Abstract
This essay offers a preliminary presentation of a newly discovered dossier of documents produced by the Roman Inquisition during the persecution of the Portuguese Jews living in Ancona in 1555–1556. The essay contextualizes the documents within the archive that currently holds them and attempts to explain how they ended up in Ravenna; it also identifies some of the most striking novelties contributed by these recently found documents to our knowledge of events.
L’intento del presente contributo è quello di dare notizia del ritrovamento, nel corso del lavoro di riordino della documentazione giudiziaria conservata presso l’Archivio di Stato di Ravenna svolto da Dario Taraborrelli, di un corposo dossier ad oggi unico testimone dell’attività dei commissari inquisitoriali incaricati del procedimento contro la comunità di ebrei sefarditi di Ancona tra 1555 e 1556. Sui fatti, che culminarono con una tragica e clamorosa serie di autodafé nell’estate del 1556 è stato scritto molto, frutto anche di ricerche approfondite in più archivi che hanno ricostruito, pezzo dopo pezzo, quanto era possibile conoscere del mosaico che costituisce la vicenda.[1] Nessuna di queste ricerche poteva però prevedere che un numero consistente di documenti si nascondesse in un luogo apparentemente insospettabile, l’archivio della Curia generale civile della Legazione di Romagna, con sede a Ravenna, ora conservato presso il locale Archivio di Stato. Si tratta di 306 cc. (due documenti in pergamena, il resto cartacei) tutti prodotti dall’istituto inquisitoriale anconetano o da questo acquisiti nello svolgimento dell’indagine contro gli ebrei sefarditi della città. Si è ben lontani dal poter consultare per intero quello che doveva essere il faldone processuale, ma queste carte riescono a riempire almeno parzialmente un’importante lacuna e hanno molto da rivelare sulla vicenda e sui suoi protagonisti.[2]
La documentazione è stata rinvenuta all’interno di un vasto corpus miscellaneo di allegati ai procedimenti della curia civile della Legazione di Romagna, il cui riordino non è ancora concluso: non si esclude dunque che altri pezzi possano aggiungersi a quelli che ora si presentano, nonostante siano già stati condotti ampi sondaggi. È attualmente in corso, ad opera di chi scrive, un lavoro di ricerca più approfondito sulla vicenda del procedimento inquisitoriale istruito contro gli ebrei portoghesi di Ancona e sulla loro comunità alla luce delle carte rinvenute. È parso tuttavia opportuno e utile dare una prima comunicazione del ritrovamento e qualche cenno del contenuto dei documenti ritrovati.
1 L’archivio della Curia generale civile di Ravenna e le carte anconetane
Il complesso corpus documentario oggi denominato Curia generale civile della Legazione di Romagna è l’ultima configurazione di una lunga e travagliata vicenda archivistica che ha portato fino a noi le carte delle istituzioni giudiziarie attive a Ravenna e in Romagna in età moderna. Si tratta delle carte superstiti di quel denso meccanismo istituzionale che ha accompagnato l’amministrazione della giustizia per quasi quattro secoli, dal tardo medioevo e fino all’arrivo delle truppe francesi in Italia settentrionale nel 1796.
La prima notazione da fare su queste carte è che esse sono riferibili per la quasi totalità dei casi alla giurisdizione civile, per quanto i confini di questa dizione siano abbastanza scivolosi se riferiti alle magistrature di antico regime, con solo una manciata di testimonianze relative a quella criminale[3] e la felice quanto fortuita eccezione delle carte sul processo dell’Inquisizione agli ebrei portoghesi di Ancona. A oggi, infatti, l’intera produzione documentaria delle magistrature giudiziarie criminali a Ravenna, sia comunitative che legatizie, è mancante.
