Abstract
This paper examines the circumstances and mechanisms of the seizure of Jewish-owned artworks and valuables in Italy after the tightening of the racial laws under the Republic of Salò, focusing on Venice as an exemplary case study. Through specific instances, it illustrates the procedures for confiscating and exploiting artworks in the Venice area, highlighting the relations between the executive Fascist power and the German occupation forces. In particular, the analysis tackles the involvement of the antiquarian trade as well as the significant role of the Superintendent of Venice, Vittorio Moschini (1896–1976) in securing Jewish-owned artworks for Venetian museums. The paper concludes with comments on the need for a historical revision of the events and argues that, in light of its absence in Italy since the Washington Principles, there is an urgent need to establish provenance research in Italy.
Introduzione
Il primo dicembre del 1943 il ministro dell’Educazione Nazionale della Repubblica Sociale Italiana (RSI), Carlo Alberto Biggini (1902–1945),[1] pubblicò una circolare dal titolo „Requisizione delle opere d’arte di proprietà ebraica“,[2] comunicando quanto segue: „Con provvedimento in corso è stato disposto il sequestro di tutte le opere d’arte appartenenti ad ebrei, anche se discriminati, o ad istituzioni israelitiche. Per opere d’arte si intendono, non solo le opere d’arte figurativa (pittura, scultura, incisione, ecc.), ma anche le opere d’arte applicata, quando, per il loro pregio, non possano essere considerate oggetti di uso comune.“[3]
Per procedere col sequestro – specificava poi il decreto – tutti i proprietari dei beni in questione dovevano presentare una denuncia alle Soprintendenze competenti per il relativo territorio, indicando „la qualità delle opere, ed una loro sommaria descrizione“, „l’autore di esse, ove sia noto“ e infine „la località ove l’opera è attualmente conservata“. Di conseguenza, le Soprintendenze, in collaborazione con i Capi di Provincia, erano tenute ad eseguire dei „sopraluoghi per accertare la consistenza del patrimonio artistico“ ed eventualmente per „adottare tutti i provvedimenti cautelari“. Questa circolare inizialmente non prevedeva la rimozione delle opere sequestrate ma ne considerava soltanto la loro „custodia“ e „conservazione“. La confisca e la consegna alle Soprintendenze era invece prevista solo nel caso di mancata denuncia da parte dei proprietari oppure nel momento in cui fossero state „fornite indicazioni false o incomplete“ sulle opere d’arte in oggetto.
Nei mesi seguenti al Ministero dell’Educazione Nazionale a Roma arrivarono numerose comunicazioni da varie Soprintendenze che riportavano i casi dei sequestri di collezioni artistiche di proprietà ebraica.
Da Venezia, il 18 dicembre 1943, il Soprintendente Vittorio Moschini (1896–1976)[4] fece giungere al Ministero un resoconto particolarmente esaustivo sulla situazione nella città lagunare.[5] In primis egli segnalò l’esecuzione di solo due denunce relative ad alcuni oggetti d’arte di proprietà di due ebrei veneziani, sottolineando che sarebbe stato „facile da prevedere“ data la generale riluttanza da parte degli ebrei a ricorrere al mezzo dell’autodenuncia. Un commento che lascia già intravedere una posizione politica piuttosto favorevole alle leggi razziali che si manifesta ancora più apertamente col procedere della sua relazione, quando di sua iniziativa segnala al Ministero due collezioni artistiche di proprietà ebraica particolarmente importanti. La prima era quella del Barone Treves de Bonfili,[6] per la quale Moschini però non trovò problemi nell’avviare il sequestro. Il palazzo Treves, appartenente alla famiglia Treves de Bonfili, era stato allora „subaffittato“ alla Banca del Lavoro ed un sopralluogo avrebbe rilevato che molte opere si trovavano ancora nel luogo in cui i precedenti proprietari le avevano lasciate, „comprese le due statue del Canova“.[7]
La seconda collezione invece – come spiega Moschini – non era stata ancora sottoposta al sequestro poiché la sua proprietaria, la Contessa Adele Salom, l’aveva fatta trasportare, già l’anno precedente, nelle sue ville in terraferma per ragioni di „salvaguardia dai pericoli di guerra“. Moschini tenne però a sottolineare che aveva già provveduto a coinvolgere la Prefettura di Padova per indagare sulla permanenza della collezione nel territorio padovano con l’obiettivo di procedere successivamente al suo sequestro.
Il Soprintendente veneziano concluse infine la sua lettera con la considerazione che molto probabilmente tanti altri ebrei, „specie commercianti“, possedessero oggetti d’arte. La sua Soprintendenza, tuttavia, non poteva esserne a conoscenza dato che i proprietari avevano sicuramente fatto „il possibile per celare“ l’esistenza delle opere con l’obiettivo di evitare la loro notificazione come patrimonio artistico. Egli dichiarò con convinzione che da quel momento, grazie ai sequestri di tutti i beni ebraici da parte della EGELI (Ente di gestione e di liquidazione immobiliare),[8] sarebbero sicuramente venute alla luce „molte altre opere, probabilmente anche importanti“ di proprietà ebraica ancora rimanenti a Venezia.
La gravità della sua affermazione troverà riscontro nei fatti storici avvenuti successivamente e si tradurrà nell’espropriazione di numerosi patrimoni appartenuti a cittadini ebrei. Nei capitoli successivi queste sue azioni verranno approfondite e la figura di Moschini sarà indissolubilmente legata al destino delle opere d’arte di proprietà ebraica.
1 Dal sequestro alla confisca e i relativi conflitti nella Zona d’operazioni del Litorale adriatico
Il 4 gennaio 1944 seguì un altro decreto legislativo, „Nuove disposizioni concernenti i beni posseduti dai cittadini di razza ebraica“, con il quale si procedeva ora non solo al sequestro, bensì alla confisca di tutti i beni ebraici a favore della RSI.[9] Questo decreto suscitò qualche perplessità presso alcune Soprintendenze in quanto gli oggetti d’arte appartenenti agli ebrei sarebbero dovuti essere consegnati all’EGELI e poi venduti dallo stesso ente. Si rischiava così la dispersione di oggetti d’arte importanti. Questo fu fatto notare al Ministero dell’Educazione Nazionale nuovamente dal Soprintendente Vittorio Moschini in una lettera del 5 febbraio 1944, richiamando l’attenzione sulla problematica che quelle vendite potessero avvenire senza che le relative Soprintendenze ne fossero a conoscenza, privando così quest’ultime del loro „diritto di prelazione“.[10]
Il 13 aprile 1944 parve che il Ministro Biggini avesse proprio considerato le preoccupazioni del Soprintendente veneziano, poiché egli applicò una leggera modifica alla circolare iniziale: „Ad evitare che opere d’arte di importante interesse possano andare disperse, dispongo che i Soprintendenti alle Gallerie siano nominati sequestratari di tutte le opere notificate di proprietà ebraica.“[11] In relazione a questa circolare emerse tuttavia un altro problema che riguardò in particolar modo le Soprintendenze delle città del Nord Italia che facevano parte delle cosiddetta Zona d’operazioni del Litorale adriatico (OZAK).[12] Il Soprintendente di Venezia Giulia e Friuli, Fausto Franco (1899–1968),[13] il 7 maggio 1944 segnalò che nelle provincie di sua giurisdizione tutte le confische erano già state compiute dalle autorità tedesche, „senza possibilità di controllo“ da parte del suo ufficio.[14] Questa difficoltà venne anche segnalata dai Capi di Provincia di Udine e Gorizia, dichiarando che l’autorità tedesca aveva preteso „che la requisizione delle opere d’arte di proprietà di ebrei [fossero] fatte a suo favore e che le denunce del genere [fossero] a lei dirette“.[15] Alle autorità della RSI nella OZAK veniva dunque impedito di requisire le opere notificate dei cittadini ebraici. Pertanto, l’Ambasciata tedesca ricevette dal Ministero degli Esteri della RSI, il 10 febbraio 1944, un appunto in cui si affermava in maniera gentile ma decisa, che tutti i beni ebraici „esistent[i] nel territorio dello Stato italiano“ dovessero essere confiscati „a favore dello Stato e dati in amministrazione“ all’EGELI. Se quindi le autorità tedesche avessero nel frattempo già confiscato delle proprietà ebraiche e preso in custodia alcuni oggetti d’arte, si pregava che essi fossero „rimessi ai Capi delle rispettive Provincie“.[16]
