Allgemein, Mittelalter, Frühe Neuzeit, 19.–20. Jahrhundert
Arnold Esch, Die Via Salaria. Eine historische Wanderung vom Tiber bis auf die Höhen des Apennin, München (C. H. Beck) 2022, 144 pp., ill., ISBN 978-3-406-78064-6, € 24.
Questo libro si occupa della via Salaria, una delle direttrici consolari più note, che prende il suo nome dalle saline alla foce del Tevere e che collegava l’antica Roma dapprima a Rieti e poi, dai tempi di Augusto, ad Ascoli Piceno e alla costa adriatica. Arnold Esch, che oltre a molte altre competenze è anche uno specialista delle vie consolari romane, propone in questo caso al grande pubblico colto un testo non scientifico – senza note ma con una bibliografia finale – che si presenta in forma di una passeggiata nello stile del Grand Tour. Ci troviamo quindi, se vogliamo, in una via di mezzo tra le opere scientifiche dedicate alle consolari (ad es. „Una strada nel Medioevo. La via Appia da Roma a Terracina“, a cura di Marina Righetti, Roma 2014) e la letteratura da viaggio (prima di tutto Paolo Rumiz, „Appia“, Roma 2016). Come sanno tutti quelli che hanno studiato i tracciati viari, il problema di una strada come la Salaria è che ne esistono quattro percorsi diversi: quello antico, quello medievale, quello dell’epoca moderna e l’attuale superstrada. In alcuni punti, i tracciati si distinguono, in altri si sovrappongono. Il libro si occupa solo della parte della Salaria laddove il percorso antico e medievale della strada sono individuabili e dove essi non sono nascosti dalla nuova statale. Trovare questi percorsi nella realtà paesaggistica odierna è un compito difficile, come nota lo stesso Esch che descrive in diversi passaggi in dettaglio le caratteristiche tecniche-edili particolari della via Salaria che, a differenza dell’Appia e di altre consolari, non era coperta di basalto o altri materiali facilmente identificabili, ma consisteva in una superficie ghiaiosa inserita tra due robusti recinti realizzati con grossi conci (così pp. 34–37). Il tracciato scelto dall’autore si trova nella Sabina e non oltrepassa i confini dell’odierna provincia di Rieti. Esso inizia nella località Osteria dei Sorci vicino a Passo Corese, passa per Monteleone Sabino, poi per Poggio San Lorenzo sino alla località Ponte Sambuco, salta poi il tratto sino a Rieti – laddove il percorso antico e medievale non è più identificabile –, riprende a Rieti da dove prosegue fino ad Antrodoco per poi concludere con la chiesa di San Silvestro in Collicelle vicino a Cittareale. In tutto si tratta, ad occhio, di circa 100 km di strada. Questo itinerario, che non troviamo certo nelle nostre guide turistiche e che è frutto di una sapiente ricostruzione della Salaria antica e medievale, è costellato di monumenti, opere d’arte e ricordi. Sulla direttrice hanno viaggiato e scritto sia gli autori dell’Antichità come Marco Terenzio Varrone che i pellegrini medievali. Tuttora essa offre una interessante commistione tra le ville antiche e i centri fortificati medievali in altura, frutto dell’incastellamento, o tra l’Antichità e il Medioevo in generale, come ad esempio nel caso del sito che contiene sia la villa dei Bruttii Praesentes che la chiesa della Madonna dei Colori (pp. 45–52). Ma sarebbe ingiusto anticipare al lettore tutte le cose notevoli descritte da Esch nel libro che elenca siti urbani, castelli, tempi, taverne, monumenti isolati e luoghi naturalistici come il lago di Paterno, „l’ombelico dell’Italia“ degli antichi. Tutto questo è corredato da carte topografiche, fotografie e persino coordinate geografiche per i siti isolati più notevoli. È da sottolineare come questo libro, sebbene destinato al grande pubblico, sia anche frutto di una ricerca minuziosa sul territorio, cosicché l’autore ha rintracciato e ritrovato nel corso dell’opera diverse colonne miliarie e persino un ponte romano. Questo tipo di ricerche si possono svolgere solo mettendosi di persona in strada. Si consiglia dunque al lettore di fare lo stesso, e, seguendo le puntuali indicazioni di Arnold Esch, percorrere la grande via consolare. Infine, è da sperare che questo volume sia al più presto tradotto in italiano.
Kristjan Toomaspoeg
Michael Matheus (a cura di), Ninfa. Percezioni nella scienza, letteratura e belle arti nel XIX e all’inizio del XX secolo, Regensburg (Schnell & Steiner) 2022, 348 S., Abb., ISBN 978-3-7954-3740-4, € 50.
Die Ruinenstadt Ninfa, das „Pompeji des Mittelalters“ (Gregorovius) am Rande der Pontinischen Ebene, wird hier in einem generös ausgestatteten Bd. von neuem vorgestellt: die Materialien einer Tagung koordiniert und hg. von Michael Matheus, der schon in seiner Zeit als Direktor des Deutschen Historischen Instituts in Rom in enger Zusammenarbeit mit der Fondazione Roffredo Caetani, durch die die Familie Caetani das Gelände weiterhin verantwortungsvoll pflegt, ein Projekt zur computergestützten Aufnahme des Ruinenkomplexes durchführte. Das Gelände, ein anziehendes Ensemble von Ruine, Pflanzenwelt und fließendem Wasser, umgestaltet zu einem gepflegten Landschaftsgarten, bietet dem Besucher (der das alles noch in den 1950/1960er Jahren in leidlicher Einsamkeit erleben konnte) über den Landschaftsgenuss hinaus eine Fülle von historischen, künstlerischen, botanischen usw. Aspekten. Da mit dem Ninfa-Bd. der Fondazione Camillo Caetani (ed. Luigi Fiorani 1990) eine gute Gesamtdarstellung vorliegt, konzentriert sich der vorliegende Bd. vor allem auf die Wahrnehmung des – schon bald als „magisch“ bezeichneten – Platzes im 19. und beginnenden 20. Jh. durch Reisende und Künstler, darunter Zeichner vom Rang eines Edward Lear – wobei der Wandel des Ruinenbildes in literarischer und künstlerischer Wahrnehmung im Lauf des 19. Jh. eingehend dargestellt wird. Zahl und Dokumentation der Besucher sind über den bisherigen Kenntnisstand hinaus erheblich vermehrt. Das alles belegt und begleitet von einer Fülle von Reiseberichten und Briefen, von Aquarellen und Skizzenbüchern, Karten und Katasterblättern, und vor allem von frühen Photographien (ca. 1863–1910), die sich als sehr instruktiv erweisen. Beachtet wird auch die botanische Seite: die Kennzeichen der Ruinenflora (und auch die Frage, was an dem von drei angelsächsischen Caetani-Damen geschaffenen englischen Landschaftsgarten denn nun „englisch“ sei). Und die aus der Idylle brüsk hinausführende medizinische Frage nach Ursprung und Wirkung der Malaria in dieser Sumpfzone. Eine umfassende, kenntnisreiche Einführung in die Aspekte und Fragestellungen wird vom Hg. in einem ersten, umfangreichen Kapitel geboten, Einzelnes dann in den folgenden Beiträgen vertieft: Die Zeichnungen von Edward Lear (Marco Graziosi), und die (in ihrer Originalität hier recht abschätzig beurteilte) deutsche Landschaftsmalerei (Golo Maurer); Gregorovius und sein Ninfa in einem wenig bekannten Gedicht (Norbert Miller), sowie seine Beziehungen zur Familie Caetani, mit Hinweis auf die im Deutschen Historischen Institut vorgesehene digitale Edition repräsentativer Briefe von Ferdinand Gregorovius (Angela Steinsiek); der seinerzeit vielgelesene Schriftsteller Hermann Allmers und sein Ninfa als „Dornröschen“ (Axel Behne); Ninfa als – nicht immer nachvollziehbare – Metapher in Autoren des Fin de Siècle (Christiane Baumann); zahlreiche frühe Photographien, ca. 1863–1910 (Almut Goldhahn); und endlich der Kampf gegen die Malaria, mit anfänglichen Zweifeln an der Wirkung der China-Rinde, des „Jesuiten-Pulvers“ (Michael Schulte).
Arnold Esch
Mediazione notarile. Forme e linguaggi tra Medioevo ed Età Moderna, a cura di Alessandra Bassani/Marta Luigina Magini/Fabrizio Pagnoni, Milano (Università degli Studi di Milano) 2022 (Quaderni degli Studi di Storia Medioevale e di Diplomatica 6), VIII, 183 pp., ISBN 978-88-919-3094-1 (Druckversion), ISBN 978-88-919-3117-7 (Online-Version), https://riviste.unimi.it/index.php/SSMD/issue/view/1762; 26.3.2023.
Il volume dà alle stampe il convegno omonimo tenutosi a Milano il 3–4 dicembre 2020. Si tratta del primo frutto del progetto interdipartimentale dell’Università degli Studi di Milano intitolato LIMEN (LInguaggi della MEdiazione Notarile tra Medioevo ed Età Moderna). Il suo gruppo di ricerca è, dunque, composto da studiosi (invero in larga maggioranza studiose) di discipline diverse, chiamate e chiamati a confrontarsi su un tema comune, osservandolo da molteplici prospettive. L’oggetto di studio è la „mediazione notarile“, concetto non di immediata e scontata comprensione, su cui val la pena spendere qualche parola. L’espressione può essere intesa in una pluralità di sensi. Di questi, almeno due mi sembrano prevalenti, anche nel volume in questione. Essi sono fortemente legati l’un l’altro tanto che il secondo è quasi la specificazione del primo. „Mediazione notarile“ può rimandare alla funzione del notaio quale collante capace di instaurare relazioni di varia natura entro il tessuto sociale. Il tutto non si riduce alla mera intermediazione fra individui e persone giuridiche. Il notaio è una persona chiamata a dare concreta e tecnica rappresentazione di questo rapporto, cioè a documentarlo in maniera efficace. Con il suo intervento un’azione si fa documentazione, acquisendo pubblicità e vigore probativo. Egli ha l’autorità e il compito, dunque, di mediare fra realtà e rappresentazione, fra volontà e scritturazione, in aderenza a un codice tecnico e normativo. Ma nel far questo, forte è il grado di „artigianalità“. Sta a dire, ciascun professionista della scrittura agisce in maniera anche personale e aperta a sperimentazioni, conformemente al suo orizzonte culturale, umano, relazionale: non è una persona aliena e disgiunta rispetto al mondo in cui opera, piuttosto una componente attiva del gioco politico. Insomma, per molti versi i notai potrebbero essere definiti come „artigiani della documentazione“. Nel volume si riscontrano due approcci principali verso questa complessa funzione mediatrice, fra loro equamente distribuiti. Quattro saggi osservano il notaio soprattutto come strumento di mediazione ordinatrice, capace di produrre atti pubblici con forza probativa a partire da circostanze diverse, per contesto e tipologia: Roma antica (Francesca Pulitanò); la Bologna duecentesca di Rolandino (Alessandra Bassani); committenze e circolazione delle opere d’arte (Elisabetta Fusar Poli); la Lombardia austriaca (Stefania Salvi). Spunti di riflessione giungono dal caso più lontano nel tempo, in cui lo stesso concetto di mediazione notarile, elaborato secondo gli schemi della modernità, entra in crisi e questa funzione, in forme assimilabili, ma non identiche, è ricoperta da altre figure. Emerge qui una componente importante, che merita di essere studiata nel suo vario intrecciarsi sulla lunga diacronia con la scritturazione: il controllo della formularità anche sul piano orale e gestuale, così da eseguire passaggi ritualmente codificati. Ciò non può essere visto, a mio avviso, come qualcosa di arcaico, destinato a essere progressivamente superato con l’evoluzione delle società secondo forme di complessità crescente. I restanti quattro saggi osservano il notaio soprattutto come agente di mediazione, fattore unico e determinante da storicizzare nella sua individualità. Su questo fronte il progetto può giovarsi della sinergia con il Centro Studi Interateneo Notariorum Itinera, come testimoniano le ricerche dedicate alla documentazione notarile genovese, che spicca per antichità e ricchezza, analizzata quanto alle variazioni formulari nei testamenti da Marta Calleri, alle elaborazioni figurative da Valentina Ruzzin. Mi soffermo sui contributi che apportano punti di vista originali rispetto alla tradizione, uscendo dai binari per guardare anche fuori dagli instrumenta (e sulle loro soglie), dalle città, dall’Italia. Paolo Buffo e Fabrizio Pagnoni trattano della mediazione notarile per la gestione delle finanze dei poteri due e trecenteschi sul doppio piano delle scritture per la gestione (ovvero, per la contabilità corrente) e della gestione delle scritture (la massa documentaria che compone un archivio), in un dialogo storiografico di respiro europeo. Marta Luigina Mangini presenta un bel quadro di insieme sui fogli di guardia e coperte che delimitano (e stanno su) il confine, limes, dei protocolli notarili e costituiscono, riferendosi al nome dello stesso progetto, un limen: soglia che garantisce il corretto accesso ai registri. Spesso è proprio su queste soglie che giace la chiave di ingresso al piccolo universo di ciascun notaio quale uomo nel suo tempo, in cui cogliere interessi, capacità, desideri, preoccupazioni e meglio comprendere così i caratteri della sua personale „mediazione notarile“.
Paolo Tomei
Anna Foa, Gli ebrei in Italia. I primi 2000 anni, Roma-Bari (Laterza) 2022 (Cultura storica), 312 S., ISBN 978-88-581-4920-1, € 24.
Nach der Geschichte der Juden in Italien von Cecil Roth aus dem Jahr 1946 und Attilio Milano von 1963 sind zwar eine Fülle von Sammelwerken zur italienisch-jüdischen Geschichte erschienen, insbesondere das 1997 von Corrado Vivanti herausgegebene zweibändige Werk aus den „Annali“ der „Storia d’Italia“, nicht aber eine kohärente Gesamtdarstellung aus einer Feder. Diese hat nun Anna Foa, Historikerin und emeritierte Professorin an der Universität La Sapienza in Rom, mit dem schönen und optimistischen Untertitel: „Die ersten zweitausend Jahre“ vorgelegt. Foa, die zunächst Studien zum intransigenten Katholizismus Italiens im Zeitalter der Restauration, über Atheismus und Magie während der Aufklärung oder Hexenwesen in Europa veröffentlicht hatte, hat sich seit den 1980er Jahren immer mehr auf die jüdische Geschichte in Europa und Italien konzentriert. 1992 erschien ihre Darstellung der Geschichte der Juden in Europa vom 14. bis 18. Jh., es folgten ein Buch über die jüdische Diaspora im 20. Jh. oder eine Darstellung der Orte der Verbannung im faschistischen Italien. 2022 nun legt sie ihre Gesamtdarstellung der Geschichte der Juden in Italien vor. Prägnant erläutert sie in ihrer Einleitung die Besonderheiten der jüdischen Geschichte in Italien. Diese liegen erstens darin, dass die Juden Italiens weder zum aschkenasischen noch zum sephardischen Zweig des Judentums gehören, sondern einen eigenen Zweig bilden. Zweitens zeichnete sich das italienische Judentum dadurch aus, dass es durch die Jh. einen engen Austausch mit ihrer Umwelt pflegte und italienisch sprach. Und doch wurden in der frühen Neuzeit, drittens, abgeschlossene Wohnviertel, Ghettos, errichtet. Viertens war das italienische Judentum von der Präsenz der katholischen Kirche geprägt. Die Emanzipation der Juden in Italien wiederum vollzog sich fünftens zugleich mit der Bildung des italienischen Nationalstaates. Schließlich lag sechstens eine weitere Besonderheit des italienischen Judentums darin, dass es in innerreligiösen Fragen einen Weg jenseits von Reform und Orthodoxie beschritten hat. Diese sechs Charakteristika der italienisch-jüdischen Geschichte buchstabiert Foa durch die zweitausendjährige Geschichte der Juden auf der italienischen Halbinsel durch. So zeichnet sie den Weg von der Antike, dem Ursprung der jüdischen Diaspora, über das Mittelalter, den Vertreibungen aus dem Süden und dem intensiven kulturellen interreligiösen Austausch in der Renaissance nach. Mit der Vertreibung der Juden aus der iberischen Halbinsel tritt auch in Italien ein sephardisches Judentum hervor. Der Einrichtung von Ghettos geht Foa mit besonderem Schwerpunkt auf die Stadt Rom nach. Das Ende dieser Absonderung kam im 19. Jh., dem Zeitalter der Emanzipation. Ausführlich schildert Foa den Weg zur bürgerlichen und staatsbürgerlichen Gleichstellung der Juden im Zuge der nationalen Einigung Italiens, angefangen von der breiten Partizipation italienischer Juden am Risorgimento bis hin zum bemerkenswerten sozialen und politischen Aufstieg des italienischen Judentums im liberalen Italien. Immer wieder flicht Foa treffende vergleichende Beobachtungen zu anderen europäischen Ländern ein, um die Besonderheiten der italienischen Entwicklung präziser zu erfassen. In einem Fall jedoch, diese kleine kritische Anmerkung sei erlaubt, sind diese irreführend, wenn Foa für das Deutsche Kaiserreich auf einen Antisemitismus von links verweist und – sich allein auf eine abwegige italienische Studie zur deutschen Sozialdemokratie stützend – vom Antisemitismus in der deutschen Arbeiterbewegung spricht. Ein eigenes Kapitel ist dem kulturellen Leben des italienischen Judentums im liberalen Italien gewidmet, in der sie die Besonderheit in religiöser Hinsicht, die spezifische Situation jüdischer Frauen oder die weitgehende Abwesenheit eines politischen Antisemitismus in der politischen Kultur Italiens nachzeichnet. Das 20. Jh. begann für die italienischen Jüdinnen und Juden in einem Klima von Zuversicht und Optimismus. Mit dem Krieg Italiens gegen Libyen und dem Ersten Weltkrieg aber veränderte sich die politische Atmosphäre Italiens. Der Krieg führte Jüdinnen und Juden fast unbemerkt, so Foa, in die faschistische Diktatur. Zugleich traten innere Divergenzen zwischen faschistischen und antifaschistischen sowie der kleinen Gruppe zionistischer Juden hervor. Am Beginn der Diktatur war der Anteil von Jüdinnen und Juden in der Faschistischen Partei überproportional hoch. Ein höherer jüdischer Anteil aber war unter den Antifaschisten zu finden. 1938 erließ das faschistische Regime Rassengesetze, die massive Einschränkungen des Lebens der Jüdinnen und Juden in Italien zur Folge hatten. Sie wurden herabgewürdigt und hatten ihre Rechte verloren, aber, so Foa, sie waren noch nicht in Lebensgefahr. Diese begann mit der deutschen Besetzung Norditaliens. Jüdinnen und Juden wurden mit Hilfe italienischer Kollaborateure aus Italien in die Vernichtungslager deportiert. Ein Teil der italienisch-jüdischen Bevölkerung aber konnte untertauchen, ein anderer schloss sich dem Widerstand an. Im letzten Kapitel wendet Foa sich dem jüdischen Leben in Italien nach 1945 zu, geht dem langsamen und verzögerten Umdenken innerhalb der katholischen Kirche sowie der Herausbildung einer spezifischen Erinnerungspolitik in Italien nach. Abschließend zeichnet sie ein Bild vom gegenwärtigen italienischen Judentum, für das sowohl der Bezug auf den Staat Israel als auch die Erinnerung an die Shoah der Grundstein des Selbstverständnisses wurde. Foa schließt mit der Gewissheit, dass durch die Aufarbeitung der Vergangenheit sowohl die italienische Gesellschaft als auch die jüdische Welt erkennen werde, welchen Wert kulturelle Begegnungen haben, und dass diese eine gegenseitige Bereicherung sind. In ihrem im Juli 2022 verfassten Nachwort muss sie jedoch festhalten, dass die Weltordnung mit dem Krieg Russlands gegen die Ukraine in nur wenigen Monaten eingestürzt ist. Viele Gewissheiten, so schreibt sie, scheinen von den jüngsten Ereignissen überholt. Dennoch werde die Erinnerung an die Verfolgungen der Juden und die Erfahrungen der Vitalität der jüdischen Kultur helfen, Menschlichkeit zu bewahren. Mit ihrer in klarer Sprache geschriebenen Gesamtdarstellung gibt Anna Foa aufschlussreiche und erhellende Einsichten in die Besonderheiten der italienisch-jüdischen Geschichte, den sie trotz Furcht und Schrecken mit einem optimistischen Ausblick abschließt.
Ulrich Wyrwa
Amedeo Feniello/Mario Prignano (a cura di), Papa, non più papa. La rinuncia pontificia nella storia e nel diritto canonico, Roma (Viella) 2022 (La storia. Temi 105), 191 S., ISBN 979-12-5469-191-5, € 25.
Der spektakuläre Rücktritt von Papst Benedikt XVI. 2013 – 598 Jahr nach dem letzten Amtsverzicht eines rechtmäßigen Nachfolgers des Apostels Petrus (Gregor XII.) – hat den Anlass geboten, über das päpstliche Amt generell und die rechtlichen Rahmenbedingungen einer vorzeitigen Beendigung eines Pontifikats auf Grund eines persönlichen Verzichts des Amtsinhabers oder wegen Amtsunfähigkeit zu reflektieren. Der vorliegende Sammelbd. enthält anregende Beiträge von Historikern, Kirchenhistorikern, Rechtshistorikern, Kanonistinnen, Kanonisten, Journalistinnen und Journalisten zu diesem aktuellen Thema. Eine Einführung in die Thematik bietet der erste Text von Roberto Rusconi mit einem chronologischen Überblick vom 3. Jh. (Rücktritt von Papst Pontianus) bis ins 21. Jh., wobei er neben den mittelalterlichen Papstrücktritten (Cölestin V., Schismapäpste), die sich in den kanonistischen Debatten niederschlugen, auch kurz die Vorkehrungen von Päpsten des 20. Jh. für einen Amtsverzicht aus politischen oder gesundheitlichen Gründen beleuchtet. Paolo Golinelli befasst sich eingehend mit den politischen, kanonistischen und prozeduralen Aspekten des Falles von Pietro del Morone (Cölestin V.) und der Charakterisierung des gescheiterten Papstes durch Dante (Inf. III, 60). In der Zeit des großen abendländischen Schismas mit ihren Päpsten und Gegenpäpsten wurden die kirchenrechtlichen Diskussionen über die Rechtmäßigkeit der Wahl zum römischen Pontifex und die Möglichkeiten (viae) eines persönlichen Verzichtes oder einer Aberkennung des päpstlichen Amtes (via cessionis, via conventionis seu discussionis, via compromessi, via concilii) enorm belebt. Johannes Grohe behandelt die wichtigsten Fälle dieser Epoche: Johannes XXIII. (Absetzung auf Druck des Konzils von Konstanz, später von Martin V. zum Kardinal kreiert), Gregor XII. (Amtsverzicht, später wiederum Kardinal), Benedikt XIII. (Absetzung wegen Häresie durch die Konzilien von Pisa und Konstanz), Felix V. (Amtsverzicht, Ernennung zum Kardinal und Legaten auf Lebenszeit durch das nach Lausanne verlegte Baseler Konzil), Clemens VIII. (Amtsverzicht, danach von Martin V. zum Bischof von Mallorca ernannt). Nach einigen allgemeinen einleitenden Bemerkungen zu den historischen und rechtlichen Wurzeln eines Papstrücktritts vergleicht Valerio Gigliotti die Fälle von Cölestin V. und Benedikt XVI., die Gemeinsamkeiten aufweisen (Verzichtserklärung vor der Versammlung der Kardinäle, Wunsch nach Rückzug in ein kontemplatives Leben des Gebets und der Abgeschiedenheit, Zweifel an der Rechtmäßigkeit der Entscheidung), aber auch Unterschiede: Anders als Cölestin war Benedikt durch seine kulturelle und theologische Bildung sowie durch die Erfahrung in der Leitung wichtiger Ämter auf diözesaner und kurialer Ebene (S. 77) für das päpstliche Amt höher qualifiziert. Bei der abschließenden Analyse der Rücktrittserklärung Benedikts werden die wichtigsten Aspekte hervorgehoben (intensive und wiederholte Befragung des Gewissens, Entscheidung aus freien Stücken zum Wohl der Kirche wegen schwacher Gesundheit und hohen Alters). Mit dem Status eines zurückgetretenen Papstes, der bereits im Mittelalter große Unterschiede aufwies, beschäftigt sich Roberto Regoli. Obwohl einige Päpste im 20. Jh. Vorkehrungen für einen erzwungenen (Pius XII.) oder krankheitsbedingten (Pius XII., Paul VI., Johannes Paul II.) Rücktritt getroffen hatten, waren die formalen Rahmenbedingungen für einen zurückgetretenen Papst im kanonischen Recht nicht geregelt, weshalb bis heute eine „assenza di legislazione“ (S. 109) zu konstatieren sei und der Rücktritt Benedikts XVI. zwangsläufig zu einem „atto creativo“ (S. 105) geriet. Gianfranco Ghirlanda reflektiert über munus und potestas des römischen Pontifex, beschreibt vier Möglichkeiten der Vakanz des römischen Stuhls (Tod, Erkrankung, Häresie, Verzicht des Amtsinhabers) und interpretiert die Motive und Folgen eines selbstbestimmten Rücktritts auf der Grundlage von Can. 332 § 2 mit Bezug auf den Amtsverzicht von 2013, wobei er den Erklärungen Benedikts XVI. im Zusammenhang mit dem Rücktritt einen „carattere ecclesiologico e tanto meno canonico“ (S. 133) zuspricht. Vor dem Hintergrund des Desiderats von kirchenrechtlichen Bestimmungen für den Fall der Amtsunfähigkeit eines Papstes einerseits und bezüglich des juristischen Status eines zurückgetretenen Papstes andererseits präsentiert Geraldina Boni ein an der Universität Bologna angesiedeltes internationales Projekt, an dem sich Historiker, Theologen und Kanoniker beteiligen. Über eine digitale Plattform ist ein weiterer Kreis an Spezialisten und Interessenten zur Mitarbeit eingeladen. Im Anhang des Aufsatzes werden Textentwürfe für zwei apostolische Konstitutionen zur Behebung der genannten Lücken des kanonischen Rechts abgedruckt (S. 152–166), die auch online zu konsultieren sind (https://www.progettocanonicosederomana.com; 11.5.2023). Beiträge von zwei Journalisten beschließen diesen Sammelbd. Cristina Caricato beschreibt die Ereignisse des 11. Februar 2013, als sich gegen Mittag die völlig unerwartete Nachricht vom Rücktritt Benedikts XVI. verbreitete, und die letzten großen Momente des zu Ende gehenden Pontifikats mit dem Aschermittwochsgottesdienst (13.2.) und der letzten Generalaudienz (27.2.). Massimo Franco setzt sich mit den Problematiken der Koexistenz von Papst Franziskus und dem zurückgetretenen Papst Benedikt auseinander. Diese päpstliche cohabitation im Vatikan ging am 31.12.2022 zu Ende. Die Debatten über sie werden bleiben.
Alexander Koller
Francesco Benigno/Vincenzo Lavenia, Peccato o crimine. La chiesa di fronte alla pedofilia, Roma-Bari (Laterza) 2021 (i Robinson. Letture), 284 pp., ISBN 978-88-581-4186-1, € 20.
Negli ultimi anni, il dibattito scientifico sugli abusi sessuali nella Chiesa cattolica si è concentrato sulla gestione delle situazioni post-abuso da parte della gerarchia ecclesiastica, soffermandosi su un numero relativamente ristretto di ipotesi (clericalismo, celibato, cultura del silenzio, ecc.). Con „Peccato o crimine“, Benigno e Lavenia mirano a integrare e superare questi approcci, individuando „la vera causa primaria“ della cattiva gestione del problema nella sovrapposizione delle nozioni di peccato e reato, definita come „una cultura condivisa dai fedeli, preti pedofili e gerarchie ecclesiastiche …“ (p. 193). Gli autori illustrano in dettaglio questa tesi in due parti centrali, seguite da una terza sezione dedicata alle conclusioni. La prima parte, intitolata „L’emergere del dramma“, ripercorre le tappe principali della storia più recente del fenomeno, dai primi casi riportati negli Stati Uniti negli anni ’80 alla „progressione incalzante“ (p. 39) di scandali soprattutto dal 2010 in poi, per giungere agli anni 2018–2019 e alle reazioni ultraconservatrici di alcuni membri della gerarchia ecclesiastica (pp. 58 sg.) dinanzi alle critiche sempre più pressanti dell’opinione pubblica. La seconda parte, dal titolo „Sessualità, clero e minori: una storia“, rappresenta il fulcro del volume, e offre una ricostruzione della lunga evoluzione dei concetti legati ai peccati/crimini sessuali, a partire dalle radici pre-cristiane dello sdegno per i rapporti „contro natura“ e in generale per gli atti sessuali non orientati alla riproduzione (segnatamente nella filosofia greca di V e IV secolo a. C.), ma anche dell’insistenza sul contenimento delle passioni e sulla virilità intesa come padronanza di sé (scuole neoplatoniche, stoiche ed epicuree). Il testo procede illustrando il rafforzamento di questa visione durante i primi secoli dell’era cristiana e la completa moralizzazione della sessualità (p. 85) durante il medioevo. In questo periodo, l’equivalenza tra peccato e crimine sessuale diventa più compiuta e finisce per dominare non solo l’ordine ecclesiastico ma anche quello politico e civile. Solo nell’Ottocento, la comparsa di codici e ordinamenti giudiziari di carattere secolare avrebbe determinato un’irreversibile separazione tra crimine e peccato (p. 144). Le norme secolari che punivano gli abusi sessuali (su minori e adulti) non erano però tanto finalizzate a fare giustizia alle vittime, quanto a punire ogni „trasgressione del buon costume borghese“ (p. 146). In seguito, nel corso del Novecento, la crescente attenzione per i minori e per il diritto all’inviolabilità del corpo avrebbe segnato l’inizio di un percorso culturale e intellettuale che sarebbe sfociato in „una nuova concezione della pedofilia come crimine assoluto“ (p. 198). La Chiesa sarebbe invece rimasta legata alla concezione pre-moderna, continuando a inquadrare gli abusi sessuali sui minori nell’ambito della „cultura del peccato gestito con le pratiche sacramentali della confessione e della penitenza“ (p. 77). Nelle conclusioni, gli autori invitano dunque a un salto di paradigma, ovvero a leggere le gravi mancanze della gerarchia ecclesiastica non solo come espressione di una cultura del segreto e della „tendenza di ogni ceto sociale istituzionalmente costituito a proteggersi“ (p. 192), ma anche come effetto della relativamente recente divaricazione „tra la morale cattolica, incentrata sul concetto di peccato, e la nuova sensibilità dell’opinione pubblica al tema dei diritti della persona“ (p. 192). Secondo gli autori, la „non comprensione di questo punto produce l’immagine distorta di comportamenti decontestualizzati“ (p. 193). Lo sforzo di contestualizzazione è sicuramente il punto forte di questo volume, che permette agli autori di inquadrare il fenomeno in modo originale e di inaugurare un nuovo filone di dibattito. Benigno e Lavenia dimostrano che è possibile e necessario portare alla luce ulteriori sfumature e complessità rispetto a quelle finora individuate dagli studi esistenti. Allo stesso tempo, proprio in quanto primo tentativo di aprire la strada a interpretazioni più contestualizzate, il volume riesce a documentare la propria tesi di fondo in maniera convincente ma non ancora esauriente. L’ipotesi formulata dai due autori si presterebbe a una comparazione più sistematica tra il percorso giuridico e culturale secolare e quello cattolico-ecclesiastico, eventualmente focalizzata sugli ultimi due secoli, periodo in cui il divario tra peccato e crimine cresce e si consolida in maniera accelerata. In conclusione, il volume „Peccato o crimine“ possiede un importante potenziale per lo sviluppo di nuovi orientamenti di ricerca relativi alla gestione del problema degli abusi sessuali nella Chiesa, e rappresenta pertanto un contributo molto significativo alla letteratura scientifica su questo tema.