L’archivio oggi conservato, poco più di 200 metri lineari per 1469 pezzi tra buste e volumi, è in realtà l’aggregazione di tre sezioni principali: il Tribunale del Legato di Romagna, l’archivio del Pretore, o Podestà, di Ravenna e del Governatore di Ravenna e, infine, le carte di altri giudici più antichi o di magistrature straordinarie conservate in contiguità spaziale con le altre carte giudiziarie. L’estensione cronologica della documentazione attesta le prime rarefatte testimonianze documentarie, un paio di quaderni, al 1335, per poi proseguire con una progressione più ricca nel Quattrocento, decisamente florida nel Cinquecento e pressoché completa per il Seicento e il Settecento, con l’intera trafila di tipologie documentarie che si dispiegano parallelamente agli anni.
I documenti conservati sono l’esito diretto della procedura giudiziaria che per secoli ha caratterizzato i tribunali, maggiori e minori, dello Stato pontificio e di molte realtà comunali italiane: il sistema dei libri d’atti e degli allegati, gli iura. Senza addentrarsi troppo nella tecnica di gestione e nella tenuta dei documenti di una cancelleria di età moderna, ai nostri fini basti considerare che si trattava della trattazione delle cause giudiziarie attraverso la registrazione giornaliera degli atti formali condotti dai procuratori e la relativa sedimentazione in serie tipologiche secondo la procedura (libri d’atti, iura, testimonianze, decreti, sentenze, ecc.). Il principale attore di questa pratica documentaria era il notaio attuario che riassumeva in sé le funzioni di verbalizzante, cancelliere e conservatore dei registri e dei libri d’atti che compilava ogni giorno. Questi notai erano attivi sia presso il collegio notarile ravennate che presso altre curie e magistrature, basti pensare al caso di Silvestro Bondemani, notaio attivo dal 1541 al 1598, attuario del Governatore di Ravenna e segretario presso la curia del Tribunale arcivescovile,[4] esempio lampante della funzione di cardine nella produzione documentaria sia pubblica che privata nella società ravennate di antico regime.
All’interno di questo complesso corpus documentario le carte inquisitoriali sono state rinvenute tra i nuclei riferibili a quella vasta compagine di allegati ai processi, atti notarili, testimonianze e altra documentazione sciolta raccolta negli iura. Tale documentazione veniva presentata dai procuratori a supporto alle cause intentate davanti ai tribunali e rappresentava la produzione documentaria per l’istruzione dell’azione legale da parte di attori e convenuti in ambito civile. I singoli documenti venivano raccolti in ordine cronologico di presentazione dall’attuario nella cancelleria del tribunale parallelamente alla formazione della procedura negli appositi registri (libri d’atti, decreti, sentenze, ecc.) e conservati genericamente in filze annuali o trimestrali a seconda della produzione documentaria. Si trattava, quindi, della documentazione probatoria che le parti in causa decidevano di consegnare davanti al giudice e che poteva essere richiesta dalla parte avversa per la valutazione dell’azione di risposta, pratica questa che portò nel corso del Settecento a una normativa intesa a evitare la sparizione di carte con l’istituzione di un apposito registro per il prelevamento di esse da parte dei procuratori.[5] Questa pratica giudiziaria, però, nel Cinquecento e nel Seicento non presentava tecniche di conservazione dei documenti che al di là della sequenza cronologica permettessero di ricondurre gli iura alle cause trattate nei libri d’atti, e la perdita di tale ordine a causa delle tormentate vicende dell’archivio dei tribunali ha portato all’attuale impossibilità di riferire all’esatto contesto giudiziario le carte inquisitoriali relative agli ebrei di Ancona. Le ipotesi più credibili in questo senso potrebbero essere sia l’utilizzo dei documenti per la trattazione di un’altra causa civile che la permanenza della documentazione inquisitoriale tra le carte di un attuario.