Il governo italiano si dimostrò ambizioso nel voler assicurare gli oggetti d’arte degli ebrei allo stato fascista, desiderio che tuttavia, nelle zone di operazioni, entrò fortemente in conflitto con lo zelo inesorabile delle autorità tedesche che vi esercitavano il controllo militare ed amministrativo. Nella primavera del 1944, quest’ultime annunciarono la sospensione dell’applicazione del decreto legislativo del 4 gennaio 1944, emanando allo stesso tempo un provvedimento tedesco con il quale il patrimonio degli ebrei venne „riservato“ al Commissario supremo dell’OZAK, Friedrich Rainer.[17] Questo conflitto per i beni ebraici in quella zona ebbe delle ripercussioni significative sul patrimonio culturale italiano, come dimostrato per la prima volta nel rapporto generale della Commissione Anselmi,[18] e poi discusso complessivamente nel 2004 dalla storica Ilaria Pavan.[19]
Tuttavia, solo recentemente grazie al progetto internazionale TransCultAA,[20] che ha compiuto dettagliati studi e approfondimenti sui casi individuali, è stata riportata una crescente attenzione su questo argomento. Come frutto di tale progetto vorrei nominare solo due contributi che illustrano paradigmaticamente le ricerche svolte: il saggio di Elena Franchi sui beni delle famiglie triestine[21] e quello di Cristina Cudicio sulla liquidazione della collezione artistica della famiglia Pincherle. Entrambe evidenziano da un lato il lavoro preparatorio svolto dai fascisti e in particolare dall’ente assicurativa Riunione Adriatica di Sicurtà (RAS) nel localizzare ed inventariare i beni ebraici; dall’altro dimostrano la determinazione nonché velocità delle autorità tedesche ad individuare, confiscare e asportare le collezioni artistiche dei cittadini ebraici nelle città di Trieste, Udine e Gorizia.[22]
2 Il caso di Venezia
A Venezia invece le condizioni furono diverse, perché il suo territorio non rientrò nelle zone di operazioni tedesche, ma fece „parte dei territori che dovevano restare sotto amministrazione del neo costituto governo fascista repubblicano“.[23] Per cui nonostante la „massiccia“ presenza militare delle forze di occupazione sin dall’8 settembre 1943, Venezia divenne la città simbolo della neonata Repubblica Sociale, ospitando numerosi enti fascisti, ministeri ed organi legislativi trasferiti soprattutto da Roma.[24]
Questo contesto indubbiamente favorì l’applicazione dei provvedimenti contro gli ebrei e i loro beni, e per lungo tempo i cittadini e le istituzioni veneziane li eseguirono indipendentemente, senza l’interferenza delle autorità tedesche, divenendo „attori e complici“ dell’annientamento degli ebrei italiani.[25] Tale aspetto, finora poco discusso dalla storiografia, trova inequivocabilmente riscontro nei documenti storici riguardanti le confische dei beni ebraici, per le quali si contarono ben 648 decreti fino al 30 aprile 1945.[26] Tra queste confische si trovarono spesso delle opere d’arte, mobili ed altri oggetti di valore che vennero requisiti dai fascisti per un ulteriore utilizzo. Furono minuziosamente inventariati dai funzionari della Questura di Venezia e poi – come si può dedurre dalla documentazione storica conservata presso l’Archivio di Stato a Venezia – spesso stimati da antiquari veneziani presenti durante le requisizioni in qualità di esperti.
Così, per esempio, si legge alla fine di un inventario di ben ventidue pagine il commento conclusivo di un certo antiquario Antonio Majer con sede commerciale in Campo S. Stefano:[27] „Per mie competenze per inventario e stima dei mobili ed oggetti di arredamento esistenti nell’appartamento a Venezia S. Vidal 2887, 2 Piano come da elenco firmato per l’ammontare complessivo di Lire 776 280.“[28] Questi oggetti, tra cui si trovarono numerosi quadri e tra cui spiccano alcune opere di Guglielmo Ciardi (1842–1917) e un notevole numero di vetri di Venini, vennero in seguito consegnati ad un commissario dell’EGELI.[29] È lecito domandarsi ora cosa sia successo agli oggetti dopo la loro consegna. A questo riguardo, i documenti in esame rivelano che spesso i funzionari stessi dell’EGELI oppure gli antiquari coinvolti vendettero per proprio conto „molti oggetti … in Venezia“ divenendo profittatori ed attori chiave della liquidazione e del destino dei beni ebraici.[30]
In un altro caso invece, gli oggetti di valore di proprietà ebraica furono utilizzati per arredare uffici dell’amministrazione fascista, che spesso occupavano locali che erano stati già precedentemente sequestrati ad ebrei veneziani. Nella primavera del 1944, per esempio, diversi mobili e quadri provenienti da varie famiglie ebraiche furono collocati nel nuovo „appartamento di rappresentanza del Questore“ Dino Cortese.[31] Tra loro si contano in particolare quattordici dipinti, numerosi bronzi e „62 pezzi di posateria in argento“ provenienti dalla casa di Fanny Finzi, vedova Camerino (1868–1944).[32] La maggior parte dei dipinti portava la firma di artisti contemporanei, legati al mondo artistico veneziano dell’epoca: ne sono un esempio Alfredo Soressi (1897–1982) e Gian Luciano Sormani (1867–1938).[33] Appare perciò opportuno osservare che non furono requisiti esclusivamente oggetti antiquariali e che i sequestratori dimostrarono una certa consapevolezza del valore dell’arte contemporanea e delle opere in vetro, come i soprannominati di Venini che nell’ambito veneziano furono commercializzati particolarmente bene.
Nel corso del 1944, quando l’alleato occupante intervenne anche a Venezia in maniera sempre più pressante nel realizzare la „soluzione finale“, emersero anche a Venezia quelle frizioni tra fascisti e autorità tedesche legate alla prerogativa di confiscare beni ebraici, soprattutto se riguardanti oggetti di valore ed opere d’arte. Tuttavia, pare che, rispetto alle zone di operazioni, i rapporti rimasero più armoniosi, basandosi sul collaborazionismo politico che caratterizzò la situazione governativa della città lagunare fino alla fine della guerra.[34]
Questa collaborazione si manifestò per esempio riguardo ai beni del cittadino ebreo Augusto Coen Porto (1869–1944),[35] che possedeva presso la sua abitazione nel sestiere di Castello „alcuni quadri e mobili“ di notevole valore ed interesse.[36] Essi vennero stimati il 4 ottobre 1944 da un antiquario veneziano di nome Carlo Balboni in presenza di un tenente medico „presso l’Ortskommandantur di Venezia“ che li acquisì per 23 000 Lire. Nonostante Augusto Coen Porto fosse già stato allora deportato ed ucciso ad Auschwitz, il ricavo della vendita venne inizialmente versato sul suo libretto presso la Cassa di Risparmio. Poco dopo l’EGELI ordinò che la somma venisse trasferita a Verona presso „l’istituto di Credito Fondiario delle Venezie con vincolo a favore dell’EGELI“.[37] Questo è un episodio che comprova la collaborazione assai proficua tra fascisti e tedeschi. Per di più la casa del signor Porto fu poi occupata da „Ufficiali Germanici“. Se da un lato questo portò il questore Dino Cortese a lamentarsi presso la Prefettura di Venezia della mancata possibilità da parte dei suoi funzionari di „provvedere alla redazione delle inventarie [sic] dei beni“, dall’altro lato permise ai tedeschi di riuscire invece a trasferire „gran parte del mobilio, dei quadri ed oggetti di valore“ alla loro sede „del locale Comando della S.S.“ a Mira.[38]
Nel dopoguerra, durante il processo di restituzione dei beni ebraici confiscati, il tenente tedesco dichiarò di aver comprato i quadri e mobili appartenuti a Coen Porto per il suo comandante, che a sua volta li aveva portati a Monaco di Baviera. Non furono mai recuperati.[39] Questo non fu l’unico episodio: nel dopoguerra, indagini svolte nel corso di alcuni processi di restituzione, hanno rivelato simili casi in cui lo stesso tenente tedesco aveva acquistato oppure illegalmente sottratto oggetti di valore ebraici.[40] Per il resto del mobilio appartenuto ad Augusto Coen Porto invece si può solo ipotizzare quale sia stato il suo destino: se non fu utilizzato per arredare la sede militare tedesca a Mira fu probabilmente venduto all’asta assieme ad altri beni ebraici. Quest’ultima ebbe luogo in territorio veneziano o al di là delle Alpi, dove i tedeschi verso la fine della guerra spesso trasferirono gli oggetti più preziosi per la messa in vendita. Ne è un esempio il Dorotheum a Klagenfurt.
