedettino, manifesta le intenzioni del casato aleramico di ripopolare l’area: intenzioni che sono rivelate chiaramente nel diploma di metà XII secolo, con il quale Geremia era stato investito della prerogativa di potere costituire un nuovo casale. L’insediamento sarebbe dovuto nascere, come effettivamente avvenne qualche anno dopo, vicino al metochion, popolato da homines liberi, ai quali sarebbe stata data dal priore terra coltivabile. La charta del 1143 stabiliva che i coloni, per le questioni di bassa giustizia, fossero stati sottoposti all’abate di Sant’Agata, il quale è pensabile che avesse espletato il suo ufficio attraverso il suo priore e un vicecomes.[29] Il cenobio di Licodia, pertanto, sin dalla sua rifondazione, in virtù dei consistenti patrimoni fondiari detenuti, sembrò configurarsi come uno spazio di potere, poiché beneficiario su base immunitaria di determinati ambiti di egemonia politica e di attrattiva sociale. Il conte aleramico, infatti, nel 1143, assegnò a Geremia molti possedimenti inalienabili, situati tra Butera, Cerami e Paternò, che gli consentirono di gestire rapporti contrattuali con le famiglie del notabilato locale ed amministrare un importante centro di produzione agraria.
Ma, quanti e quali erano i possedimenti dati da Simone, ovvero quelli su cui il priore di Licodia poté fondare il suo prestigio e la sua forza a partire dalla seconda metà del XII secolo? Nel 1143, il conte aleramico diede innanzitutto a Geremia la tenuta su cui sorgeva l’antico metochion, i cui confini sono ancora oggi rintracciabili grazie alle indicazioni contenute nel privilegio di fondazione. Essi erano rappresentati dalla strada che dal casale Sarracenorum conduceva presso Paternò, dalla saja vecchia superiore, dalla pietra perforata e da un ulteriore percorso viario, non meglio specificato.[30] Erano state soprattutto le vie di comunicazione a essere state indicate con una certa precisione nel diploma del XII secolo, molto probabilmente a riprova dell’importante ruolo assolto dai monasteri di famiglia nel controllo strategico degli itinerari di media e lunga percorrenza.[31] Dunque, non era stato un caso che Simone avesse assegnato al priorato di Licodia altri poderi, siti a ridosso di importanti vie di comunicazione, come avvenne per la tenuta di contrada Tre Cisterne.[32] Questo podere, così denominato a causa della presenza di tre serbatoi di acqua, realizzati forse già in età tardoantica, doveva avere una certa rilevanza, in quanto luogo di sosta e di ristoro per i viandanti che transitavano lungo il vicino tragitto.
Erano, però, le tenute di Pietralunga presso Paternò e quelle ubicate tra Pitelchammut e Salomone a Butera a rappresentare la parte più consistente dei beni detenuti dai benedettini. Per quanto riguarda la prima, essa si trovava sulla sponda occidentale del fiume Simeto, in una zona fertile posta ai confini tra il territorio di Paternò e quello di Centuripe.[33] I possedimenti di Pietralunga rientrarono nelle disponibilità dei monasteri di Santa Maria di Licodia e San Nicolò l’Arena sino agli anni Sessanta dell’Ottocento, quando i loro beni furono confiscati dal neo costituito Regno d’Italia.[34] L’altra grande tenuta donata da Simone si trovava, invece, all’interno delle divisae di Butera. I suoi limiti furono individuati da Carlo Alberto Garufi agli inizi del XIX secolo, che la ubicò tra il mulino di Sammito e le contrade di Salomone, Mendoli e Sette Farine.[35]
Spettò a Geremia, e poi ai suoi successori nella carica di priore di Licodia, il compito di gestire tutti questi possedimenti e di esercitare un ruolo di controllo sugli uomini insediati sulle terre del monastero.[36] Il priore, pertanto, rispondendo alle concrete esigenze dei suoi homines e istituendo vieppiù un fascio di legami verticali, si poneva come il principale punto di riferimento in un’ampia porzione della signoria aleramica. Il suo prestigio e la sua forza, d’altro canto, derivavano non solo dalle ampie disponibilità di terra, ma pure dalle dipendenze che erano state assoggettate al cenobio licodiese. Simone aveva, infatti, legato al priorato di Santa Maria alcuni monasteri e alcune chiese rurali, la cui fondazione risaliva probabilmente all’epoca preislamica. È plausibile, così, che il metochion di San Filippo in Pantano, concesso al priorato di Licodia, rimontasse a un periodo precedente al IX secolo,[37] fondato da monaci greci per accogliere una comunità di preghiera. Esso sorgeva probabilmente nei pressi di contrada Bella Cortina, vicino a quello che era stato un importante asse viario di epoca imperiale, il quale connetteva l’area ionica con l’entroterra siciliano. Per tale ragione si ipotizza, in questa sede, che San Filippo potesse essere stato uno xenodochium durante l’alto medioevo.