Infine, un ulteriore livello di complessità che rende difficoltosa l’interpretazione di questo nucleo di documenti è l’intricata vicenda archivistica che ha investito l’archivio delle istituzioni giudiziarie di età moderna: trasferite in gran fretta dalla loro sede storica nel Palazzo del Legato a una soffitta per l’arrivo di Maria Luigia d’Austria nel 1818, esse subirono più tentativi di riordino e traslochi per finire per decenni nel sottotetto del Palazzo di Giustizia fino al 1924. In questa data infatti esse vennero recuperate dall’archivista romano Ottorino Montenovesi che venne incaricato di spostarle e riordinarle presso la Biblioteca Classense. Montenovesi riconobbe tra le tipologie documentarie alcuni elementi ricorrenti e iniziò un riordinamento di circa metà della documentazione, senza però distinguere le differenti magistrature, portando così a organizzare in sequenza circa 1650 volumi secondo lo schema: Acta civilia, Forensium, Testium, Decreta, Accomodatorum, Citationum, Commissionum, Contradictarum, Mandatorum, Expeditionum. In coda a tali serie tipologiche Montenovesi aveva fatto seguire i pacchi di carte sciolte ritrovate nel sottotetto del Palazzo di Giustizia senza alcun ordine, gli iura di cui si è parlato in precedenza.
Con l’istituzione dell’Archivio di Stato di Ravenna nel 1941 le carte dei Tribunali vennero cedute al neonato istituto archivistico statale (fino a tale momento le carte, sebbene in un’istituzione pubblica comunale, erano ancora di proprietà statale). In un momento non individuabile tra il 1929 e il 1969 il fondo venne ricondizionato e suddiviso in 740 buste, all’interno delle quali i documenti furono inseriti senza un ordine particolare se non dividendo la parte numerata da Montenovesi che venne raccolta nella seconda metà del fondo, all’incirca dalla busta 300.
Tra il 1969 e il 1972, l’allora direttore dell’Archivio di Stato, Giuseppe Rabotti, organizzò il versamento da parte del Tribunale di Ravenna della restante parte della documentazione relativa agli antichi tribunali, quella che aveva subito l’intervento di riordino ottocentesco ed era ancora conservata presso il Palazzo di Giustizia e la serie delle Sentenze dal 1573. Tra il 2006 e il 2009 venne avviato un progetto in collaborazione tra l’Archivio di Stato di Ravenna e l’Università di Bologna che portò al censimento delle singole unità costituenti la sezione dell’archivio già parzialmente studiata da Montenovesi.
L’intervento del 2019/2020 ha portato infine al riordino complessivo del fondo, con l’individuazione delle macro-partizioni, statali e comunali, e alla riconduzione delle unità di conservazione alle serie corrette. In questo contesto di risistemazione la documentazione relativa agli iura è stata parzialmente ricondotta alla magistratura di pertinenza e alcune partizioni interne sono state individuate e descritte in attesa di un intervento che possa concentrarsi sui singoli documenti e completare così il riordino di questa documentazione così importante per la ricostruzione della società ravennate di età moderna.
2 Cesare dalla Nave e Cristoforo da Porto: ipotesi sulla migrazione delle carte
Non è ancora possibile, allo stato attuale delle ricerche, formulare una ricostruzione che aspiri alla certezza del come le carte prodotte nel corso del processo istituito contro gli ebrei portoghesi di Ancona siano finite nell’archivio del Tribunale di Ravenna. Tuttavia, i sospetti per la responsabilità ricadono su due protagonisti della vicenda giudiziaria: il giurista Cesare dalla Nave, uno dei commissari incaricati del procedimento, e il notaio Cristoforo da Porto. La quasi totalità dei documenti rinvenuti – laddove adduce il nome del titolare dell’ufficio giudiziario – fa riferimento a Cesare dalla Nave, solo in un caso accompagnato da un altro commissario, il veneto Gaspare Dotti, governatore della Santa Casa di Loreto. Parimenti, tutti i documenti conservano traccia della registrazione o sono redatti personalmente dal notaio che lavorò al servizio del commissario, il ravennate Cristoforo da Porto.