Paradossalmente ci furono anche casi in cui gli oggetti fecero ritorno nella città lagunare: indagini della Commissione Anselmi hanno infatti rivelato che a quelle aste svolte al Dorotheum parteciparono „mercanti d’arte veneziani“, dimostrandone la duplice natura di periti e al tempo stesso acquirenti di beni ebraici.[41] Studi approfonditi su quelle aste potrebbero oggi rivelare non solo l’identità delle opere che furono vendute, ma anche i nomi degli acquirenti, dai quali possibilmente risalire all’attuale ubicazione delle opere.
3 Le collezioni artistiche ebraiche nel mirino della Soprintendenza veneziana
Nel maggio del 1944 il Soprintendente Vittorio Moschini non volle accettare che il compito dei Soprintendenti fosse solo quello di sequestrare opere notificate. Secondo lui „le opere d’arte importanti di proprietà ebraica non [dovevano essere] vendute all’asta, dopo la confisca, ma bensì assegnate alle nostre Gallerie“.[42] La ragione di questa proposta fu probabilmente la consapevolezza che a Venezia si trovassero alcune opere di proprietà privata ebraica di grande interesse per il patrimonio artistico che potevano andare ad arricchire i musei.
Tra queste è da annoverare la già nominata collezione Salom, la cui importanza era nota alla Soprintendenza veneziana sin dalla sua notificazione in seguito alla legge del 20 giugno 1909.[43] La Contessa Adele Salom di Carrobio (1850–1944) visse con la sua famiglia per tanti anni sul Canal Grande nel Palazzo Corner Spinelli, dove il suo antenato Giuseppe Salom nel XIX secolo aveva raccolto una consistente collezione d’arte, particolarmente conosciuta per quattordici tele attribuite a Pietro Longhi (1701–1785) e quattro quadri raffiguranti paesaggi e battaglie di Salvator Rosa (1615–1673).[44] Verso la fine degli anni Trenta Adele e suo figlio Ettore, allarmati dalle leggi razziali e dallo scoppio della Seconda guerra mondiale iniziarono a proteggere i loro beni il meglio possibile e fu così che nel novembre del 1942 decisero di spostare tutta la collezione artistica nelle loro ville a Brugine e a Conselve, nella provincia di Padova.[45] Essendo la maggior parte delle opere notificate e quindi vincolate al trasferimento, Adele Salom ne comunicò lo spostamento regolarmente alla Soprintendenza di Venezia.

Pietro Longhi, Interno con giocatori e figure in maschera.
Fu probabilmente grazie a questa procedura burocratica che pochi giorni dopo la circolare sulla „Requisizione delle opere d’arte di proprietà ebraica“ del 1° dicembre 1943, Vittorio Moschini riuscì a comunicare al Capo della provincia di Padova l’esatta localizzazione della raccolta Salom e non esitò ad ordinarne con urgenza il sequestro:
„Attualmente … è necessario procedere al sequestro della raccolta Salom. D’altra parte non essendo probabile che la prescritta denuncia venga mai presentata, essendo la Sig. Salom lontana da Venezia, e non mancando la possibilità che le dette preziose opere d’arte vengano sottratte o trafugate, è necessario intervenire d’urgenza per rintracciarle e mettere intanto su di esse un fermo.“[46]
Moschini, sfruttando il fatto che Adele Salom non si trovasse più a Venezia e presumendo quindi che la sua denuncia sarebbe mancata, dette con la sopraccitata formulazione indirettamente già la ragione giuridica per la confisca della collezione, riferendosi alla clausola nella Circolare 665 che consentiva la confisca degli oggetti d’arte.
All’inizio dell’anno 1944 nelle ville di proprietà Salom, in provincia di Padova, si procedette con i sopralluoghi e le perizie dei beni: a Conselve furono ritrovati il 2 gennaio presso la casa del „fattore della suddetta contessa“ due casse di quadri, che contenevano nove dei quattordici quadri di Pietro Longhi nonché quattro dipinti di Salvator Rosa.[47] Le opere vennero esaminate dal perito Nino Gallimberti per accertarne l’autenticità. Egli le elencò indicandone le misure, i titoli e i contrassegni della collezione e descrivendole in „ottime condizioni con cornici semplici dorate“.[48] A Brugine invece, oltre al perito e al competente commissario „per i beni ex ebrei“, si presentò come esperto per gli oggetti d’arte anche il „Vicedirettore del museo Civico di Padova“, Oliviero Ronchi. L’amministratore della Villa Salom fece loro vedere l’edificio e le sue stanze, sulle cui pareti erano distribuite le opere d’arte, facendo però notare che „dal 1938“ sia la Villa che gli oggetti d’arte appartenessero ad una società immobiliare chiamata „mille campi“ con sede a Venezia. Purtroppo, le ricerche fino ad oggi non hanno ancora rivelato il quadro complessivo di questo cambio di proprietà, ma è probabile che la famiglia Salom già nel 1938, dopo l’emanazione delle leggi razziali, avesse intestato alcune proprietà a quella società per evitare l’esproprio legato alla loro appartenenza religiosa. La questione dell’assetto proprietario non impedì comunque ai commissari di proseguire col sequestro che secondo l’inventario, creato e firmato da Oliviero Ronchi, comprese 73 dipinti, 19 incisioni in rame, 5 vecchie litografie, „un medaglione in gesso e due pietre inscritte, una tarsia“.[49]
Il coinvolgimento del Vicedirettore del Museo Civico di Padova derivò dal fatto che il Soprintendente veneziano Moschini avesse disposto che tutti gli oggetti d’arte, della raccolta Salom, venissero assegnati al Museo Civico di Padova. Qui vennero effettivamente trasportati e presi in custodia nel novembre 1944.[50]
Nel frattempo, però si erano create delle tensioni tra la Soprintendenza veneziana e i relativi uffici a Padova, da un lato poiché la Soprintendenza inizialmente non era „stata informata dei sequestri fatti a Conselve e Brugine“ e dall’altro perché Moschini contestò, paragonando gli elenchi degli oggetti sequestrati con la documentazione da lui compilata, che mancassero alcuni oggetti della raccolta, tra cui tre opere di Pietro Longhi e „molti piccoli bronzi“. Per questo egli sollecitò il Capo della Provincia di Padova a „rintracciare il resto della suddetta raccolta“, con la speranza che „non [fosse] nel frattempo andato a finire lontano“.[51] Questi accertamenti non vennero tuttavia effettuati nonostante Moschini li avesse ripetutamente richiesti.[52] Solo dopo la consegna della raccolta al Museo Civico di Padova, il commissario Secondo Polazzo gli comunicò che era „stata effettuata una visita alla Villa Salom di Brugine ove però non sono stati trovati i 3 quadri di cui trattasi“, assicurando di „effettuare in merito un più preciso accertamento“.[53]
Dopo questa comunicazione si perdono le tracce archivistiche sulla raccolta Salom. Sembrerebbe però che la parte confiscata e consegnata al Museo Civico di Padova rimase per la durata della guerra nei ricoveri di salvaguardia. È da notare che le opere della raccolta Salom nel ricovero non furono sistemate assieme alla collezione permanente del museo, bensì in „un’anticamera dello stesso che non offr[iva] sicurezza dal pericolo dei bombardamenti“.[54] Questo fatto illustra chiaramente un caso nel quale la giustificazione dei sequestri a scopo di tutela e conservazione – come scritto nella Circolare 665 del 1° dicembre 1943 – non corrisponde alla verità dei fatti.