Giulia Marotta
Mariano Dell’Omo, Tra carte e codici. Studi sull’Archivio e la Biblioteca di manoscritti di Montecassino tra medioevo e età moderna, Montecassino (Pubblicazioni Cassinesi) 2021 (Miscellanea Cassinese 89), XIII, 894 pp., ill., ISBN 978-88-8256-089-8, € 105.
L’archivio e la biblioteca dell’Abbazia di Montecassino conservano un tesoro inestimabile e unico al mondo che conosce ora una nuova valorizzazione grazie al volume miscellaneo che don Mariano Dell’Omo OSB, attuale custode e massimo conoscitore delle scritture cassinesi, ha dato alle stampe nel 2021. Come dichiara il titolo „Tra carte e codici“, il volume è chiaramente bipartito in due sezioni, perfettamente speculari: una dedicata alle carte dell’archivio, l’altra ai codici della biblioteca. Ogni sezione ospita tredici saggi, già editi tra il 1998 e il 2020, e qui riproposti con coerenza all’interno di un disegno complessivo che è delineato nel saggio introduttivo, l’unico inedito. Il saggio introduttivo ripercorre la storia delle scritture cassinesi dall’alto medioevo alla contemporaneità. In esso l’autore dà conto della consistenza dei manoscritti superstiti, da quelli più antichi dei secoli VIII–IX, e ricostruisce i mutevoli luoghi di conservazione predisposti nel corso dei secoli presso l’abbazia, a partire dalla „parvula edecula“ tra il palazzo abbaziale e l’abside della chiesa in cui l’abate Desiderio (1058–1087) fece riporre tanto le carte quanto i codici. A Montecassino questi due tipi di scritture furono tendenzialmente considerati come parti distinte di un patrimonio di fatto unitario; come tale, almeno fino all’inizio del Cinquecento, esso fu custodito in un luogo comune e affidato alla cura di un unico ufficiale, parimenti „bibliotecharius et custos archivii“. L’autore ripercorre anche le prime catalogazioni della età moderna, l’incameramento di questo patrimonio da parte del neonato Regno d’Italia, il bombardamento alleato dell’abbazia nel 1944 e la messa in salvo dei manoscritti, prima a Spoleto e poi a Roma, fino al loro ritorno a Montecassino nel 1955. Soffermarsi sul saggio introduttivo è importante poiché esso definisce con chiarezza l’oggetto del volume: l’archivio e la biblioteca di Montecassino. Queste due realtà formano insieme il mosaico di cui ognuno dei ventisei saggi analizza una singola tessera. Le tessere, poi, corrispondono a un particolare manoscritto, o a un gruppo di manoscritti, per ognuno dei quali l’autore propone un’analisi che si articola su più livelli, e nella quale il ragionamento dello storico si coniuga con il rigore del paleografo in una felice sintesi. Anche per questo le appendici ai singoli contributi devono essere considerate come parti pienamente costitutive, e non meramente accessorie, di questi ultimi. Nelle appendici trovano infatti posto, da una parte, le edizioni critiche dei documenti analizzati, dall’altra, le descrizioni dei codici, che tendono a ricalcare la seguente struttura: composizione del codice; materia e pagine; fascicolazione; foratura; rigatura; impaginazione; scrittura e mani; decorazione; legatura; note; testo. Sempre in appendice, sia per i documenti sia per i codici, sono spesso proposte pregevoli riproduzioni fotografiche, mai ornative e sempre funzionali a suffragare le argomentazioni esposte nei singoli contributi. Nella sezione dedicate alle „carte“, spicca il lavoro di grande acribia paleografica sulle sottoscrizioni autografe in documenti del secolo X del fondo archivistico di S. Liberatore alla Maiella, principale prepositura abruzzese di Montecassino. L’autore è riuscito a identificare le mani di ottantasette scriventi, in larga maggioranza laici, sulla base delle quali ha proposto una ricostruzione della cultura grafica dell’area abruzzese, evidenziandone il carattere periferico, soprattutto in rapporto all’adozione, solo parziale, della beneventana. Di rilievo, nella stessa sezione, anche i contributi che affrontano il rapporto tra abati, notariato e prassi scrittorie. L’autore mostra come la consolidata pratica degli abati di Montecassino di ricorrere a notai di propria nomina nella Terra Sancti Benedicti non subì interruzioni neanche dopo gli interventi legislativi di Federico II, che fecero della nomina dei notai una esclusiva prerogativa regia. Un periodo di discontinuità è invece individuato nell’abbaziato di Bernardo Aiglerio (1263–1281), che coincide con l’ascesa angioina in Sud Italia. A questo abbaziato, particolarmente sensibile alle crescenti esigenze di registrazione e di inventariazione dei diritti cassinesi, si devono sia la obbligatorietà della trascrizione nel registro abbaziale di tutti gli atti che a vario titolo coinvolgevano tali diritti, sia l’istituzione dell’ufficio di protonotario al vertice di una cancelleria abbaziale ormai gerarchicamente strutturata. Nella sezione invece dedicata ai „codici“, è preziosa l’analisi del Casin. 575, contenente una silloge di testi per la preghiera personale a complemento della eucologia propriamente liturgica. Il codice, vergato in una beneventana del secolo IX, rivela i rapporti di Montecassino con il mondo carolingio transalpino mediati da Nonantola. Notevole è poi la Bibbia atlantica in un unico volume, il Casin. 515, non solo per il pregio della confezione, ma in quanto essa esprimeva l’adesione dell’abate Desiderio alle linee riformatrici di Gregorio VII. Pressoché coevo al Casin. 515 ed espressione di un’analoga temperie culturale, è il lezionario Casin. 453 con il „Sermo in vigiliis sancti Benedicti“ composto da Pier Damiani a e per Montecassino. Questo codice, inspiegabilmente ignorato nella edizione critica del „Sermo“ apparsa nel volume LVIII del „Corpus Christianorum. Continuatio Mediaevalis“ nel 1983, costituisce in realtà il testimone di riferimento per questo testo damianeo ed è merito dell’autore averlo sottratto all’oblio. Ancora una menzione merita almeno il Casin. 47, codice di apparato della metà del secolo XII dalla esuberante decorazione beneventano-cassinese, esempio eminente di quel particolare libro liturgico chiamato „dell’ufficio del capitolo“. Il necrologio contenuto nel codice – con i suoi 6500 nomi, minuziosamente aggiornati per secoli fino al Quattrocento – fa di questo manoscritto un vero e proprio „documento/monumento delle scritture ultime“. Si può in conclusione osservare che la fatica di don Mariano Dell’Omo – la miscellanea consta di 894 pagine – sia stata coronata da successo. Per molti versi il volume mostra le caratteristiche di un libro autonomo, sostenuto da una chiara intelaiatura concettuale e attraversato da un filo rosso che ne assicura la compattezza. La sua lettura apporta un beneficio qualitativamente superiore a quello che gli studiosi avevano già potuto trarre dalla conoscenza dei singoli contributi in esso confluiti.
Stefano Manganaro
Gian Paolo Brizzi/Carla Frova/Ferdinando Treggiari (a cura di), Fonti per la storia delle popolazioni accademiche in Europa / Sources for the History of European Academic Communities. Atelier Héloïse, Bologna (Il Mulino) 2022 (Studi e ricerche sull’università), 558 S., Abb., ISBN 978-88-15-29561-3, € 42.
Der Tagungsbd. geht auf den 10. Workshop des European Network on Digital Academic History – Héloïse zurück, der 2021 vom Centro interuniversitario per la storia delle università italiane (Cisui) in Bologna ausgerichtet wurde. Das Netzwerk vereint Projekte, die sich mithilfe digitaler Methoden der Erforschung von Universitäten und ihren Mitgliedern widmen. Der Workshop stellte die Frage nach den für prosopographische Recherchen nutzbaren Quellen in den Mittelpunkt. Hervorzuheben ist, dass die Tagungsakten überhaupt veröffentlicht wurden, was bei den Arbeitstreffen des Netzwerks nicht die Regel ist. Es ist ein Verdienst des Cisui, auf diese Weise eine Dokumentation der Arbeit des Héloïse zu gewährleisten. Beachtlich ist weiterhin die hohe Geschwindigkeit der Veröffentlichung, die für die Thematisierung digitaler Methoden und deren Weiterentwicklung zentral ist. Der Preis ist zweifellos, dass zahlreiche Beiträge der Konferenz im Bd. fehlen. Dieser ist mit 31 Beiträgen nichtsdestotrotz sehr umfangreich und spiegelt die Vielfalt der im Netzwerk vertretenen Projekte wider. Er enthält italienisch-, englisch- und spanischsprachige Beiträge und bewahrt somit den traditionell mehrsprachigen Charakter der Tagung. Deutlich zeigt sich ein Schwerpunkt auf spanischen und v. a. italienischen Universitäten, auch wenn sich Bemühungen um eine Einbeziehung weiterer europäischer Regionen (S. 11 f.) bemerkbar machen. Der Unterrepräsentation des Mittelalters gegenüber jüngeren Epochen sind sich die Hg. ebenfalls bewusst und vermuten eine Interessenverschiebung (S. 12). Die zeitliche Spanne erstreckt sich gleichwohl vom späten Mittelalter bis ins 20. Jh. Der Bd. präsentiert die Beiträge in loser thematischer Reihenfolge, meist gruppiert nach Art der behandelten Quellen oder Personengruppen. Vorangestellt ist dem Bd. nach der Einleitung der wegweisende Beitrag von Kaspar Gubler, Pim van Bree und Geert Kessels, die zur Lösung eines Kernproblems des Netzwerks einen Vorschlag zur Interoperabilität der Datenbanken vorlegen. Sie zeigen anhand ausgewählter Projekte, wie sie die Daten unterschiedlich angelegter Datenbanken über dynamische Datenübernahme in einer Metadatenbank harmonisieren konnten. Beiträge, die neue Datenbanken oder Arbeitsstand und Anwendungspotenziale bekannter Projekte vorstellen, sind jene zu den Promovierten der Universität Padua 1222–1989 (Andrea Martini/Dennj Solera/Giulia Zornetta), zu den Studierenden der Universität Cagliari 1620–1946 (Eleonora Todde/Valeria Zedda), zu den italienischen Wirtschaftswissenschaftlern des 19. Jh. (Massimo M. Augello et al.), zu Netzwerken jesuitischer Lehrer 1615–1730 (Alessandro Corsi), zu den Schülern der italienischen seminaria nobilium 16.–18. Jh. (Ilaria Maggiulli) sowie das Anwendungsbeispiel des ASFE zur Mobilität Bologneser Rechtsprofessoren 1500–1796 (Maria Teresa Guerrini). Über den Stand der prosopographischen Erforschung der spanischen Hochschullehrerinnen und -lehrer (19./20. Jh.) berichtet Jean-Louis Guereña. Mit dem Datenbankprojekt „IVS Commune online“ (Maria Alessandra Panzanelli Fratoni) ist zudem eines vertreten, das nicht Personen, sondern (Rechts-)Texte in den Vordergrund rückt (1350–1650). Die übrigen Beiträge widmen sich dem Thema der Quellen. Eine große Bedeutung hat in der prosopographischen Universitätsgeschichtsforschung die serielle Überlieferung, auf der dementsprechend ein Schwerpunkt liegt. Serielle Quellen zu spanischen Professorinnen und Professoren präsentieren Javier Carlos Díaz Rico und Manuel Martínez Neira für den Zeitraum 1939–1983 sowie Agustín Vivas Moreno für die Universität Salamanca (16.–18. Jh.). Die Nutzung demonstriert Francisco Javier Rubio Muñoz für eine prosopographische Untersuchung der Professoren Salamancas (1570–1600). Bestimmte Serien, namentlich Sitzungsprotokolle, Personalakten und rotuli lectorum, nehmen Carlos Fernando Teixeira Alves, Piergiovanni Genovesi und Regina Lupi für die Universitäten Coimbra (1772–1820), Parma (1945–1951) bzw. Perugia (1711–1726) in den Blick. Auch auf Seiten der Studierenden wird der seriellen Überlieferung besondere Aufmerksamkeit geschenkt, etwa den vatikanischen Registerserien (Ludwig Schmugge/Carla Frova), der Matrikel des Collegio Capranica in Rom (Simona Negruzzo), den Studierendenakten der Universitäten Padua und Florenz 1952–1961 (Adriano Mansi/Giovanni Focardi) sowie den Quellen zu spanischen Promovenden an italienischen Universitäten bis 1800 (Rafael Ramis-Barceló). Sämtliche Universitätsmitglieder betreffen Gerichtsakten, die sowohl für die akademische Gerichtsbarkeit am Beispiel der Universität Krakau (Maciej Zdanek) als auch als Quelle nicht-universitärer Provenienz für das Pariser Finanzgericht Cour des Aides (Martina Hacke) thematisiert werden. Daneben wird die Nutzung nicht-serieller Quellen diskutiert, wobei eine Vielzahl an Quellengattungen zur Sprache kommt, z. B. normative Quellen wie Statutenbücher spanischer Studentenkollegs (Dámasio de Lario), Sachquellen wie Grabmäler Paveser Professoren (Gianpaolo Angelini) sowie Gedenktafeln und Statuen italienischer Professoren im 19. und 20. Jh. (Valentino Minuto) oder Bildquellen wie Fotografien als didaktisches Medium an der Universität Genua im 20. Jh. (Martina Massarente). Außerdem finden literarische Quellen Beachtung, so in Form von Nekrologen des 19./20. Jh. (Luigiaurelio Pomante) und Gedichten am Beispiel Pavias 1790 (Laura Madella). Massimo Galtarossa illustriert für die Studenten Paduas im 18. Jh. das Zusammenspiel literarischer Quellen mit Prozessakten und Chroniken. Ebenso unterstreicht Adinel C. Dincă in Bezug auf höhere Bildung und Wissenszirkulation in Transsylvanien um 1500 das Potenzial unterschiedlicher Quellen wie Korrespondenzen, wissenschaftliche Texte und Empfehlungsschreiben. Auf eine Kombination verschiedener Quellentypen stützen sich auch die Studien von Mirella D’Ascenzo zum Einfluss der Universität Bologna auf die Ausbildung von Lehrkräften (19./20. Jh.) und Daria Gabusi zur italienischen Universität 1943–1945. Insgesamt leistet der Bd. einen wichtigen Beitrag zur Dokumentation der Arbeiten des Netzwerks Héloïse und zeugt von der Entwicklung der prosopographisch orientierten Universitätsgeschichtsschreibung. Die Nutzung digitaler Methoden ermöglicht neue Zugänge, und die Vielfalt der Projekte und Studien zeigt, dass die Anwendbarkeit weit über die prosopographische Forschung und die Bearbeitung serieller und universitärer Quellen hinausgeht. Für die Einbeziehung weiterer Quellengattungen und methodischer Ansätze liefert der Bd. zahlreiche Impulse.
Lotte Kosthorst
Soziale Mobilität in der Vormoderne. Historische Perspektiven auf ein zeitloses Thema. Akten der internationalen Tagung Brixen, Bischöfliche Hofburg und Priesterseminar 11. bis 14. September 2019, hg. von Gustav Pfeifer/Kurt Andermann, Innsbruck (Universitätsverlag Wagner) 2020 (Veröffentlichungen des Südtiroler Landesarchivs 48), 451 S., Abb., ISBN 978-3-7030-6538-5, € 44,90.
Vergleichende Landesgeschichte aus Tiroler Perspektive bieten die Tagungen von Kurt Andermann (Karlsruhe) und Gustav Pfeifer (Bozen), die bereits dreimal in Brixen mit Unterstützung des Südtiroler Landesarchivs und der Hofburg Brixen ausgerichtet und in der Schriftenreihe des Landesarchivs veröffentlicht wurden. Nach „Die Wolkensteiner. Facetten des Tiroler Adels in Spätmittelalter und Neuzeit“ (erschienen 2009), „Ansitz – Freihaus – corte franca“ (erschienen 2013) und „Burgkapellen. Formen – Funktionen – Fragen“ (erschienen 2018) gilt der nun vorliegende Tagungsbd. einem Thema, das von epochenübergreifender Relevanz ist, auch für die Vormoderne, wie die Hg. im Vorwort betonen, dessen gesellschaftliche Dynamik nicht immer gesehen wird. Die Tagung und der Tagungsbd. (alle Referate konnten für den Druck eingeworben werden) sind thematisch einerseits auf Tirol, Österreich und die Donaumonarchie fokussiert, blicken über Welschtirol auch nach Italien, verbinden diese Perspektive aber mit Themenstellungen, die allgemeiner ausgerichtet sind (Universitätsabsolventen) oder Aufstiegsphänomene in anderen Städten und Regionen (Adel in Zürich, sog. Ehrbarkeit in Württemberg, dörfliche Oberschicht in Südwestdeutschland, Juden im spätmittelalterlichen Deutschland) in den Blick nehmen. Darüber hinaus geht es um hochmittelalterliche Ministerialität, Bergbaugewerke, frühneuzeitlichen Adel und Bürgertum im Übergang zur Moderne. Das Spektrum der Fallstudien reicht zeitlich also von etwa 1200 bis 1800 und wird gerahmt von zwei Beiträgen. Zunächst wird einleitend soziale Mobilität als ein Grundproblem nicht nur der europäischen Gesellschaftsgeschichte herausgestellt und andererseits steht am Ende der Versuch, eine Bilanz der facettenreichen Tagung zu ziehen. Im Einzelnen sind die folgenden Beiträge zu nennen: Thomas Ertl, „Soziale Mobilität in Mittelalter und früher Neuzeit. Fragen – Kontroversen – Thesen“ (S. 9–31), Roman Zehetmayer, „Aufstieg im Hochmittelalter. Die Ministerialen in den Herzogtümern Österreich und Steier“ (S. 33–64); Gustav Pfeifer, „Amt, Ansitz, Burg. Momente sozialer Mobilität im ausgehenden Mittelalter am Beispiel der Gerstl von Gersburg“ (S. 65–92); Peter Niederhäuser, „Vom alten zum neuen Adel. Soziale Mobilität im spätmittelalterlichen Zürich“ (S. 93–109); Nina Gallion, „Von Aufsteigern und Adelsgleichen. Soziale Mobilität in den württembergischen Amtsstädten des späten Mittelalters“ (S. 111–127); Kurt Andermann, „Die Vornehmen in der Gemeinde. Überlegungen zu dörflichen Oberschichten im deutschen Südwesten während des späten Mittelalters und der frühen Neuzeit“ (S. 129–143); Markus J. Wenninger, „‚Von fideles nostri … Iudaei zu Jud!‘ Der soziale Abstieg des deutschen Judentums im späteren Mittelalter am Beispiel ausgewählter Problembereiche“ (S. 145–171); Rainer Christoph Schwinges, „Aufstieg durch Bildung? Die soziale Rolle der Universitäten des 14. bis 16. Jahrhunderts“ (S. 173–194); Armin Torggler, „Sozialer Aufstieg durch Bergbau. Chancen und Ambitionen von Gewerken im Tiroler Bergbau des späten Mittelalters und der frühen Neuzeit“ (S. 195–220); Nadia Pichler, „Das Bildprogramm der ‚Trinkstube‘ in Bruneck als Zeugnis sozialer Mobilität am Beginn der Neuzeit“ (S. 221–235, mit acht Farbtafeln); Andrea Bonoldi, „La mobilità sociale dei mercanti nel Tirolo meridionale tra status e razionalità economica. Pietro Zenobio e gli altri (secoli XVII–XIX)“ (S. 237–256); Erika Kustatscher, „Fürstendiener oder Standesvertreter? Adel im frühneuzeitlichen Tirol am Beispiel der Ingram aus Lajen“ (S. 257–270); Michael Hochedlinger, „Adlige Abstinenz und bürgerlicher Aufstiegswille. Zum Sozial- und Herkunftsprofil von Generalität und Offizierskorps der kaiserlichen und k. k. Armee im 17. und 18. Jahrhundert“ (S. 271–349); Evi Pechlaner, „‚… nun hinfüran der Burgerschafft allhir einverlkeibt‘. Sozialer Aufstieg im Bozen des 18. und 19. Jahrhunderts am Beispiel der Familie Hepperger“ (S. 351–386); Hannes Heiss, „Aufsteiger mit langem Atem. Die Südtiroler Familien Amonn und Pretz im 19. Jahrhundert“ (S. 387–404); Oliver Auge, „Bilanz der Tagung“ (S. 405–417). Einen Sammelbd. zu besprechen ist immer problematisch, weil das Konzept zumeist auf Fallstudien beruht, die auf der einen Seite ein grundsätzliches Problem beleuchten sollen, auf der anderen Seite aber nur exemplarisch vorgehen können. Den Gesamtentwurf einer Gesellschaftsgeschichte der Vormoderne, wie ihn Hans-Ulrich Wehler für Deutschland ab dem 18. Jh. vorgelegt hat, gibt es bislang weder für Tirol, Österreich noch Deutschland. Der vorliegende Bd. liefert dazu wichtige Bausteine und ermuntert dazu, anstelle letztlich beliebiger kulturalistischer Perspektiven eher die „harten“ Entwicklungslinien der Gesellschaftsgeschichte zu verfolgen. Forschungsgeschichtlich überrascht es, dass abgesehen von einem Beitrag, bezeichnenderweise aber nicht dem über Ministerialität, der Mittelalter-, Gesellschafts- und Landeshistoriker Karl Bosl nicht genannt wird, obwohl sein Bild des Aufbruchs Europas im Hochmittelalter ganz stark auf das Phänomen der sozialen Mobilität rekurrierte. Es gehört heute zum guten Ton, Karl Bosl zu ignorieren, aber das ändert nichts daran, dass er in den 1960er und 70er Jahren ein bedeutender und thesenfreudiger Anreger der vormodernen Gesellschaftsgeschichte war und dabei stets auf die Notwendigkeit landesgeschichtlicher Perspektiven verwiesen hat. Thematisch ist überraschend, dass alle erdenklichen sozialen Gruppen angesprochen werden, nur der Klerus nicht, auch wenn natürlich Geistliche in reicher Zahl unter den in einem Beitrag eigens behandelten Universitätsabsolventen des späten Mittelalters zu finden sind. In Brixen hätte es nahe gelegen, Nikolaus von Kues zu thematisieren, der seit 1452 Bischof von Brixen war und damit vom Sohn eines Flussschiffers zum Reichsfürsten aufstieg. Auch diese kritischen Anmerkungen profitieren davon, dass man im Bd. dank gründlicher Orts- und Personenregister gezielt suchen kann. Die vorzügliche Bebilderung, die vor allem der interessanten Fallstudie über die Fresken der Brunecker Trinkstube aus dem 16. Jh. zugutekommt, ist eigens hervorzuheben.
Enno Bünz
Mittelalter
Chiara Frugoni, Paure medievali. Epidemie, prodigi, fine del tempo, Bologna (Il Mulino) 2020 (Grandi illustrati), 395 S., Abb., ISBN 978-88-15-29064-9, € 40.
Ängste sind kein Charakteristikum des Mittelalters, sie kennzeichnen die jüngeren wie älteren Epochen und unsere Gegenwart nicht weniger als das Millenium zwischen Antike und Neuzeit. Und tatsächlich waren die großen Ängste zu Beginn der Covid-Pandemie 2019 begleitende Faktoren in der Entstehung des Buches, wie die Autorin in dem sehr knappen, nur zweiseitigen Prolog erläutert (S. 7). Dabei nahm die im April 2022 verstorbene Vf., Chiara Frugoni, eine Sonderstellung in der italienischen Mediävistik ein: Seitdem sie mit ihrer Monographie über „das Mittelalter auf der Nase“ (2001) reüssiert hat, waren neben ihrer engeren Expertise Titel über das Mittelalter für ein breites Publikum ihre Spezialität, die doch auch in der Fachwissenschaft gelesen wurden. Fast im Jahrestakt hat sie solche Monographien über Mensch und Tier, über Frauen, Männer und Kinder, über die gute wie schlechte Regierung vorgelegt – und nun eben ein Buch über die ‚mittelalterlichen Ängste‘. Damit liegt ein Vergleich nahe mit Klassikern wie Jean Delumeaus zweibändiger Monographie „La peur en occident“ (1978), und wenig überraschend überschneiden sich die Themen beider Bücher: Angst vor dem Fremden, vor Hunger, vor Seuchen, vor dem Ende der Welt. Von den insgesamt fünf Kapiteln widmen sich zwei den Epidemien (mit Schwerpunkten auf Lepra und Pest), und je eines den eschatologischen Ängsten, der Furcht vor Hungersnot und Elend sowie der Angst vor dem Anderen, Fremden. Der chronologische Rahmen, den Frugoni spannt, greift weiter aus als Delumeau – nämlich bis ins Frühmittelalter – und spart die Frühe Neuzeit aus. Somit hätte eine spezifisch mittelalterliche Angst charakterisiert werden können, oder zumindest ein Entwicklungsbogen über die Großepoche hinweg. Allein, dies bleibt aus – die Kapitel reihen Beleg an Beleg und präsentieren (häufig in Italien angesiedelte) Beispiele, manchmal bis zur nützlichen Mikrostudie hin entwickelt, mit gut gewählten Illustrationen in hoher Qualität. Das Unterkapitel (S. 147–164) zur gesamtitalienischen Hungersnot 1329/1330, die besonders eindrücklich in den als „Libro del Biadaiolo“ bekannten Aufzeichnungen des Florentiner Getreidehändlers Domenico Lenzi überliefert wurde, macht Nutzen und Grenzen der Monographie exemplarisch deutlich: Nach knapper Einführung zum Werk beschreibt Frugoni und interpretiert, auch im Rückgriff auf Giovanni Villanis „Nuova Cronica“, ausführlich die eindrücklichen Miniaturen von reicher und knapper Getreideernte und der jeweiligen Lage auf dem Florentiner Getreidemarkt, dem Orsanmichele. So anschaulich und einsichtsreich diese Arbeit direkt an und mit den Bildquellen auch ist, eine Einbindung in den größeren Kontext der Hungersnot bleibt weitgehend aus, und auch eine engere Rückbindung an das übergeordnete Thema der Ängste fällt eher schwach aus. Betrachten wir als zweites Beispiel die Überlieferung zur Ankunft des Schwarzen Todes in Italien im Jahr 1348, die Frugoni anhand zweier klassischer Texte thematisiert, dem Bericht des Gabriele de’ Mussi „Historia de morbo sive mortalitate“. Auch hier wird die eindrückliche, freilich nicht allein wegen der fehlenden Augenzeugenschaft de’ Mussis problematische Überlieferung mehr paraphrasiert als kritisch eingeordnet. Eine Darstellung der göttlichen Strafe für die Philister (1. Sam 5, 5–6) in einer französischen Bibel des 13. Jh. wird assoziativ dem Pestbericht de’ Mussis hinzugefügt – weil dort, selten genug, Seuchenopfer und Nagetiere in einer Darstellung vereint wurden. Mit der Pest freilich hat diese Darstellung nichts zu tun. Anders liegt der Fall bei einer eindrücklichen Miniatur (S. 309), einer Figuration des Todes, die einen Pestkranken (er-)würgt, aus den Traktaten des böhmischen Adligen Tomáš Štitny ze Štitného von 1376. Sie könnte hoch relevant sein, wird aber ohne Literaturverweis nur nach dem Augenschein beschrieben (S. 308). Die Auswahl der Beispiele durch die Autorin bleibt also manches Mal fragwürdig und wirkt eher assoziativ gewählt als argumentativ durchkomponiert. Im Resümee: Als Panorama, als Steinbruch und vereinzelt als Ausgangspunkt für weitere Forschungen ist die Monographie zweifellos nützlich. Worauf man freilich vergeblich wartet sind methodische Überlegungen, wie sich Angst – kollektiv oder individuell – in den Quellen greifen und dann für die Geschichtsforschung konzeptualisieren ließe. Hier war Jean Delumeau schon vor 40 Jahren sorgfältiger. Es ist freilich bedauerlich, eine der letzten Monographien einer großen Mediävistin eher als Panoramagemälde werten zu müssen denn als analytisches Werk; denn dass Chiara Frugoni auch im fortgeschrittenen Alter noch anderes zu leisten in der Lage war, zeigt nicht zuletzt ihr „Paradiso visto inferno“ (2016) zu den Fresken Ambrogio Lorenzettis in Siena, das auf jahrzehntelange Forschungen Frugonis bauen konnte.
Martin Bauch
Ermanno Orlando, Le repubbliche marinare, Bologna (Il Mulino) 2021 (Universale paperbacks Il Mulino), 216 pp., ISBN 978-88-15-29198-1, € 14.
La denominazione „repubbliche marinare“ unisce, secondo il canone storiografico e culturale, le città di Amalfi, Pisa, Genova e Venezia nella loro espansione economica e vocazione marittima medievali. Se la storiografia ha da tempo attestato – sulla scia di Arsenio Frugoni (1958) e Armando Lodivini (1963) – l’ambiguità del termine „repubblica“ per accomunare le loro eterogenee forme istituzionali e ne ha rimesso in questione il numero, il titolo rimane vivo nel folklore e nell’immaginario collettivo italiani. Pur riconoscendone la problematicità storiografica, Ermanno Orlando, professore di Storia medievale all’Università per Stranieri di Siena, risponde con questo volume „al mito e alla forza seducente“ (p. 192) dell’epiteto, ripercorrendo le strade convergenti e divergenti della storia di Amalfi, Pisa, Genova e Venezia. In otto capitoli, l’autore si muove tra la loro affermazione quali singoli nuclei indipendenti dopo la caduta dell’impero romano d’Occidente e il sostanziale ridimensionamento del Mediterraneo alla fine del Medioevo. Obiettivo è esplorare la dimensione marittima della loro storia comune, assumendo un „angolo visuale … dal mare e sul mare“ (p. 11) di esplicita ispirazione braudeliana. Lo studio di Orlando rispecchia in questo modo il rinnovato interesse storiografico, capitanato, oltre che dall’autore stesso, da Egidio Ivetic, Antonio Musarra e Sandra Origone, per la storia di queste città, prese singolarmente o in confronto, nella storia mediterranea. Apre il volume l’anomala storia di Amalfi, la prima delle quattro città a sorgere come potenza marittima. Essa fu anche la prima a scomparire dal quadro internazionale, tramontando su un Mediterraneo nel quale le rotte parallele di Pisa e Genova si scontravano con energia crescente. Queste evoluzioni tra convivenza forzata e rivalità costante sono ripercorse nel secondo capitolo. L’ascesa adriatica di Venezia viene affrontata invece dal terzo capitolo, che si chiude all’alba delle crociate, a cui si dedica il capitolo seguente. In esso, l’autore sottolinea le occasioni di espansione commerciale ed economica nel Mediterraneo orientale di cui approfittarono a turno, in alternanza e in reazione, Pisa, Genova e Venezia tra la prima e la quarta crociata. I capitoli seguenti tracciano i conflitti pisano-genovesi e veneto-genovesi per la supremazia mediterranea, rilevando le notevoli capacità di mobilitazione di risorse, di rigenerazione e di organizzazione delle tre città. Riprendendo l’attenzione prestata nel corso del primo capitolo al rifiuto di tesi prettamente congiunturali sull’ascesa e, in particolare, sul tramonto amalfitani, Orlando dedica anche in questi capitoli spazio ad un’analisi strutturale delle fasi di declino e rinascita di Pisa, Genova e Venezia. La prospettiva si espande così, sulla rotta tracciata in particolare da Marco Tangheroni, da singoli eventi quali la battaglia della Meloria (1284) e la guerra di Chioggia (1378–1381) alla riconsiderazione di fattori istituzionali, economici, culturali e ambientali nell’analisi dei giochi per il predominio sul Mediterraneo. Significativo risulta anche in quest’ottica il capitolo settimo, dedicato alle dipendenze oltremare delle città e all’analisi di similitudini e divergenze in quanto al loro stabilimento, finanziamento e gestione. Orlando pone in rilievo in particolare il termine di commonwealth quale denominazione per le strutture genovesi (pp. 158 sg.) e veneziane (pp. 163 sg.). L’ottavo capitolo infine ripercorre il rilancio di Venezia dopo la sconfitta di Chioggia, così come le trasformazioni tardomedievali, che attestarono il dominio aragonese sul Tirreno e tramutarono l’Adriatico in un „lago ottomano“ (pp. 178 sg.). Nella conclusione l’autore offre una prospettiva post-medioevale e riprende mito e memoria della storia medievale delle quattro città marinare. Chiude il volume una lista di letture d’approfondimento suddivise tematicamente e cronologicamente, che si muovono tra gli anni ’30 e il 2020, così come un indice onomastico e toponomastico. Lo studio di Orlando colpisce per la sua unità e scorrevolezza, offrendosi quale introduzione e compendio apprezzati ad uno studio più approfondito delle città marinare italiche. La mancanza di riferimenti bibliografici (vedi ad esempio nel caso del termine commonwealth, p. 158), dovuta anche al formato del volume, rende a tratti difficoltosa allo storico che raramente naviga nelle acque medievali della penisola la contestualizzazione delle posizioni presentate, assunte o rifiutate dall’autore. L’analisi collettiva delle quattro città risulta convincente, in particolare abbracciando la proposta di Orlando di scostarsi dal termine „repubbliche“, e preferire il mare che le unisce quale denominatore comune della loro storia. Proprio in questa prospettiva risulta però quasi forzata non tanto la scelta di concentrarsi su Amalfi, Pisa, Genova e Venezia, quanto la quasi totale assenza delle altre realtà marinare, italiche e non – quali Barcellona o Ragusa – dalla visuale mediterranea dell’autore. Dal punto di vista stilistico, la lettura è resa particolarmente gustosa dalle disseminate figure di stile prese in prestito proprio dal mondo marittimo.