Cesare dalla Nave (grafia del cognome che ci pare sia da preferire a della Nave, più diffusa negli studi recenti) nacque a Budrio, nel bolognese, da Giovanni Matteo. Il 19 ottobre 1542 ottenne il titolo dottorale in utroque iure. È invece incerto quando ricevesse gli ordini sacri: nella documentazione appare sempre come clericus. Dopo un impiego presso i Farnese come commissario in Valditaro,[6] fu podestà di Ravenna tra 1548 e 1550.[7] Quindi iniziò una rapida carriera nei ranghi dell’Inquisizione, nonostante non appartenesse a uno dei due grandi ordini mendicanti a cui fu tradizionalmente affidato l’ufficio: tra 1550 e 1551 fu commissario del Sant’Uffizio a Faenza e a Bologna, nell’ambito della dura repressione contro le eresie „luterana“ e „anabattista“.[8] La carriera nell’istituto lo rese senza dubbio uomo di fiducia di Gian Pietro Carafa, che all’indomani dell’elezione pontificia lo volle tra i membri extra ordines della sua famiglia.[9] È probabile che la nomina a commissario inquisitoriale di Ancona dipendesse da questa sua prossimità al nuovo pontefice, come era accaduto anche per Giovanni Vincenzo Falangonio.[10] La fiducia nei suoi confronti da parte di Paolo IV è del resto confermata dal fatto che a Cesare dalla Nave fu affidato anche l’incarico di indagare sulle accuse mosse contro uno degli altri commissari inquisitoriali, Gaspare Dotti.[11] In seguito alla morte di Paolo IV, nel corso dell’ultima fase del Concilio, si ha qualche traccia dei rapporti di Cesare dalla Nave con il cardinale Gabriele Paleotti, che ricaviamo dalle poche notizie pubblicate da Sebastian Merkle e Paolo Prodi a partire dai documenti conservati presso l’Archivio della famiglia Isolani.[12] Quindi, nel 1564, Cesare dalla Nave fu nuovamente a Ravenna, nel ruolo di vicegovernatore; nel 1567 fu governatore di Benevento e due anni più tardi di Ascoli.[13] Nel 1572 sembrerebbe fosse attivo a Roma.[14] Morì, infine, a Bologna il 26 novembre 1589 e venne sepolto nella chiesa dei Servi.[15]
Cristoforo da Porto nacque a Ravenna poco prima della metà degli anni ’20 del Cinquecento – nel 1588 aveva tra i 64 e i 65 anni – da Marco Antonio e da Marta del Bino. Non discendeva dall’importante ramo della famiglia che produsse notai che per generazioni si succedettero nel foro ravennate, ma fu egli stesso notaio, sebbene senza mai esercitare la professione nel privato. Tra il 1545 e il 1548 – „per tre anni continoi“ – resse la cancelleria civile della curia Ravennate, ma la sua esperienza nella curia civile e criminale si prolungò in altri incarichi fino al 1552, tutta spesa nel corso della legazione del cardinale Girolamo Recanati Capodiferro.[16] Quindi, nel 1555 seguì Cesare dalla Nave ad Ancona in qualità di notaio del commissario inquisitoriale. Da un documento emerso in contiguità a quelli riguardanti gli ebrei sefarditi di Ancona, ma posteriore (1557), sebbene riguardi sempre imputati ebrei, si evince che a sua volta Cristoforo da Porto fu nominato commissario giudiziario nella medesima città. La notizia, tuttavia, andrà corroborata con altre testimonianze. Nel 1558 entrò nel consiglio degli anziani di Ravenna, subentrando al padre, e qui, nei decenni che seguirono, ricoprì diverse cariche. Nel 1572 fu chiamato come podestà a Sant’Arcangelo, dove era già stato pretore e castellano della rocca dal 1566.[17] Particolarmente significativa per il nostro argomento è la notizia, finora attestata solo nell’opera dell’erudito ravennate ottocentesco Primo Uccellini, secondo il quale Cristoforo da Porto sarebbe stato nominato da Pio V suo cameriere segreto.[18] La nota dei registri della cancelleria dei Savi di Ravenna, che segnala nel 1599 il subentro di Giacomo Spadolini al suo posto, ci permette di supporre che la sua morte avvenisse intorno a quella data.