Nonostante ciò, l’intera collezione – incluse le tre opere mancanti di Longhi – sopravvisse gli ultimi mesi della guerra e venne restituita interamente nell’immediato dopoguerra, come riferito recentemente da uno degli eredi della Contessa, Maurizio Salom. Gli eredi la portarono allora in Toscana dove la famiglia possedeva altre proprietà. Il gruppo di opere di Pietro Longhi, che rappresentavano scene veneziane, tornò infine in Veneto negli anni ’80 quando la famiglia Salom decise di vendere una parte della collezione. I dipinti furono acquistati nel 1981 dalla Banca Cattolica del Veneto, ormai unita alla Banca Intesa Sanpaolo. Oggi fanno parte di una sala allestita dall’Intesa Sanpaolo a Vicenza nel Palazzo Leoni Montanari.[55] È da notare però che delle quattordici opere così tanto desiderate da Vittorio Moschini durante la RSI, solo alcune sono oggi considerate autentiche mentre le altre sono state attribuite ad „imitatori“.[56]
Tornando alle opere d’arte perseguite dal Soprintendente veneziano, un altro caso ci permette di illustrare ulteriormente alcune pratiche tramite le quali si individuarono e confiscarono i beni ebraici. Nel febbraio del 1944 Moschini venne a conoscenza di alcuni oggetti d’arte di proprietà ebraica tramite una banale domanda di rinnovo di temporanea importazione inoltratagli regolarmente dallo spedizioniere, Fratelli Gondrand, per conto dei proprietari.[57] Ricevuta tale richiesta, Moschini informò immediatamente la Direzione Generale delle Arti a Roma, proponendo un blocco generale dei rinnovi e la confisca di oggetti d’arte di persone che „sono notoriamente di razza ebraica“.[58] La risposta da Roma giunse circa un mese dopo con ordini chiari sia sulla negazione del rinnovo della temporanea importazione che sul sequestro in favore del „Soprintendente alle Gallerie Dott. Vittorio Moschini“.[59] Il Soprintendente, essendo in questo caso particolarmente interessato ad un quadro di proprietà di un avvocato ebreo, attribuito all’artista fiammingo del Seicento Jan Abrahamsz Beerstraten (1622–1666), si rivolse a sua volta al Capo della Provincia di Venezia per comunicare l’ordine del sequestro e per chiedere al tempo stesso aiuto nel rintracciare le opere che non si trovavano fisicamente presso lo spedizioniere. Quest’ultimo infatti aveva fatto la richiesta „basandosi esclusivamente sul suo carteggio“ com’era comune all’epoca.[60]
Circa sei mesi dopo, la Prefettura di Venezia confermò la confisca dei beni appartenenti a tale avvocato e la loro conseguente consegna all’EGELI. Oltre al quadro fiammingo e ad altri oggetti di valore, furono confiscati anche un dipinto e un pastello di Giuseppe de Nittis (1846–1884) nonché un grande dipinto di Marco Ricci (1676–1730).[61] Il Soprintendente però non si ritenne soddisfatto con la consegna all’EGELI e colse l’occasione per richiedere nuovamente alla Direzione Generale delle Arti di Roma se per „le opere d’arte di ebrei notificate“ – come lo erano le suddette – fosse stata emanata „l’assegnazione alle nostre Gallerie“.[62] Se la desiderata assegnazione avvenne o se queste opere furono infine vendute all’asta a cura dell’EGELI resta per ora all’oscuro vista la mancante documentazione successiva. Rimane soprattutto da chiarire se nel dopoguerra i beni furono restituiti ai loro legittimi proprietari.
La documentazione analizzata finora dimostra innegabilmente che l’impegno del Soprintendente Vittorio Moschini nell’assicurarsi le opere degli ebrei di grande pregio fu notevole. Si potrebbe presumere che tale impegno fosse dovuto ad una mera preoccupazione per la dispersione di opere importanti dalle provincie di sua giurisdizione – impegno prezioso che egli sicuramente dimostrò, salvaguardando le opere provenienti dalle Gallerie venete durante la guerra. Tuttavia, la sua dedizione nel rintracciare le opere degli ebrei andò certamente ben oltre la semplice salvaguardia.[63] Oltretutto, in base al linguaggio adottato nelle corrispondenze prese in esame, l’impegno di Moschini risulta difficilmente giustificabile solo con un obbiettivo di salvaguardia del patrimonio culturale oppure uno legato puramente all’opportunità di arricchire le Gallerie di Venezia, ma ci si può chiedere piuttosto se fosse da attribuirsi ad una motivazione politica a sostegno delle leggi razziali e della persecuzione degli ebrei durante la RSI.[64]
4 Il Dopoguerra fino ad oggi – tra recupero e rimozione
A Venezia la figura di Moschini fu centrale anche nella fase storica del dopoguerra. Se egli si dedicò notevolmente al recupero di opere trafugate di proprietà di cittadini italiani,[65] non si trovano tracce di un simile impegno riguardo ad opere che appartennero a cittadini ebrei che cercavano ora di ritrovare i propri beni. Era certo che il Soprintendente veneziano avrebbe sicuramente potuto fornire informazioni preziose, considerando le attività delatorie compiute fino a poco tempo prima.