Teresa Steffenino
Handbuch der benediktinischen Ordensgeschichte. Bd. 1: Von den Anfängen bis ins 14. Jahrhundert, hg. von Marcel Albert, St. Ottilien (EOS-Verlag) 2022 (Studien und Mitteilungen zur Geschichte des Benediktinerordens und seiner Zweige. Ergänzungsbände 57), 688 S., ISBN 978-3-8306-8131-1, € 49,95.
Den Darstellungen des 20. Jh. zur benediktinischen Geschichte (Stephan Hilpisch, Philibert Schmitz) folgten zuletzt die Einführungen von Christoph Dartmann und Mirko Breitenstein sowie Mariano Dell’Olmos „Geschichte des abendländischen Mönchtums“. Mit dem vorliegenden ersten von insgesamt vier Bde. des Handbuchs der benediktinischen Ordensgeschichte präsentiert die Bayerische Benediktinerakademie nun die ersten Ergebnisse eines weiteren umfassenden Überblickswerks. In der Einleitung (S. V–XI) schildern Marcel Albert und seine Mitarbeiterin Anja Ostrowitzki ihr Vorgehen: Ziel sei es, den aktuellen Forschungsstand abzubilden, aber auch Forschungslücken zu schließen und neue Perspektiven zu eröffnen. Nur am Rande finde die Entwicklung der Benediktinerinnen und des Zisterzienserordens Berücksichtigung. Aufgrund der thematischen Breite habe man sich für 26 verschiedene, in den jeweiligen Teilbereichen spezialisierte Autorinnen und Autoren entschieden. Der Bd. ist in vier Teile untergliedert: das Zeitalter der Regelentwürfe, die Entwicklung des Mönchtums vom 9. bis zum 11. Jh., Diversifizierung vom 11. bis zum 14. Jh. sowie Klöster und Wirtschaft im 9. bis 14. Jh. Diese teilen sich wiederum in 28 Unterkapitel, an deren Beginn themenrelevante Literaturtitel und ggf. Quellen aufgeführt sind. Die ersten drei Teile werden jeweils mit einer synthetisierenden Einleitung und einem Fazit über den Beitrag der Klöster zur Kultur gerahmt. Im ersten Teil (S. 3–127) wird die Genese des benediktinischen Mönchtums dargelegt. In den ersten Jahrhunderten des Christentums entstanden unterschiedliche monastische Lebensformen, die schließlich auch ihre Normen schriftlich fixierten. Die „Regula Benedicti“ als Produkt der Mischregelobservanz gewann im Frühmittelalter immer größere Anerkennung. Bei dieser Entwicklung wird bereits eine geografische Weiträumigkeit deutlich, die sich in den einzelnen Abschnitten spiegelt (beispielsweise vorbenediktinisches Mönchtum in Syrien, Nordafrika etc.). Der zweite Teil (S. 131–427) behandelt die Vereinheitlichung der Benediktsregel in karolingischer Zeit sowie ihre Applikationen und Modifikationen bis zum 11. Jh., was mit einer gesteigerten Schriftlichkeit einherging. Diese „Reformen“ begannen im 9. Jh., setzten je nach Region jedoch später ein. Entscheidend hierfür war zunächst das una regula-Prinzip Benedikts von Aniane, das Ludwig der Fromme in den 810er Jahren übernahm. Es entwickelten sich nachfolgend unterschiedliche Reform-Modi, bei denen die Abhängigkeit der Niederlassungen vom Reformkloster differieren konnte. Eine ausführliche Betrachtung wird dem Klosterverband Cluny zuteil, der sich bis 1100 in Westeuropa konsolidieren konnte und durch die liturgische Memoria charakterisiert war. Parallel dazu entstanden mehr oder weniger cluniazensisch geprägte Reformgruppen, etwa Fleury, Fruttuaria oder Hirsau, die sich gegenseitig beeinflussen und miteinander in Austausch stehen konnten. Weiterhin werden die Reformen in England, der Normandie und in der Auvergne sowie die ostmitteleuropäische Mission beleuchtet. Die sozial-religiösen Dynamiken des Hoch- und beginnenden Spätmittelalters sind Thema des dritten Teils (S. 425–582). Diese verursachten eine zunehmende Institutionalisierung und Neujustierung der Benediktsregel, aber auch Klostergründungen im Norden und Osten Europas. Ein herausragendes Beispiel für die neue Modellierung des ordo stellt die Genese des Zisterzienserordens zu Beginn des 12. Jh. dar. Gleichzeitig nahmen neue religiöse Lebensformen und Frauen- bzw. Doppelklöster zu. Dann werden die ersten Reaktionen auf diese Dynamiken sowohl der etablierten als auch der sich neu formierenden Reformgruppen (beispielsweise Olivetaner) skizziert. Der vierte Teil (S. 585–604) eruiert die wirtschaftshistorischen Potentiale der Benediktinergeschichte. Das Buch schließt mit einem Register für Orte und Personen. Auch einige Sachbegriffe sind aufgeführt; nach welchen Kriterien diese ausgewählt werden, wird leider nicht geklärt. Durch die übersichtliche Gliederung, die Fußnoten und die unterkapitelspezifischen Literaturlisten ist das Handbuch trotz seiner über 600 Seiten sehr gut benutzbar. Es liefert daher einen guten historischen Abriss. Einzig der vierte Teil folgt einem anderen Zugriff, da der ökonomische Aspekt systematisch und nicht eingeflochten in die Chronologie abgehandelt wurde wie etwa derjenige der Kultur. Das Buch verzichtet auf die Klärung grundlegender Begriffe wie etwa „Kommende“ und arbeitet auch nicht mit Infokästen, exemplarischen Quellenbeispielen, Abb. oder Grafiken – dies hätte für Studienanfänger sinnvoll sein können; es ist aber auch nicht explizit an solche gerichtet. Dass ein analoges Handbuch über die Benediktinerinnen weiterhin aussteht, kann bedauert werden. Dennoch bleibt festzuhalten, dass die Publikation ihrem Anspruch, der Ordensgeschichte „neue Möglichkeiten aufzeigen zu können“ (S. XI), gerecht geworden ist, da die geografische und methodische Vielfalt der Benediktinerforschung deutlich wird.
John Hinderer
Sarah E. Thomas (Ed.), Bishops’ Identities, Careers, and Networks in Medieval Europe, Turnhout (Brepols) 2021 (Medieval Church Studies 44), IX, 312 pp., ill., ISBN 978-2-503-57910-8, € 85.
Il ruolo del vescovo all’interno della Chiesa e della società è senz’altro uno degli aspetti più caratteristici e costanti del mondo medievale. Sebbene tale assunto sia difficilmente contestabile, nella storiografia sui secoli di mezzo troppo spesso tale figura rischia di essere adombrata, quasi assorbita da evoluzioni istituzionali che sembrano depotenziarla e di fatto sostituirsi al ruolo centrale del presule ereditato dai secoli alto-medievali. Questa tendenza è particolarmente spiccata per i secoli del pieno e del tardo medioevo, allorché si verificarono fenomeni in un certo senso concorrenti del potere episcopale: si pensi per esempio alla centralizzazione papale, alla nascita dei nuovi ordini religiosi e allo sviluppo dell’autogoverno cittadino. Se è vero che tali eventi ridimensionarono i margini di azione che sin dal Tardoantico e per i secoli alto-medievali erano propri dei vescovi, non per questo l’influenza di questi venne meno. Al contrario, è estremamente interessante notare come un tradizionale vettore del potere religioso e politico, quale il vescovo, seppe rimodulare la propria presenza nella società dei secoli centrali e finali del medioevo. Negli ultimi decenni hanno visto la luce importanti studi che hanno approfondito queste tematiche, basti citare il volume di Maria Pia Alberzoni su „Città, vescovi e papato nella Lombardia dei Comuni“ (Novara 2001), i lavori di Mauro Ronzani e, più recentemente, il corposo libro di Nicolangelo d’Acunto „Cum anulo et baculo. Vescovi dell’Italia medievale dal protagonismo politico alla complementarietà istituzionale“ (Spoleto 2019). Alla luce di questo breve abbozzo storiografico il volume curato Sarah E. Thomas „Bishops’ Identities, Careers, and Networks in Medieval Europe“ costituisce senz’altro un contributo prezioso. Esso raccoglie gli atti dell’omonimo convegno celebrato all’University of Aberdeen il 26 e il 27 maggio 2017 in chiusura del progetto Arts and Humanities Research Council AHRC „A Prosopographical Study of the Bishops’ Careers in Northern Europe“. Nell’introduzione redatta dalla curatrice sono esposti chiaramente gli approcci metodologici impiegati per ciascuno dei quattro nuclei in cui sono suddivisi i tredici contributi raccolti. Il primo di questo è di carattere prosopografico e ha come oggetto il seguito del vescovo („Cohorts of Bishops“); il secondo, incentrato sullo studio delle relazioni attraverso il metodo della Social Network Analysis, analizza le reti personali dei presuli („Episcopal Networks“); il terzo è caratterizzato da saggi di taglio biografico su singole personalità che ricopersero il soglio episcopale („Individual Bishops“); l’ultimo sui rapporti tra le sedi diocesane e il papato („Bishops and the Papacy“). A questa griglia tematica corrisponde un ampio spettro geografico che travalica l’ambito privilegiato da Thomas, ossia il mondo anglo-sassone e scandinavo, e che pure rimane preponderante grazie ai contributi di Katherine Harvey, Steinar Imsen e Kirsi Salonen. Nondimeno, sono prese in esame altre aree come l’Italia (Stefano G. Magni, Jacopo Paganelli, Fabrizio Pagnoni), la penisola iberica (Hermìnia Vasconcelos Vilar, Aìda Portilla González, Fernandos Gutiérrez Baños, Susanna Guijarro), l’Europa centro-orientale (Jacek Maciejewski), e la Francia (Christine Barrails). In margine alla scelta di questi ambiti territoriali, occorre forse segnalare la mancanza di due regioni che avrebbero certamente offerto ulteriori spunti interessanti, come l’impero romano-germanico e il Mezzogiorno italiano. In ogni caso, un tale ventaglio geografico consente un raffronto assai proficuo in particolare su un aspetto di primissimo interesse, ossia i fattori che facilitavano la carriera ecclesiastica, che potevano essere il rapporto con il capitolo, i legami con il potere regio, la fedeltà alla sede romana, senza dimenticare, soprattutto per quel che concerne la penisola italiana, il ruolo notevole del retaggio famigliare e del cosiddetto nepotismo. È inevitabile che le importanti acquisizioni relative agli ambiti considerati nel volume possano illuminare solamente alcuni aspetti delle ampie tematiche affrontate, ragione per la quale è auspicabile che siano intrapresi studi più sistematici, affinché possano essere messe a frutto le metodologie proposte nel volume recensito, la cui fruizione è anche agevolata da un indice topografico e onomastico. In conclusione, il volume curato da Sarah Thomas rappresenta nell’insieme un importante contributo a un tema, quello della storia dell’istituzione vescovile, che necessita di un rinnovato interesse storiografico, soprattutto tenendo conto degli approcci e delle metodologie che la ricerca ha messo a punto negli ultimi decenni.
Alberto Spataro
Agostino Paravicini Bagliani/Francesco Santi (Hg.), La situazione degli studi sul Medioevo latino. In memoria di Peter Stotz, a vent’anni da un incontro a Zurigo, Firenze (SISMEL. Edizioni del Galluzzo) 2022 (mediEVI 34), XII, 132 S., ISBN 978-88-9290-156-8, € 26.
Die institutionelle Verankerung mittellateinischer Studien an den Universitäten verdankte (und verdankt) sich der Initiative einzelner brillanter und ausgesprochen durchsetzungsstarker Köpfe. Dazu gehört der von 1993–2007 in Zürich lehrende, 2020 verstorbene Peter Stotz. Er konnte im Jahr 2000 eine Tagung organisieren, die sich bilanzierend mit der Erforschung des lateinischen Mittelalters an der Schwelle zum neuen Jahrtausend auseinandersetzte. Rund 20 Jahre später ist es nun Zeit für eine erneute Bestandsaufnahme. Wie präsent ist die Mittellateinische Philologie an den Universitäten? Welche Forschungsprojekte wurden und werden von ihr angeregt und verfolgt? In welchem Umfang wird der interdisziplinäre Austausch gepflegt? Wie ist es um die Karrierechancen all derer bestellt, die sich auf das Wagnis eines Mittellateinstudiums einlassen? Auf diese Fragen gibt ein schmaler Sammelbd. Antwort, der nicht ganz zufällig dem Gedenken an Peter Stotz gewidmet ist (sein opulentes Schriftenverzeichnis findet sich auf den S. 95–121). Behandelt werden England (Michael Lapidge), Italien (Enrico Menestò), die Iberische Halbinsel (Paulo Farmhouse Alberto), Frankreich (Jean-Yves Tilliette), die Schweiz (Gerlinde Huber-Rebenich) und Deutschland (Martina Hartmann), letztere Region freilich thematisch verengt auf die Bedeutung der mittellateinischen Philologen (von Ludwig Traube bis Peter Stotz) für die Monumenta Germaniae Historica. Einige rote Fäden durchziehen das Gesamt der Beiträge. An vorderster Stelle ist hier wohl die Prägekraft zu erwähnen, die von einzelnen charismatischen und für ihr Fach brennenden Forscherpersönlichkeiten ausgeht – pezzi grossi, die Erfolg damit hatten, Schüler um sich zu scharen, die ihrerseits die Initiative und Begeisterung ihrer Lehrer aufgriffen und weitertrugen. In Spanien war das Manuel Díaz y Díaz, in Italien Claudio Leonardi, im deutschsprachigen Raum Peter Stotz. Auffällig auch, dass in nahezu jedem Aufsatz die in den vergangenen beiden Jahrzehnten gewachsene interdisziplinäre Anschlussfähigkeit ausdrücklich betont wird. Man wird es wohl so einfach ausdrücken dürfen: Im Falle der kleinen „Orchideen“-Fächer fördert eben diese Interdisziplinarität nicht nur die Sichtbarkeit, sondern sichert ganz maßgeblich auch das eigene Überleben. Sichtbarkeit ergibt sich ganz zentral auch aus den Veröffentlichungen. Die Bedeutung der entsprechenden Fachjournale bei der Verbreitung spezifisch „mittellateinischen Wissens“ ist groß, wie von allen Beiträgern immer wieder betont wird (der Rezensent räumt hier freimütig ein, obwohl selbst Mittellateiner, von einigen hochspezialisierten Zeitschriften noch nie zuvor gehört zu haben). Wer mit einer Art Schwanengesang gerechnet hat, wird auf’s Angenehmste enttäuscht. Die Problematik der schwindenden Lateinkenntnisse auf Seiten der Studentenschaft wird zwar registriert, gibt aber an keiner Stelle Anlass zu einem wortreichen Lamento. Wohl am positivsten wird die Situation der mittellateinischen Studien auf der Iberischen Halbinsel bewertet. Paulo Farmhouse Alberto räumt zwar unumwunden ein, dass es eigenständige Seminare für Mittellatein weder in Portugal noch in Spanien gibt, spricht gleichzeitig aber von einer „solida comunità di studiosi nella penisola iberica, che abbraccia diverse generazioni, compresi i ricercatori più giovani che garantiscono il futuro“ (S. 40) und glaubt nicht, „che la situazione nell’area iberica sia in grave pericolo o minacciata da nuvole nere“ (S. 43). Überhaupt scheint man mit Blick auf die Zukunft des eigenen Fachs innerhalb der romanitas optimistischer zu sein. Enrico Menestò identifiziert zwar die 1980er Jahre als „periodo d’oro della disciplina“ (S. 27), erläutert gleichzeitig aber eindrucksvoll und statistisch solide unterfüttert, welchen Stellenwert das Mittellatein an italienischen Universitäten noch immer einnimmt. Verglichen mit Italien oder auch (noch) Deutschland fällt Frankreich ab. Dort wird auch nicht ansatzweise die Anzahl an spezialisierten Professuren wie in den beiden Nachbarländern erreicht. Forschung zeigt sich, wen wundert es, noch immer stark auf Paris fixiert, wo mit dem Institut de Recherche et d’Histoire des Textes, der École nationale des chartes und der École Pratique des Hautes Études leistungsstarke Forschungsinstitutionen existieren, in denen das Mittellateinische mehr als eine kümmerliche Nischenexistenz fristet. Dass sich die Situation auch „in der Provinz“ verbessert hat, wird aus J.-Y. Tilliettes Ausführungen deutlich. Überhaupt scheinen regionale Interessen bei der Förderung mittellateinischer Studien sehr viel stärker in den Vordergrund zu rücken. Insbesondere die Finanzierung von Publikationsvorhaben profitiert vom Interesse lokaler Kreise an „ihrem“ Heiligen oder „ihrem“ Chronisten. Am pessimistischsten zeigt sich Michael Lapidge, dessen Beitrag mit der Bemerkung schließt: „I repeat: there are no grounds for optimism.“ (S. 15) Nach der Lektüre seiner profunden Ausführungen ist der Rezensent geneigt, dieser Schlussfolgerung für die angloamerikanische Welt zuzustimmen. Dies gilt aber eben nur für die angloamerikanische Welt. In Kontinentaleuropa zeigt sich die Mittellateinische Philologie in der Universitätslandschaft noch immer ausgesprochen vital. Das ist eine gute Nachricht, die einen mit Blick auf die Zukunft freilich nicht allzu übermütig werden lassen sollte.
Ralf Lützelschwab
Φιλόδωρος εὐμενείας. Miscellanea di studi in ricordo di Mons. Paul Canart, a cura di Marco D’Agostino/Luca Pieralli, Città del Vaticano (Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica) 2021 (Littera antiqua 21), XIII, 805 S., Abb., ISBN 978-88-85054-28-8, € 35.
2017 ist mit Paul Canart einer der herausragenden Experten auf dem Feld der griechischen Paläographie und Kodikologie in seinem 90. Lebensjahr verstorben. Sein Lebenswerk bestand nicht nur in der Katalogisierung der griechischen Kodizes der Bibliotheca Apostolica Vaticana und zahllosen Aufsätzen zu seinem Forschungsgebiet und zur Überlieferung griechischer antiker und byzantinischer Texte, sondern vielleicht noch prägender in seiner langjährigen didaktischen Tätigkeit an der Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica (von 1968 bis 2001), die verschriftlicht in seinen „Lezioni di paleografia e di codicologia greca“ (1981) Generationen von Forscherinnen und Forschern formte, und in seiner steten und uneigennützigen Forschungsunterstützung und -beratung als scriptor, Direktor der Handschriftenabteilung und Vizepräfekt der Biblioteca Apostolica Vaticana, an die sich auch der Rezensent dankbar erinnert. Der vorliegende Bd. bietet 36 Beiträge von Schülerinnen und Schülern sowie Kolleginnen und Kollegen der Scuola Vaticana, die mit Ergebnissen ihrer eigenen Forschung an ihren Lehrer und Mentor erinnern wollen. Das Spektrum der vertretenen Sprachen (neben Italienisch auch Englisch, Französisch, Deutsch und Spanisch) dokumentiert die Internationalität Canarts und seiner Forschungen. Aufgrund der Menge der Beiträge können an dieser Stelle nur die wichtigsten Themen mit Hinweis auf einzelne Beispiele skizziert werden. Das Spektrum reicht von der Kodikologie (vgl. z B. Patrick Andrist/Marilena Maniaci, „La Syntaxe du codex huit ans après. Mises à jour terminologiques à propos du ,codex‘ et du ,bifolio‘“, S. 21–28) über die Paläographie (neben vielen Einzelstudien umfassend zur Frage des Stils Edoardo Crisci, „La scrittura ad ,asso di picche‘ cinquant’anni dopo. Una nota con qualche riflessione“, S. 133–162) und Diplomatik mit paläographischen und überlieferungsgeschichtlichen Aspekten (vgl. Christian Gastgeber, „Le style arrondi de la chancellerie impériale. Die kalligraphische Rundminuskel der Kaiserkanzlei von Konstantinopel (11./12. Jh.)“, S. 307–341; Luca Pieralli, „Gli originali copiati da due notai attivi presso la cancelleria patriarcale costantinopolitana del XVI sec. Giovanni Holobolos ed il copista C del patriarca Matteo“, S. 591–614) bis zur Überlieferungsgeschichte mit Problemen der Textkonstituierung und dem Übergang in die Phase der Inkunabeln und Frühdrucke (vgl. z. B. Otto Kresten, „∑παράγματα Διάφορα. Zur Überlieferung von De Administrando Imperio“, S. 357–390; Jean-Marie Olivier, „À propos de la trasmission de la Chronique byzantine de l’an 811“, S. 481–531; David Speranzi, „Scrivere e stampare in greco nel Quattrocento. Demetrio Damilas tra Milano e Firenze“, S. 673–686). Hinzu kommen Einzelstudien zur Epigraphik (Marco Buonocore, „Tra epigrafia e storia. In margine a un’iscrizione latina da Camerata Nuova [RM]“, S. 63–70), Musik- (Marco D’Agostino, „Il ,Mandolino Coristo‘ di Antonio Stradivari. Studio paleografico dei rinforzi cartacei manoscritti all’interno dello strumento“, S. 193–209) und Kunstgeschichte (Elisabetta Caldelli, „Libri di pietra. Divagazioni sulla rappresentazione del libro nelle tombe con figura giacente [secc. XIII–XVI], S. 71–95). Eine besondere Betrachtung sei den ausführlichen Indizes („Indice delle opere citate“, S. 759–764, „Indice delle fonti manoscritte“, S. 765–779, und „Indice dei nomi“, S. 781–805), erstellt von Roberto Falco, Roberta Granato und Francesco Monticini, gewidmet. Diese Indizes erschließen nicht nur die heterogenen Beiträge und erleichtern den Einstieg beträchtlich, sondern dokumentieren auch die Bandbreite und die Schwerpunkte: der Index der zitierten Werke ähnelt fast einer byzantinischen Literaturgeschichte, der Index der handschriftlichen Quellen belegt mit ca. weltweiten 70 Standorten die Bandbreite der Forschungen, zeigt aber auch die (für den Byzantinisten vertrauten) Schwerpunkte einschlägiger griechischer Bibliotheksbestände: Naturgemäß nimmt die Biblioteca Apostolica Vaticana den ersten Rang ein, betont werden sollen aber auch die umfangreichen Bestände des Athos, des Escorial, der Bodleian Library in Oxford, der Bibliothèque Nationale de France in Paris und des Sinai-Klosters. Sehr hilfreich sind die Auflistung der behandelten Papyri und die Konkordanz zu den Regesten der Patriarchen- und Kaiserurkunden. Zusammenfassend wäre zu bemerken, dass der reich bebilderte Bd. sicher nicht am Stück gelesen wird, zu vielfältig sind die Themenfelder und die (z. T. sehr spezialisierten) Einzelstudien. Wer sich aber für griechische Paläographie und Kodikologie und/oder Byzantinistik interessiert, kann hier auf eine fast unerschöpfliche Fundgrube zurückgreifen.
Thomas Hofmann
Isabelle Mossong, Der Klerus des spätantiken Italiens im Spiegel epigraphischer Zeugnisse. Eine soziohistorische Studie, hg. von Hartwin Brandt/Martin Jehne, Berlin-Boston (De Gruyter) 2022 (Klio. Beiträge zur Alten Geschichte, Beihefte. Neue Folge 36), 696 S., 12 Tab., ISBN 978-3-11-074543-6, € 133,95.
Bei der umfangreichen Publikation handelt es sich um eine aktualisierte Diss. aus dem Jahr 2014, die im Rahmen einer deutsch-französischen Vereinbarung an den Universitäten Straßburg und Berlin entstanden ist. Unter der Prämisse, dass sich die bisherigen Studien zur gesellschaftlichen Stellung der christlichen Geistlichkeit des spätantiken Italiens aus nachvollziehbaren Gründen hauptsächlich auf Bischöfe als besonders hervorgehobene Amtsträger beschränken, nimmt die Vf. erstmals auch die anderen, bislang eher vernachlässigten Mitglieder des Klerus in den Blick: die Ostiarier, Lektoren, Exorzisten, Akolythen, Diakone und Presbyter. Ebenfalls im Unterschied zur bisherigen Forschung, die sich bei diesen Themen meist auf literarische und normative Quellen stützt, konzentriert sich die Vf. auf die ansonsten gern vernachlässigte Quellengattung der Inschriften mit der Hauptfrage, mit welchen Formen und Motiven sich Kleriker dieses in der Antike beliebten und weit verbreiteten Mediums bedient haben. Dass die Vf. zu diesem Zweck einen gut strukturierten, topographisch und nach den Ämtern gegliederten Katalog erarbeitet hat – der möglichst alle in der Spätantike durch Grab-, Bau- und Stifterinschriften, durch Weih- und Ehreninschriften, aber auch durch Graffiti dokumentierten Kleriker der italischen Halbinsel (einschließlich Siziliens und Sardiniens) beinhaltet – stellt schon aus Gründen der damit erstmals gebotenen Zugänglichkeit bzw. der Nachprüfbarkeit einen unschätzbaren Wert für die künftige Forschung dar. Zeitlich beginnt die Edition mit den seit dem 3. Jh. in Rom vereinzelt belegten christlichen Klerikerinschriften – ganz im Gegensatz etwa zu den gallischen und germanischen Teilen des Römischen Reiches, wo sich die flächendeckende Christianisierung im Großen und Ganzen erst mit dem 5. Jh. vollzogen hat – und schließt mit dem Ende des antik-römisch geprägten Lebens auf der italischen Halbinsel Anfang des 7. Jh. Nach einleitenden Ausführungen geht die Vf. in fünf Kapiteln folgenden Fragen nach: zur inhaltlichen und formalen Konzeption der Inschriften im Vergleich zur sonstigen Praxis in der Spätantike (S. 31–67), zur klerikalen (Selbst-)Darstellung (S. 68–139), zur sozialen Stellung (S. 140–175), zum säkularen und geistlichen Handeln (S. 176–200) und schließlich zu den inhaltlichen Aussagen der Inschriften (S. 201–217). Der anschließende, nach „Regionen“ (A), „Inschriften ohne Klerikertitel“ (B) und „Zweifelsfälle und Fragmente“ (C) gegliederte Katalog (S. 222–620) umfasst in 881 Nummern die sorgfältig kommentierte Edition der in der Regel aus der Literatur recherchierten Grabinschriften, die allesamt – und das ist besonders zu würdigen – aus dem Lateinischen bzw. Griechischen übersetzt werden. Ein umfangreicher Anhang (S. 621–696) mit zwölf das gesamte inschriftliche Material auswertenden Tab., einem Quellen- und Literaturverzeichnis sowie einem Stellenregister komplettieren den Bd. Die Auswertung regionaler Eigenheiten führt zu interessanten Teilergebnissen: Während Darstellungen wie Pfauen und Tauben, Oliven- bzw. Palmzweige, Christusmonogramme, allein stehende Kreuze sowie die apokalyptischen Buchstaben Alpha und Omega überall (auch in den nordalpinen Gebieten) als christliche Symbole verwendet werden können, lässt sich etwa die an den Verstorbenen erinnernde Wendung „bonae memoriae“ überwiegend in norditalischen Inschriften nachweisen. Ein weiteres Ergebnis resultiert aus der inhaltlichen und formalen Analyse der Klerikerinschriften, die sich erstaunlicherweise – mit Ausnahme der das Amt betreffenden Angaben – nicht wesentlich von anderen spätantiken Inschriften unterscheiden. So kann etwa festgehalten werden, dass bei den niederen Ämtern nur gelegentlich (etwa bei Lektoren) Wert auf topographische Angaben gelegt wird, während bei Subdiakonen die Zugehörigkeit zu einer bestimmten regio ausdrücklich erwähnt wird; bei Presbytern schließlich sogar die Zuordnung zu einer bestimmten Kirche. Eine ausführliche Würdigung der kirchlichen Ämterlaufbahn lässt sich dagegen nur vereinzelt belegen; mehr Wert wird auf die Nennung der genuin christlichen Tugenden gelegt. Während verheiratete Kleriker aller Grade in der Spätantike eine Realität waren und ihre jeweiligen familiären Konstellationen inschriftlich gut dokumentiert sind, fallen die entsprechenden Belege für Bischöfe deutlich geringer aus. Hinsichtlich der Infrastruktur der christlichen Gemeinden treten Kleriker verstärkt als Stifter, Bauherren und Auftraggeber in Erscheinung und widmen sich naturgemäß der Armen- und der Totenfürsorge. Ihre Grabinschriften bieten spezielle Einblicke in spätantike Gepflogenheiten, die durchaus auf Traditionen anderer Religionen fußen. Oberste Motivation für die Abfassung von Grabinschriften war wohl die dauerhafte Aufrechterhaltung der Erinnerung, zudem betont die Zugehörigkeit zum Klerus die privilegierte Position des Verstorbenen. Zu den hier nun ansatzweise angedeuteten Einzelergebnissen dieser eine große Lücke in der Forschung zur Sozialstruktur der spätantiken Gesellschaft schließenden Arbeit ist anzumerken, dass Umzeichnungen bzw. fotografische Abb. der Grabdenkmäler wünschenswert gewesen wären, ebenso ein Orts- und Personenregister. Besonders anzuerkennen ist hingegen die sorgfältige Auswertung der umfangreichen italienisch- und französischsprachigen Literatur. Die Vf. gewinnt aufgrund ihrer souveränen Analyse grundlegende neue Einsichten zum familiären Umfeld, zum Bildungsstand und zur Selbstdarstellung des in der Regel gebildeten, gut vernetzten christlichen Klerus, die nun als Ausgangspunkt für noch ausstehende vergleichbare Forschungen zur Struktur der spätantiken Gesellschaft auch jenseits der Alpen zur Verfügung stehen.
Eberhard J. Nikitsch
Gregor Kalas/Ann Van Dijk (Eds.), Urban Developments in Late Antique and Medieval Rome. Revising the Narrative of Renewal, Amsterdam (Amsterdam University Press) 2021, 342 pp., ISBN 978-94-6298-908-5, € 119.