Le poche note biografiche sui due personaggi sembra ne rivelino due carriere affini, avviate dentro la gerarchia del Sant’Uffizio e poi trasferite all’amministrazione dello Stato pontificio, nonché la prossimità di entrambe le figure a due pontefici „inquisitori“, Paolo IV e Pio V. Inoltre, se pare altamente probabile che Cesare dalla Nave e Cristoforo da Porto facessero conoscenza all’epoca della podestaria del primo a Ravenna, due testimonianze rinvenute negli archivi ravennati testimoniano uno stretto rapporto personale, oltre che professionale, che unì i due ben oltre l’esperienza anconetana. Dall’unico libro di atti civili in cui compare Cesare dalla Nave nel corso – o meglio subito dopo il termine – del suo secondo incarico ravennate, ad esempio, si viene a sapere che egli all’epoca – l’atto è del 13 novembre 1564 – risiedeva in casa dell’amico Cristoforo da Porto, casa eletta in quell’occasione a sede di un atto ufficiale a causa del cattivo stato di salute di Cesare dalla Nave.[19] Altra testimonianza risale a due anni più tardi, quando Cristoforo da Porto, dovendo lasciare Ravenna a seguito della nomina a pretore e castellano della rocca di Sant’Arcangelo, nominava procuratori dei suoi interessi a Ravenna Niccolò Moreno e, appunto, Cesare dalla Nave.[20]
Per quanto riguarda il come le carte del procedimento inquisitoriale contro gli ebrei portoghesi di Ancona arrivassero a Ravenna, l’ipotesi che sembra meno probabile è quella per cui venissero introdotte nell’archivio giudiziario ravennate da Cesare dalla Nave nel corso del suo breve incarico nelle magistrature giudiziarie locali nei primi anni Sessanta. Sembra più economico ipotizzare, invece, che i documenti fossero portati a Ravenna dal cancelliere inquisitoriale che aveva rogato e archiviato gli atti: Cristoforo da Porto. L’arrivo poi nell’archivio della Curia generale, considerando che non sembra che Cristoforo da Porto abbia ricoperto altre cariche nelle magistrature ravennati dopo quelle degli anni ’40 e ’50, può spiegarsi con due ipotesi che, al netto di ulteriori ritrovamenti, paiono equamente possibili. Entrambe si fondano sul fatto che la documentazione sia riemersa dagli iura, gli allegati ai procedimenti giudiziari civili della curia. La prima ipotesi è che le carte facessero parte di una serie di allegati ad un processo civile in cui fu coinvolto Cristoforo da Porto – ma di cui non si è sino ad ora trovata traccia – per il quale la documentazione prodotta ad Ancona servisse da prova. Forse più probabile però sembra l’ipotesi per cui questa documentazione riguardante l’attività dell’Inquisizione – un tribunale che, va ricordato, aveva l’obbligo di segretezza – ad Ancona rimanesse „impigliata“ alla documentazione pertinente al lavoro nella cancelleria civile del tribunale ravennate che, evidentemente, Cristoforo da Porto aveva tenuto presso di sé ben oltre il termine del proprio impiego, conseguenza di quella tipica commistione tra pubblico e privato che caratterizzò le magistrature civili e non solo per tutto l’antico regime.