Nel quadro complessivo, ciò vale ugualmente per coloro che avevano partecipato alla requisizione dei beni ebraici nella città lagunare, dai funzionari della polizia e dell’EGELI fino ai privati e agli antiquari i quali, come si è visto, funsero non solo da periti e custodi ma a volte anche da rivenditori e acquirenti degli oggetti d’arte provenienti dalle case ebraiche. Lo storico Enzo Collotti afferma, riguardo ai beni mobili, che in tanti casi i funzionari preposti ai sequestri „si diedero a furti e rapine per appropriarsene personalmente o, soprattutto nel caso di beni di valore artistico o antiquariale, per farne commercio e trarne lucro e arricchimento“.[66]
Tali oggetti che per „l’arbitrarietà“ di singoli protagonisti si erano dispersi nel mercato d’arte – come anche quelli requisiti dal tenente tedesco a Monaco – continuarono spesso a circolarvi anche nel dopoguerra e infine „finirono nel nulla attraverso mille rivoli“.[67] In questo contesto occorre inoltre osservare che un’altra parte di oggetti appartenuti a vittime della Shoah si disperse nel mercato d’arte italiano pochi anni dopo la fine della guerra fino agli anni Sessanta, quando lo Stato italiano incamerò i beni non reclamati o non più associabili ai loro proprietari, spesso morti durante la deportazione. Invece di restituirli all’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, lo Stato li vendette in occasione di aste pubbliche.[68]
Questa procedura assai discutibile e la circolazione di tali oggetti sul mercato rese – e rende ancora oggi – il loro recupero molto difficile. Interi patrimoni rimasero irreperibili e con loro svanirono „le memorie familiari di cui essi erano traccia e testimonianza“.[69] Il legame degli oggetti alla memoria, che Collotti stabilisce nelle sue osservazioni, costituisce un importante aspetto dell’argomento, poiché la maggior parte dei beni in questione di fatto non furono rilevanti per il loro valore economico o museale, ma lo furono soprattutto per il loro valore affettivo. Un termine descrittivo per essi è stato introdotto recentemente dalla storica tedesca Emily Löffler, definendoli „Wohnzimmerkunst“ (arte di salotto), valorizzando così la loro rilevanza personale e affettiva come elemento fondamentale nella ricostruzione e restituzione di patrimoni distrutti e perduti durante la Shoah.[70]
Rispetto ad altre città italiane, a Venezia nell’immediato dopoguerra, una parte significativa dei beni ebraici fu „rintracciat[a] e i proprietari poterono rientrar[ne] in possesso“[71] – come confermano i documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Venezia. Questo fu paradossalmente reso possibile poiché lo stesso ente, l’EGELI, che aveva gestito gli espropri degli ebrei durante la RSI, venne incaricato nel dopoguerra della restituzione degli oggetti che i suoi stessi funzionari avevano confiscato pochi anni prima. Così, opere che erano ancora fisicamente in custodia negli uffici dell’EGELI poterono essere riconsegnate ai proprietari ed altre poterono essere rintracciate grazie alla documentazione legata ai vari processi sulla requisizione dei beni ebraici. Questo metodo fu applicato generalmente in tutta Italia, ma a Venezia funzionò particolarmente bene grazie alla complessiva documentazione ancora presente.[72]
Questa permise agli eredi di Adele Salom di riuscire a recuperare gran parte del loro patrimonio, incluso l’intera collezione artistica, che venne loro riconsegnata dal deposito del Museo Civico di Padova. La restituzione venne eseguita da due funzionari che i Salom avevano già incontrato durante il periodo fascista e si manifesta qui l’amarezza della situazione: come avvocato fu loro assegnato „Giuseppe Vania proprio colui che era stato il direttore (fascista) responsabile della gestione dell’ente EGELI“ e il responsabile dell’Ufficio recupero fu un certo Mario Cortellini che, durante il periodo fascista, ricoprendo la carica di funzionario dell’Ufficio razza della questura, aveva ordinato un’irruzione nella villa a Conselve durante la quale Adele Salom „morì a seguito di percosse ricevute dai fascisti“.[73] Questo „colmo tutto italiano“ – come lo ha definito l’erede Maurizio Salom – viene illustrato anche dallo storico Simon Levis Sullam, proprio su tale Cortellini:[74]
„[I]l vicecommissario Mario Cortellini, tra i responsabili dell’Ufficio razza della questura che sovraintese a buona parte dei sequestri dei beni degli ebrei, non solo non fu epurato, ma alla Liberazione divenne responsabile dell’Ufficio recupero beni ebraici della stessa questura: da specialista dei sequestri – e uno dei responsabili degli arresti porta a porta – fu incaricato della restituzione dei beni a quegli ebrei che erano stati sue vittime.“[75]
Emerge qui non solo il problema della mancata epurazione, in tanti ambiti della politica e società italiana, di coloro che commisero questi crimini – il cui approfondimento andrebbe però oltre il limite di questo articolo –[76] ma viene alla luce soprattutto un meccanismo di rimozione che permise a personaggi come Mario Cortellini, e per certi versi anche Vittorio Moschini, di proseguire le loro carriere nel dopoguerra, non dovendo assumersi alcuna responsabilità o giustificarsi per eventi commessi nel passato.
Focalizzandosi sull’ambito artistico e sul coinvolgimento delle istanze artistico-culturali, occorre dunque constatare, con le parole pertinenti di Simon Levis Sullam, che „[p]artecipe e complice [al processo dell’annientamento degli ebrei] fu anche chi sequestrò e confiscò beni ebraici, spendendo ore, talora intere giornate, a descrivere nei più minuti dettagli i patrimoni requisiti, mettendoli sotto chiave oppure trasportandoli e consegnandoli ad altro ufficio o autorità.“[77]
Anche qui la storia della raccolta Salom costituisce un caso esemplare, poiché non sono contestabili solo le azioni del Soprintendente veneziano, ma anche quelle dei funzionari che compilarono gli inventari nelle ville e confiscarono l’intera collezione. Tra loro è, inoltre, da evidenziare il ruolo particolare del Vicedirettore del Museo Civico di Padova, Oliviero Ronchi, che valutò gli oggetti d’arte in loco con l’obiettivo di farli incorporare nella collezione del suo museo. Questo scenario non può fare altro che sollevare questioni sul coinvolgimento dei musei italiani e dei suoi funzionari che, come dimostrato, non rimasero esclusi dalle pratiche di appropriazione dei beni ebraici. Come abbiamo visto questo vale anche per le Soprintendenze che furono indiscutibilmente implicate nelle confische, assumendo un ruolo che venne formulato per iscritto nei provvedimenti legislativi contro gli ebrei durante la RSI, e che per questo rimane ancora oggi ben identificabile come evidenziato da Ilaria Pavan: „So the task of supervising the confiscations of Jewish artistic assets carried out by the various organs of Fascist bureaucracy was given to the local Soprintendenze, along with the right, once these assets had been officially placed under distraint, of adding them to their own collections.“[78]
Nonostante questa consapevolezza, mancano fino ad oggi, oltre settant’anni dopo, ricerche approfondite ed iniziative che revisionino criticamente la storia delle Soprintendenze durante la RSI, indagini che sarebbe auspicabile fossero intraprese dalle Soprintendenze stesse. A tale proposito le fonti discusse in questo articolo dimostrano che la documentazione storica, rilevante per compiere i passi decisivi, sarebbe probabilmente in tanti casi facilmente consultabile presso i relativi archivi. Basterebbe solo recuperarla ed affrontare l’argomento.
Allargando infine lo sguardo al quadro complessivo della ricerca e restituzione dei beni ebraici dispersi durante il secondo conflitto mondiale, è da osservare che il governo italiano e il Ministero dei Beni Culturali con le rispettive Soprintendenze, da anni non prestano nessuna attenzione all’argomento, nonostante l’Italia faccia parte dei 44 paesi che hanno aderito ai Washington Principles nel 1998[79] e abbia riconfermato tale intenzione nel 2009 tramite la Terezìn Declaration.[80] A questo riguardo Anne Webber[81] e Wesley Fisher[82] hanno recentemente osservato che l’Italia non solo non rispetta la sua parte dell’accordo, ma: „Italy, for example, is a country that, like Poland, avails itself of the commitment of other countries like the USA in order to recover art looted from Italy by the Nazis. But it will not return art in its own public collections that was unarguably looted from Jews.“[83] A questo giudizio si unisce anche Stuart E. Eizenstat,[84] tra i personaggi chiave dei Washington Principles, che ad un convegno in merito al ventesimo anniversario dell’accordo ha segnalato i cinque paesi più riluttanti nell’applicare i principi a cui avevano aderito nel 1998. Tra questi figura anche l’Italia che – secondo Eizenstat – aveva comunque avuto un buon inizio avendo pubblicato un catalogo di oggetti dispersi durante la seconda guerra mondiale e avendo istituito la Commissione Anselmi nel 2001.[85] Ma in seguito, l’Italia aveva ignorato i risultati e le successive raccomandazioni di tale commissione e purtroppo dall’ora „there has been no provenance research or listing of possible Nazi-looted art in their public museums by the Italian government“.[86]
Gli episodi illustrati in questo articolo confermano la necessità di avviare progetti di ricerca nei musei italiani ed eventualmente di restituire gli oggetti posseduti ai legittimi eredi. Ed è un obiettivo che può essere raggiunto, come dimostra un caso esemplare – purtroppo ancora isolato – di restituzione effettuata all’inizio del 2020. Una terracotta raffigurante Maria Maddalena, in passato erroneamente attribuita ad Andrea della Robbia e per decenni esposta agli Uffizi, fu restituita agli eredi del commerciante d’arte tedesco-ebreo Franz Drey, la cui collezione era stata requisita durante il nazionalsocialismo e messa successivamente all’asta rafforzata (le così chiamate Zwangsversteigerungen) nel 1936 a Berlino. Qui la statua venne comprata da un acquirente ignoto e finì poco dopo dal commerciante fiorentino Conte Alessandro Contini-Bonacossi (1878–1955) che però, a sua volta, la vendette nel 1941 a Hermann Göring.[87] Nel dopoguerra la statua venne ritrovata nel Central Collecting Point degli Alleati a Monaco di Baviera e fu restituita all’Italia nel 1954 secondo un accordo tra Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer, dichiarando illegali tutti gli acquisti effettuati in Italia dagli agenti d’arte di Göring o Hitler.[88] Il fatto che fosse stata tuttavia comprata anni prima in Germania ad un’asta, dove i beni sequestrati ad ebrei tedeschi venivano venduti, sfuggì agli occhi degli Alleati nel dopoguerra ed è stato rivelato solo recentemente grazie alle indagini condotte da ricercatori.[89]
Questo è un caso che evidenzia non solo la complessità e necessaria transnazionalità nel ricostruire le storie di oggetti che furono sequestrati, saccheggiati e trafugati agli ebrei europei durante la Shoah, ma mette anche in luce nuovamente la questione critica del coinvolgimento di commercianti d’arte ed antiquari europei – e anche italiani – che approfittarono dell’annientamento degli ebrei, sia all’interno che al di fuori dei confini. Si rafforza così la necessità di condurre ricerche sulla provenienza delle opere d’arte conservate nei musei italiani e della loro restituzione, come viene fatto in altri paesi europei fra cui l’Austria e la Francia.[90] Un ruolo attivo dell’Italia in questo senso potrebbe dare un segnale di „esplicita assunzione di responsabilità e gesti di ferma autocritica“.[91] Un importante passo nella giusta direzione è stato fatto nel luglio 2020, costituendo all’interno del Ministero per i beni culturali un gruppo di lavoro sui beni sottratti in Italia agli ebrei tra il 1938 e il 1945, il quale revisiona e approfondisce gli avvenimenti.[92]
Appendice
In seguito, vengono riportate alcune fonti archivistiche particolarmente significative per questo contributo. La selezione è in ordine tematico secondo il loro riferimento testuale e viene presentata in trascrizione integrale dall’originale.