„This volume considers Rome’s cultural developments during Late Antiquity and the Middle Ages by shifting discourse away from the concepts of decline and renewal … the authors included in this volume take the post-classical city of Rome out of the shadow of its classical past to explore its continuing trasformations and enduring creativity.“ (Prefazione, p. 7) Il breve passo illustra chiaramente quale sia, agli occhi dei curatori Gregor Kalas e Ann Van Dijk, il principale aspetto di originalità del volume, nonché il filo rosso che unisce tutti i saggi che lo compongono: abbandonare lo schema interpretativo secondo cui la storia medievale di Roma, e in particolare la storia dell’arte, sarebbe un’alternanza tra periodi di declino e rinnovamento, sempre da intendersi in relazione ad un passato glorioso ma poco definito nei tempi e nei luoghi. Ai concetti di rinnovamento e di declino (a cui si possono aggiungere, da una parte, quelli di rinascita, rinascimento, riscoperta e, dall’altra, quelli di crisi, regressione, rovina), i curatori propongono di sostituire quelli di continuità e di trasformazione, di adattamento e di innovazione, di resilienza e di reazione. I dieci saggi, la maggior parte dei quali trae origine da un ciclo di lezioni tenute presso la Marco Institute for Medieval and Renaissance Studies at the University of Tennessee di Knoxville, mirano dunque a riscrivere la narrativa del rinnovamento (e del declino) di alcuni aspetti della vita politica, letteraria, religiosa e artistica della Roma tra Tardoantico e Medioevo. I contributi possono essere suddivisi cronologicamente in tre gruppi: il primo affronta tematiche tardoantiche o del periodo di passaggio all’epoca medievale (intervento introduttivo e saggi secondo e terzo); il secondo gruppo si occupa di aspetti della vita altomedievale (contributi dal quarto al settimo); infine il terzo gruppo si focalizza sull’XI secolo (ultimi tre interventi). Da notare l’assenza di saggi che trattino tematiche di X secolo, verosimilmente per ragioni incidentali poiché la scelta non è giustificata in alcun modo. L’intervento introduttivo a firma dei due curatori traccia una breve storia della storiografia del vecchio schema interpretativo, fatto di momenti di declino e rinnovamento, e quindi, prendendo in considerazione il passaggio tra Tardoantico e Altomedioevo, periodo di declino per eccellenza, propone di superare tale giudizio ponendo l’accento piuttosto sulla resilienza della città. Anche i due successivi saggi di Kristina Sessa e Gregor Kalas analizzano momenti tradizionalmente reputati di crisi (rispettivamente di storia politica e della letteratura): i papati di Gelasio I (492–496) e Pelagio I (556–561), caratterizzati da guerre e difficoltà di nutrire la popolazione, e la produzione tardoantica di panegirici in versi dedicati ad imperatori e comandanti militari contemporanei, ed in particolare quella di Claudiano (IV–V secolo), Flavio Merobaude (V secolo) e Sidonio Apollinare (431 o 432–486 circa), le cui statue ritratto sarebbero state collocate negli auditoria dell’Athenaeum di Adriano, proprio dove i tre autori verosimilmente leggevano le loro opere. Passando al secondo gruppo di saggi, Jacob Latham e di Erik Thunø affrontano fenomeni di lungo periodo: l’autore del quarto contributo traccia l’evoluzione della cerimonia dell’adventus, momento di autorappresentazione sociale e politica della città, tra il tempo di Costantino (306–337) e di Carlomagno (774–814); il sesto intervento, invece, ha come argomento i mosaici absidali realizzati tra il VI e il IX secolo, la cui particolare combinazione di caratteristiche iconografiche (la tematica apocalittica, la presenza di santi titolari e del papa donatore) ed epigrafiche (l’iscrizione dedicatoria in versi con lettere capitali color oro su fondo blu) li rende coerenti tra loro al di là delle differenze stilistiche e di composizione e permette di metterli in relazione con il trasferimento delle reliquie di martiri all’interno delle chiese urbane. Il quinto saggio, a firma di Dennis Trout, prende in esame il poderoso programma edilizio di papa Onorio I (625–638), accompagnato da una raffinata produzione di epigrammi, di cui beneficiarono innanzitutto i luoghi di culto dei martiri (e su tutti il complesso di S. Agnese fuori le mura). Infine nel settimo contributo John Osborne focalizza la sua attenzione sul VII secolo, individuato come momento chiave della trasformazione di Roma nella città dei papi, attraverso la cristianizzazione dello spazio urbano ottenuta con la rifunzionalizzazione o la reinterpretazione dei monumenti antichi (ad esempio il Pantheon e la Curia trasformate in chiese) e con lo sviluppo della liturgia stazionale. L’ultimo gruppo di saggi appare particolarmente coerente, sia da un punto di vista cronologico sia sotto l’aspetto tematico. Prendendo come caso studio la produzione artistica riconducibile alla chiesa di S. Maria in Trastevere, Dale Kinney descrive i cambiamenti che interessarono l’arte e l’architettura nell’XI secolo e i suoi specifici rapporti con la Riforma Gregoriana (contributo ottavo). Nel suo intervento (il nono) Luisa Nardini prende in esame il più antico manoscritto romano con notazioni musicali, il graduale Cod. Bodmer 74 trascritto nel 1071 dall’arciprete Giovanni della chiesa S. Cecilia in Trastevere, utilizzandolo come testimonianza del proprio tempo e non, come avvenuto generalmente, con lo scopo di ricostruire la più antica (e per questo verosimilmente più pura) versione del canto romano. Nell’ultimo saggio William North, ripercorrendo le carriere e gli scritti di tre importanti voci della Riforma Gregoriana (Pier Damiani, Bruno di Segni e Attone di San Marco), mette in evidenza l’eterogeneità del clero romano del tempo che si manifesta nella difficoltà di creare una „textual community“ e di raggiungere un’adeguata consapevolezza del proprio ruolo all’interno della Riforma. In conclusione, la contrapposizione allo schema interpretativo che vede la storia dell’arte medievale romana come un’alternanza di momenti di declino e rinnovamento appare piuttosto forzata, sebbene giustificata dal nobile intento di presentare dei contributi di indubbia qualità e originalità riguardanti la Roma tardoantica e altomedievale. Ogni singolo mattone di quella costruzione storiografica, che fa capo agli influenti studi di Krautheimer, infatti, è stata messa in discussione dalla bibliografia successiva, e l’apprezzabile tentativo di riscrivere la narrativa del rinnovamento, centrato dalla gran parte dei saggi, non necessitava forse di un così debole contraltare.
Giulio Del Buono
Lidia Capo, Longobardi, Franchi e Roma, a cura di Umberto Longo, Roma (Viella) 2022 (I libri di Viella 429), 152 pp., ISBN 979-1-254-69177-9, € 22.
Il volume riunisce sei contributi pubblicati da Lidia Capo tra il 1997 e il 2019, a cui si aggiunge il testo di una lezione tenuta al corso di dottorato in Storia, Antropologia, Religioni della Sapienza Università di Roma, nel quadro di un seminario permanente sulla storia di Roma e le sue fonti. La raccolta, curata da Umberto Longo con la collaborazione degli altri medievisti del Dipartimento di Storia, Antropologia, Religioni, Arte, Spettacolo, costituisce un omaggio all’autrice e ne testimonia i principali interessi di ricerca. Come suggerito dal titolo del libro, tra questi spiccano innanzitutto la società e la cultura di età longobarda, a cui si affiancano la cronachistica medievale, in un arco cronologico e spaziale che qui si limita ai secoli altomedievali, e, sempre per questa cronologia, il contesto politico e sociale di Roma. A quest’ultimo filone di ricerca fanno riferimento sia l’ultimo contributo del volume, un agile percorso tra le fonti scritte dei secoli compresi tra il IV e il IX che risulta utile soprattutto per gli studenti che si affacciano per la prima volta allo studio di Roma altomedievale, sia l’articolo sui monasteri romani, già disponibile in open access su „Reti medievali“. Quest’ultimo, forse il contributo più interessante della raccolta, prende in esame principalmente le fonti vicine alla Chiesa romana – il „Liber Pontificalis“, il „Liber Diurnus“, gli „Ordines“ – per analizzare quale idea di monachesimo venga attraverso di essi veicolata e quindi che ruolo fosse stato assegnato ai monaci all’interno del peculiare contesto romano. L’articolo tenta di cogliere alcune tappe dell’evoluzione del monachesimo in città, tra le quali uno snodo decisivo è rappresentato dal secolo VIII, cioè il periodo in cui il potere dei papi su Roma e sull’area laziale si fece tangibile, con conseguenze anche sui monasteri urbani e suburbani. Capo prende inoltre posizione sulla vexata quaestio dei monasteri di diaconia, vale a dire sul ruolo di assistenza e ospitalità attribuito agli enti monastici da un noto passaggio della „Vita di Benedetto II“ nel „Liber Pontificalis“, dibattito sollevato in particolare dall’articolo di Hendrik W. Dey apparso su „Early Medieval Europe“ nel 2008. L’autrice si orienta verso una posizione, condivisa anche da altri studiosi, che vede queste attività come certamente compatibili con il monachesimo romano, visto anche l’afflusso di pellegrini, ma non per questo prevalenti o specifiche dei monasteri cittadini. Roma è al centro anche del terzo contributo del volume, che prende in esame i diritti esercitati dagli imperatori carolingi nella città a partire dalla rappresentazione che ne fa il „Libellus de imperatoria potestate in urbe Roma“, un testo datato alla seconda metà del IX secolo, che rimane però di difficile collocazione geografica, ma che Capo attribuisce in modo convincente all’abbazia di Santa Maria di Farfa. Il confronto tra il „Libellus“ e le fonti di origine romana fa propendere l’autrice per un’effettiva e concreta presenza dell’Impero a Roma, in modo particolare nel campo della giustizia, mentre viene lasciata a margine la questione, già sollevata da Chris Wickham e prima di lui da Federico Marazzi, riguardante i beni fiscali, questione recentemente ritornata all’ordine del giorno grazie alla rinnovata attenzione della medievistica italiana per la loro circolazione, regolata dall’autorità pubblica. Se escludiamo il saggio di apertura, che costituisce una panoramica della storiografia prodotta in ambito franco a partire da Gregorio di Tours fino alla piena età carolingia, i contributi rimanenti affrontano alcuni aspetti riguardanti la società e la cultura di età longobarda. L’articolo sulle saghe delle origini tocca uno dei temi più cari all’autrice, vale a dire l’opera di Paolo Diacono. Qui Capo si interroga sull’uso che questo autore fa delle proprie fonti, scritte e orali, e soprattutto sul significato delle saghe all’interno dell’„Historia Langobardorum“ e, più in generale, quello che esse ebbero (o non ebbero) per i „narrators of barbarian history“, secondo una felice espressione di Walter Goffart. Il saggio sui giudicati, utile in particolare per la traduzione dei testi dal latino all’italiano, offre invece un contributo alla storia giuridica e giudiziaria del regno longobardo. Nel complesso esso presenta alcuni spunti interessanti, che si trovano prevalentemente nel corposo apparato di note, alcune delle quali costituiscono un vero e proprio affondo sul dibattito storiografico. Tra queste, di particolare interesse le considerazioni sulla fides publica nelle chartae altomedievali e quelle sull’uso che i duchi beneventani fecero, in veste di giudici, non solo delle leggi longobarde, ma anche delle collezioni canonistiche. L’ultimo saggio di materia longobarda, quello su Teodolinda, prende in esame la figura di questa regina a partire dalle fonti scritte, pagando forse eccessivamente il peso dello sguardo già di Gregorio Magno e dipingendola, ancora una volta, pressoché esclusivamente come ottemperante moglie cattolica.
Giulia Zornetta
Italy and the East Roman World in the Medieval Mediterranean. Empire, Cities and Elites 476–1204. Papers in Honour of Thomas S. Brown, ed. by Thomas J. MacMaster/Nicholas S. M. Matheou, London-New York (Routledge) 2021 (Birmingham Byzantine and Ottoman Studies 30), XVII, 381 S., ISBN 978-1-138-09131-3, GBP 130.
Die vorliegende Festschrift zeichnet sich im Gegensatz zu vielen Vertreterinnen des Genres durch eine klare thematische Konzeption aus, die den intensiven Bemühungen der beiden Hg., sicher aber auch den trotz breiter Interessen immer klar umrissenen Forschungsgebieten des Gefeierten zu verdanken ist. Behandelt werden die politischen, gesellschaftlichen und kulturellen Kontakte zwischen der italienischen Halbinsel und der oströmisch/byzantinischen Welt vom Ende des weströmischen Kaiserreichs bis zum Vierten Kreuzzug. Dabei wird deutlich, dass der Mittelmeerraum als historischer Raum sui generis auch nach dem Ende des Imperium Romanum weiter existierte, vermeintliche Brüche wie die Einwanderung germanischer Volksgruppen oder die arabische Eroberung differenziert betrachtet werden müssen. Inwieweit das Ende des Betrachtungszeitraums, das primär mit den Forschungsinteressen von Thomas S. Brown korreliert, aber aus byzantinischer Sicht auch einen wichtigen Einschnitt darstellt, eine echte Zäsur bildet, bliebe zu untersuchen. Die insgesamt 18 Beiträge, die in einer guten Mischung von jüngeren Historikerinnen und Historikern sowie etablierten Kolleginnen und Kollegen des Geehrten verfasst wurden, werden in fünf Kap. gebündelt: Studien zur Quellenlage („Sources and Historiography“, S. 11–94) folgen zwei Kap. zu Ravenna („The Exarchat of Ravenna“, S. 95–176, und „Ravenna after the Exarchat“, S. 177–211). „Empire and Elites“, S. 213–272, behandelt das Beziehungsgeflecht zwischen Zentralgewalt und lokalen Eliten, „Elites and Cities“, S. 273–352, stellt die Stadtgeschichte im früh- und hochmittelalterlichen Italien in den Mittelpunkt. Die behandelten Themen, mit einem besonderen Schwerpunkt auf Ravenna, gehen bereits auf die Diss. von Thomas S. Brown, Structure and the Hierarchy of Officialdom in Byzantine Italy, 554–800 A. D., Nottingham 1975, zurück. Ein kurzes, persönliches Vorwort der Hg. (S. XV–XVII), eine einleitende Zusammenfassung der Beiträge durch Bryan Ward-Perkins (S. 1–10) sowie ein Kommentar der Aufsätze durch den Gefeierten selbst (S. 353–364) und schließlich eine Bibliographie der Veröffentlichungen von Thomas S. Brown und ein Index (als kombinierter Personen-, Orts- und Sachindex) runden das Werk ab. An dieser Stelle können nur einige ausgewählte Beiträge angezeigt werden, die die Bandbreite der Veröffentlichung verdeutlichen sollen. Das Kap. zu den Quellen und zur Historiographie konzentriert sich auf das Frühmittelalter bis zum 8. Jh. Als Beispiel sei hingewiesen auf Eduardo Fabbro, Constructing the Enemy. Byzantium in Paul the Diacon, S. 70–94, der die „Historia Langobardorum“ von Paulus Diaconus überzeugend als karolingisches Auftragswerk, adressiert an Grimoald III. von Benevent definiert und entsprechend auf 787/788 datiert. Der neue Machthaber in Benevent sollte damit auf einen antibyzantinischen Kurs eingeschworen werden, was die Häufung antigriechischer Stereotype erklärt. Die relativ gute Quellenlage (sowohl Inschriften als auch Papyri) in Ravenna ermöglicht einigermaßen fundierte Aussagen zum gesellschaftlichen Wandel von der Spätantike bis ins 8. Jh. (vgl. Alessandro Bazzocchi, „Remarks on the Sociocultural and Religious History of Early Byzantine Ravenna in the Light of Epigraphic and Archival Evidence“, S. 109–121). Das Phänomen der Herausbildung neuer Eliten wird von John Haldon, „The Exarchate, the Empire and the Élites. Some Comparative Remarks“, S. 142–153, in den Kontext der Gesellschaftsgeschichte Byzanz‘ eingeordnet. Während in Konstantinopel deutliche Parallelen zu erkennen sind, muss die Übertragbarkeit der Ergebnisse auf die Provinzen des byzantinischen Reichs wegen vielerorts fehlender Quellen offenbleiben. Die programmatische Bedeutung des „imperialen Ravenna“ im komplexen Mächteverhältnis zwischen Langobarden, Papsttum und Karolingern beleuchtet anschaulich Nicole Jantzen-Lopez, „Renovatio, Continuity, Innovation. Ravenna’s Role in Legitimation and Collective Memory (Eighth to Nineth Centuries)“, S. 179–200. Der zweite Teil des Buchs stellt den politischen und soziokulturellen Wandel in den Vordergrund. Es bildeten sich neue Führungsschichten heraus, zu denen (bereits seit dem 4. Jh.) auch die Bischöfe als spirituelle und weltliche Funktionsträger gehörten. Bei dieser Doppelfunktion ist es nicht überraschend, dass es nicht wenige Fälle eines Übergangs weltlicher Führungspersönlichkeiten ins Bischofamt gab (Edward M. Schoolman, „Dux to Episcopus. From Ruling Cities to Controlling Sees in Byzantine Italy, 554–900“, S. 215–234). Die Überlastung durch die vielfältigen Aufgaben der Bischöfe, die komplexen lokalen und überregionalen Machtverhältnisse und die hohe Erwartungshaltung dem Bischof gegenüber konnten freilich leicht zum persönlichen Scheitern führen, wie Patricia Skinner, „What was Wrong with Bishops in Sixth-century Southern Italy“, S. 275–288, an zahlreichen süditalienischen Beispielen zeigt. Besonders interessant ist die Rolle der neuen (und teilweise auch alten) Eliten im urbanen Kontext der italienischen Halbinsel, deren Bandbreite durch drei Fallstudien aus unterschiedlichen Jh. verdeutlicht wird. Ross Balzaretti, „Urban Life in Lombard Italy. Genoa and Milan Compared“, S. 304–323, zeigt am Beispiel von Mailand und Genua im 7. und 8. Jh. die unterschiedliche Stadtentwicklung, abhängig u. a. auch von mehr oder weniger großer Herrschaftsnähe. Nicholas S. M. Matheou, „Hegemony, Elitedom and Ethnicity. ,Armenians‘ in Imperial Bari, c. 874–1071“, S. 245–272, präsentiert die zahlreichen Belege für Armenier im byzantinischen Verwaltungssitz Bari und diskutiert das Problem der „ethnischen Gruppe“ der Armenier unter Einbeziehung aktueller soziologischer Theorien. Vera von Falkenhausen, „A Dance to the Music of Time. Greeks and Latins in Medieval Taranto“, S. 324–352, führt die Leserinnen und Leser schließlich ins 12. und 13. Jh.: Tarent kann – auch wegen der relativ guten Quellenlage – als Paradebeispiel für den Fortbestand griechischer Sprache und Kultur in einem lateinischen Umfeld herangezogen werden. Besonders verdienstvoll ist die detaillierte Auflistung griechischer und lateinischer Dokumente, die in Tarent zwischen 880 und 1228 ausgestellt wurden, mit weiterführenden bibliographischen Angaben. Dabei überraschen vor allem die Mengenverhältnisse (69 griechische Dokumente gegenüber 16 lateinischen). Der vorliegende Bd. kann als gelungenes Beispiel einer Festschrift angesehen werden, die in einem klar definierten thematischen Kontext und mit gut erkennbarer Fragestellung wichtige Forschungsaspekte vorstellt. Aufgrund der speziellen thematischen Ausrichtung gelten als Zielgruppen sicher Historikerinnen und Historiker mit dem Forschungsschwerpunkt der italienischen Geschichte des Frühmittelalters sowie Byzantinistinnen und Byzantinisten. Darüber hinaus sind aber Themenbereiche wie „Politik und Kultur des Mittelmeerraums“ oder „Strukturwandel von der Spätantike zum Frühmittelalter“ auch für eine breitere Leserschaft ergiebig und vielfach anschlussfähig. Während die redaktionelle Arbeit der Hg. als vorbildlich angesehen werden kann, haben sich bei der Drucklegung einige Schönheitsfehler eingeschlichen: Bei einem Großteil der Beiträge fehlt die Verfasserangabe und auch die Kopfzeilen sind dementsprechend uneinheitlich. Dies sollte bei einem etablierten Verlag wie Routledge (und dem keineswegs niedrigen Preis der Veröffentlichung) eigentlich nicht vorkommen, kann aber den inhaltlichen Wert des Bd. nicht schmälern.
Thomas Hofmann
Vera von Falkenhausen, Studi sull’Italia bizantina, a cura di Marco Di Branco/Luca Farina, Roma (Viella) 2022 (I libri di Viella 428), 400 S., Abb., ISBN 979-12-5469-087-1, € 50.
Die erneute Publikation gesammelter Aufsätze ist in der Regel mit einem Fragezeichen zu versehen. Der vorliegende Bd. ist zweifelsohne eine Ausnahme, und dies aus mehreren Gründen. Neben dem üblichen Argument der leichteren Konsultation von oftmals schwer zugänglichen Beiträgen sind hier die bewusste Auswahl und die systematische Ordnung der Aufsätze durch die Vf. selbst sowie das eindeutig definierte Forschungsfeld hervorzuheben. Die Autorin, die sich seit ihrer Diss. „Untersuchungen über die byzantinische Herrschaft in Süditalien vom 9. bis 11. Jh.“ (Wiesbaden 1968, aktualisiert und ins Italienische übersetzt Bari 1978) durchgehend und intensiv mit der byzantinischen Präsenz auf der italienischen Halbinsel auseinandergesetzt hat, verortet die byzantinische Herrschaftskontrolle in den Forschungsfeldern der Stadtgeschichte (Beträge 1 bis 6), der Institutionengeschichte (Beiträge 7 bis 9), der Religion (Beiträge 10 bis 12) und der Demographie bzw. Sprachverteilung (Beitrag 13) (Vorwort S. 7). Dabei handelt es sich nicht um einen anastatischen Nachdruck, der umfassende Überblick „Le città nell’Italia bizantina“ (S. 9–60) wurde ins Italienische übersetzt, alle Beiträge wurden von der Vf. mit aktuellen bibliographischen Angaben ergänzt. Das Verzeichnis der „abbreviazioni bibliografiche“ (S. 369–382) erfüllt den Zweck einer Spezialbibliographie zum byzantinischen Süditalien. Die Personen- und Ortsindizes (S. 383–394 und S. 395–400) bieten den Leserinnen und Lesern zusätzliche Einstiegsmöglichkeiten. Dabei wird die ca. 500 Jahre andauernde Präsenz des oströmischen bzw. byzantinischen Reichs differenziert und stets quellenbasiert analysiert. Im bereits angesprochenen Überblick werden überzeugend die Grundzüge der byzantinischen Stadtpolitik herausgearbeitet: Die Neugründungen befanden sich überwiegend im Binnenland, ausschlaggebend waren Kriterien des Schutzes der Bevölkerung, der Grenzen und wichtiger Verbindungswege, die Gründungen erfolgten auf kaiserliche Anordnung und wurden durch kaiserliche Funktionäre realisiert, normalerweise wurden Stadtneugründungen umgehend auch Bischofssitz, die gehaltenen Hafenstädte konzentrierten sich im Wesentlichen auf die Adria (S. 60). Fallstudien zu drei Hauptstädten byzantinischer themata, Syrakus („La conquista di Siracusa [878] nella memoria storica di Costantinopoli“, S. 61–68), Bari („Bari bizantina. Profilo di un capoluogo di provincia“, S. 69–102) und Reggio Calabria („Reggio bizantina e normanna“, S. 103–138) sowie zu Otranto („Tra Occidente e Oriente. Otranto in epoca bizantina“, S. 139–183) und Lucera („Zur byzantinischen Verwaltung Luceras am Ende des 10. Jahrhunderts“, S. 185–195) illustrieren die These. Der Aufsatz „Réseaux routiers et ports dans l’Italie méridionale byzantine (VIe–XIe siècles)“ (S. 197–212), der die land- und seegebundenen Verbindungs- und Kommunikationswege in den Blick nimmt, bildet gleichsam die Überleitung zur Institutionengeschichte. Einen umfassenden Überblick für Apulien, das quellenmäßig am besten belegt ist, bietet die Vf. in ihrem Aufsatz „Le istituzioni bizantine in Puglia nell’Alto Medioevo“, S. 213–231. Aufgrund der dürftigen Quellenlage bleiben freilich detaillierte prosopographische Untersuchungen, wie in „In Italia per carriera. Funzionari e militari di origine orientale nell’Italia meridionale bizantina“ (S. 233–253) schwierig, auch wenn die inzwischen erschienene „Prosopographie der mittelbyzantinischen Zeit“ (1. Abteilung: 641–867; 2. Abteilung: 867–1025) wichtige personenbezogene Daten liefert. Das Nachvollziehen von zivilen und militärischen Karrieren in den Provinzen des byzantinischen Reichs ist aufgrund fehlender Quellenzeugnisse weiterhin kaum möglich – die eher dürftigen Quellen für Süditalien bilden fast schon eine rühmliche Ausnahme. Einen wichtigen Aspekt für die byzantinische Präsenz in Italien stellt die Religion dar. Klostergründungen und Schenkungen griechischer Amtsträger sind reichlich belegt, hagiographische Schriften bieten wichtige Informationen in einer quellenarmen Überlieferung. Mit der Vita von S. Nilo („La Vita di san Nilo come fonte storica per la Calabria bizantina“, S. 255–283) präsentiert die Vf. ein herausragendes Beispiel dieser Gattung und hebt den historischen Quellenwert hervor. Während „The Jews in Byzantine Southern Italy“, S. 285–305, den interreligiösen Aspekt beleuchtet, widmet sich Vera von Falkenhausen in ihrem Aufsatz „Montecassino e Bisanzio dal IX al XII secolo“, S. 307–337, dem vieldiskutierten Problemkreis „Byzanz und der Westen“. Dabei wird deutlich, dass die Klosterpolitik – sowohl seitens der Abtei von Montecassino selbst als auch seitens der byzantinischen Verwaltung – primär von der politischen Lage abhing. Einer der jüngsten Beiträge, „Greek and Latin in Byzantine Italy (6th –11th Century)“, S. 339–366, im Original erschienen 2021 in „A Companion to Byzantine Italy“ der renommierten Verlagsreihe „Brill’s Companions“, bündelt die langjährigen Forschungen der Vf. unter demographischen und sprachlichen Gesichtspunkten: Die Verbreitung des Griechischen außerhalb begrenzter Zirkel von Intellektuellen, Emigranten und byzantinischer Funktionäre ist nur in Gebieten mit mehrheitlich griechischer Bevölkerung, also in den Kerngebieten der antiken Magna Graecia festzustellen. Auch wenn es sich um gesammelte Aufsätze handelt, bietet der vorliegende Bd. eine klar strukturierte, kohärente „Geschichte des byzantinischen (Süd-)Italiens“ auf dem aktuellen Forschungsstand. Da Süditalien im Früh- und Hochmittelalter gleichsam ein Laboratorium des Kulturkontakts und des Kulturtransfers war, kann der Sammelbd. über den engeren Kreis der Byzantinistinnen und Bzyantinisten sowie der Mediävistinnen und Mediävisten mit Süditalienbezug hinaus auch in weiteren Forschungskontexten gewinnbringend konsultiert werden. Der vielfältige Themenhorizont bei engem Quellenbezug – von chronikalen und hagiographischen Quellen über Archivalien bis hin zu Inschriften und zur Analyse von Personen- und Flurnamen sowie lexikalischen Lehnbegriffen – kann sowohl der Byzantinistik als auch der Mediävistik als Beispiel dienen!
Thomas Hofmann
Christopher Heath/Robert Houghton (Eds.), Conflict and Violence in Medieval Italy 568–1154, Amsterdam (Amsterdam University Press) 2021 (Italy in Late Antiquity and the Early Middle Ages 4), 344 pp., ISBN 978-94-6298-517-9, € 114,99.
L’alto medioevo, caratterizzato a livello storiografico come i Dark Ages per eccellenza, ha una lunga tradizione di associazioni con uno stato di violenza endemica, spesso irrazionale, ancor più spesso estrema. Ciò vale in particolar modo per l’alto medioevo italico, il cui percorso storico tra i secoli V e XII è stato (talora è ancora) narrato come una serie di invasioni da parte di popoli stranieri ed estranei alla cultura locale, portatori di devastazioni e oppressione. Il volume curato da Christopher Heath e Robert Houghton parte da questi presupposti per interrogarsi, in primo luogo, sulle ragioni di questa immagine, e quindi per analizzare il ruolo della violenza e dei conflitti nelle dinamiche politiche e sociali dell’Italia altomedievale, soffermandosi su una serie di episodi e soprattutto sulle loro – spesso varie e discordanti – narrazioni. L’„Afterword“ (pp. 325–336) di Ross Balzaretti offre un’utile traccia per riassumere e affrontare criticamente i contenuti del volume. Balzaretti propone tre chiavi di lettura che, in misure e combinazioni diverse, accomunano tanta parte dei casi oggetto di approfondimento nei suoi dieci capitoli. Come osservano Heath e Houghton nella loro introduzione, „… conflict and violence were subjects that motivated the production of history because these actions prompted change, necessitated explanation and provided appropriate subject matter for the construction of narratives“ (p. 17). Non sorprende dunque che diverse narrazioni, ognuna rispondente a specifiche esigenze, siano state prodotte a proposito di singoli episodi di violenza o conflitto. Così, una raffinata analisi delle molteplici memorie testuali relative alla rivolta parmense contro l’imperatore Corrado nel 1037 permette a Houghton di restituire un quadro più complesso delle ragioni dello scontro, della composizione sociale dei suoi partecipanti e delle reti di relazioni politiche entro cui l’episodio si inserì. Il confronto tra fonti narrative e documentarie permette di ricostruire un panorama articolato di rivendicazioni contrastanti tra il vescovo di Parma Ugo e i valvassores locali. Enrico Veneziani pone a confronto due versioni opposte dell’elezione di Onorio II (1124), in cui all’intervento del gruppo familiare dei Frangipane sono assegnati ruoli diversi. La „Vita“ di Onorio composta da Pandulfo negli anni ’30, dunque nel contesto dello scisma di Anacleto II, riflette l’esigenza di condannare l’ingerenza delle famiglie aristocratiche di più recente affermazione nelle elezioni papali. Ma già la conquista e la dominazione carolinge del regno longobardo, le cui fonti sono esaminate da Francesco Borri, assunsero forme narrative contrastanti. Gli „Annales regni Francorum“ applicarono il linguaggio dell’infidelitas tanto alle spedizioni di Carlo Magno nel 774, quanto alla rivolta di Bernardo dell’818. La più tarda „Cronaca della Novalesa“ costruì invece una narrazione della sconfitta longobarda come una valorosa resistenza, piegata solo a causa di un tradimento. La produzione di memorie alternative in merito a singoli eventi di violenza è essa stessa indicativa della necessità di spiegarli, giustificarli oppure condannarli; in altri termini, ne evidenzia il bisogno di razionalizzarli, a dimostrazione del loro carattere di eccezionalità. Il secondo tema individuato da Balzaretti è quello del genere: „… almost all violence was done by men both to other men and to women and children“ (p. 330). Edoardo Manarini si sofferma su un passo riportato nell’“Epitome chronicorum Casinensium“ del XII sec., riferito però alla competizione tra Supponidi e Ucpoldingi per il dominio politico dell’Emilia orientale tra la fine del IX e gli inizi del X secolo. Il testo assegna un ruolo di primo piano a due donne, l’imperatrice Angelberga e Andaberta, moglie del conte Tucpaldo. La narrazione è costruita attorno alla contrapposizione tra un’imperatrice descritta come lasciva, pronta a sedurre il conte e, dinanzi al rifiuto di questi, ad accusarlo ingiustamente di averla violentata; e una moglie devota (Andaberta), che dopo la morte del marito si preoccupa di riabilitarne la memoria. Le donne sono qui chiamate a rappresentare i rispettivi gruppi familiari, i Supponidi (Angelberga) e gli Ucpoldingi (Andaberta), la cui versione dei fatti sarebbe stata messa per iscritto nel monastero di San Benedetto di Adili, e di qui confluì nella memoria di Montecassino. Le donne e la capacità, loro attribuita da autori maschili, di indurre i loro uomini a commettere atti violenti compaiono anche nei capitoli che Christopher Heath e Guido Berndt dedicano al regno longobardo. L’assassinio di Alboino per mano di Elmechi, istigato dalla regina Rosmunda, è il più evidente caso di stratificazione memoriale in cui il ruolo di una donna, assente nelle fonti più antiche, cresce col passare del tempo, fino a essere indicata da Paolo Diacono come la principale responsabile. Un’altra donna, Romilda, moglie di Gisulfo del Friuli, si macchia di tradimento e per questo va incontro a un’orrenda fine per opera del khagan degli Avari. L’azione politica delle donne, agli occhi di Paolo Diacono, doveva caratterizzarsi in senso violento proprio perché la partecipazione alla vita pubblica non era e non doveva essere una prerogativa femminile. Vi sono poi dei luoghi specifici della penisola – questa l’ultima considerazione di Balzaretti – in cui la competizione per il potere è così costante da divenire teatri privilegiati di episodi violenti. Roma è il caso più evidente. Roma esposta, nel IX secolo, alle incursioni saracene, che nelle fonti contemporanee, studiate da Kordula Wolf, assumono sempre il significato di confronti militari, mai religiosi, e che offrono all’autorità papale l’occasione per rivendicare prerogative di difesa armata del Lazio e delle sue popolazioni. Roma teatro di competizioni per la dignità papale, come sottolinea anche David Barritt, che si concentra sul caso della condanna postuma di papa Formoso alla fine del IX sec. Assumendo le posizioni espresse da Philippe Buc sulle narrazioni di rituali nelle fonti altomedievali, e le conseguenti precauzioni di analisi critica da prendere, l’autore legge l’episodio all’interno delle strategie retoriche di Liutprando di Cremona, ma anche nel quadro dei dibattiti sugli spostamenti di sede da parte dei vescovi, una delle accuse rivolte a Formoso. Le discussioni contemporanee e la rilettura che ne diede Liutprando si mossero dunque su piani e con obiettivi diversi, a riprova della duttilità memoriale del contesto romano e dei suoi conflitti, cui lo sguardo collettivo, perlomeno italico, era costantemente rivolto. Citando ancora una volta Balzaretti, „[f]or Italy, there has not been a book which has examined conflict and violence in Italy across the earlier Middle Ages as a whole, until now“ (p. 327). Questo volume arriva dunque a colmare un vuoto, ma forse ancora di più ad aprire nuove prospettive. Le riflessioni metodologiche dell’introduzione si pongono come punto di riferimento per pensare alla violenza nell’alto medioevo in termini aggiornati ai più recenti discorsi sociologici e antropologici. Sebbene gli autori dei vari capitoli abbiano sviluppato questi spunti in maniere diverse, le intersezioni tra critica testuale, analisi storico-sociale e approccio di genere in molti casi arricchiscono sia le interpretazioni dei fenomeni e contesti specificamente trattati, sia la comprensione del fenomeno della violenza nelle società altomedievali in generale. La violenza, così centrale nelle fonti e nelle narrazioni dei Dark Ages, emerge così come un carattere che vale la pena analizzare nelle dinamiche e nei caratteri che gli sono propri, più che per il nostro bisogno di autoconvincerci di essere migliori, in quanto (ipoteticamente) meno inclini alla violenza, delle persone che vissero in quei secoli.