3 Vecchi e nuovi documenti sugli ebrei portoghesi di Ancona
La comunità di ebrei portoghesi di Ancona si era formata, all’indomani della devoluzione della città (1532), nell’ambito di un più ampio programma, orchestrato da Roma, per incrementare il flusso mercantile del porto anconetano verso l’Oriente. Nominata libero porto, con ampie concessioni agli infedeli residenti o transitanti per la città, Ancona divenne meta di alcune famiglie di ricchi mercanti ebrei di origine portoghese, provenienti da altre città d’Italia, come anche da Anversa e da Salonicco. Le concessioni promulgate da Paolo III prima e confermate dal suo successore Giulio III consentirono anche a quegli ebrei, sforzati al battesimo in Portogallo, di ritornare alla fede originaria.[21] Il rogo del Talmud compiuto in Ancona, sull’onda di altri, nel febbraio 1554, fu presagio della persecuzione a venire. Fu però soltanto dopo la morte di Giulio III e l’avvento al pontificato Paolo IV che, con la bolla Cum nimis absurdum (14 luglio 1555), l’atteggiamento nei confronti dei marrani portoghesi anconetani prese una piega diversa.[22]
Il procedimento contro gli ebrei lusitani è stato proposto come momento fondativo dell’Inquisizione romana nella Marca di Ancona in età moderna.[23] Sul finire del luglio 1555, Giovanni Vincenzo Falangonio veniva incaricato di agire contro i marrani della Marca. Ai primi di agosto era già ben attivo e avviava l’inventariazione dei beni sequestrati agli imputati.[24] Il ritorno alla religione ebraica faceva dei marrani portoghesi di Ancona di fatto degli eretici giudaizzanti relapsi e pertanto perseguibili dal tribunale della fede.[25] Falangonio però uscì di scena con la stessa velocità con cui vi era entrato: accusato di malversazioni e di aver favorito la fuga prezzolata di alcuni detenuti, già in ottobre aveva lasciato Ancona; fermato a Genova, riusciva ancora a sfuggire durante il trasferimento verso Roma.
Fin dalla fine di agosto 1555 a Falangonio era stato affiancato Cesare dalla Nave che finì per prenderne il posto. A coadiuvarlo fu quindi chiamato il governatore di Loreto, Gaspare Dotti, a sua volta sollevato dall’incarico ai primi di marzo 1556 e rimpiazzato dal domenicano Vincenzo da Lugo.
Inizialmente si era creduto che la persecuzione si sarebbe acquietata a fronte di un consistente esborso da parte della comunità di marrani e queste erano le notizie che trapelavano dal negoziato portato avanti dall’emissario del comune di Ancona, Giovanni Trionfi, a Roma.[26] Tuttavia, all’inizio di ottobre 1555 il pontefice avocava alla propria autorità tutti i processi istruiti e in via di istruzione contro gli ebrei portoghesi di Ancona e ne rimetteva la conclusione al Sant’Uffizio.
Agli ultimi mesi del 1555 risalgono i primi tentativi da parte ottomana, su forte pressione della ricca e influente Gracia Nasi e delle comunità ebraiche sefardita e levantina, di chiedere il rilascio degli ebrei trattenuti. In particolare si chiedeva il rilascio di quegli ebrei che risultavano sudditi del sultano, come, tra gli altri, Jacob Mosso, agente dei Nasi. Il primo giugno il pontefice replicava che sarebbero stati prosciolti dalle accuse quanti fossero stati riconosciuti come levantini: contro tutti gli altri non sarebbe stata usata alcuna clemenza, in quanto apostati della fede. Tra l’aprile e il giugno 1556 venticinque membri della comunità di ebrei portoghesi di Ancona vennero mandati al rogo.