[38] Non è dato sapere, però, se questo cenobio fosse ancora in auge nel corso degli anni Quaranta del XII secolo, quando da Simone fu dato al priore di Licodia. Certo è, invece, che, in seguito alla sua concessione, San Filippo divenne una grangia benedettina, ossia una vera e propria azienda agricola, attraverso la quale venne curata l’organizzazione economica e amministrativa delle proprietà monastiche e plausibilmente di Pietralunga. Simili compiti dovettero essere stati assolti pure dalle altre dipendenze licodiesi, quali Sant’Ippolito e San Nicolò di Butera e San Salvatore di Cerami: attraverso di esse, infatti, i monaci benedettini furono in grado di gestire le loro tenute situate nei due lontani centri abitati dominati dagli aleramici. Santa Maria, pertanto, benché fosse stato un priorato di Sant’Agata, sin dalla sua rifondazione, sembrava rassomigliare a un’abbazia, sia per i suoi vasti possedimenti sia per le grange che le erano state assoggettate. Di più, il cenobio etneo, con la charta del 1143, aveva ottenuto varie immunità: esso, infatti, fu esentato dal pagamento dell’erbaticum e del glandaticum, che era dovuto dai monaci per il pascolo dei loro armenti sulle terre degli aleramici.[39] Nel contempo, a Geremia e ai suoi successori fu concesso di esercitare diversi diritti di tipo signorile, tra cui lo ius aquandi e quello di esigere i dazi sulla scafa del Simeto, posta in contrada Mizichene.[40] L’utilizzo di questa barchetta si rese necessario a partire dall’età alto medioevale, allorquando il vicino ponte di età adrianea rimase danneggiato dalle forti piene.[41]
Le grandi concessioni, in termini di beni e diritti, effettuate da Simone a favore del cenobio di Santa Maria se, da un lato, consentirono a Geremia e ai suoi successori di divenire domini di una modesta signoria rurale, dall’altro, si configurarono come una chiara manifestazione dell’autorità esercitata dal casato aleramico nella Sicilia del XII secolo.
5 L’elevazione di Santa Maria di Licodia ad abbazia
I legami tra il monastero di Santa Maria di Licodia e gli aleramici dovettero venire meno già alla fine degli anni Cinquanta del XII secolo, in concomitanza con la morte di Simone.[42] Il casato del fondatore, negli anni di Guglielmo I, era stato minato dalle congiure ordite dal palazzo. Le cospirazioni di Maione di Bari portate avanti verso i più stretti familiari del re avevano avuto come esito il trasferimento degli interessi dei del Vasto nella zona compresa tra Butera e Piazza, dove la loro posizione appariva più sicura grazie alla folta presenza dei milites lombardi. Il dato pare essere confermato anche dalle donazioni di Manfredi, il figlio del conte Simone, effettuate negli anni Cinquanta del XII secolo in favore delle Chiese isolane, le quali furono circoscritte solo ed esclusivamente al settore centrale della Sicilia.[43] La presenza degli aleramici a Paternò, infatti, non è più documentata nel decennio seguente. Pare, dunque, molto verosimile che la loro protezione verso il monastero di Santa Maria di Licodia dovette venire meno in questo stesso periodo: d’altro canto, nessuna donazione in favore di questo cenobio è registrata per la seconda metà del XII secolo.
La grande disponibilità di beni e diritti, gestite attraverso le dipendenze di Butera, Cerami e Paternò furono, però, verosimilmente alla base, nei primi anni del XIII secolo, dell’elevazione abbaziale di Santa Maria di Licodia. Nel 1205, infatti, il vescovo di Catania, Ruggero Orbus, il quale ricopriva anche la carica di superiore della comunità monastica di Sant’Agata, riconobbe al confratello Pietro la dignità di abate. A questi, l’episcopus etneo non solo concesse l’uso della mitra, del pastorale e dell’anello,[44] ma confermò anche l’autorità di Santa Maria sulle grange date da Simone negli anni Quaranta del XII secolo. Il privilegio ruggeriano sancì pure l’aggregazione di San Leone e delle sue dipendenze al monastero licodiese, consentendo a quest’ultimo di assurgere come uno dei più importanti centri monastici della Sicilia centro-orientale. In cambio dell’elevazione abbaziale, Pietro e i suoi successori furono obbligati a recarsi presso il monastero di Sant’Agata, in occasione delle celebrazioni più importanti, segnatamente per Pasqua, per Natale e per le festività in onore della patrona di Catania. Le due abbazie, così, se mostravano di essere ancora legate sul piano religioso, non lo erano più, invece, dal punto di vista giuridico. A partire, infatti, dai primi anni del Duecento, all’abate di Santa Maria spettò di pronunciarsi anche sulle questioni di ambito giudiziario, che riguardavano gli homines insediati a Licodia. In tal modo, Pietro e i suoi successori divennero veri e propri signori immunitari, esentati dal punto di vista giuridico e amministrativo dall’abate vescovo di Catania.[45]