Documento 1
Prot. Nr. 665
Roma, 1 dicembre 1943
ACS, MPI, Direzione generale AA.BB, Div. III, 1929–1960, 261, Opere d’arte appartenenti a persone di razza ebraica o a istituzioni israelitiche.
MINISTERO DELL’EDUCAZIONE NAZIONALE
DIREZIONE GENERALE DELLE ARTI
RACCOMANDATA RISERVATA+TABRE+Quartier Generale, 1 Dicembre 1943 – XXII.
Ai Capi delle Provincie
Ai Sopraintendenti alle Gallerie
Ai Sopraintendenti ai Monumenti e alle Antichità
Ai Sopraintendenti Bibliografici
Agli Intendenti di Finanza
Prot. Nr. 665+TABRE+della Repubblica Sociale Italiana
OGGETTO: Requisizione delle opere d’arte di proprietà ebraica.
1) Con provvedimento in corso è stato disposto il sequestro di tutte le opere d’arte appartenenti ad ebrei, anche se discriminati, o ad istituzioni israelitiche. Per opere d’arte si intendono, non solo le opere d’arte figurativa (pittura, scultura, incisione, ecc.), ma anche le opere d’arte applicata, quando, per il loro pregio, non possano essere considerate oggetti di uso comune.
I proprietari e i detentori dei beni sottoposti al sequestro dovranno presentare una denuncia per iscritto in duplice esemplare al Sopraintendente alle Gallerie competente per territorio.
Dalla denuncia dovrà risultare:
1° La qualità delle opere, ed una loro sommaria descrizione.
2° L’autore di esse, ove sia noto.
3° La località ove l’opera è attualmente conservata.
Una copia della denuncia dovrà essere restituita all’interessato, con il timbro dell’ufficio ricevente; essa costituirà la prova dell’ottemperanza alla legge sul sequestro.
Nelle località ove non esiste un Sopraintendente, le denuncie potranno essere consegnate al Podestà, che ne curerà l’inoltro al Sopraintendente a mezzo del Capo della Provincia.
I Podestà sono tenuti a inoltrare entro il 20 dicembre al Capo della Provincia, insieme alle denuncie, l’elenco di tutti i cittadini di razza ebraica residenti nella circoscrizione del Comune.
Il Capo della Provincia, nel trasmettere al Sopraintendente alle Gallerie le denuncie pervenute dai Podestà e gli elenchi dei cittadini di razza ebraica, aggiungerà tutte le informazioni che riterrà del caso sopra la possibilità che essi posseggano opere da porsi sotto sequestro. L’inoltro dovrà avvenire entro il 31 dicembre.
Il Sopraintendente alle Gallerie provvederà d’ufficio a fare eseguire sopraluoghi per accertare i casi di mancata denunzia, avvalendosi, ove il caso, anche della forza pubblica.
2) Le denuncie devono essere presentate entro il 15 dicembre. Anche prima di tale data il Sopraintendente alle Gallerie potrà disporre, ove lo ritenga opportuno, dei sopraluoghi, allo scopo di accertare la consistenza del patrimonio artistico di privati o di enti israelitici, e potrà adottare tutti i provvedimenti cautelari che riterrà del caso.
3) Al sequestro delle opere d’arte di proprietà ebraica sono applicabili le disposizioni degli art. 295 e seguenti della legge di guerra e di neutralità, approvata con R. D. 8-8-1938 nr. 1415, in quanto non siano incompatibili con il decreto di oggetto.
Il decreto di sequestro sarà, anche in questo caso, emesso dal Capo della Provincia, ma la richiesta relativa dovrà essere avanzata dal Sopraintendente alle Gallerie. Ordinariamente, e salvo casi eccezionali, da valutarsi d’accordo fra il Capo della Provincia e il Sopraintendente alle Gallerie, saranno nominati sequestratari gli stessi detentori delle opere d’arte sequestrate.
Le opere d’arte sequestrate non saranno rimosse se non quando gravi circostanze lo consiglino.
Le mansioni di vigilanza sul sequestratario devolute all’Intendente di Finanza saranno esercitate di concerto con il Sopraintendente alle Gallerie, al quale spetta di dettare tutte le disposizioni di carattere tecnico relative alla custodia e alla conservazione delle opere d’arte.
4) Le disposizioni relative al sequestro delle opere d’arte, si estendono alle collezioni di oggetti di antichità, alle raccolte numismatiche, alle raccolte di cimeli, e in genere alle cose di cui alle lettere a) b) c) dell’art. 1 della Legge 1 Giugno 1939 nr. 1089 sulla tutela delle cose di interesse artistico e storico.
Nonostante che anche i beni in questione debbano formare oggetto di denuncia, poiché sarà difficile una rigorosa ottemperanza a tale obbligo, dovendo essere sequestrate solo le raccolte che abbiano un certo pregio, i Sopraintendenti alle Gallerie, ai Monumenti, alle Antichità, ed i Sopraintendenti bibliografici disporranno d’ufficio a questo scopo opportuni sopraluoghi.
5) Tutte le attribuzioni affidate ai Sopraintendenti alle Gallerie per quello che riguarda le opere d’arte, saranno esercitate rispettivamente dai Sopraintendenti alle Antichità e dai Sopraintendenti Bibliografici, a seconda che trattasi di oggetti aventi interesse archeologico o bibliografico. Così, in questi casi, le denuncie saranno ricevute dai Sopraintendenti alle Antichità e da quelli Bibliografici; i Sopraintendenti in questione promuoveranno i decreti di sequestro; eserciteranno, insieme all’Intendente di Finanzia, la vigilanza sui sequestratari, promuoveranno gli accertamenti ed i sopraluoghi ecc. ecc.
6) Anche per gli oggetti di cui al nr. 4) saranno adottati i criteri indicati al n. 3), per quello che riguarda la nomina del sequestratario e la conservazione delle opere sequestrate.
7) Le opere d’arte non denunciate e gli oggetti sui quali siano state fornite indicazioni falsi o incomplete allo scopo di evitare il sequestro, potranno essere confiscate. Il Decreto relativo sarà emesso dal Capo della Provincia, e le cose che ne formano oggetto saranno prese in consegna dal Sopraintendente alle Gallerie, ove trattisi di opere d’arte, o dai Sopraintendenti alle Antichità e dai Sopraintendenti Bibliografici, ove trattasi rispettivamente di oggetti di interesse archeologico o bibliografico.