Francesco Veronese
Igor Santos Salazar, Governare la Lombardia carolingia (774–924), Roma (Viella) 2021 (Altomedioevo 9), 334 pp., ISBN 978-88-3313-815-2, € 30.
Il volume di Igor Santos Salazar si propone di indagare le forme di esercizio del potere del regnum Langobardorum et Francorum nel corso del secolo IX attraverso l’esame delle fonti prodotte entro una porzione territoriale specifica, delimitata in senso est-ovest dai fiumi Mincio e Sesia, dal corso del Po a sud e dal crinale alpino verso nord. L’autore la definisce „Lombardia carolingia“ perché insiste sull’estensione territoriale dell’odierna regione italiana, pur ampliandola in longitudine. In realtà, il territorio esaminato costituiva una porzione della Königslandschaft (territorio regio) del regno italico, posto nel cuore della val Padana. Tuttavia, per applicare in modo appropriato questo concetto storiografico, l’analisi avrebbe dovuto comprendere anche l’area emiliana occidentale (Piacenza e Parma) e una porzione rilevante del Piemonte, almeno fino a Vercelli. L’autore si concentra invece sui soli fondi documentari altomedievali lombardi, di cui descrive consistenze e caratteristiche nel primo capitolo: oltre alle pergamene conservate nel vastissimo „Diplomatico“ dell’Archivio di Stato di Milano, sono considerate anche le carte delle chiese di Bergamo, Como, Cremona, Monza, Novara – unico caso eccentrico alla Lombardia odierna – le pergamene degli archivi pavesi e le carte dei due monasteri bresciani di S. Salvatore/S. Giulia e di S. Benedetto di Leno. Si tratta di un bacino documentario ragguardevole, che nel suo insieme giunge a superare le cinquecento unità, sommando – va precisato – anche scritture conservate al di fuori dell’area indagata ma riguardanti spazi lombardi. È una cifra, se presa in termini assoluti, senz’altro notevole per le consistenze altomedievali, tanto che l’autore la considera il „terzo dossier documentario dell’Italia altomedievale dopo i fondi toscani … e le carte altomedievali di Piacenza“ (pp. 29 sg.). Lascia perplessi, tuttavia, questa scelta di selezione della base documentaria, che non trova conforto nella genesi istituzionale e storica dei fondi documentari medesimi e dipende dall’arbitraria definizione dello spazio regionale attuale quale soggetto d’indagine. Il secondo capitolo affronta le vicende dell’autorità carolingia nel regno italico, concentrandosi in modo specifico sull’azione del governo regio nel territorio lombardo, dalla conquista di Carlo all’assassinio di Berengario I nel 924. In questa scelta cronologica, l’autore non segue il consueto canone storiografico, che identifica invece la fine del periodo carolingio con l’anno 888, quando cioè morì Carlo III, l’ultimo esponente maschile della dinastia. Santos Salazar si rifà qui alla periodizzazione proposta da una delle fonti narrative fondamentali per la storia politica del regnum nel secolo X, il „Perpendiculum“ del vescovo Attone di Vercelli, secondo cui la morte di Berengario e la conseguente ascesa al trono di Ugo di Provenza (926) segnarono un cambiamento netto nelle strategie politiche regie e dunque un’alterazione sostanziale nelle forme di esercizio del potere rispetto al precedente periodo carolingio e agli anni delle guerre civili. La ricostruzione politica è quindi strutturata in tre nuclei tematici fondamentali, che forniscono la chiave interpretativa delle vicende dei sovrani italici: frattura e continuità all’indomani della conquista carolingia durante i regni di Pipino e Bernardo (774–818); il consolidamento del regno nella compagine imperiale al tempo di Lotario I e Ludovico II (822–875); la crisi istituzionale e politica nel periodo delle guerre civili (875–905) e nel regno di Berengario I (905–924). L’analisi delle forme di potere nell’area lombarda entra nel vivo nel terzo capitolo, dedicato a forme e contenuti dell’autorità del potere carolingio. Si ricercano cioè applicazioni pratiche dell’ideologia politica carolingia – delineata nel paragrafo „Pensare l’ideale: la res publica nella voce degli intellettuali“, pp. 145–156 – nella prassi amministrativa dei vescovi e degli ufficiali pubblici di area lombarda, che era fortemente influenzata dall’intrinseca tendenza a promuovere e patrimonializzare il potere dei singoli nelle specifiche aree d’azione. Peculiare è il caso della chiesa di Cremona e dei suoi vescovi che „riesce a restituire la voce ‚quotidianaʻ di un rappresentante dell’ordo episcopalis carolingio“ (pp. 182 sg.), grazie all’eccezionale apporto informativo del „Codex Sicardi“ (sec. XII). Anche l’azione degli ufficiali laici minori trova spazio nell’analisi poiché le loro vicende „consentono di interpretare l’articolazione della società tra città e campagna; i meccanismi di rappresentazione dell’autorità e la reciproca influenza esercitata dal potere centrale“ (pp. 196 sg.). Alle carte private si affianca qui l’esame dei verbali delle sedute giudiziarie lombarde, attraverso cui è possibile ricostruire le carriere di alcuni, significativi agenti periferici del regno, in particolare gastaldi e vicecomites milanesi. Conclude il quadro delle strutture del regno il quarto capitolo, che si propone di „valutare quali fossero e come venissero amministrate le basi fondiarie del potere regio“ (p. 214) in area lombarda. L’esame combinato di diplomi e placiti restituisce un quadro complessivo dei beni pubblici documentati per il secolo IX nella specifica area esaminata. La ricerca avrebbe potuto però diventare maggiormente puntuale se il bacino documentario fosse stato preso in esame su una prospettiva cronologica più ampia e con criteri di analisi più raffinati. Fu infatti nel secolo XII che la documentazione pubblica altomedievale fu rielaborata per produrre veri e propri dossier da esibire in giudizio per rafforzare le posizioni di monasteri e chiese di fronte alla riorganizzazione del regno attuata da Federico I Barbarossa. Conclude il volume una disamina dedicata agli spazi dell’autorità pubblica in area lombarda, vale a dire – naturalmente – le città, ma anche i palatia rurali e i campi aperti, dove avevano luogo le grandi assemblee pubbliche, che punteggiavano il paesaggio della Königslandschaft lombarda e conferivano pervasività al potere regio carolingio.
Edoardo Manarini
Francesco Pipino, Chronicon. Libri XXII–XXXI. Edizione critica e commento a cura di Sara Crea, Firenze (SISMEL. Edizioni del Galluzzo) 2021 (Edizione Nazionale dei Testi Mediolatini d’Italia 59. Serie I 30), VIII, 1022 S., ISBN 978-88-9290-069-1, € 148.
Nur wenig ist über den in Bologna lebenden Dominikaner Francesco Pipino († kurz nach 1328) bekannt. Wenige autobiographische Hinweise in seinen eigenen Werken erlauben es kaum, sein Leben zu rekonstruieren. Nur ein einziges Mal scheint er für längere Zeit seinen Bologneser Heimatkonvent San Domenico überhaupt verlassen zu haben: 1320 führte ihn eine Pilgerreise ins Heilige Land, nach Syrien, Ägypten und Konstantinopel – eine Reise, die er im „Tractatus de locis Terrae Sanctae“ verarbeitete. Weitere Schriften sind überliefert. Unter ihnen ragt eine in lateinischer Sprache verfasste Universalchronik heraus, deren Edition sich Sara Crea im Rahmen einer an der Università degli Studi della Basilicata entstandenen Diss. angenommen hat. Die Chronik umfasst insgesamt 31 Bücher, die den Zeitraum von 754 bis 1317 abdecken, von der Regierung Karls des Großen bis ins Pontifikat Clemensʼ V. Ergänzende Zusätze reichen bis ins Jahr 1322. Jedes Buch behandelt die Regierungszeit eines Kaisers, wobei Friedrich I., Heinrich VI. und Friedrich II. besondere Beachtung geschenkt wird. Eine Ausnahme bildet allein Buch XXV, in dem über die Geschichte der Kreuzzüge gehandelt wird (vgl. zu einem kurzen inhaltlichen Überblick der einzelnen Bücher, S. 9–16). Pipinos „Chronicon“ steht in der Tradition der Bettelordenschroniken dominikanischer Couleur, wie sie von Vinzenz von Beauvais oder Martin von Troppau verfasst worden sind. Das Werk ist in einer einzigen, in der Biblioteca Estense in Modena aufbewahrten Pergamenths. überliefert (ɑ.X.1.5) und war bisher nur durch einen Teilabdruck in Ludovico Antonio Muratoris „Rerum Italicarum Scriptores“ (Bd. 9, 1726) bekannt. Wie Muratori vor ihr, ediert Sara Crea lediglich die Bücher XXII–XXXI. Sie decken einen Zeitraum ab, der von Friedrich I. Barbarossa bis zu Heinrich VII. reicht. Ihr Blick geht aber weiter und tiefer: durch die Identifizierung und Analyse der zugrundeliegenden Quellen werden Mechanismen der Wissensübermittlung und -aneignung verdeutlicht. Darüber hinaus lässt sich die Bibliothek rekonstruieren, auf die bei der Abfassung der Chronik zurückgegriffen wurde. Die von Pipino präsentierte Geschichte zeigt sich von der konstanten Präsenz Gottes durchdrungen, ein Gott („Deus auctor“, wie es in lib. XXV, 55 heißt), der nicht fern ist, sondern in die Geschichte hinein wirkt. Der Mensch ist dazu aufgerufen, diese Präsenz Gottes wahrzunehmen und darauf aufbauend sein Verhalten moralisch zu ändern und zu verbessern. Die Struktur der einzelnen Bücher ähnelt sich: Zunächst werden die zentralen Ereignisse innerhalb der Herrschaftszeit eines Königs bzw. Kaisers abgehandelt, um dann kleine biographische Abrisse weiterer dramatis personae, also von Päpsten, europäischen Souveränen, herausragenden Geistlichen, Heiligen und Gelehrten zu liefern. Auch die Geschichte und Geschicke norditalienischer Städte kommen nicht zu kurz. An Pipinos Hauptquelle, den „Speculum Historiale“ des Vinzenz von Beauvais, von dem 195 von insgesamt 639 Kapiteln abhängen, lagert sich eine Vielzahl weiterer Quellen an, auf die Crea in ihrer Einleitung detailliert eingeht (S. 16–101). Universal- und Stadtchroniken finden sich ebenso darunter wie Biographien, Heiligenviten, Briefe oder Urkunden. Pipino verbindet die Quellen miteinander und webt so einen Text, der aus bereits Vorhandenem durch geschicktes Arrangieren Neues schafft. Nicht immer löst er dabei Widersprüche auf, die sich aus der Konfrontation unterschiedlicher Quellen ergeben. Das „Speculum Historiale“ ist nicht nur die Hauptquelle des „Chronicon“, sondern auch Vorbild für dessen Gliederung. Anders aber als im frankreichzentrierten „Speculum“ der Fall, erweitert Pipino den geographischen Horizont seiner Chronik erheblich. Als zweites universalchronistisches Vorbild dominikanischer Prägung fungiert Martin von Troppau. Einflussreich wirken auch die Schriften von Riccobaldo da Ferrara, vor allem zwei im Übergang vom 13. zum 14. Jh. verfasste Werke, das „Pomerium Ravennatis Ecclesie“ und ein „Compendium“. Pipino bedient sich auch der „Historia Federici I“ aus der Feder des Ottone Morena (und seiner Fortsetzer) und der anonymen „Gesta Federici I in Lombardia“. Die letztgenannten Stadtchroniken leisten vor allem bei der Beschreibung der Auseinandersetzungen Friedrichs I. mit den oberitalienischen Städten gute Dienste. Dem Sonderfall des 25. Buches mit seiner thematischen Fokussierung auf die Kreuzzüge wird auch von der Hg. besondere Beachtung geschenkt. Dem in diesem Buch behandelten Zeitraum von 611 bis 1231 liegen zwei Hauptquellen zugrunde: die „Estoire de Eracles“ (eine Übersetzung der lateinischen Chronik des Wilhelm von Tyrus) und die „Cronique“ aus der Feder von Ernoul und Bernard le Trésorier. Ein weiterer Text in volgare sollte einigen Einfluss insbesondere bei der Darstellung der Tartaren und ihrer Lebensweise ausüben: Marco Polos „Il Milione“. Pipino hatte den gesamten Text bereits zwischen 1302 und 1315 ins Lateinische übersetzt und konnte nun auf seine eigene, ungemein erfolgreiche Vorlage zurückgreifen, die er stellenweise jedoch abänderte, ergänzte bzw. verbesserte, auf jeden Fall syntaktisch anspruchsvoller gestaltete. Einige Mühe verwendet die Hg. darauf, den Text genauer als bisher zu datieren. Unstrittig ist, dass durch den Verweis auf die Rebellion der englischen Barone gegen Edward II. und den 1322 erfolgten Tod des Thomas von Lancaster (lib. XXX, 23) zumindest dieser Teil der Chronik nach diesem Datum entstanden sein muss. Orthographisch folgt der Editionstext im Großen und Ganzen der Vorlage, vorsichtig abwägende Normalisierungen erhöhen freilich dessen Lesbarkeit ebenso wie eine kluge Interpunktion. Die Edition arbeitet mit zwei Apparaten. Der erste, philologischer Natur, verzeichnet die Eingriffe des Kopisten und der Editorin, die von anderer Hand vorgenommenen Ergänzungen und die abweichenden Lesarten in Muratori, der zweite dient dem Nachweis der Quellen. Kürzere kommentierende Anmerkungen finden sich am Schluss des Bd. (S. 893–960). Die von Federica Landi zuverlässig erstellten Indices („Indice dei manoscritti“; „Indice dei luoghi“; „Indice dei nomi“; ein Sachindex fehlt leider) erleichtern den Zugriff auf den umfangreichen und wichtigen, nahezu fehlerfreien Text, der der Forschung nun endlich in einer zuverlässigen Gestalt zur Verfügung steht und mehr als deutlich macht, dass Pipino kein „passivo compilatore“, sondern ein „attivo architetto e pianificatore della sua cronaca“ (S. 134) war.
Ralf Lützelschwab
Wolfgang Huschner/Theo Kölzer/Marie Ulrike Jaros (Hg.), Herrscherurkunden für Empfänger in Lotharingien, Oberitalien und Sachsen (9.–12. Jahrhundert) / I diplomi dei sovrani per i destinatari in Lotaringia, Italia settentrionale e Sassonia (secoli IX–XII), Leipzig (Eudora-Verlag) 2020 (Italia Regia 2), 416 pp., ill., ISBN 978-3-938533-43-7, € 89.
Edita dalla casa editrice Eudora-Verlag di Lipsia e resa ben riconoscibile da volumi di pregio in grande formato, la collana „Italia Regia“ promuove un approccio integrato di storia e diplomatica, nel quale va vista una delle più recenti e riuscite proposte di rinnovamento degli studi medievistici. Dopo il primo volume della collana dedicato ai diplomi regi e imperiali per destinatari della Toscana, pubblicato nel 2016, questo secondo volume si segnala per una prospettiva comparatistica, in cui i diplomi dei sovrani per destinatari del regno italico sono affiancati a quelli per destinatari della Lotaringia e della Sassonia. L’arco temporale d’indagine è compreso tra l’inizio dell’età carolingia e il regno di Enrico VI. Nonostante il volume non si prefigga lo scopo di giungere a una sistematica comparazione dei diversi casi di studio analizzati, e infatti manca di conclusioni che stilino un bilancio in tal senso, la prospettiva comparatistica emerge fin dalla decisione di organizzare i ventisei saggi che lo compongono in tre sezioni, ognuna delle quali è dedicata a un diverso ambito sovraregionale, qui inteso come „Urkundenempfängerregion“ (Lotaringia, pp. 37–164; Italia settentrionale, pp. 165–298; Sassonia, pp. 299–378). Questa prospettiva riflette una opzione metodologica delle ricerche di Eckhard Mertens-Müller e di Wolfgang Huschner, che hanno grandemente promosso il confronto strutturale e morfologico tra macroaree diverse dello spazio imperiale. Non a caso Wolfgang Huschner non è solo uno dei principali animatori della collana „Italia regia“, ma anche uno dei curatori di questo volume, insieme con una dei suoi allievi, Marie Ulrike Jaros, e un altro illustre medievista e diplomatista come Theo Kölzer. Il principale filo rosso che accomuna i diversi saggi, legandoli con coerenza tra loro, va individuato nella proposta metodologica che ispira il volume e ne costituisce la cifra distintiva. Ne consegue la particolare rilevanza dell’introduzione – in duplice versione: tedesca e italiana – che anzitutto esprime il rifiuto di una interpretazione dei diplomi regi e imperiali quali espressioni unilaterali della volontà dell’emittente e scritture standardizzate prodotte da presunti funzionari di cancelleria. Tutti i saggi analizzano queste fonti nella loro natura di documenti solenni, che, tanto nel testo quanto negli aspetti grafici, riflettevano l’esito delle negoziazioni politiche effettivamente intercorse tra la corte regia e il destinatario, spesso con il coinvolgimento di mediatori. Nell’introduzione è poi esposta un’articolata Fragestellung, che si incentra su tre questioni decisive: il processo di produzione dei diplomi in relazione alle diverse fasi di sviluppo del documento; il rapporto tra caratteri estrinseci e intrinseci; lo spettro di funzioni assolte, di caso in caso, dai singoli diplomi, anche su un arco temporale lungo. Da tali questioni scaturiscono una serie di interrogativi relativi a chi, tra emittente e destinatario, fosse l’autore dell’iniziativa politica che portava alla produzione del diploma; alle circostanze che sollecitavano la stesura di un nuovo privilegio (il cambio di governo al vertice del regno o dell’istituzione destinataria del diploma; la convocazione di diete, la competizione tra re concorrenti, etc.); alle relazioni tra Vorurkunden e Nachurkunden, come pure alle finalità perseguite nelle operazioni di copiatura, interpolazione e falsificazione; all’importanza attribuita ai contenuti giuridici del testo e/o agli elementi simbolici della pergamena solenne; alla eventuale corrispondenza tra le date croniche e le ricorrenze del calendario liturgico. Inevitabilmente non tutti gli interrogativi hanno potuto essere affrontati nei ventisei saggi, ma in ciascuno di essi la prospettiva del destinatario è stata costantemente valorizzata. In questo senso si segnala la proposta di una „integrierte Diplomatik“, avanzata da Michel Margue, che suggerisce di analizzare i diplomi in stretto rapporto – sincronico e diacronico – con l’intera produzione scritta del loro destinatario (mandati, atti privati, cronache, cartulari, scritture memoriali). Al di là del comune impianto metodologico è poi possibile individuare all’interno del volume alcuni nuclei tematici. Con riferimento ai destinatari italici sono stati i diplomi rilasciati nel periodo 850–950 – tra l’età tardo-carolingia e quella dei „re nazionali“ – ad aver offerto materiale d’indagine particolarmente adatto a rispondere alle sollecitazioni della Fragestellung. Lo si osserva nei contributi di François Bougard sui diplomi nei fondi piacentini, di Nicolangelo D’Acunto su S. Ambrogio di Milano e in quelli di alcuni esponenti della Leipziger Schule: Sebastian Roebert, che ha ricostruito le differenti linee di trasmissione documentaria lungo le quali erano alternativamente inseriti i diplomi per il monastero pavese di S. Maria Theodota; Marie Ulrike Jaros e Karina Viehmann (quest’ultima prematuramente scomparsa), che hanno analizzato i diplomi per le chiese, i vescovi e i canonici, rispettivamente, di Reggio Emilia e di Parma. Soprattutto Viehmann è giunta a risultati nuovi che ridimensionano in modo convincente i sospetti da sempre nutriti dalla storiografia sull’autenticità di importanti diplomi per la chiesa di Parma. Proprio il tema delle falsificazioni – sia quelle effettive sia, soprattutto, quelle messe in discussione, come nel caso di Parma appena ricordato – emerge come uno dei più interessanti. In particolare il saggio di Cristina Mantegna su S. Sisto di Piacenza riclassifica diplomi, finora giudicati falsi, come originali prodotti in modo differito nel tempo in rapporto a una medesima azione politico-giuridica, la cui finalità può essere compresa alla luce della funzione non solo dispositiva, ma anche e soprattutto confirmatoria del documento solenne. La duplice redazione del testo di uno stesso diploma, seppur priva di sospetti in merito alla genuinità, è al centro anche dello studio di Antonella Ghignoli, che, analizzando due esemplari che tradiscono il testo di un privilegio di Corrado II per la chiesa di Ravenna (D Ko.II. 208a–b), ribalta la precedente identificazione dell’originale proposta da Harry Bresslau e, al tempo stesso, offre un prezioso saggio di metodo di più generale applicazione. Con riferimento alla dimensione simbolica spicca il contributo di Wolfgang Huschner sui diplomi salici per destinatari di Merseburgo, soprattutto per la tesi sul signum speciale. Confermando la tesi di Peter Rück sul suo scioglimento in Maria contro quella di Paul Kehr, che vi leggeva manu propria, Huschner compie un ulteriore passo, attribuendo la sua elaborazione non alla corte di Enrico III, ma alla chiesa di Würzburg, in connessione con l’attività del vescovo Bruno (1034–1045) e dello scriba Burchard A. La crescente attenzione delle più recenti ricerche nei confronti della dimensione comunicativa, visuale, rituale e commemorativa dei diplomi – un’attenzione di cui questo stesso volume è complessivamente espressione – trova infine un correttivo nei contributi di Andrea Stieldorf e, con maggiore nettezza, di Theo Kölzer su monasteri della città o del suburbio di Treviri, rispettivamente Oeren e S. Massimino. I due studiosi insistono sulla necessità di considerare i diplomi come documenti eminentemente giuridici, come tali finalizzati alla Rechtssicherung, mentre giudicano accessori gli altri possibili significati o finalità a essi connessi.
Stefano Manganaro
Marco Bolzonella, Oltre i confini del dogado. L’espansione patrimoniale degli enti ecclesiastici veneziani nel Padovano (secoli IX–XIV), Roma (Viella) 2022 (Deputazione di Storia Patria per le Venezie. Studi 10), 280 S., ISBN 978-88-3313-974-6, € 34.
Die Serenissima dehnte im Spätmittelalter ihren Herrschaftsbereich bekanntlich im östlichen Mittelmeer, aber auch im eigenen Hinterland aus. Bolzonella widmet sich der vom 9. bis 14. Jh. erfolgten Besitzausweitung der venezianischen Gotteshäuser im Padovano samt den wirtschaftlichen, gesellschaftlichen und politischen Implikationen und zeigt so den Einfluss der Lagunenstadt ebenda auf (den „contado invisibile“), noch bevor ihre Heere die Region im frühen 15. Jh. eroberten. Dieser holistische Ansatz ist begrüßenswert und fruchtbar. So kann sich der Vf. zwar auf zahlreiche Vorarbeiten von Roberto Cessi, Sante Bortolami oder Gérard Rippe – um nur einige zu nennen – stützen, wie in der Einleitung dargelegt wird (S. 13–28); doch fehlte bisher eine umfassende Würdigung der venezianischen Besitzausweitung im Padovano (und nicht nur dort). Die Studie zerfällt in drei Teile zu Wirtschaft, Gesellschaft und Politik; dabei kommt es wiederholt zu Querverbindungen, ohne dass diese redundant wirken. Der erste Abschnitt (S. 29–92) beginnt mit einem chronologischen Überblick des von den geistlichen Einrichtungen Venedigs erworbenen Grundbesitzes im Paduaner Gebiet, der ab dem 12. Jh. zunahm und nicht selten um Privilegien (z. B. Zehnt, Zollfreiheit) erweitert wurde. Bevorzugt erwarb man Besitz an den Wasserwegen, doch auch in der Stadt Padua sicherte man sich Immobilien (S. 30–49). Durch Rodungen, Trockenlegungen oder Kanalbauten griffen die venezianischen Grundbesitzer durch Kooperation mit oder in Konfrontation zu der Lokalbevölkerung in die Umwelt ein. Die Verwaltung der Güter erfolgte in der Regel durch Verpachtung von Parzellen. Überlieferungsbedingt lasse sich allerdings nicht feststellen, wer auf den Ländereien arbeitete. Erhellt wird, wie sich die Vertragsmodalitäten veränderten: von langen, teils unbefristeten Pachtdauern im 12. Jh. zu durchschnittlich drei bis fünf Jahre gültigen Abkommen im 14. Jh., von anfangs variierenden Abgaben zu einer festen Quote oder Menge ab dem frühen 13. Jh. (S. 67–81). Insbesondere Getreide, Wein, Leinen oder Holz aus dem Festlandsbesitz versorgten die geistlichen Gemeinschaften aus der unfruchtbaren Lagune (S. 82–92). Der zweite Teil behandelt ihre Verbindungen zur Venezianer sowie zur Paduaner Gesellschaft (S. 93–132). Die Geistlichen profitierten zunächst von den Dogen, dann von dem comune Veneciarum, aber auch von den Schenkungen und Stiftungen zahlreicher Führungsfamilien, die dadurch zugleich ihren Einfluss geltend machten, neue Kontakte knüpften und Einnahmen erzielten. Die jeweiligen Bindungen, z. B. zwischen S. Servolo und den Familien Foscari und Viaro, werden eindrücklich aufgezeigt (S. 94–102). Auch mit zahlreichen Geschlechtern aus Feudaladel und Stadtaristokratie Paduas wurde interagiert, etwa den Tadi. Die liquiden Venezianer Klöster konnten in Krisenzeiten mit ihrem Geld aushelfen, jedoch den Besitz der Paduaner Sippen aushöhlen, wie S. Michele di Brondolo im späten 12. Jh. durch Kauf von Gütern und Rechten der verschuldeten Da Carrara (S. 102–107). Mit Vertretern der lokalen Bevölkerung im Umland, allen voran angesehenen Notaren und Richtern ging man ebenfalls Verbindungen ein, wenngleich Spannungen nicht ausblieben (S. 122–132); zudem wurden feudale Bindungen abgeschlossen, wie am Beispiel S. Ilario demonstriert wird (S. 112–122). Die dritte Sektion widmet sich den politischen Beziehungen (S. 133–167), beginnend bei den pacta mit den Königen des 9.–11. Jh., die formell über das Regnum Italiae verfügten. Im 12./13. Jh. folgte ein wechselhaftes Verhältnis zur Paduaner Stadtkommune, die sich das Umland einverleibte, indem sie konkurrierende Rechteinhaber ausschaltete und daher auch mit dem Kloster S. Ilario in Konflikt geriet, den Venezianer Gotteshäusern im Duecento aber eine weitestgehende Abgabenfreiheit gewährte. Unter Ezzelino III. und in den 1280–1290er Jahren war die Lage angespannt, wohingegen zu den Carraresi anfänglich gute Kontakte bestanden, ehe es unter Francesco il Vecchio zum Bruch kam. Grundbesitz, aber auch Pfarreien und Kapellen der geistlichen Einrichtungen Venedigs hätten insgesamt eine nicht zu unterschätzende politische Bedeutung besessen. Überraschenderweise wird auf eine Zusammenfassung der Ergebnisse verzichtet. Beigegeben sind Tabellen zur Qualität wie Quantität der venezianischen Besitzungen im Padovano (S. 171–177), Karten (S. 178–180), genealogische Tafeln (S. 181–184) und eine Edition von 15 ausgewählten Dokumenten (S. 185–207). Auf die Quellen- und Literaturverzeichnisse (S. 209–256) folgt ein kombiniertes Personen-, Orts- und Institutionenregister, das zur Orientierung im detailreich entfalteten Panorama hilft (S. 257–278). Bolzonella hat ein längst überfälliges Buch vorgelegt. Dass es auch als OA-E-Book erscheint, dürfte dieser wichtigen Studie zum „unsichtbaren Contado“ Venedigs die verdiente Sichtbarkeit zuteilwerden lassen.
Giuseppe Cusa
Dario Internullo, Senato sapiente. L’alba della cultura laica a Roma nel medioevo (secoli XI–XII), Roma (Viella) 2022 (La corte dei papi 33), 408 pp., ill., ISBN 978-88-3313-838-1, € 38.