Sin dai primi anni del suo mandato, Pietro si impegnò a riorganizzare le vaste proprietà di Santa Maria e di San Leone. Per riuscire nella sua impresa, egli non esitò a richiedere un prestito di seicento tarì al priore Balsamo di San Nicolò de lombardis, una dipendenza paternese dell’abbazia di Cava de’ Tirreni.[46] Tra le iniziative più importanti realizzate dall’abate di Licodia vi fu la permuta effettuata tra i duecento tarì all’anno, che Guglielmo I aveva assegnato a San Leone, con il mulino de Ruveto, il quale fu riparato e messo in funzione da Pietro. I proventi ottenuti dalla riorganizzazione dei beni dell’abbazia licodiese permisero a Ruggero, il secondo abate di Santa Maria, di ripagare agevolmente il debito a Balsamo.[47]
6 Conclusioni
Pressappoco un settantennio dopo la sua rifondazione, avvenuta nel 1143 per opera di Simone del Vasto, il piccolo metochion di Santa Maria riuscì a divenire una delle più importanti istituzioni monastiche della Sicilia centro-orientale, tanto da essere elevata nei primi anni del Duecento allo stato abbaziale. È molto probabile che questo cenobio risalisse all’età bizantina, momento in cui si diffuse nell’isola il culto per la Theotokos. Durante l’epoca musulmana, infatti, diverse chiese rurali e diversi monasteri erano riusciti a sopravvivere in Sicilia, ma fu solo in seguito alla conquista normanna dell’isola che essi poterono prosperare di nuovo. L’insediamento degli aleramici nel castrum di Paternò, intorno al 1112, fu, così, alla base del ripristino e della fondazione ex novo di diversi edifici di culto. Gli esponenti di questo casato, in effetti, furono tra i più ferventi sostenitori della latinità nell’isola, come dimostrano le iniziative portate avanti nel corso della prima metà del XII secolo all’interno dei loro domini. Essi cercarono, infatti, da un lato, di osteggiare la componente musulmana e limitare la diffusione del rito greco cristiano, mentre, dall’altro, di favorire le Chiese siciliane e palestinesi. In questo contesto, si pone la rifondazione del cenobio di Santa Maria, dato da Simone al monaco Geremia nel 1143. Una rifondazione scaturita da molteplici ragioni di ordine religioso e politico. Va, tuttavia, evidenziato come nel privilegio degli anni Quaranta del XII secolo, alle motivazioni devozionali fosse stato riservato, in realtà, uno spazio assai modesto, in cui i fondatori pregavano Dio di mostrare pietà verso le loro anime. Un incipit, questo, troppo conciso in confronto, invece, al lungo testo destinato alla descrizione dei beni e dei diritti concessi al monastero, così lungo da fare ritenere per nulla secondarie le ragioni di natura politica che stettero alla base dell’istituzione del priorato di Licodia.
È assai probabile, dunque, che Simone avesse intravisto nei benedettini un potente mezzo per riuscire a consolidare, nel corso degli anni Quaranta del XII secolo, la sua posizione all’interno dei domini di Butera, Cerami e Paternò: domini che soltanto da pochi anni aveva ottenuto, in seguito alla morte del padre. Pertanto, attraverso l’istituzione di Santa Maria, Simone si proponeva di promuovere la sua figura, in qualità di fondatore di un istituto monastico; di consolidare i rapporti con l’abate di Catania e con gli esponenti del notabilato locale; di garantire il servizio religioso nella sua signoria e, infine, di mettere a frutto estensioni più o meno ampie delle sue terre, forse rimaste abbandonate da troppi anni. Il cenobio di Licodia, in tal modo, si presentava come un monastero di famiglia, dotato di estese proprietà inalienabili, funzionale ai processi di radicamento della signoria aleramica all’interno dei suoi domini.
Erano stati verosimilmente i beni posseduti e i diritti esercitati, uniti alle capacità dei suoi priori, a rendere la comunità monastica di Licodia una delle più influenti del settore orientale della Sicilia. Anche se da diversi decenni Santa Maria aveva perso la protezione degli aleramici, poiché caduti in disgrazia tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta del XII secolo, essa, all’inizio del Duecento, riuscì a divenire un’abbazia. La rilevanza di questo monastero, come è stato possibile desumere in questa sede grazie alla rilettura del privilegio di fondazione del 1143, si situava in un contesto assai complesso, nel quale si sovrapponevano ambiti di natura religiosa e devozionale, da un lato, e di carattere politico, economico e sociale, dall’altro. Sin dalla seconda metà del XII secolo, Santa Maria dovette aver assunto, infatti, la funzione non solo di centro spirituale, ma anche di centro organizzativo di beni fiscali. La sua elevazione ad abbazia rappresentò, così, il momento in cui fu sancita ufficialmente la sua importanza nel contesto isolano: importanza che riuscì ad accrescere nei secoli seguenti, potendo assurgere come uno dei più rilevanti poli di aggregazione dell’élite aristocratica siciliana e come una delle più ricche comunità monastiche d’Europa, riconosciuta a partire dal XIV secolo con il doppio titolo di Santa Maria di Licodia e San Nicolò l’Arena.[48]
© 2023 bei den Autorinnen und den Autoren, publiziert von De Gruyter.
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