8) I Capi delle Provincie sono invitati ad impartire senza indugio le opportune disposizioni ai Podestà dipendenti.
Si attende un cenno di ricevuta.
IL MINISTRO
C. A. BIGGINI
Documento 2
Lettera Vittorio Moschini al Ministero dell’Educazione Nazionale
Venezia, 5 febbraio 1944
ACS, MPI, Direzione generale AA.BB, Div. III, 1929–1960, 261, Opere d’arte appartenenti a persone di razza ebraica o a istituzioni israelitiche.
OGGETTO: Oggetti d’arte appartenenti ad ebrei.
Com’ è noto, il decreto 4 gennaio u. s. stabilisce che tutti i beni degli ebrei siano confiscati a favore dello Stato e saranno venduti a cura dell’E.G.E.L.I.
Se gli oggetti d’arte importanti facenti parte di tali beni non resteranno allo Stato ma saranno anch’essi venduti, ci occorrerebbero delle istruzioni almeno per gli oggetti notificati.
Questo nei riguardi della validità della notifica sia agli effetti del diritto di prelazione all’atto della vendita, sia nei confronti dell’acquirente, permanendo il vincolo derivante dalla notifica fatta all’ex proprietario ebraico ovvero venendo annullato col temporanea passaggio in proprietà dello Stato.
IL SOPRINTENDENTE
(Vittorio Moschini)
Documento 3
Lettera del Questore di Venezia alla Prefettura di Venezia
Venezia, 1 luglio 1944
ASV, Questura di Venezia, Divisione Categoria A4A, Ebrei, Fascicoli Personali, 1938–1946, busta 9, fasc. 595, „Mobili e suppellettili ebraiche requisite per il Sig. Questore (Dino Cortese)“, p. 39.
Trasmetto elenco dei mobili ed arredi prelevati il 23/5/u. s. ed il 5 giugno c. a. in casa dell’ebrea Fanny Camerino, sita a Cannaregio nr. 5632, da un funzionario di questo Ufficio, per l’arredamento della casa di rappresentanza del Questore, sita a Castello nr. 5053, come d’ordine del Capo della Provincia.
Tali mobili sono stati regolarmente presi in consegna dall’Economo della Questura – Campa Sig. Antonio – come risulta dall’unite verbale.
IL QUESTORE
Documento 4
Lettera del Questore di Venezia alla Prefettura di Venezia
Venezia, 17 ottobre 1944
ASV, Prefettura di Venezia, Sequestri Beni Ebraici, 1944–1945, busta 11, „Coen Porto, Augusto“.
A seguito di insistenti richieste fatte a questo Ufficio Politico dal Tenente medico Niederkofler Franz, del locale Platzkommandatur, il quale desiderava acquistare taluni beni appartenenti all’ebreo Coen Porto Augusto, si è – presi accordi telefonici con i componenti Funzionari degli Ufffici in indirizzo – provvedute a far stimare da un antiquario i beni stessi, alla presenza di un Funzionario di questo’Ufficio, facendo poi dallo stesso Tenente versare la somma di lire 23 mila (stimata dall’antiquario) su libretto nominativo intestato all’ebreo Coen Porto Augusto, che per alligate si trasmette alla Prefettura Repubblicana di Venezia il relativo decreto di sequestro.
Si allega copia del verbale (il cui originale si conserva in questi atti) della stima degli oggetti stessi, eseguita dall’antiquario Baldoni Carlo fu Theodesio, residente in Venezia – Dorsoduro 1058.
Si aggiunge inoltre che la casa dell’ebreo Coen Porto Augusto (fin dal dicembre scorso inviato direttamente in campo di concentramento dall’Autorità Germanica) è rimasta sempre a disposizione di Ufficiali Germanici, in modo che non si è potuto provvedere alla redazione delle inventarie dei beni in essa esistenti. Risulta però che gran parte del mobilio, dei quadri ed oggetti di valore sono stati trasferiti a Mira, presso la sede locale Comando della S.S.
IL QUESTORE
(Dino Cortese)
Documento 5
Lettera Vittorio Moschini al Ministero dell’Educazione Nazionale
Venezia, 5 maggio 1944
ACS, MPI, Direzione generale AA.BB, Div. III, 1929–1960, 261, Opere d’arte appartenenti a persone di razza ebraica o a istituzioni israelitiche.
OGGETTO: Opere d’arte di proprietà ebraica.
Riceviamo per conoscenza la lettera unita in copia che risponde a non sappiamo quale quesito della Prefettura di Venezia.
In relazione a quanto ci è stato comunicato verbalmente nell’ultimo convegno dei Soprintendenti, preghiamo codesto Ministero di farci sapere se è stato effettivamente possibile fare in modo che le opere d’arte importanti di proprietà ebraica non vengano vendute all’asta, dopo la confisca, ma bensì assegnate alle nostre Gallerie.
Ciò naturalmente ha molta importanza anche nei riguardi della convenienza o meno di taluni nostri interventi, ai fini della tutela del patrimonio artistico nazionale.
IL SOPRINTENDENTE
(Vittorio Moschini)
Documento 6
Lettera Vittorio Moschini al Capo della Provincia di Padova
Venezia, 9 dicembre 1943
ASP, Fondo Prefettura, E.G.E.L.I., Fasc. 61, Requisizione delle opere d’arte di proprietà ebraica.
OGGETTO: Opere d’arte di proprietà ebraica – Raccolta Salom
La Sig. Adele Salom possedeva nel suo palazzo a Venezia, S. Angelo 3877 una famosa collezione di oggetti d’arte, i più importanti dei quali vennero a suo tempo notificati da Questa Soprintendenza e comprendono tredici dipinti di Pietro Longhi con scene di vita veneziana e quattro paesaggi e battaglie attribuiti a Salvator Rosa.
Secondo quanto ci risulta, nel novembre dello scorso anno, avvertendo questa Soprintendenza, la proprietaria fece trasportare le detto opere in due ville di cotesta provincia, a Brugine ed a Conselve, dati i pericoli derivanti dalle incursioni aeree.
Attualmente, in relazione a quanto Vi è stato comunicato dal Ministero dell’Educazione Nazionale con lettera riservata nr. 665 del 1° corrente riguardante la requisizione delle opere d’arte di proprietà ebraica, è necessario procedere al sequestro della raccolta Salom.
D’altra parte non essendo probabile che la prescritta denuncia venga mai presentata, essendo la Sig. Salom lontana da Venezia, e non mancando la possibilità che le dette preziose opere d’arte vengano sottratte o trafugate, è necessario intervenire d’urgenza per rintracciarle e mettere intanto su di esse un fermo.
Vi preghiamo pertanto di voler disporre d’urgenza affinché gli organi competenti compiano delle minuziose indagini a Brugine ed a Conselve per accertare l’esistenza di oggetti d’arte di qualsiasi genere che abbia ragione di ritenere provenienti dalla raccolta Salom e che siano attualmente in dette località anche presso terze persone ovvero in altro modo occultate.
Non appena saremo informati del risultato di tali indagini e della effettiva esistenza di opere d’arte che si possano ritenere quelle che andiamo cercando, prenderemo accordi per la parte tecnica di nostra competenza riguardante la identificazione delle opere e i provvedimenti per la loro custodia e conservazione.
Restiamo pertanto in attesa di cortesi comunicazioni.
IL SOPRINTENDENTE
f.to) Vittorio Moschini
Documento 7
Verbale di Perizia firmato di Nino Gallimberti
3 gennaio 1944
ASP, Fondo Prefettura, E.G.E.L.I., fasc. 61, Requisizione delle opere d’arte di proprietà ebraica.
Il sottoscritto ing. Gallimberti Nino venne nominato perito dall’Ill.o Ing. Polazzo Secondo, Commissario per i beni urbani appartenenti agli ebrei, nel sequestro di alcune opere d’arte appartenenti alla Contessa Salom.