Il libro di Dario Internullo è solo l’ultimo – come è ovvio supporre, per il momento – di una nuova fase di studi su Roma medievale. Una stagione storiografica che, forse in quanto figlia di tempi in cui si fatica a trovare il filo di ogni cosa, ancora non risulta apparsa nella sua piena importanza a molti ma che invece, indubbiamente, sta contribuendo a offrire un’immagine nuova della Città cosiddetta Eterna, di un’eternità che, tuttavia, non può non conoscere anch’essa tornanti, quando non cesure, che segnano una pluralità e diversità di fasi. È peraltro evidente il collegamento con altre, più vecchie stagioni, ai loro tempi altamente innovative, come quelle degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. In „Senato sapiente“ si respira aria di lavoro personale ma ben ossigenata da un coro a più voci, ricco e articolato, di cui la parte legata agli studi su Roma è ovviamente centrale. Ciò non significa che il confronto storiografico sia fermo a quarant’anni fa o all’ambito romano: tutt’altro! Si giunge ai più aggiornati e già maturi contributi legati alle città comunali, e si ricorderanno qui almeno Enrico Faini e Giuliano Milani, ma anche a più e meno giovani nomi che verranno esplicitati in chiusura e che consentono anche di „virare“ verso un carattere nodale del libro, cioè il nesso tra istituzione (comunale, in questo caso) e cultura scritta: un nesso che sta producendo una prolifica stagione di studi per la quale un ruolo importante hanno avuto lavori come „L’eccezione italiana“ di Ronald G. Witt ma anche il precedente e meno ricordato Robert Black di „Humanism and Education in Medieval and Renaissance Italy“. Si rinuncia qui per limiti di spazio a menzionare la storiografia sul papato ma non si potrà dimenticare uno storico dell’arte come Richard Krautheimer, per chiudere ciò che non deve apparire come una mera elencazione di nomi ma la sottolineatura dell’ampiezza ed eterogeneità della base storiografica di Internullo: il libro è davvero capace di prendere il meglio da una vastissima mole di studi senza per questo rinunciare ad essere innovativo. Ciò anche per lo stile: è uno studio giovane, in senso positivo, per uno stile che, pur tradotto nella forma classica del libro scritto, è capace di pennellate che esprimono una brillante voglia di novità, parola che non si adopera qui nel senso che avrebbe adottato il cardinale Bosone sulla scia di Cicerone e che viene ricordato dall’autore. Per fare un esempio: per descrivere come cresca la competenza scrittoria e retorica dei Comuni, Internullo scrive che il processo si concreti „un po’ come in una pista da ballo: con un occhio si copiano i maestri e con l’altro si guardano tanto gli amici quanto i rivali“ (p. 145). Anche in alcuni aspetti più esteriori il libro mostra fresca disinvoltura, come nell’uso del grassetto per evidenziare alcuni passaggi o nell’apparato di note piuttosto snello, caratteristica però, questa, forse più legata alla collana in cui esce, „La corte dei papi“ diretta da Agostino Paravicini Bagliani. Il libro di Internullo si propone, dunque, con autorevolezza tra quelli che stanno contribuendo a una lettura di Roma medievale, da un lato, ma anche, da un altro, tra quelli che stanno studiando l’intreccio tra cultura, prassi scrittorie e istituzioni cittadine per altri studi di caso. Per l’autore, le specificità romane sono fondamentalmente riassunte in due aspetti: il primo, il dotarsi da parte del Comune di Roma di un palazzo pubblico e, per giunta, sul Campidoglio, fin dal secolo XII; il secondo è che il Comune romano si chiami, nelle fonti, Senatus e non Commune; al quale fanno riferimento due cariche istituzionali, quella del senator e quella dello scriba Senatus. Tutto ciò ha un evidente legame con il passato di Roma ben precedente il secolo XII e ne deriva che il libro poteva essere scritto solo da una persona dagli ampi orizzonti cronologici e dalle vaste conoscenze. Rispetto al tema centrale, individuate quattro fasi dello sviluppo politico del comune romano, vengono tratteggiati i profili sociali dei protagonisti del Senato romano e, tra di essi, di quelli che Internullo chiama i „protagonisti dotti“ (p. 354): scrinarii e iudices sono imbevuti di una cultura libraria promossa dal papato che li porta a conoscere la storia antica e altomedievale, i classici latini e i cataloghi dei monumenti romani. Essi divengono, così, dei professionisti urbani peculiari nel panorama peninsulare per non dire europeo. Tuttavia, fatte le dovute distinzioni, Internullo trova elementi di comparazione tra questi professionisti della cultura scritta del secolo XII romano e altri casi valorizzati, in anni recenti, da Gianmarco De Angelis per Bergamo, da Alberto Cotza per Pisa, da Paolo Tomei per Lucca, da Massimo Vallerani per la regione veneta; così come trova elementi di differenziazione rispetto alla Milano di Padoa Schioppa o alla Bologna di Chris Wickham. Rispetto a quest’ultimo, Internullo sembra essere incline a vedere una maggiore consapevolezza da parte dei protagonisti del cambiamento politico già in atto nella prima metà del secolo XII. Il libro è, in conclusione, un contributo che non mancherà di suscitare grande interesse in chi si occupa di Roma ma, anche, dello sviluppo di cultura e istituzioni nel medioevo centrale.
Mario Marrocchi
Joanna Drell/Paul Oldfield (Eds.), Rethinking Norman Italy. Studies in honour of Graham A. Loud, Manchester (Manchester University Press) 2021, 392 pp., ISBN 978-1-5261-3853-8, GBP 85.
The rather plain title of this edited volume conceals its considerable intellectual excitements. The book is a tribute to Graham Loud, the distinguished scholar of medieval southern Italy. This volume appears as many medievalists are still digesting Loud’s most recent work, on the Salernitan abbey of La Trinità della Cava. As Loud has made the historiographical weather for Norman Italy, so too do his interests shape this volume. The contributions draw on distinctively ‚Loudian‘ themes: the challenges of the archive, chronicles and the creation of historical narratives, church reform, and the connections between Southern Italy and other polities. The „rethinking“ of the title does not indicate the junking of previous scholarship. Indeed, part of the point of the book is to build on rich work done over the past several decades, much of it undertaken by Loud and his students. Beyond a tribute to Loud, the volume also serves as an excellent (and accessible) introduction to the current state of studies on Norman Italy. In that vein, David Abulafia’s chapter on Anglophone research on Southern Italy from the early twentieth century to the 1970s will be valuable to any graduate student beginning work on the region. Abulafia makes the case for revisiting the insights of these researchers, even while acknowledging their limited access to archival material. It also contains some striking detail on earlier scholars: the great Evelyn Jamison was still producing weighty articles on the Norman judicial system at the age of 91 (a feat other historians must hope, rather than expect, to emulate). One is struck too, by just how much early twentieth-century scholarship on Southern Italy was prompted by historians’ summer holidays to the region. Almost all the chapters in the volume deal with recalcitrant, demanding sources. Take, for example, the „Chronicon“ of Falco of Benevento, discussed in several chapters, including those by Edoardo D’Angelo and Markus Krumm. The sixteenth-century Beneventan physician Giulio del Sindico made a copy of Falco’s twelfth-century text. Both Falco’s original and del Sindico’s transcription are now lost, and we are reliant on early modern copies of the copy. It is to the credit of the contributors that they manage both to acknowledge the complexity of the source materials and to offer meaningful insights into their interpretation. Likewise, Sarah Davis-Secord examines Roger II’s silver ducalis, deftly using the iconography and significance of the coin as a means of exploring Norman ambitions in the Byzantine Balkans and Roger’s own concerns about succession. Lioba Geis dexterously handles the tricky evidence for the success of papal programmes to extirpate simony in southern Italy. Despite geographical proximity, Norman Italy remained distant from Rome, and the reforming zeal of the north was seemingly swallowed in the fog of local politics. The question of how much authority the papacy exerted in southern Italy develops a theme that runs through Loud’s work, and that of Loud’s own doctoral supervisor, Herbert E. J. Cowdrey. The volume approaches the longstanding problem of connection between ‚Norman Italy‘ and ‚Norman Normandy‘ with considerable subtlety. Luigi Russo dissects the historiography of Norman ‚empire‘. Benjamin Pohl demonstrates the connections between one of the premier southern Italian monasteries of the early Norman period, St Euphemia in Calabria. Pohl demonstrates that St Euphemia’s founding charter was self-consciously modelled on that of St Evroult in Normandy. But this was not so much part of a grander ‚Norman‘ vision, but rather the particular desire of the abbot Robert de Grandmesnil. There is also work here that should be read by those historians who have never contemplated a southern Italian vista. Paul Oldfield examines the Anglo-French crusaders lodged in Messina in the winter of 1190–1191, and the tensions between city and the military camp. Oldfield provides the view from Messina: hungry, demanding, and tone-deaf crusaders inflamed pre-existing civic tensions because they did not appreciate the local rules of the game. Other work points more explicitly to future study. Alex Metcalfe’s chapter provides a meticulous reconstruction of the Arabic names of eighty three names recorded in a cartulary from Cefalù, villani given to the cathedral by Roger II. On such evidence, larger social, economic, and political histories wait to be built. All in all, this makes for a very satisfying set of chapters, and – unusually for an edited volume – a coherent whole. There is no shortage of recent collections on Norman Italy and the Normans more generally, but this must be counted among the most successful. The minds of historians are notoriously inscrutable, but one imagines that Graham Loud is pleased with such a tribute.
Philippa Byrne
Martin Fuß, Inklusivismus und Toleranz. Das Bauprogramm und die Religionspolitik Rogers II. im theologischen Kontext des Hohen Mittelalters, Münster (Aschendorff Verlag) 2021 (Beiträge zur Geschichte der Theologie des Mittelalters. Neue Folge 88), 506 S., ISBN 978-3-402-10303-6, € 76.
Die hier zu besprechende Studie, die vom Vf. im Jahr 2020 an der Katholisch-Theologischen Fakultät der Julius-Maximilians-Universität zu Würzburg als Habilitationsschrift eingereicht wurde, betritt wissenschaftliches Neuland. Mithilfe der relativ jungen Unterdisziplin der Fundamentaltheologie, der „Theologie der Religionen“, versucht Fuß, neue, interdisziplinäre Antworten auf die bereits oft gestellte Frage nach der ungewöhnlich „toleranten“ Politik des normannischen Königs Rogers II. von Sizilien zu finden. Die kulturelle Offenheit Rogers II. und das multireligiöse Miteinander am königlichen Hof in Palermo, das als kultureller Synkretismus bleibende Spuren in der sizilischen Kunst und Architektur hinterlassen hat, war schon oft Gegenstand der Forschung (vgl. vor allem die grundlegenden Studien von Hubert Houben und Jeremy Johns). Erfrischend neu ist nun die Herangehensweise des Autors, der bisher wenig erforschte zeitgenössische theologische Texte durch die Methode der Theologie der Religionen nach Erklärungen für die aufgeschlossene Religionspolitik Rogers II. untersucht. Dafür werden vor allem ein bisher wenig bekannter Brief Papst Gregors VII. an den Emir an-Nāṣir von 1076, die „Summa contra gentiles“ des Thomas von Aquin und Ramon Llulls „Llibre de gentil“ herangezogen. In einem ersten Kapitel, das dem „multireligiösen Königreich Rogers II.“ gewidmet ist, wird ausgehend von der Kindheit Rogers II. zunächst auf die heterogenen kulturellen und religiösen Elemente am Hof Rogers II., die sich in der Urkundenpraxis, Münzprägung und vor allem in der Herrschaftsrepräsentation (u. a. Palastkultur, Krönungsmantel und Sonnenschirm), aber auch in der personellen Zusammensetzung des königlichen Hofes zeigten, eingegangen. Kapitel zwei und drei rücken anschließend zwei faszinierende Kirchenbauten – die Kathedrale von Cefalù und die Cappella Palatina in Palermo –, die zur Zeit Rogers II. konzipiert wurden, in den Mittelpunkt der Betrachtung. Zunächst werden die architektonische Anlage sowie die künstlerische Ausgestaltung eingehend analysiert und diskutiert. Bei beiden Bauwerken kann ein „wissender Eklektizismus“ (S. 125), d. h. die Übernahme von islamischen, byzantinischen und normannischen Traditionen mit bewusst vorgenommenen Abweichungen von den Einzeltraditionen konstatiert werden. Sehr überzeugen kann die theologische Deutung der Mosaiken, beispielsweise des Pfingstmosaiks, die die positive Wertschätzung und Einbindung von Juden und Muslimen in die christliche Heilsgeschichte herausarbeitet. Überhöht und zusammengehalten wird diese Deutung sowohl in Cefalù als auch in der Cappella Palatina durch Christus Pantokrator, stellvertretend verkörpert in der normannischen Herrschaft durch den christlichen König Roger II., was wiederum Rückschlüsse auf das Herrschaftsverständnis Rogers II. zulässt. Im zweiten Teil des Buches (Kapitel 4–6) versucht der Vf. die These des „lernbereiten Inklusivismus“ auf das Königreich Rogers II. zu übertragen und anhand von theologischen Schriften Papst Gregors VII., des Thomas von Aquin und von Ramon Llull zu belegen. In allen drei herangezogenen Schriften (Brief Papst Gregors VII. an den Emir an-Nāṣir, „Summa contra gentiles“, „Llibre de gentil“) lassen sich die Akzeptanz und Wertschätzung des Judentums und des Islam unter dem Vorzeichen der christlichen Souveränität nachweisen sowie eindeutige Parallelen zur normannischen Politik, Kunst und Architektur unter Roger II. konstruieren. Die Kenntnis der theologischen und religiösen Gemeinsamkeiten ermöglichten die Einbindung der jüdischen und muslimischen Gläubigen in die christliche Herrschaft. Insgesamt bestätigt die vorliegende Publikation nicht nur bereits in der Kunstgeschichte und Mediävistik seit längerem diskutierte Forschungsmeinungen, sondern führt durch die These des „lernbereiten Inklusivismus“ in Einzelaspekten auch noch zu neuen, überzeugenden Interpretationen. Weiterführend wäre eventuell noch eine Berücksichtigung der Studien von Mirko Vagnoni zur Herrschaftssakralität der normannischen Könige gewesen. Abgeschlossen wird der Bd., dem eine reiche Rezeption zu wünschen ist, durch ein Quellen- und Literaturverzeichnis. Leider fehlt ein Personen- und Ortsregister.
Julia Becker
Francesco Carbonaro, The Norman Admiralty. History of an Office Between Two Worlds, Berlin (Logos Verlag Berlin GmbH) 2021, 236 pp., ISBN 978-3-8325-5300-5, € 44.
L’utilizzo del termine „ammiraglio“ potrebbe suscitare una certa sorpresa in uno studioso digiuno delle dinamiche istituzionali del regno normanno di Sicilia. In questo senso, lo studio illustra le pieghe di una carica che inizialmente non era in alcun modo legata al mare e solo dopo un lungo cammino, durato oltre un secolo, avrebbe acquisito la traslazione semantica con cui ancora oggi identifichiamo il comandante di una flotta. In fondo, guardare allo sviluppo dell’ammiragliato significa ripercorrere in parallelo l’intera storia politica del regno normanno, dalla sua nascita alla conquista tedesco-imperiale. Interroga il sottotitolo del lavoro – frutto della tesi di dottorato – di Francesco Carbonaro, „History of an Office Between Two Worlds“, poiché il testo fa emergere bene come i mondi coinvolti siano molti di più: arabo, greco-bizantino e normanno, senza contare ulteriori influenze di personaggi come l’ammiraglio siriano Giorgio d’Antiochia e il latino continentale Maione di Bari. Nell’intreccio di questi universi si colloca un lavoro di storia istituzionale, che tuttavia non rimane chiuso in essa e sa attingere da nuove fonti e ambiti. L’autore si apre a numerose suggestioni, senza tuttavia mai deviare dallo scopo, che è quello di indagare la parabola di una carica/titolo e le sue trasformazioni. L’indagine è dunque incentrata su un manipolo di uomini, sulle loro origini e la loro formazione personale, sui loro network all’interno della corte, sulla percezione esterna e sull’autorappresentazione messa in atto, confrontandosi fin dall’inizio con il precedente lavoro sugli ammiragli di Léon Robert Ménager. Carbonaro illustra i cambiamenti dei compiti dell’ammiraglio, a partire dal suo ruolo iniziale di sovrintendente della città di Palermo in assenza del conte alla fine dell’XI secolo, incarico probabilmente mutuato dai precedenti governi arabi. Sotto l’ammiraglio Cristodulo, nei primi decenni del XII secolo, l’ufficio acquista un profilo più definito, allargando le proprie competenze al dato militare e amministrativo: era un processo avvenuto grazie alle relazioni personali con i regnanti, condividendo il potere con altri ammiragli minori. Il suo successore, Giorgio d’Antiochia, aveva assunto sempre più ruoli amministrativi: a lui si deve la creazione della dohana, grazie al suo precedente periodo presso i potentati nordafricani. Questa creazione, sorta per iniziativa dell’ammiraglio e unica nel mondo occidentale, sarebbe stata decisiva nello sviluppo economico del regno di Sicilia. Giorgio d’Antiochia era divenuto una sorta di primo ministro del re e aveva mostrato il proprio potere con l’edificazione della chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio nel cuore di Palermo. L’apogeo dell’ammiragliato si deve a Maione di Bari, che assommava in sé cariche amministrative, fiscali e militari e agiva abbastanza indipendentemente dall’avvallo del sovrano, in concomitanza con la debolezza dell’istituzione regia. La crescita di potere dell’ammiraglio Maione, che da modeste origini era divenuto più importante dello stesso re Guglielmo, gli aveva provocato profonde inimicizie. Carbonaro legge la parabola del più importante degli ammiragli secondo l’antagonismo con la nobiltà, terminato con l’assassinio di Maione stesso e l’abolizione della carica. L’autore giunge a paragonare gli ammiragli ai maggiordomi del regno dei Franchi, che a differenza di Pipino avevano avuto però esiti istituzionali ben diversi. La carica era scomparsa, a causa della pessima reputazione sviluppatasi sotto Maione, per ricomparire dopo un decennio con un evidente mutamento di prerogative, incentrate sul comando della flotta, mentre le altre mansioni erano passate ai magistri della dohana. I regesti finali del volume di Carbonaro uniscono informazioni ottenute da cronache, documenti editi in cui sono menzionati gli ammiragli o semplicemente fatti storici rilevanti: pur senza introdurre novità assolute, è un’utile sintesi per futuri studi sul regno normanno. Il punto cardine della visione dell’autore è il cambiamento: l’istituzione dell’ammiragliato è fluida, muta nei decenni e la continuità è dettata dal fatto che tutti i protagonisti gettino le basi per il cambiamento successivo. Mentre Ménager affermava che l’ammiraglio normanno era semplicemente una dignità palatina, Carbonaro mostra gli svariati compiti degli ammiragli: sovrintendenti di Palermo, comandanti militari per mare e per terra, ministri della dohana, primi ministri di fatto e, solo alla fine, comandanti navali. Lo studio della dinamica culturale attuato dall’autore è funzionale all’indagine dei mutamenti della carica e finalizzato all’analisi istituzionale. L’analisi culturale è quasi sempre legata a una prospettiva „dall’alto“, in cui le donazioni e fondazioni religiose degli ammiragli sono specchio del loro potere e della stessa concezione del proprio compito. Sono interessanti le pagine dedicate alle suggestioni iconografiche nel paragone tra le chiese di Santa Maria dell’Ammiraglio e San Cataldo, per indicare le differenze nella concezione della regalità tra i due committenti, l’ammiraglio siriano ortodosso Giorgio d’Antiochia e il latino Maione di Bari. Ciò nonostante, la suddivisione proposta tra una stagione culturale „greca“, sotto la coppia Ruggero II-Giorgio, e la „latinizzazione“ del regno sotto la coppia Guglielmo I-Maione, rischia di essere troppo netta e legata a una prospettiva meramente istituzionale, tralasciando dinamiche culturali più basse e di lunga durata. L’ammiragliato normanno è stato un unicum nel mondo medievale, fondamentale per lo sviluppo del governo e della fiscalità, delle attività culturali, delle fondazioni religiose. L’ammiraglio non possedeva, nella lettura di Carbonaro, una sfera di potere ben definita, ma era una figura in continuo cambiamento, in accordo con il momento storico e le abilità personali dei singoli ufficiali. La monografia mostra il fondamentale rilievo della carica: gli studi sul regno normanno di Sicilia non potranno permettersi di ignorare quanto messo in luce da Carbonaro sull’importanza degli ammiragli nel panorama politico di oltre un secolo, quando ancora non stavano solo sul mare.
Simone Lombardo
Claudia Alraum, Wege der Integration. Das Papsttum und die lateinische Kirche Apuliens in normannischer Zeit (1059–1189), Stuttgart (Franz Steiner Verlag) 2021 (Historische Forschungen 31), 256 S., Abb., ISBN 978-3-515-13234-3, € 36.
Das Verhältnis zwischen Papsttum und Unteritalien übt weiterhin Faszination auf die Mittelalterforschung aus. Die einschlägigen Studien, u. a. von Paul Fridolin Kehr, Josef Déer, Norbert Kamp, Houbert Huben, Graham Loud und Lioba Geis, scheinen dieses Arbeitsfeld nicht erschöpft zu haben. Davon zeugen eine jüngere prosopographisch ausgerichtete Doktorarbeit von Antonio Antonetti über den apulischen Episkopat unter den ersten angevinischen Königen sowie die im Folgenden zu besprechende Erlangener Diss. von Claudia Alraum über das Papsttum und die apulische Kirche in normannischer Zeit (1059–1189). Die Studie baut auf in den letzten beiden Jahrzehnten etablierte Forschungstendenzen auf – verwiesen sei auf die von Jochen Johrendt und Harald Müller angestoßenen Arbeiten über römisches Zentrum und kirchliche Peripherie – und fragt nach der Integration der Kirche Apuliens in die von den römischen Bischöfen infolge der „papstgeschichtlichen Wende“ zunehmend zentral regierte Gesamtkirche. Der Reiz der Thematik ergibt sich u. a. aus der besonderen Situation der unteritalienischen Kirche nach der normannischen Eroberung, denn der geographischen Nähe entsprach nicht immer eine kirchenpolitische: Obwohl sich die Normannen in militärischen und politischen Krisensituationen als relativ verlässliche Kooperationspartner der Päpste erwiesen, verwirklichten sie auf verschiedenen Ebenen eine „Kirchenherrschaft“, die in anderen Regionen des lateinischen Europas unzeitgemäß gewirkt hätte. Die Arbeit fragt speziell nach den integrativen Instrumentarien, die von den Päpsten eingesetzt wurden, sowie nach ihrer Wirksamkeit. Die hauptsächliche Quellenbasis bilden die im 9. Bd. der „Italia Pontificia“ von Walther Holtzmann erfassten Kontakte zwischen den Päpsten und den kirchlichen Akteuren Apuliens. Konkret geht es also um die drei Kirchenprovinzen Trani, Bari und Brindisi sowie um das exemte Bistum Monopoli. Basierend auf Kamps Ansatz widmet sich die Untersuchung drei hauptsächlichen Instrumentarien, die als Mittel der von der römischen Kirche vorangetriebenen institutionellen Durchdringung interpretiert werden: der Urkundenproduktion, den Mitteln der persönlichen Bindungen und päpstlichen Präsenz wie Papstreisen nach Apulien oder Reisen von apulischen Geistlichen zur Kurie sowie abschließend der Jurisdiktion, wobei Letztere sowohl die delegierte Gerichtsbarkeit als auch die Legationen umfasst. Im einleitenden Abschnitt (S. 1–30) benennt die Vf. Untersuchungsfeld, Methodik und Untersuchungsraum und geht anschließend auf die maßgeblichen Forschungstendenzen ein, namentlich die Homogenisierung der kirchlichen Peripherien durch das Papsttum, das Verhältnis zwischen Papsttum und Normannen sowie die normannische Herrschaft in Süditalien. Die drei Hauptteile bauen im Wesentlichen auf quantitativen Ergebnissen auf, die zunächst präsentiert und in einem weiteren Schritt problematisiert werden. Im ersten Kapitel (S. 31–45) wird eine kontinuierliche Zunahme der schriftlichen Kontakte zwischen dem Papsttum und den kirchlichen Institutionen Apuliens von 1059 bis 1130 konstatiert, wobei die Pontifikate Urbans II. und Paschalis II. einen vorläufigen Höhepunkt bildeten. Das innozenzianische Schisma bedingte eine drastische Abnahme der päpstlichen Urkundenausstellung für apulische Empfänger und erschütterte die in den drei Jahrzehnten zuvor aufgebauten Netzwerke nachhaltig. Erst unter Alexander III. sei eine erneute Ausrichtung der apulischen Kirche auf Rom und somit eine effektivere Integration festzustellen. Daraus schlussfolgert Alraum eine nahezu strukturelle Abhängigkeit der Integration der apulischen Kirche in die römische von der kirchenpolitischen Stabilität des Papsttums und seinem Verhältnis zu den normannischen Herrschern. Im zweiten Untersuchungsteil behandelt die Vf. zunächst die Papstreisen in Apulien (S. 47–86). In dieser Region weilten die Päpste vergleichsweise selten, und wenn überhaupt, dann auch nicht immer freiwillig. Der primäre Zweck des Besuchs bestand außerdem meistens nicht in der Integration der apulischen Kirche. Nichtsdestotrotz erwies sich die persönliche Präsenz der Päpste als ein gewichtiger Faktor, der nachhaltige Spuren hinterließ und den Boden für die schrittweise Romanisierung der lokalen Kirche bereitete. Als besonders folgenschwer werden die Aktivitäten Urbans II. und Paschalis’ II. bewertet (S. 61–73). Ein weiteres Unterkapitel ist der Praxis der Palliumvergabe gewidmet (S. 86–126). Die systematische Untersuchung der Pallienprivilegien zeigt, dass es in Apulien nie zu Engpässen bei der Vergabe dieser Insignie kam. Allein während des innozenzianischen Schismas erfuhr die Palliumvergabe einen Rückgang, was jedoch auf den für diese Phase besonders bruchstückhaften Charakter der Überlieferung zurückgeführt werden könnte. Dass die Palliumvergabe für die apulischen Metropoliten verhältnismäßig unproblematisch verlief, könnte damit zusammenhängen, dass sie weniger als Kontrollmittel des Papsttums und eher als Legitimationsgrundlage für den Ausbau der Metropolitanverfassung durch die Erzbischöfe wirkte. Im dritten Hauptteil wird die Frage nach der Integration der apulischen Kirche durch die Mittel der päpstlichen Jurisdiktion erörtert. In Bezug auf die delegierte Gerichtsbarkeit ergibt die Untersuchung einen zunehmenden Einsatz unter Alexander III. (S. 141–160). Im Vergleich zu den meisten anderen Regionen Europas hielten sich jedoch Nachfrage und Einsatz durchaus im Rahmen. Legationen kamen hingegen in Apulien kaum zum Einsatz, wobei vor allem die starke Stellung der normannischen Herrscher diesen Umstand begünstigt haben könnte (S. 161–164). Päpstliche Vikariate werden als eine lokale Besonderheit behandelt, die den unmittelbaren Kontakt mit Rom gehemmt haben könnte (S. 165 f.). Die Ergebnisse der Untersuchung werden in einem Fazit gebündelt (S. 169–172). Der Prozess der Homogenisierung der apulischen Kirchenlandschaft habe sich eher in Schüben vollzogen und sei keineswegs als ein planmäßig gestreuter Vorgang zu verstehen. Nur selten habe das Papsttum bis zum Pontifikat Alexanders III. motu proprio agiert. Dem Papsttum haben außerdem die lokalen Personen und Institutionen nicht nur eine kirchenpolitische, sondern auch – und zeitweise vor allem – eine eher religiöse und liturgische Dimension zugewiesen. Trotz Phasen intensiveren Austausches ließe sich insgesamt eine gewisse Romferne der apulischen Kirche feststellen, was wiederum auf die einzigartige Kirchenherrschaft der Normannen zurückzuführen sei. Die drei Anhänge mit Verzeichnissen der päpstlich-apulischen Kontakte (S. 173–195), des Schriftgutes zur delegierten Gerichtsbarkeit (S. 196–213) sowie der Legatenurkunden (S. 214 f.) helfen dabei, die Ergebnisse der Arbeit nachzuvollziehen. Abgeschlossen wird der Bd. durch vier Karten (S. 216–219), ein Verzeichnis der verwendeten Werke (S. 223–248) und ein Register der Orts- und Personennamen (S. 249–256). Die Studie hinterlässt einen zwiespältigen Eindruck. Die quantitativ ausgerichtete Untersuchung hätte mit noch mehr und noch umfangreicheren Fallstudien ergänzt werden können, die zur Erläuterung und Kontextualisierung der Befunde beigetragen hätten. Auch die Leitbegriffe Integration, Zentralisierung und Homogenisierung hätten eingehender definiert und problematisiert werden können. Eine stärkere Berücksichtigung der vornormannischen Zeit, insbesondere der unteritalienischen Aktivitäten Leos IX., hätte abschließend manche Entwicklung des späten 11. Jh. effektiver beleuchten können. Dieser Kritikpunkte zum Trotz bildet Alraums Diss. eine solide quellenbasierte Studie, die das gängige Verständnis über das Verhältnis zwischen dem Papsttum und der unteritalienischen Kirche im späten 11. und 12. Jh. um einige Elemente erweitert.
Étienne Doublier
Alberto Cotza, Prove di memoria. Origini e sviluppi della storiografia nella Toscana medievale (1080–1250 ca.), Roma (Carocci) 2021 (I tempi e le forme 8), 350 S., Abb., ISBN 978-88-290-0549-9, € 35.
Im mittelalterlichen Italien zeichnet sich Pisa durch seine frühe und reichhaltige städtische Erinnerungskultur aus. Seit dem späten 11. Jh. entstanden in der mächtigen tyrrhenisch-toskanischen Seestadt insbesondere Annalen, Chroniken, Geschichtsdichtungen und Inschriften. Diese denkwürdigen Quellen greift Alberto Cotza, mittlerweile Postdoc an der Universität Pisa, in seiner Dissertationsschrift auf und setzt sie in Bezug zu den etwas später einsetzenden Zeugnissen aus Arezzo, Siena und Florenz. Die Frage, warum gerade hier und damals eine neue historiographische Praxis entstand, beantwortet Cotza nicht mehr vorschnell aus dem Wissen um die kommunale Entwicklung. Vielmehr adaptiert er die Ansätze deutscher Mediävisten wie Gerd Althoff und Hagen Keller und forscht nach dem konkreten Anlass und Kontext sowie der pragmatischen Funktion der Geschichtswerke. Solche in der italienischen Forschung erst teilweise (z. B. durch Enrico Faini) etablierten Ansätze sowie der gesamttoskanische Zuschnitt machen die Arbeit innovativ. Besonders weiterführend sind auch die kluge Verknüpfung mit der Frage nach der sozialen Trägerschaft der Werke sowie Cotzas berechtigte Vorbehalte gegenüber einer Gleichsetzung historiographischer Einzelstimmen mit gesamtstädtischem Geschichtsbewusstsein. In drei großen, chronologischen Abschnitten setzt die Monographie diese Herangehensweise um: erstens zu den „Radici“ der städtischen Historiographie Ende des 11. bis Anfang des 12. Jh., zweitens zu „Ramificazioni“ in der ersten Hälfte des 12. Jh. und drittens zum Aufbruch „Verso nuovi orizzonti“ vom späten 12. bis zur Mitte des 13. Jh. Angesichts des damaligen erneuten Umbruchs städtischer Verfasstheit mit einschneidenden Folgen für die Historiographie endet dort die Untersuchung. Bei aller Betrachtung von Einzelquellen und -entstehungsumständen zeichnet Cotza doch ein sehr geschlossenes Gesamtbild: Für die Zeit von den Anfängen bis zur ersten Hälfte des 12. Jh. identifiziert er fast durchgehend Domkanoniker als Träger der Geschichtsdeutungen, ab dem späteren 12. Jh. dann rechtsgelehrte Laien in kommunalen Diensten. Dies gilt sowohl für Pisa als auch großenteils für die spärlicher dokumentierten Städte Arezzo, Siena und Florenz. Die Funktionen der diversen Geschichtswerke sieht Cotza sehr einheitlich in der Bereitstellung parteiischer Argumente und Lösungsentwürfe in politischen Konflikten. In der ersten Zeitschiene resultierten diese Konflikte letztlich aus dem Widerstreit des Reformpapsttums inklusive seiner lokalen Anhänger unter Bischöfen, Kanonikern, toskanischen Markgrafen und prominenten Laien gegen die salischen Kaiser und deren Klientel. Diese Konflikte zogen sich bis in die Städte hinein und stießen Geschichtsschreibung an („Chronicon Pisanum“, „Carmen in victoriam Pisanorum“, „Historia Custodum“). In der ersten Hälfte des 12. Jh. habe dann der Konflikt zwischen Pisa und Genua um die Metropolitanrechte über Korsika zahlreiche Texte angeregt: So versuchten Pisaner durch Hervorhebung ihrer Verdienste in päpstlich propagierten Kampagnen gegen die Sarazenen an der römischen Kurie zu punkten („Liber Guidonis“, „Gesta triumphalia“, „Liber Maiorichinus“). Analog schrieben Aretiner und Sienesen im Streit um einige Pfarreien im beiderseitigen Grenzgebiet Geschichte. Im späteren 12. Jh. sei dann das Verhältnis zu den Stauferkaisern Friedrich I., Heinrich VI. und Friedrich II. im Ringen um Dominanz in der Toskana entscheidend geworden: Ob mit oder gegen jene Staufer, in Pisa und Florenz schrieben laut Cotza Juristen Geschichte, um Argumente für die fortwährende privilegierte Stellung ihrer Kommunen bereitzustellen („Annales“ des Bernardo und Salem Maragone, „Gesta Florentinorum“ des Sanzanome). Mit großer Sorgfalt und einem überzeugenden Blick für das inhaltlich Wesentliche analysiert Cotza die Texte und ihre Entstehungsumstände. Mit präziser Formulierung und prägnantem Vorgehen stellt er interessante Thesen zur Diskussion. Hervorragend erscheinen auf jeden Fall Cotzas Transfer internationaler Wissenschaftsmethodik und seine Aufmerksamkeit für die Einseitigkeit der nur scheinbar stadtgemeinschaftlichen Texte und für ihre Träger. Auch Cotzas Streben nach einheitlicher Modellbildung für die Textentstehung ist ansprechend, allerdings mag es die Vielfalt historischer Umstände zu sehr auf den Aspekt städtischer Außenbeziehungen reduzieren. So postuliert Cotza manchmal auf schmaler Argumentationsbasis Rezipienten oder Datierungen im Sinne seiner angenommenen Textpragmatik (z. B. zum „Carmen in victoriam Pisanorum“, zu den Annalen Maragones). Hier wird die Studie sicher Diskussionen anregen. Insgesamt bedeutet sie eine lesenswerte Bereicherung der Forschung zur städtischen Historiographie Italiens im Hochmittelalter.