Il nuovo dossier che permette di illuminare più chiaramente alcuni aspetti della vicenda è costituito da una miscellanea di documenti prodotti sia nell’ambito della procedura inquisitoriale contro gli imputati di apostasia ed eresia sia nella gestione dei beni materiali e immateriali che vennero confiscati e incamerati dalla Reverenda Camera Apostolica. Senza nulla togliere al valore documentario delle carte riguardanti questo secondo aspetto, ci sembra più interessante in questa breve nota concentrarci su quella che riguarda la procedura del Sant’Uffizio. Dai documenti rinvenuti emerge chiara la linea difensiva adottata da alcuni degli imputati, che si sforzarono di provare la propria estraneità alla fede cattolica – l’essere riconosciuti per pubblica fama come ebrei fin da bambini, non potendo provare di non aver ricevuto il battesimo, forzato o meno – o la loro sudditanza al sultano, adducendo prove dalle comunità ebraiche ferraresi e veneziane, ma anche da quelle più lontane, fino a Salonicco. Tra i documenti c’è infatti anche una lettera in arabo volta a provare la sudditanza al sultano dell’imputato. Altri tentarono di rimediare almeno alla confisca dei beni con un documento collettivo – datato 27 maggio 1556 – con cui nominavano un procuratore incaricato di condurre i propri figli ad Ancona per essere battezzati.
I nuovi documenti rivelano altresì che gli arresti dei sospetti relapsi non si fermarono a quelli avvenuti all’arrivo del commissario inquisitoriale, ma continuarono anche a ridosso delle esecuzioni – una citazione emessa il 20 marzo 1556 e poi ripetuta ancora il 29, con la specifica, accanto al nome di uno dei citati, „aufugit“ – e anche dopo. Il 7 ottobre 1556, il commissario inquisitoriale convocava sedici donne che fino a quel momento erano sfuggite al procedimento.[27] Tre giorni più tardi, le stesse ed altre tre (più un solo uomo), venivano condannate in contumacia. Donne che potrebbero essere le stesse che un Salvatore Bonafossa, ebreo levantino, era accusato di aver aiutato a fuggire dalle carceri dell’inquisizione.[28] Il 25 settembre la lista dei complici di tale fuga si allungava e venivano convocati dal commissario inquisitoriale tre pescatori residenti a Senigallia – Francesco Zanetti Buranelli, Biglino da Ravenna e Tommaso da Cesena – che si sospettava avessero aiutato le donne. Vista la reiterata pubblicazione della convocazione – ce ne sono altre tre emissioni fino al 10 ottobre – è probabile che questi non si presentassero.
La documentazione rinvenuta comprende anche una piccola serie di interrogatori a cui fu sottoposto uno degli imputati, Mair di Abramo Coem, nel novembre 1555. Rispondendo ai commissari, raccontava di aver lasciato giovanissimo il Portogallo e di aver poi trascorso vent’anni a Salonicco e i successivi dieci in Italia – era d’età di 37 anni. Negava di aver ricevuto il battesimo in Portogallo, resistendo anche al supplizio della corda, senza tuttavia riuscire a convincere gli interroganti. Poi, richiamato di fronte ai commissari l’8 gennaio 1556, alla domanda „an velit continuare in iudaismo vel ne“, rispondeva perentoriamente „Signori, si, io voglio essere hebreo“. Ciononostante non sembra figurasse tra i condannati.[29]
4 Conclusione
Questo, in estrema sintesi, il tono e il carattere delle informazioni contenute nella documentazione ritrovata. Si tratta di fonti che fanno luce sul processo inquisitoriale subito dagli ebrei portoghesi anconetani, ma anche più in generale sulla breve vita di questa vivace comunità, che, sulla scorta di documenti noti e ritrovati merita di essere riletta per intero. È nelle intenzioni di chi scrive di lavorare a una nuova lettura di questa vicenda e delle sue numerose implicazioni.
Nota
Il saggio è stato scritto nella sua interezza di concerto tra i due autori, tuttavia, al suo interno, la parte 1 è responsabilità di Dario Taraborrelli, le parti 2 e 3 di Giacomo Mariani. Gli autori sono grati a Chiara Benini, Gioia Boattini e Marco Iacovella, che hanno generosamente letto e corretto l’articolo in bozza.
© 2023 bei den Autorinnen und den Autoren, publiziert von De Gruyter.
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