Il giorno 2 gennaio 1944 alle ore quindici il sottoscritto iniziava detto incarico nella casa del sig. Reggiano Clelio, fattore della suddetta contessa, presso del quale si trovavano due casse di quadri.
Assistevano all’apertura di dette casse: oltre il sottoscritto, l’Ill.mo Commissario Ing. Polazzo Secondo, il fattore Reggiani Clelio e il sig. Magnemi Stefano, amministratore della Contessa Salom.
Svitate le casse, i quadri furono con gran cura levati ad uno ad uno ed esaminati dal sottoscritto per il controllo ed il riconoscimento dell’autenticità perfettamente coincidente con l’espertizzazione già da tempo fatta dalla Sovraintendenza alle Belle Arti di Venezia.
Ecco qui l’elenco di detti quadri con i dati relativi all’individuazione di ognuno di essi:
Tela contrassegnata col nr. 78 delle misure cm. 58 × 75 rappresentante „El casoto del Borgogna“ di Pietro Longhi.
Tela senza contrassegno di numero delle misure cm. 58 × 74 rappresentante „Il ridotto“ di Pietro Longhi.
Tela senza contrassegno di numero delle misure cm. 61 e mezzo × 638 [sic?] rappresentante „Il gioco di Maria orba“ di Pietro Longhi.
Tela contrassegnata col nr. 15 delle misure cm. 61 e mezzo × 63 e mezzo rappresentante „Il burattinaio“ di Pietro Longhi.
Tela contrassegnata col nr. 27 delle misure cm. 58 × 74 rappresentante „Il rinoceronte“ di Pietro Longhi.
Tela senza contrassegno di numero delle misure cm. 53 × 68 rappresentante „La bottega del caffè“ di Pietro Longhi.
Tela contrassegnata col nr. 34 delle misure cm. 82 × 101 rappresentante „La scuola di ballo“ di Pietro Longhi.
Tela contrassegnata col nr. 22 delle misure cm. 62 e mezzo × 84 rappresentante „Ritratto di gentiluomo“ di Pietro Longhi.
Tela contrassegnata col nr. 26 delle misure cm. 628 [sic?] × 84 rappresentante „Ritratto di gentildonna“ di Pietro Longhi.
Tela senza contrassegno di numero delle misure cm. 64 × 72 rappresentante „Gole dirupate“ attribuita alla scuola di Salvator Rosa.
Tela senza contrassegno di numero delle misure cm. 72 × 127 rappresentante una „Battaglia“ attribuita alla scuola di Salvator Rosa.
Tela senza contrassegno di numero delle misure cm. 83 e mezzo × 127 rappresentante una „Battaglia“ attribuita alla scuola di Salvator Rosa.
Tela contrassegnata col nr. 45 delle misure di cm. 83 e mezzo × 141 rappresentante una „Battaglia“ attribuita alla scuola di Salvator Rosa.
Tutte dette opere sono state ritrovate in ottime condizioni con cornici semplici dorate, e tali riposte con la massima cura nelle loro casse nell’identica maniera con cui furono trovate incassate. Le casse furono chiuse a viti, con cordicelle sigillate a piombo e a ceralacca con timbro tondo portante la scritta „Comune di Conselve“ con lo stesso del Comune stesso. Indi le due casse furono lasciate in custodia del Sig. Reggiani Clelio nella sua casa d’abitazione.
In fede
Conselve 3.1.1944
IL PERITO
F° Ing. Arch. Nino Gallimberti
Documento 8
Lettera Secondo Polazzo alla Prefettura di Padova
Padova, 10 novembre 1944
ASP, Fondo Prefettura, E.G.E.L.I., Fasc. 61, Requisizione delle opere d’arte di proprietà ebraica.
Si comunica che le opere d’arte della raccolta Salom di Conselve sono state consegnate all’Intendenza alle Belle arti di Venezia la quale le ha fatte depositare al Museo Civico di Padova.
Questo Commissariato possiede una ricevuta a firma dell’Intendente sig. Vittorio Moschini.
È stata effettuata una visita alla Villa Salom di Brugine ove però non sono stati trovati i 3 quadri di cui trattasi.
Questo Commissariato si riserva di effettuare in merito un più preciso accertamento.
IL COMMISSARIO
(Ing. Secondo Polazzo)
Documento 9
Lettera Vittorio Moschini al Capo della Provincia di Padova
Venezia, 16 maggio 1944
ASP, Fondo Prefettura, E.G.E.L.I., fasc. 61, Requisizione delle opere d’arte di proprietà ebraica.
OGGETTO: Opere d’arte di ebrei. – Raccolta Salom
Veramente non comprendiamo come mai questa Soprintendenza non sia stata informata dei sequestri fatti a Conselve e Brugine nel gennaio u. s., tanto più che ci eravamo interessati della cosa.
Per ciò che riguarda le opere sequestrate nella Villa di Conselve, se esse, in base alla perizia, sembrano essere effettivamente in gran parte quelle da noi notificate in casa Salom, tuttavia diverse opere notificate non figurano, come risulta anche dal confronto con gli atti di notifica dei quali uniamo copia. D’altra parte, anche se non erano notificate, diverse altre opere d’arte costituivano la raccolta Salom, compresi molti piccoli bronzi. Quindi è tuttora da rintracciare il resto della suddetta raccolta, che speriamo non sia nel frattempo andato a finire lontano. Per questa parte preghiamo di fare ulteriori indagini a mezzo degli organi di Polizia.
In quanto poi ai dipinti e altri oggetti artistici sequestrati nella Villa Salom a Brugine, se si deve credere alle attribuzioni fatte dal Prof. Ronchi nel suo inventario, sembrano non avere molta importanza, almeno in massima parte, né abbiamo modo di accertare la loro effettiva provenienza. Del resto si tratta di cose già sequestrate e che saranno adeguatamente custodite a cura dei responsabili.
Attendiamo quindi il risultato delle ulteriori ricerche nei riguardi della raccolta Salom, riservandoci di andare tanto a Brugine che a Conselve per esaminare le opere d’arte sotto sequestro, restando d’intesa che questa Soprintendenza sarà tenuta al corrente degli ulteriori sviluppi di tale pratica.
IL SOPRINTENDENTE
(Vittorio Moschini)
Documento 10
Lettera Vittorio Moschini alla Direzione Generale delle Arti
Venezia, 5 febbraio 1944
ASSV, Importazioni di Proprietà di Ebrei, nr. 357.
Temporanea importazione oggetti d’arte appartenenti ad ebrei.
La ditta Gondrand ha presentato, per conto della ditta Loewi e dell’Avv. Ruggero Sonino, delle domande di rinnovazione della temporanea importazione per taluni oggetti d’arte.
Poiché tanto il Loewi, già console tedesco a Venezia ed ora in America, quanto il Sonino sono notoriamente di razza ebraica ed i loro beni verranno confiscati in base al noto decreto del 4 gennaio u. s. pubblicato nella Gazzetta Ufficiale nr. 6, riteniamo che non si possa procedere al rinnovo dei certificati di temporanea importazione ad essi intestati.
Tuttavia preghiamo cotesto Ministero di darci istruzioni in materia, tanto più che quando gli oggetti d’arte in questione andranno venduti il compratore potrà ritenere di poter succedere all’ex proprietaria ebraico anche nei riguardi del diritto di riesportare quegli oggetti.
Intanto abbiamo avvertito la ditta Gondrand di tener conto delle recenti disposizioni circa la denuncia degli oggetti.
IL DIRETTORE
F. to. Moschini
Fonte dell’illustrazione
- Fig. 1: Fondazione Federico Zeri, Bologna.
© 2023 bei den Autorinnen und den Autoren, publiziert von De Gruyter.
Dieses Werk ist lizensiert unter einer Creative Commons Namensnennung - Nicht-kommerziell - Keine Bearbeitung 4.0 International Lizenz.
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- Verzeichnis der Rezensentinnen und Rezensenten
- Register der in den Rezensionen genannten Autorinnen und Autoren