Richard Engl
Emily Joan Ward, Royal Childhood and Child Kingship. Boy Kings in England, Scotland, France and Germany, Cambridge (Cambridge University Press) 2022 (Cambridge Studies in Medieval Life and Thought. Fourth Series 120), 300 S., ISBN 978-1-108-83837-5, GBP 90.
Seit den Werken von Theo Kölzer, Thilo Offergeld und Thomas Vogtherr zum Thema „Kindkönige im mittelalterlichen Reich“ ist es eher ruhig um die Forschung zu minderjährigen Herrschern bestellt. Umso erfreulicher ist es, dass sich Emily Joan Ward in ihrer kürzlich erschienenen Diss. zum Ziel gesetzt hat, die zahlreichen Überschneidungen zwischen Kindheit und Königtum herauszuarbeiten und die erarbeiteten Knotenpunkte im Verständnis von mittelalterlicher Herrschaft zu situieren. Dabei geht sie im Besonderen den Fragen nach, wie die Kindkönige auf ihre Regierungszeit vorbereitet wurden, inwieweit Kindheit als Konzept die Repräsentation von Herrschaft unterstütze, und welche kulturellen und sozialen Bedeutungsebenen von Kindkönigen eingenommen wurden, bzw. wie sich diese Ebenen über die Zeit verschoben. Emily Joan Ward stützt sich bei ihrer Erarbeitung auf sechs Fallanalysen aus dem Reich (Heinrich IV.), aus Frankreich (Philip I., Louis IX.), aus Schottland (Malcom IV., Alexander III.) und England (Henry III.). Außerdem beleuchtet sie noch die Geschehnisse um Philip II. (Frankreich) und Friedrich II. (Reich), allerdings tut sie dies weniger umfangreich. Ihr vergleichender Ansatz gewinnt durch eine umfangreiche Quellenanalyse, bei der sie sowohl Chroniken und königliche Dokumente, aber auch Fürstenspiegel miteinbezieht. Die Kindheit im Mittelalter und deren Stellenwert wird insbesondere seit Philippe Ariès verstärkt und vor allem kontrovers diskutiert. Heute ist es dank der Werke von Sigmund Freud und Jean Piaget nicht möglich eine Biographie zu verfassen, ohne die Kindheit miteinzubeziehen. Für Ward steht fest, dass Kindkönige eine Lücke zwischen der sozialen und der politischen Komponente der Geschichte füllen. Sie stellt in ihrer Diss. heraus, dass sich Herrschaft im Mittelalter auf Kinder als aktive Teilhaber beruft, und Kinder somit eine wichtige Verkörperung von königlicher Autorität darstellten. Könige und Königinnen bereiteten ihre ältesten Söhne von der Kindheit an auf die Übernahme der Herrschaft vor. Somit nahm die Kindheit auch einen deutlichen politischen Stellenwert in der mittelalterlichen Gesellschaft ein. Die Präsenz und Teilhabe von Thronfolgern zeigt, wie Kindheit die Vision und Realität von königlicher Herrschaft komplementierte. Ward plädiert in ihrer „Conclusion“ dafür, dass wir unsere Sicht, die durch die moderne Herangehensweise der Ausschließung von Kindern bei politischen Entscheidungen überlagert werde, ändern müssen. Kinder waren im Mittelalter als ernsthafte politische Mitspieler angesehen. Außerdem arbeitet die Autorin nachvollziehbar heraus, dass die Präsenz von Kindheit zwischen dem 11. und 13. Jh. in den Quellen enorm zunahm, und Kindkönige in dieser Zeit als positive Vorbilder von königlicher Macht und Autorität gewürdigt wurden. In dieser Zeit setzte auch eine verstärkt vorangetriebene bildungswissenschaftliche Investition in die Erben ein, so dass Kinder und die Kindheit fundamental für die breite politische Landschaft Nord-West-Europas wurden. Ward erarbeitet diese Ergebnisse anhand von drei großen Kapiteln, in denen sie zunächst unterschiedliche Modelle königlicher Kindheit in der Vergangenheit vorstellt (I), bevor sie sich dann der Vorbereitung auf den Thron widmet, die den Erben zuteilwurde (II), um abschließend die Themen Vormundschaft und höfische Normen (III) näher zu beleuchten. Erfreulich ist die ausführliche Bibliographie, die nicht nur englischsprachige Titel enthält. Abgerundet wird der Bd. außerdem durch einen umfassenden Index. Insgesamt hat Ward mit diesem Buch eine handfeste Analyse zu den Kindkönigen zwischen 1050 und 1250 im Nordwesten Europas geliefert, indem sie zeigt, dass Königsherrschaft nicht immer gleichzusetzen ist mit dem Erwachsenenalter, und die Partizipation von Kindern im politischen Tagesgeschäft nicht zu unterschätzen ist. Die Rezensentin hofft, dass Wards Arbeit mit ihren neu aufgeworfenen Fragen andere Historikerinnen und Historiker dazu anspornt, das Thema „Königliche Kindheit in der Interdependenz zu Herrschaft“ näher in den Blick zu nehmen.
Malena Scherf
Kerstin Pöllath, „Ein sonderbahr Zierd dieser Stadt … ist die Meng vieler hoher Thürm“. Profane mittelalterliche Türme in Regensburg. Studien zu ihrer Geschichte und Funktion, Regensburg (Stadt Regensburg) 2019 (Regensburger Studien 25), 431 S., Abb., ISBN 978-3-943222-49-4, € 32,90.
Die in sechs Blöcke gegliederte Studie zu den bekannten Regensburger Türmen aus dem Mittelalter beruht auf der Diss. der Kunsthistorikerin Kerstin Pöllath von 2016. Nach der methodischen und bibliographischen Einführung behandelt die Autorin diese für die Donau-Stadt charakteristischen Hochbauten nach terminologischen, topographisch-strukturellen und chronologischen Aspekten (Teil B). In Teil C wird diese Bauweise in den Kontext anderer Städte, v. a. in Deutschland, Frankreich und in der Schweiz, gestellt. Es ist dem Zuschnitt der vorliegenden Zs. geschuldet, dass die Rezension sich vor allem auf den Teil D konzentriert, der sich der Klärung von möglichen Abhängigkeiten zu italienischen Türmen widmet. Der Zusammenfassung schließt sich ein rund 110 Nummern umfassender Katalog der noch bestehenden, der rekonstruierbaren und der verlorenen Türme an (Teile E und F). Die Vielfalt der mit dem Thema verknüpften Fachbereiche lädt zur interdisziplinären Betrachtung ein. Die im Katalog vereint vorgestellten romanischen und gotischen Turmbauten vom 11. bis 13. Jh. sind keineswegs von einheitlichem Zuschnitt. Von eigentlichen Patriziertürmen kann man erst mit der Errichtung des Stadtrats 1245 sprechen. Von diesen sind wiederum die Kaufmannstürme zu unterscheiden, die von nicht dem Patriziat angehörenden Kaufleuten errichtet wurden. Wie in vielen anderen Städten muss der heutige Betrachter auch in Regensburg oft die heutige Bausubstanz kontextualisieren. Die besonders an Italien erinnernden rückwärtig freistehenden Türme der Kepplerstraße 3 und 7 sind ein Resultat der Altstadtsanierung in den 1960er Jahren (S. 44). Den visuellen Effekt einer einheitlichen Farbgestaltung kann man am Baukomplex des Goldenen Kreuzes ersehen (vgl. S. 83 f. mit Abb. B 33). Zeichen der frühen Metropolitanität der Stadt Regensburg waren die auswärtigen Bischofshöfe, die wie der Brixener, der Salzburger und Augsburger Hof wohl auf ursprünglich königlichem Grund entstanden waren und eine beachtliche Größe erreichten. Leider ohne Erklärung bleiben beim prominenten neungeschossigen Goldenen Turm die insgesamt 14 unter dem Dach umlaufend aufgesetzten (leeren) Wappenschilde (gut zu erkennen S. 102 f. Abb. B 49; vgl. S. 322 f.). Ebenso unerwähnt bleiben auch die möglichen Vorrichtungen zum Aufpflanzen von Bannern, auf die jüngst die Turmforschung in Rom hingewiesen hat. Dass das Werk nicht die gesamte umfangreiche italienische Literatur zu den Wohntürmen aufarbeitet, ist angesichts der Masse verständlich. Bereits 2003 hat Klaus Tragbar die Entwicklung des städtischen Wohnbaus für die Toskana aufgearbeitet (S. 20, 188 f.). Der Typus des Geschlechterturmes des 11./12. Jh. habe sich zum Wohnturm gewandelt; und parallel dazu bildete sich das Turmhaus (casa torre) aus. Die frühesten Regensburger Wohntürme lassen sich als Wohnbauten einer adligen Elite bereits in das 11. bzw. frühe 12. Jh. datieren (S. 205). In Italien bildete sich der Wohnturm dagegen aus dem Geschlechterturm heraus. Was die Höhe der Türme betrifft, geht die Autorin in Regensburg – anders als dies für Italien angenommen werde – weniger vom Streben nach Abgrenzung einzelner Familien und Fraktionen voneinander als vielmehr von der Absonderung einer ganzen Schicht aus (S. 111, 152). Die Autorin wendet sich überzeugend gegen die verbreitete Vorstellung, Regensburger Kaufleute hätten im Zuge ihrer Reisen nach Nord- und Mittelitalien die dortige Bauweise kennengelernt und diese in der Heimat schlicht nachgeahmt (S. 181). Man kann auch hinzufügen, dass die zahlreich belegten Hauskapellen in den Regensburger Türmen kaum Parallelen in Italien haben. Für eine unterschiedliche Wertung des Symbolgehalts der Turmbauten spricht auch, dass es in Regensburg kaum schriftliche Quellen zu ihrer sozial-politischen Bedeutung gibt, und hier Türme auch nicht als Strafmaßnahme geschliffen wurden. Die Regensburger Türme dienten mithin „rein privaten Zwecken“ (S. 199 f., 206). Der Autorin ist eine überzeugende Bestandsanalyse gelungen, wobei allerdings angesichts der fortschreitenden Erforschung der mittelalterlichen Wohnkultur dies- und jenseits der Alpen mit weiteren Erkenntnissen zu rechnen ist. Der Bd. besticht im Übrigen durch sein sorgfältig ausgewähltes Bildmaterial (viele Aufnahmen stammen von der viel gereisten Autorin selbst).
Andreas Rehberg
Alfio Cortonesi, Il Medioevo degli alberi. Piante e paesaggi d’Italia (secoli XI–XV), Roma (Carocci) 2022 (Frecce 336), 355 pp., ill., ISBN 978-88-290-1097-4, € 32.
Non si può negare che il libro parli di alberi e, dunque, il titolo – oltre a funzionare sul piano editoriale, per l’immediatezza comunicativa – è senz’altro pertinente. Tuttavia, non può sfuggire la comparsa, fin dai „paesaggi“ del sottotitolo, degli uomini, almeno co-protagonisti se non di più, quali costruttori di tali paesaggi. Inoltre, gli alberi di quest’opera, più che „piante“, come esplicita ancora il sottotitolo, sarebbero da definire come „piantati“, appunto nella misura in cui Cortonesi si occupa di alberi – e non di arbusti: da ciò l’assenza di un capitolo dedicato alla vite che, senz’altro, l’autore avrebbe potuto facilmente aggiungere – messi a coltura e a valore dall’uomo. La lettura è favorita da uno stile di scrittura assai piacevole, denso ma mai faticoso, che riesce a passare informazioni senza pesantezza, anzi, lasciando al lettore l’impressione che quelle nozioni fossero già sue: ma quanti avranno saputo, prima di leggere, che i Ferraresi dovevano essere pronti, nel 1287, con attrezzi per rafforzare gli argini del Po (si veda a p. 38)? Che sul Potenza, nel Quattrocento, fervevano opere idrauliche per far funzionare oleifici, frantoi, mulini e gualchiere (p. 168) e che, ancora, nello stesso secolo, le pratiche della transumanza nella Sicilia del sud-est spingevano le greggi verso i querceti etnei (p. 91)? Sono tre esempi, uno relativo al Nord, uno al Centro e uno al Sud della penisola italiana, presi poco più che a caso per rimarcare un punto di forza del libro e cioè quello di spaziare davvero per tutto l’orizzonte geografico dichiarato nel titolo. Ciò induce un’altra considerazione relativamente al metodo di Cortonesi che non esclude il dialogo internazionale – evidente dai titoli inseriti in bibliografia e relativi a opere classiche così come a contributi puntuali relativi anche a regioni non italiane, ma di particolare significato in chiave comparativa – senza, tuttavia, rinunciare a una capillare conoscenza della produzione storico-territoriale italiana. Si tratta, insomma, di un libro dalle radici ben piantate in decenni di storiografia agraria, alveo principale di formazione dell’autore, e dalle chiome che stormiscono al vento di nuove tendenze, senza ad esse ammiccare: alla sensibilità rispetto al lavoro dell’uomo Cortonesi affianca da sempre un’attenzione ai contesti ambientali che, però, in quest’opera è forse più esplicita rispetto a precedenti studi, condotti in decenni di ricerca rigorosa. Ciò appare fin dal primo capitolo, con il quale Cortonesi fornisce i „suoi“ alberi di un „contesto“: una trentina di pagine che partono dall’alto medioevo, rispetto al quale non sono rari i riferimenti a Fumagalli e alla sua scuola, e finiscono con la ripresa quattrocentesca, successiva alla Peste nera. Qui l’autore ripercorre per sommi capi, come appropriato alla sede, una storia degli ambienti medievali, dando alcune direttrici generali utili a comprendere come si andranno a collocare, nei capitoli successivi, le diverse specie arboree, da quelle di ambienti marginali, come i boschi di montagna o le aree umide e palustri, a quelle richiedenti una maggior cura e pratica di coltura. Il secondo capitolo è anche il più esteso e si occupa delle essenze arboree del bosco. Al suo interno si trovano vari paragrafi dedicati a diverse specie: si parte con le molte varietà di quercia, la farnia, il rovere e la roverella; si prosegue con il cerro, il leccio, la quercia sughera e la macchia mediterranea per poi „risalire“ verso le conifere, l’abete, il larice, il tasso, il pino, il faggio; ancora, si chiude occupandosi di betulla, carpino e frassino, aceri e olmi, ontani e pioppi e, infine, dei salici e del tiglio. Anche in questo capitolo, che mostra conoscenze degne di un botanico, non mancano i riferimenti all’uomo, sia nello sfruttamento delle ghiande per il nutrimento animale sia nel ruolo assunto dai monasteri nella cura dei boschi sia, infine, nell’uso del legname tratto dagli alberi nella costruzione di navi, tema sviluppato non prima di un paragrafo dedicato al trasporto a valle dei tronchi tramite la fluitazione. I successivi capitoli, più monotematici, sono dedicati, nell’ordine, all’olivo, per circa venticinque pagine, al castagno, per una ventina, poi due brevi capitoli dedicati rispettivamente agli agrumi e al fico, di circa cinque pagine ciascuno, per finire con un settimo ed ultimo, di nuovo di dimensioni ragguardevoli, raggiungendo le venticinque pagine, sugli alberi a frutto dolce e oleoso. Dai conteggi appena riferiti sono esclusi i ricchi e puntali apparati di note che corredano anche i due più brevi capitoli: oltre cinquanta e sessanta note, in questi casi, che assommano a oltre quattrocentoventi per il capitolo sul bosco. Un medioevo di alberi, dunque, e di uomini – soprattutto contadini – per Cortonesi, sia in questo libro sia in molte, precedenti, pubblicazioni.
Mario Marrocchi
Leonie Exarchos, Lateiner am Kaiserhof. Expertise und Loyalitäten zwischen Byzanz und dem Westen (1143–1204), Paderborn (Brill/Schöningh) 2022 (Mittelmeerstudien 22), XIV, 458 S., Abb., Kt., ISBN 978-3-506-76098-2, € 127,79.
Der vorliegende Bd. geht auf eine Diss. zurück, die im Rahmen des DFG-Graduiertenkollegs „Expertenkulturen des 12. bis 18. Jahrhunderts“ entstanden ist und 2019 an der Universität Göttingen eingereicht wurde. Der Untersuchungsgegenstand, Lateiner am byzantinischen Kaiserhof, ist in der Forschung keineswegs neu, die Fakten und die in dieser Arbeit vorgestellten Persönlichkeiten sind (mehr oder weniger) bekannt. Allerdings wird das Phänomen unter neuen, aktuellen Fragestellungen analysiert, der Migrationsgeschichte und vor allem der Expertenkultur. Thema, Fragestellung(en) und Begriffsdefinitionen werden in einer detaillierten Einleitung (S. 1–33) vorgestellt. Während Thema und Fragestellung absolut überzeugen und auch die drei untersuchten Wirkungsfelder (Sprache, Religion, Politik) gut gewählt sind – grundsätzlich wäre auch das Wirkungsfeld „Handel“ interessant, die Akteure in diesem Bereich wirkten in der Praxis allerdings nicht am Kaiserhof –, treten gewisse Probleme beim Terminus „Lateiner“ auf. Zweifelsohne passt dieser Begriff von den zur Verfügung stehenden Möglichkeiten noch am besten, schwierig wird es mit der Einordnung von „Italo-Griechen“ (kann man beispielsweise Barlaam von Seminara, der freilich erst im 14. Jh. in Konstantinopel tätig war, als „Lateiner“ bezeichnen?). Komplexer ist die Frage des gewählten Untersuchungszeitraums: Der Endpunkt 1204 ist aufgrund der vielfältigen Zäsuren zweifelsohne sehr sinnvoll, beim Beginn des Zeitraums ist aber zu fragen, ob nicht die frühkomnenische Phase (unter Alexios I. und Johannes II. Komnenos) hätte nutzbringend einbezogen werden können. In einigen Fällen führt die Autorin selbst Beispiele aus der Zeit vor 1143 an (den Bericht Anselms von Havelberg über die theologische Disputation von 1136 [S. 214–217] oder die Gesandtschaft des Johannes Italos unter Alexios I. [S. 260 f.]). Ein Fragezeichen ist ferner zu setzen, ob die Zeit von 1143 bis 1204 wirklich so kohärent war, wie die Vf. konstatiert (S. 6). Das zweite Kapitel (S. 35–64) schildert die politischen, religiösen und wirtschaftlichen Rahmenbedingungen des Verhältnisses zwischen Byzanz und dem Westen, die korrekt mit dem Begriffspaar ‚Konfrontation – Kooperation‘ umschrieben werden, und die Rolle des Kaiserhofs für den Wissens- und Kulturkontakt. Es folgen kurze Biographien der wichtigsten lateinischen Akteure, die im 12. Jh. als „Kulturmittler“ tätig waren, und auf die in den folgenden thematischen Kapiteln Bezug genommen wird. Den Hauptteil des Bd. bildet die Untersuchung der drei Wirkungsfelder dieser Akteure. Die Sprache (S. 65–156) ist eine entscheidende Voraussetzung für einen Kulturkontakt. Aufgrund fehlender Lateinkenntnisse war der byzantinische Hof auf Dolmetscher und Übersetzer angewiesen, die – anders als beispielsweise für arabische Übersetzungen – nicht im Reich rekrutiert werden konnten. Basierend auf spätantiker Tradition bildete sich im 12. Jh. eine eigene Übersetzungsabteilung in der kaiserlichen Kanzlei aus, die für die authentifizierte Übersetzung kaiserlicher Urkunden zuständig war und natürlich auch für Dolmetscherdienste herangezogen wurde. Daneben agierten in Konstantinopel auch zahlreiche Lateiner, die für unterschiedliche Auftraggeber griechische Texte ins Lateinische übersetzten. Aufgrund des Charakters ihrer Tätigkeit sind viele Übersetzer und Dolmetscher als Person kaum zu fassen. Prosopographisch besser belegt sind die in Byzanz tätigen lateinischen Theologen (S. 157–248). Sie vermittelten vorrangig Dogmen und Praktiken der griechischen Kirche in den Westen, boten aber umgekehrt für den kaiserlichen Hof auch die Möglichkeit der Expertise in den Lehrmeinungen der römischen Kirche. Diese Doppelfunktion wird exemplarisch in der Person des Hugo Etherianus deutlich. Dieser inszenierte sich sowohl als Sprach- als auch als „Religionsexperte zwischen Ost und West“ (S. 233). Relativ kurz behandelt wird der dritte Wirkungskreis, die Tätigkeit von Lateinern als Gesandte des byzantinischen Hofes (S. 249–271). Dies hängt auch damit zusammen, dass in dieser Funktion vornehmlich hohe kaiserliche Beamte und Angehörige des Hochadels eingesetzt wurden. Jordan von Capua und Alexander von Conversano wiesen dank ihrer normannischen Herkunft und ihrer Nähe zum Kaiserhof Expertise und hohe soziale Stellung in Byzanz auf. Das in allen Bereichen sichtbare Phänomen der Inszenierung und Verstetigung des Expertenstatus wird abschließend nochmals zusammengefasst (S. 273–288), während das folgende Kapitel zu Konflikten, Loyalitäten und zur Identifikation (S. 289–349) den Personenkreis stärker unter Fragen der Migrationsforschung untersucht. Die Zusammenfassungen in deutscher (S. 351–367) und englischer Sprache (S. 369–389) führen die Forschungsstränge der Expertenkultur und der Migrationsstudien zusammen: Die betreffenden Personen befanden sich im Spannungsfeld von Expertise und Loyalität. Eine umfangreiche Bibliographie (S. 393–449) und ein kurzes Register (S. 451–458), das auch einige wenige Sachbegriffe umfasst, runden die Arbeit ab. Zusammenfassend lässt sich festhalten, dass, auch wenn keine bahnbrechenden neuen Fakten präsentiert werden (können), die angewandten Fragestellungen und die Einbeziehung neuer Forschungslinien einen deutlichen Erkenntniszuwachs bringen. Die gut lesbare Diss. ist ein bemerkenswertes Beispiel, dass und wie neue Forschungsansätze differenziert und Thema und Epoche angepasst sinnvolle Anwendung finden können. Eine Lektüre ist entsprechend nicht nur für Mediävistinnen und Mediävisten sowie Byzantinistinnen und Byzantinisten gewinnbringend, sondern kann darüber hinaus auch allen Forscherinnen und Forschern, die sich zeitübergreifend mit Expertenkulturen, Migration und dem Mittelmeerraum beschäftigen, angeraten werden.
Thomas Hofmann
Isabel Blumenroth, Das Alexandrinische Schisma in Briefen und Ideenwelt des Arnulf von Lisieux und Johannes von Salisbury, Wien-Köln (Böhlau) 2021 (Papsttum im mittelalterlichen Europa 10), 847 pp., ISBN 978-3-412-52207-0, € 110.
Il volume, frutto della rielaborazione della dissertazione dottorale difesa dall’autrice nel 2018 all’Università di Aquisgrana sotto la direzione di Harald Müller, presenta in una chiave molto originale il tema dello scisma alessandrino, offrendo altresì una metodologia di indagine innovativa che si sostanzia nella scelta di seguire passo dopo passo le reazioni a questi avvenimenti attraverso le lettere (ma in particolare nel caso di Giovanni di Salisbury pure in altre tipologie di fonti come l’„Entheticus maior“, il „Policraticus“, il „Metalogicon“ e la „Historia pontificalis“) scritte da due testimoni d’eccezione: Arnolfo di Lisieux e Giovanni di Salisbury appunto, strettamente contemporanei e molto ben informati sullo scisma. Entrambi funsero infatti da tramite tra la monarchia inglese di Enrico II Plantageneto e la curia romana. Il vantaggio offerto da questa scelta metodologica consiste nella possibilità di rifuggire da ogni ipostatizzazione delle posizioni di questi protagonisti/testimoni, per valorizzarne invece le pur minime oscillazioni e trasformazioni nella prospettiva diacronica, indispensabile per descrivere e contestualizzare la complessa trama di azioni e reazioni delle quali sono intessuti gli scismi, nella natura stessa dei quali risiede il presupposto dell’adozione di tale metodologia. Gli scismi, e in particolare quello che prende il nome da Alessandro III di cui tratta il volume, furono infatti fortemente condizionati dal mutevole equilibrio del consenso che i pontefici in concorrenza tra loro erano in grado di coagulare attorno alla propria persona. Alla formazione di tale consenso contribuivano in maniera decisiva gli attori politici più influenti, le cui motivazioni tuttavia ci sono restituite in maniera assolutamente sommaria dalle fonti, laddove nel caso di religiosi ed ecclesiastici come quelli oggetto della presente ricerca la produzione epistolare è ricca di indicazioni molto dettagliate che consentono di incrociare i dati della cronaca con le più generali riflessioni politiche dei protagonisti. Particolarmente significativa appare in questo contesto la dottrina elaborata da Giovanni di Salisbury sulla tirannide e sul dovere di opporvisi nel nome di un ideale di principe da cui si sarebbero discostati tanto il Barbarossa quanto Enrico II. Per questo motivo non risulta eccessivo lo spazio riservato nella prima parte del volume alla ricostruzione biografica di Arnolfo di Lisieux e di Giovanni di Salisbury. Al contempo l’analisi della loro visione del mondo è funzionale alla precisa individuazione delle circostanze esterne che concorsero alla formazione del loro consenso a favore di Alessandro III. Indispensabili risultano altresì le pagine riservate alla descrizione delle fonti epistolografiche, delle loro funzioni e dei codici che ne regolavano la produzione e la diffusione, nonché la tendenza alla distorsione e alla manipolazione nell’ambito di spregiudicate strategie pubblicistiche. Entrambi i nostri testimoni offrono indicazioni importanti per osservare come lo scisma fosse visto in un ambito esterno rispetto alla curia papale e alla corte imperiale di Federico I. Tale era infatti il regno d’Inghilterra, ove Enrico II Plantageneto era inizialmente vicino ad Alessandro III, come emerge dalla seconda parte del volume, in cui sono analizzate la reazione dei due testimoni-protagonisti davanti agli avvenimenti del biennio 1159–1160 e alle strategie elaborate sia dalla curia romana che dalla corte del Barbarossa per guadagnare il consenso per il „proprio“ papa all’inizio dello scisma. Nella terza parte vengono invece escusse le fonti relative al periodo 1164–1170, quando Enrico II cambiò orientamento a mano a mano che le relazioni con la „sua“ gerarchia ecclesiastica peggioravano per effetto dell’affaire Thomas Becket. Coincide con questa fase l’intensificazione da parte dei due testimoni-protagonisti del volume della polemica contro la tirannide, incarnata non più soltanto da Federico Barbarossa, ma pure dallo stesso Enrico II, che ne assorbe le caratteristiche negative, specialmente negli scritti di Giovanni di Salisbury. L’illustrazione del legame profondo esistente tra lo scisma alessandrino e il conflitto con Becket costituisce il risultato più significativo di questa ricerca, i cui esiti sono sintetizzati in una densa conclusione-riassunto, a cui si aggiunge un’utile appendice nella quale la Blumenroth elenca in ordine cronologico le lettere alla base della sua ricostruzione. In conclusione: il volume colma in maniera convincente una lacuna storiografica abbastanza grave, fornendo al contempo un modello di indagine per la storia degli scismi che merita di essere esteso e adattato anche allo studio di altri fenomeni consimili.
Nicolangelo D’Acunto
Matteo Ferrari, La „politica in figure“. Temi, funzioni, attori della comunicazione visiva nei Comuni lombardi (XII–XIV secolo), Roma (Viella) 2022 (Studi lombardi 10), 340 S., Abb., ISBN 978-88-3313-879-4, € 58.
Die Erfahrungen mit den oberitalienischen Signorien, die aus den popularen Stadtkommunen hervorgegangen sind, hinterließen auch Spuren in der Ausschmückung der Kommunalpaläste und ganz allgemein in der monumentalen Gestaltung der Städte speziell in der Lombardei, mit denen sich Matteo Ferrari in einem reich bebilderten Bd. auseinandersetzt. Da die komplexen Strukturen der freien Kommunen zur dauernden Suche nach Konsens zwangen, war für die Eliten Kommunikation in jeglicher Form von großer Bedeutung. Rhetorik und Bildkommunikation waren geeignete Mittel dazu, wobei letztere durch ihre längere größere Nachhaltigkeit im öffentlichen Raum den Vorteil hatte, über den Augenblick hinaus wirksam zu bleiben. In Oberitalien baute man nach 1200 allerorten einen mächtigen Kommunalpalast (oft Broletto genannt). In Mailand stellte der Podestà Oldrado da Tresseno 1233 den Broletto fertig. Spektakulär und jüngst wieder stark beachtet ist das Reiterstandbild, das Oldrado am Palast errichtete, das allerdings auch kein Einzelfall war (am Broletto von Como wurde 1215 so des Podestà und Erbauers Bonardo Codazzo gedacht). Eine solche Plastik war ganz in der antikrömischen Tradition imperial gedacht und evozierte die Vorstellung des Podestà als rex iustus gemäß der kommunalen Traktatliteratur. Stadtpaläste und die Konsiliaraulen waren also privilegierte Räume für eine ikonische Kommunikation, die zunächst in erster Linie auf Bilder zurückgriff, die wie die der Schutzheiligen in der kommunalen Tradition verwurzelt waren. Die popularen Regierungen nutzten politisch außerdem die Kunst am Bau, z. B. öffentliche Brunnen. Überall waren die Wappen der Stadt und ihrer Institutionen geeignete Identifizierungsobjekte. Wie schon im Titel des Buches anklingt, untersucht der Autor nicht nur Bilder, für die – trotz seines anachronistischen Anklanges – der Begriff Propaganda passt (S. 275 f.). Viele Bildzeichen hatten mit der Justiz zu tun. So konnte die Veröffentlichung von Urteilen über Straftäter, die der Infamie verfallen waren, mit Schandbildern verknüpft werden. Bezeichnend für dieses Genre ist die Darstellung der sogenannten „Cavalieri incatenati“ von 1270–1280, die man unter einem Dach des Ratspalastes von Brescia entdeckt hat. Hatte man anfangs Szenen mit in den Krieg ziehenden Soldaten (aus den Reihen der Bürgerschaft) bevorzugt, so wurden nun Bestrafungsszenen von Verrätern aktuell. Wendete sich die politische Lage, musste man die Bildzyklen entsprechend bearbeiten oder gar gänzlich löschen. Mit der Generalbefriedung von 1298 wurden die Verbannten in Brescia wieder aufgenommen und man übermalte kurzerhand ein 20 Jahre altes, nun aber inopportunes Schandgemälde im Broletto. Als Heinrich VII. 1311 der Herrschaft des Maffeo Maggis in Brescia ein Ende bereitete, kam es zu Formen der damnatio memoriae. Unter den überall (und selbst auf Münzen) gegenwärtigen Bildnissen von italienischen Stadtheiligen war das des Unheil abwehrenden hl. Christophorus auch in Nordeuropa verbreitet. Der Übergang von der freien Kommune zur Signorie hatte weitreichende Folgen für die Strategien und Themen der Bildpolitik. Spätestens hier zeigen sich die Unterschiede zwischen den Verhältnissen in der Toskana, wo der Stadttyrann zur politischen Hauptzielscheibe wurde (man denke nur an das Fresko „Die Auswirkungen der guten Regierung“ des Ambrogio Lorenzetti in Siena), und Norditalien, wo die Visconti von Mailand aus ihre Macht ausweiten konnten. Die Visconti konsolidierten mit dem Bau von Stadtkastellen und der Propagierung ihres Familienemblems der Viper ihrer Herrschaft. In Mailand wurde 1316 die Loggia degli Osii gleich gegenüber dem schon erwähnten Broletto von dem neuen Stadtherrn Matteo Visconti renoviert und heraldisch konnotiert. Vermittels seines Wappens war der Signore auch in absentia in seinem gesamten Herrschaftsgebiet präsent. Die neuen Herren machten sich gerne auch lokale Traditionen wie die Verehrung des hl. Ambrosius in ihrer Hauptstadt zu eigen. Das 1342–1346 geschaffene Grabmal von Azzone Visconti in der Mailänder Kirche S. Gottardo vereinnahmte geschickt die städtischen Memoria (Wappen und Stadtpatron) und reinterpretierte eine Reihe von Elementen, die der bürgerlichen Ikonographie eigen waren. Letztlich ging es aber nicht mehr um Inhalte, sondern nur um die möglichst aufwändige Zurschaustellung der Macht. Wenn dies nicht mit Blick auf das Gebaren heutiger Potentaten eine Mahnung an die Gegenwart ist!
Andreas Rehberg
Matteo Ferrari (a cura di), La città del leone. Brescia nell’età dei comuni e delle signorie, Milano (Skira) 2022 (Cataloghi di arte antica), 296 S., Abb., ISBN 978-88-572-4946-9, € 32.
Gute Ausstellungen zur mittelalterlichen Epoche einer Stadt sind selten. Sehenswert war die Exposition, die im renommierten Museo di Santa Giulia in Brescia von Oktober 2022 bis Januar 2023 zu sehen war, und deren Katalog hier besprochen werden soll. Schon der Titel „Die Stadt des Löwen“ verrät, dass dem auch als Heraldiker ausgewiesenen Kunsthistoriker Matteo Ferrari keine klassische Nachzeichnung der Stadtgeschichte Brescias vorschwebt. Seine einleitenden Worte gelten Objekten, die von den Institutionen und Menschen erzählen wollen, die über drei Jh. diese Stadt nahe dem Lago di Garda politisch gestaltet haben. Es handelt sich vor allem um Zeugnisse von Archivgut, von (heraldischen) Symbolen, von Gemälden, Skulpturen und Artefakten, die im Schwerpunkt die Verwaltungspraktiken, die Kontrolle des Territoriums (Contado) sowie die politischen und religiösen Vorstellungen der führenden Bürger und dann auch der Stadtherren veranschaulichen. Damit wird beileibe nicht die gesamte (zumal wirtschafts- und sozialgeschichtliche) Realität einer im Umbruch befindlichen italienischen Stadtkommune abgebildet; es entsteht aber ein zum weiteren Nachdenken anregender Bogen städtischer Institutionengeschichte, der bis hin zur Adaption des Mittelalters im Bürgertum und in der Stadterneuerung Brescias in der Wende vom 19. zum 20. Jh. und zumal im faschistischen Ventennio reicht. Die Klammer dieser Zeitreise ergibt sich gleich mit dem ersten Ausstellungsstück, eine Skulptur Arnalds von Brescia des Künstlers Odoardo Tabacchi von 1866. Der aufsässige Regularkanoniker Arnald, der im 12. Jh. für die Freiheit der Kommunen von Kaiser und Papst eintrat (und von Kaiser Friedrich Barbarossa an den Papst ausgeliefert 1155 auf dem Scheiterhaufen endete), galt als ein Vorläufer des italienischen Risorgimento und wurde nicht nur schon 1882 mit einem großen Denkmal (von Odoardo Tabacchi) geehrt, sondern unter den Faschisten im Zuge der Vereinnahmung von Brescias Geschichte – die nicht mit bekannten Namen aus der Antike glänzen konnte – auch auf der Rednertribüne (arengario) abgebildet. Just an dieser Stelle inszenierte sich Benito Mussolini 1932 bei der Einweihung der von seinem Stararchitekten Marcello Piacentini gestalteten Piazza della Vittoria als ein Redner in mittelalterlicher Manier! In der Selbstdarstellung waren die jeweils Herrschenden aber schon im Mittelalter wahre Meister, wie Matteo Ferrari in seiner Ausstellung zeigen konnte. Alle hinterließen sichtbare Spuren: 1298 übernahm der Bischof Berardo Maggi die Stadtherrschaft, die 1332 an Mastino II. della Scala, 1337 an Azzone Visconti und 1404 an Pandolfo III. Malatesta fiel, bis die Stadt schließlich 1426 venezianisch wurde. Der Hg. konnte hervorragende Autorinnen und Autoren für die gut kontextualisierten Objektbeschreibungen gewinnen, von denen namentlich hier nur Fabrizio Pagnoni, Giuliano Milani und Vittoria Camelliti genannt seien.
Andreas Rehberg
Gianni Festa/Agostino Paravicini Bagliani/Francesco Santi (a cura di), Domenico di Caleruega alle origini dell’Ordine dei Predicatori. Le fonti del secolo XIII, Firenze (SISMEL. Edizioni del Galluzzo) 2021 (Millennio Medievale 121. Testi 33), LII, 1188 S., ISBN 978-88-929-0044-8, € 160.
Vorliegender, schwergewichtiger Bd. enthält sämtliche Texte des 13. Jh., in denen von der Entstehung des Dominikanerordens und der Rolle, die Dominikus dabei spielte, berichtet wird. Unterschiedliche Textgattungen finden Berücksichtigung: von päpstlichen Bestätigungsbullen über Rundbriefe der Generalmagister und Kanonisationsakten bis hin zum mare magnum der dominikanischen Chronistik, für die so illustre Namen wie Jordan von Sachsen, Petrus Ferrandi, Konstantin von Orvieto oder Theoderich von Apolda stehen. Im knappen Vorwort der Hg. findet sich eine doppelte Zielsetzung benannt: zum einen sollen einem italienischen Publikum zuverlässig eingeleitete, übersetzte und kommentierte Texte zur Verfügung gestellt, zum anderen Philologen Möglichkeiten eröffnet werden, auf der vorgestellten Text- und Editionsbasis zukünftig weiter aufzubauen. Der Aussage: „Non si disponeva fino ad oggi di un volume che racogliesse tutti i testi latini che documentano l’origine dell’Ordine dei Predicatori“ (S. VII) wird man angesichts des 2019 erschienenen, von Nicole Bériou und Bernard Hodel hg., rund 1800 Seiten umfassenden Bd. „Saint Dominique de l’ordre des frères prêcheurs. Témoinages, écrits“ so freilich nicht zustimmen können. Drei einführende Essays dienen der historischen Kontextualisierung. Während sich Agostino Paravicini Bagliani mit den Beziehungen zwischen Dominikus und dem Papsttum beschäftigt (S. XI–XVIII), behandelt Francesco Santi die für Dominikus so charakteristische Form prophetischer Heiligkeit (S. XIX–XXVIII). Gianni Festa liefert einen ursprünglich von Simon Tugwell erstellten, für die vorliegende Publikation überarbeiteten und ergänzten chronologischen Abriss der Vita des Heiligen (S. XXIX–XL). In allen Essays scheint die Frage wichtig zu sein, weshalb das Papsttum so lange Zeit brauchte, um Dominikus überhaupt zu kanonisieren. Lag es allein an der „certa discrezione che accompagna sempre la sua determinatezza operativa“ (S. XXIII)? Verschwand Dominikus also, anders als Franziskus, hinter seiner eigenen Gründung? Tatsächlich hat die von Francesco Santi Dominikus bescheinigte prophetische Gabe (und nicht sein Charisma) dazu beigetragen, das schwankende Christentum des 13. Jh. mit dem neuen, an den Universitäten entwickelten Wissen in seiner ganzen philosophisch-theologisch-politischen Vielschichtigkeit zu synchronisieren. Der große Vorteil des Bd. liegt darin, kompakt alle relevanten Texte zur Verfügung zu stellen und dabei auf die besten lateinischen Texteditionen zurückzugreifen. Jeder wird es wohl begrüßen, dass diese in ihrer Gesamtheit und nicht nur in Auszügen abgedruckt werden. Bemerkenswert ist dabei die Tatsache, wie viele dieser Texte bereits Gegenstand hervorragender, mit Kenntnisreichtum und Scharfsinn erstellter Editionen waren, bemerkenswert auch, welche Rolle dabei Gelehrte aus dem Dominikanerorden selbst spielten und noch immer spielen. Für eine der wichtigsten und frühesten Quellen, Jordans von Sachsen „Libellus de initio Ordinis Predicatorum“, korrekt als „fondazione della storiografia domenicana“ (S. 76) charakterisiert, wird erfreulicherweise bereits auf die von Elio Montanari besorgte Neuedition zurückgegriffen, deren Erscheinen unmittelbar bevorsteht. Bemerkungen zur Textüberlieferung und -rezeption, vor allem aber die Kommentare stammen von ausgewiesenen Spezialisten. Wer anders als Giovanni Paolo Maggioni könnte sich den Legendenproduktionen eines Petrus Ferrandi, Konstantin von Orvieto oder Humbertus de Romanis annehmen, wer anders als Elio Montanari sich mit den drei Briefen beschäftigen, die als einzige, von Dominikus selbst verfasste schriftliche Hinterlassenschaften erhalten geblieben sind? Jeder Text wird zunächst in seinen historischen Kontext eingebettet. Biographische Angaben zu den jeweiligen Autoren finden sich darin ebenso wie knappe Skizzen des Aufbaus und Inhalts. Die eigentlichen Textkommentare finden sich freilich in Gestalt von Fußnoten unterhalb der italienischen Übersetzungen. Der (aus den entsprechenden kritischen Editionen entnommene) apparatus fontium bzw. biblicus ist dem lateinischen Text zugeordnet. Wie so viele andere Publikationen steht auch vorliegender Bd. im Zusammenhang mit dem Gedenken an den 800. Todestag des hl. Dominikus am 6. August 1221 in Bologna. 1216 war der Orden bestätigt worden – auch dies 800 Jahre später ein Grund opulenter Publikationstätigkeit. Wenige Heilige des 13. Jh. (natürlich stets mit der Ausnahme des Franz von Assisi) dürften in der jüngsten Vergangenheit derart gut erforscht, wenige Bettelordensgründungen derart minutiös seziert worden sein. Auf diesen Forschungen lässt sich weiter aufbauen. Vorliegende Quellensammlung gehört unbedingt dazu.
Ralf Lützelschwab
Wendan Li, Die Vita Papst Gregors IX. (1227–1241). Papst und päpstliches Amt in kurialer Sicht, Göttingen (Vandenhoeck & Ruprecht) 2021 (Papsttum im mittelalterlichen Europa 9), 373 pp., ISBN 978-3-412-52128-8, € 60.
Negli ultimi anni l’interesse per le biografie papali ha arricchito il panorama degli studi medievistici, avviando un nuovo e prolifico filone di studi. Il presente volume, dedicato alla biografia di papa Gregorio IX (1227–1241), è frutto di questa nuova stagione di studi. Esso segue di un paio di anni l’edizione di Alberto Spataro, che Li ha ben presente ma dalla quale si distacca per l’impostazione generale. La studiosa infatti indaga la dimensione pubblicistica della biografia gregoriana, analizzando le scelte tematiche e lessicali per lumeggiare il contesto redazionale, le finalità e le modalità di utilizzo di questa fonte. Questo è esplicitato dall’autrice nel capitolo introduttivo, nel quale vengono presentati lo status quaestionis e le fonti prese in esame. Nel capitolo II si approfondisce la tradizione manoscritta della „Vita Gregorii IX“, cioè la copia più antica del „Liber Censuum“ contenuta nel ms. Ricc. 228 della Biblioteca Nazionale di Firenze, della metà del secolo XIII. Mediante lo studio codicologico delle diverse sezioni del ms., ma anche degli apparati che lo corredano, la studiosa ipotizza il suo utilizzo come riferimento giuridico e liturgico – secondo una funzione pressoché tradizionale per le biografie papali altomedievali, di cui però la studiosa non tiene adeguatamente conto. Inoltre, attraverso la comparazione con il ms. BNF lat. 5150, un dossier „papale“ del XIV secolo, la Li ha potuto ipotizzare che la „Vita“ facesse parte di un dossier della Camera Apostolica costruito per ragioni contingenti. Alla luce di ciò il III capitolo indaga il rapporto della biografia gregoriana con il „Liber pontificalis“. Viene sottolineata da un lato la continuità rispetto ai modelli tradizionali, per altro già ben evidenziati da Spataro, dall’altro lo stretto rapporto tra scelte tematiche e stilistiche con un ben determinato evento coevo, cioè la scomunica di Federico II nel 1239. Ciò fa emergere la funzione pubblicistica della „Vita“, che rifletterebbe non solo la dimensione ideologica dell’autore e del biografato, ma anche quello della Curia. Individuato il possibile contesto cronologico di redazione e palesata la dimensione ideologica che anima l’opera, la studiosa analizza dunque le modalità di costruzione della fisionomia del pontefice. Il IV capitolo infatti approfondisce la figura di Gregorio IX valutandone la biografia alla luce degli stilemi tradizionali e del contesto redazionale. L’analisi è stata usata per accedere agli eventi principali che hanno caratterizzato il pontificato, ma anche per chiarire le intenzioni dell’autore. Egli avrebbe accentuato la santità del pontefice per supportare e legittimare l’azione politica di Gregorio IX. Quest’ultima è al centro del V capitolo, nel quale la studiosa evidenza la volontà dell’autore della biografia di enfatizzare il governo papale del Patrimonium. Questa costruzione fungerebbe da modello per la Curia, rappresentando anche il corretto ordine di valori nel rapporto tra Sacerdotium e Imperium. Lo scontro tra Gregorio IX e Federico II è, come detto, una delle motivazioni principali della stesura della biografia. Per queste ragioni i resoconti delle scomuniche del 1227 e 1239 comminate dal Papa all’Imperatore rappresentano un punto d’accesso importante alla mentalità dell’autore e della Curia. Questo tema è al centro del capitolo VI. Secondo la Li la „Vita“ fornirebbe maggiori dettagli sulla personalità del pontefice rispetto alla documentazione ufficiale, ma rileva soprattutto che la scomunica potrebbe essere stata causata non solo dalla questione lombarda quanto, piuttosto, dallo sviluppo del potere regio a Nord e a Sud del Patrimonium. La dimensione ideologica dello scontro è al centro del VII capitolo che analizza le modalità di rappresentazione di tutti gli attori delle vicende narrate dalla „Vita“. Secondo la studiosa esse riflettono la mentalità della Curia romana. La dimensione escatologica assunta dallo scontro tra papa ed imperatore corrisponderebbe sia alle strategie messe in campo dal Papa contro Federico II, ma sarebbe anche un supporto per l’azione papale. Chiude il volume un capitolo conclusivo che sintetizza i risultati dei capitoli precedenti e avanza alcune proposte interpretative, tra cui l’ipotesi di individuare l’autore dell’opera in Nicola di Anagni, nipote del Papa e membro della Curia. Metodologicamente infine la studiosa propone di studiare anche le altre biografie papali medievali tenendo insieme l’analisi storico-critica tradizionale, l’attenzione per la dimensione ideologica di questi testi, e l’analisi dei mss. che molto ci possono dire sui loro contesti di produzione e circolazione. Si tratta di un approccio condivisibile, sebbene non così inedito come la studiosa lascia intendere. Nel complesso il volume ha una struttura molto solida e chiara che offre nuovi elementi per valutare il pontificato di Gregorio IX ed il complesso rapporto tra l’azione papale e la sua narrazione da parte degli ambienti della Curia.
Andrea Antonio Verardi
Johannes M. Jäger, Innozenz IV. Juristenpapst, Machtpolitiker und Vordenker der völkerrechtlichen Souveränitätslehre, Berlin (Frank & Timme) 2021 (Aus Religion und Recht), 110 S., ISBN 978-3-7329-0774-8, € 28.
Zu Innozenz IV. liegt keine neuere Monographie vor, die sein Wirken als Rechtsgelehrter, Kardinal und Papst zusammenfassend behandelt. Anders als es der Titel suggeriert, schließt auch die Studie von Jäger diese Lücke nicht, wofür der Umfang von ungefähr 100 großzügig bedruckten Seiten freilich kaum ausreichen würde. Es sei vorweggeschickt, dass es sich bei dieser Publikation nicht um eine geschichtswissenschaftliche Arbeit im engeren Sinne handelt, sondern um eine „kirchenrechtsgeschichtliche Quellenexegese zur Erlangung des Doktorgrades beider Rechte“ (S. 7), die im Wintersemester 2020/2021 an der Universität Würzburg angenommen wurde. Jäger legt darin die durchaus bemerkenswerte Aussage im Dekretalenkommentar Innozenz’ IV. aus, dass es „Herrschaftsrechte, Eigentum bzw. Besitztümer und Gerichtsgewalt … bei den Ungläubigen geben“ kann, da diese „nicht nur für die Gläubigen, sondern für alle vernunftbegabten Wesen geschaffen“ sind (S. 17). Zum Verständnis der Kommentarstelle geht Jäger zunächst auf den Lebenslauf des Papstes ein. Dabei stützt er sich leider nicht auf neuere Handbuchartikel, die beispielsweise in der „Enciclopedia dei papi“ oder dem „Dizionario Biografico degli Italiani“ vorliegen, sondern überwiegend auf ältere Forschungsliteratur. Das Gesamtbild bleibt entsprechend unscharf, da zweifelhafte Karrierestationen wie die angebliche Erhebung zum Bischof von Albenga erwähnt werden (S. 19), nicht aber die langjährige Tätigkeit als Vizekanzler der Römischen Kirche, während der die Weichen für die Papstwahl gestellt wurden. In dem Kapitel zur „Textgeschichte“ (S. 28–30) wird der Dekretalenkommentar knapp in den kirchenrechtlichen Kontext eingeordnet. Die „Textauslegung“ setzt bei der Frage nach dem Bezug zwischen dem Kommentar und der Dekretale „Quod super his“ an, die auf ein Schreiben Papst Innozenz’ III. über das Problem des Kreuzzugseides zurückgeht, das Eingang in den „Liber extra“ fand (X 3.34.8). Sonderlich eng hängen Rechtstext und Kommentar also nicht zusammen, wie Jäger zutreffend festhält, denn Innozenz IV. greift aus dem Papstbrief nur die Bestimmung des Kreuzzugs als Verteidigungskrieg („pro defensione“) heraus (S. 33). Innozenz IV. begründet diese genauer, was zu weiteren Erläuterungen über erlaubte Kriege gegen „Ungläubige“ und deren Rechte im Allgemeinen führt, also auch zu den eingangs zitierten Ansprüchen auf rechtmäßige Herrschaft, Besitz und Jurisdiktion. Jäger liefert für diese Schlüsselbegriffe (dominium, possessio und iurisdictio) die „legistische[n] Begriffsdefinitionen“ (S. 40), bevor er sich weiteren Termini wie den „Ungläubigen“ (infideles) und dem „vernunftbegabten Geschöpf“ (rationalis creatura) zuwendet (S. 45–48). Als Ausgangspunkt der Überlegungen erscheint das Naturrecht, wobei Jäger zudem die römisch-rechtlichen Grundlagen des Eigentumsbegriffs, wie er an dieser Stelle deutlich wird, in Exkursen herausarbeitet. Als Papst beanspruchte Innozenz IV., auch die Jurisdiktion über Nichtchristen, sobald diese gegen das Naturrecht verstießen. Das galt etwa, wenn sie keine Mission in ihren Gebieten zuließen, da sie dadurch den Menschen das – aus christlicher Sicht – wichtigste Naturrecht nehmen würden, nämlich das auf ihr Seelenheil (S. 67). Hier zeigt sich, dass der Dekretalenkommentar nicht den „Prinzipien des modernen Völkerrechts“ verpflichtet war, sondern „dem (päpstlichen) Primat der christlichen Rechts-, Politik- und Heilsvorstellungen“ (S. 81). Wer sich für das Thema interessiert, kann sich anhand von Jägers Arbeit durchaus über die Rechtsstellung von Nichtchristen im Rechtsdenken Innozenz’ IV. informieren, allerdings ohne auf neue Ideen zu stoßen. Quellenkritisch arbeitende Historikerinnen und Historiker hätten auch die Frage berücksichtigt, wie verlässlich der „Text“ des Kommentars ist, der hier ausgelegt wird. Schließlich ist der „Apparatus“ in einer Vielzahl von mittelalterlichen Hss. und (Früh-)Drucken überliefert, und es wäre interessant zu wissen, auf welchen Überlieferungszweig der Druck von 1570 zurückgeht, den Jäger ohne weitere Erklärung heranzieht.
Georg Strack
Joan Barclay Lloyd, Dominicans and Franciscans in Medieval Rome. History, Architecture, and Art, Turnhout (Brepols) 2022 (Medieval Monastic Studies 6), 439 S., Abb., ISBN 978-2-503-57883-5, € 110.
Sieben Konvente von Dominikanern und Franziskanern stehen im Mittelpunkt dieser Studie, mit der die australische (Kunst-)Historikerin Joan Barclay Lloyd ihre Studien aus den letzten Jahrzehnten zusammenfasst. Bekanntlich waren die Anfänge der beiden Bettelorden in Rom steinig und langwierig, während sie anderenorts schnell Fuß fassen konnten. Das Hauptgewicht des Bd. liegt auf der Architekturgeschichte und der Frage, welche Neuerungen die neuen Orden einführten. Die Autorin macht – was den Rezensenten hier mehr interessiert – auch das soziale und ökonomische Umfeld der neuen Gemeinschaften sichtbar. Der gebürtige Spanier Dominikus (ca. 1174–1221) konnte zunächst nur das Frauenkloster S. Sisto fern vom eigentlichen Stadtzentrum Roms gründen (ca. 1218–1221). Die Brüder selbst bezogen ca. 1220–1222 die frühchristliche Basilika von S. Sabina. Der hl. Franziskus von Assisi (ca. 1182–1226) wurde trotz seines Besuchs in Rom nicht persönlich tätig. Dank der Bewunderung Papst Gregors XI. für den Ordensgründer erhielten seiner Brüder drei Jahre nach dessen Tod im Stadtteil Trastevere von den Benediktinern von SS. Cosma e Damiano in Mica Aurea das hospicium S. Biagio in Trastevere, auf dessen Grund die Kirche S. Francesco a Ripa errichtet wurde. 1234 übernahmen Klarissen SS. Cosma e Damiano in Mica Aurea. Die Benediktiner überließen den Franziskanern Mitte des 13. Jh. das Kloster S. Maria in Aracoeli auf dem Kapitol, dessen Kirche neu auf den bewohnten Stadtkern hin ausgerichtet wurde (ab ca. 1248–1252). Die Dominikaner errichteten ebenfalls eine Kirche im gotischen Stil, S. Maria sopra Minerva (ab 1266). Der Ausbau des Klosters S. Silvestro in Capite in einen Klarissenkonvent ging 1285 – wie der von S. Lorenzo in Panisperna zwei Jahrzehnte später – auf die römische Baronalfamilie Colonna zurück (verzeihlich ist die irrtümliche Konstruktion eines „older Cardinal Pietro Colonna“, S. 329). Überhaupt war die Förderung durch die großen Adelsgeschlechter oft für die neuen Orden entscheidend. Diejenigen, die sich in Bettelordenskirchen bestatten ließen bzw. Grabkapellen errichteten, trugen auch zur Realisierung und zum Unterhalt der Kirchbauten bei. Förderer der Franziskaner in S. Francesco a Ripa waren die vornehme Jacopa de’ Settesoli, Witwe des Graziano Frangipane, und ein Pandolfo d’Anguillara. In S. Sisto profitierten die Dominikanerinnen vom Netzwerk des Kardinals Giovanni Boccamazza († 1309), der im Gegenzug – wie es die Colonna in ihren Stiftungen taten – eine Verwandte als Vorsteherin etablierte. Nicht zu vergessen ist aber dass die Zentren der beiden neuen Orden anderswo – in Bologna (OP) und Assisi (OFM) – lagen. Die römischen Niederlassungen waren im Vergleich viel kleiner und weniger stark besetzt. Nicht überraschen die Darstellungen von Heiligen des eigenen Ordens (hl. Dominikus, hl. Peter Martyr, hl. Franziskus usw.). Die Ordensgründer waren auch in der ca. 1246 ausgemalten Aula Gotica präsent (S. 360 f.). Die Schwestern der neuen Orden verehrten meist schon ältere Marienikonen. Auch die hervorragende Bebilderung und die zahlreichen Bauzeichnungen machen diesen Bd. zu einem Referenzwerk zur Etablierung der neuen Orden in Rom.
Andreas Rehberg
Dominik Jurczak, Vangelo e liturgia domenicana dopo la riforma di Umberto di Romans. Con l’edizione dell’incipit evangeliorum e dell’evangelistarium dal codice XIV L1 di Santa Sabina, Roma (Angelicum University Press) 2021 (Dissertationes Historicae 38), 693 S., ISBN 978-88-996-1638-0, € 90.
Vorliegende Arbeit widmet sich der Genese und Wirkungsgeschichte einer Hs., die heute unter der Signatur XIV L1 im Generalarchiv der Dominikaner im römischen Konvent von Santa Sabina aufbewahrt wird. Sie enthält alle 14 Bücher des „Ecclesiasticum officium secundum Ordinem Fratrum Predicatorum“ und zeugt von den liturgischen Unifikationsprozessen, die rund 40 Jahre nach der Entstehung des Ordens zu einem Abschluss kamen. Der Blick richtet sich dabei nicht auf alle Bücher des umfangreichen (502 Folien) und schwergewichtigen (15 Kilo) Codex. Analysiert und ediert werden lediglich zwei, in enger inhaltlicher Verbindung zueinander stehende Teile: zum einen das „Evangelistarium“, das sämtliche für den Diakon während der Konventsmesse im Rahmen der Evangeliumslesung notwendigen Texte (Perikopen) in extenso enthält, zum anderen ein Teil des Martyrologiums, das die Anfänge der Evangelien („Incipit evangeliorum“), verstanden als „testo di supporto all’evangelistarium“ (S. 189), verzeichnet. Untersucht wird, welchem Lesesystem (cursus) die Dominikaner folgten, um davon ausgehend eine Frage zu beantworten, die seit längerem nicht allein die Liturgieforschung umtreibt: Stellt die dominikanische Liturgie im Konzert der anderen, im Abendland gebräuchlichen Liturgien lediglich eine Variante der römischen Liturgie dar oder ist sie als eigener Ritus zu begreifen? Die Arbeit ist in zwei große Abschnitte gegliedert. In den sechs Kapiteln des ersten Abschnitts wird die Hs. zunächst beschrieben und historisch verortet. Es folgen Ausführungen zur Bedeutung der Evangelien innerhalb der Dominikanerliturgie, zur Funktionsweise und Organisation des Evangelistars und des „Incipit evangeliorum“, zum cursus und schließlich zu textlichen Auffälligkeiten. Der zweite große Abschnitt ist der Edition der beiden Texte vorbehalten. Die frühen Dominikaner folgten offensichtlich keinem eigenen Liturgiemodell, das als Referenzpunkt für den gesamten Orden hätte dienen können. Raison d’être war das officium predicationis, dem sich alles unterzuordnen hatte, auch die liturgische Praxis. Jurczak formuliert vorsichtig: „… sin dall’inizio tutta la vita dei Predicatori, pur non escludendo la dimensione liturgica, era finalizzata ad un unico e principale obiettivo, la predicazione“ (S. 219). Die rasche Expansion des Ordens bedingte die Koexistenz unterschiedlicher liturgischer Modelle, die es zu vereinheitlichen galt. Seit den 1240er Jahren versuchte man, den „liturgischen Reformstau“ aufzulösen. Federführend war dabei kein Geringerer als Humbert de Romans, sukzessive Provinzial der römischen und der französischen Provinz. Die Reformbewegung ging also zunächst von der Provinzebene aus. Erst 1246 verfügte das in Paris tagende Generalkapitel die Einrichtung einer vierköpfigen Reformkommission, deren Arbeit freilich weit davon entfernt war, ungeteilte Zustimmung zu erhalten. Die liturgischen Beharrungskräfte, die es zu überwinden galt, waren groß. 1250 wurde bereits eine Korrektur der Korrektur verfügt, die aufgrund innermonastischer Wirren jedoch nicht in Kraft treten konnte. Den gordischen Knoten durchschlug Humbert de Romans, als er sich nach seiner 1253 erfolgten Wahl zum Generalmagister selbst der Sache annehmen konnte. Äußere Bedrohungen – der sog. Bettelordensstreit war seit 1255 voll entbrannt – trugen dazu bei, die Reihen der Dominikaner auch in liturgischer Hinsicht zu schließen: Die dritte Korrektur konnte so unter Leitung Humberts de Romans 1256 erfolgreich zum Abschluss gebracht werden. Frucht waren 14 Bände (volumina), die einem rasch einsetzenden Kopierprozess zugrunde lagen. Das universitäre Pecien-System trug dazu bei, dass die für sämtliche Ordensprovinzen bestimmten Abschriften eines derart umfangreichen Textcorpus überhaupt in einem überschaubaren Zeitrahmen hergestellt werden konnten. Endgültig wurde die neue Liturgie im Juli 1267 durch Clemens IV. approbiert. Doch auch hier gilt: Die neue Liturgie des ecclesiasticum officium trug zwar zur Stabilisierung und Vereinheitlichung des Ordens bei, nahm innerhalb des Ordens jedoch niemals den ersten Platz ein, sondern „rappresenta l’humus della predicazione“ (S. 46). Die Untersuchung zeigt, wie stark der cursus der Dominikaner in der fränkisch-römischen Tradition wurzelte – die Nähe zu vergleichbaren Texten aus Kloster Murbach oder zum zisterziensischen usus ist mit Händen zu greifen. Nachgewiesen wird darüber hinaus, dass die Perikopen der in Paris verwendeten Bibelredaktion, der sog. „Bibel von Paris“, entnommen worden sind, allerdings nicht auf direktem Weg, sondern vermittelt durch ein je eigenes exemplar. Die Ergebnisse sind wohl begründet und ausgehend von einer Fülle vergleichender Tabellen ausgesprochen gut nachvollziehbar. Zentral ist hierbei die Feststellung, dass die Dominikanerliturgie nicht als eigener Ritus verstanden werden kann: „Si tratta piuttosto della tradizione propria dei Predicatori, oppure della loro consuetudine all’interno del rito romano“ (S. 285). Bei der Beantwortung der Frage, ob die untersuchte Hs. als ein Prototyp aufzufassen sei, zeigt sich der Autor sehr viel vorsichtiger: „Tuttavia non si esclude a priori che nella sua forma attuale il codice in qualche parte contenga un frammento che possa essere considerato come archetipo“ (S. 285). Die äußerst zuverlässige Edition des „Incipit evangeliorum“ (S. 305–372) und des „Evangelistarium“ (S. 377–643) erweitert die zur Verfügung stehende liturgische Quellenbasis um zentrale Texte und dürfte zukünftig weitere Forschungen auf dem Gebiet der Dominikanerliturgie anregen. Einer hoffentlich nicht mehr allzu weit entfernten Überblicksdarstellung dieser Liturgie (die letzte stammt von 1946) wird Jurczaks Arbeit jedenfalls gute Dienste leisten.
Ralf Lützelschwab
Haude Morvan, „Sous les pas des frères“. Les sépultures de papes et de cardinaux chez les Mendiants au XIIIe siècle, Roma (École française de Rome) 2021 (Bibliothèque des Écoles françaises d’Athènes et de Rome 389), 300 S., Abb., ISBN 978-2-7283-1447-8, € 40.
Die vorliegende Studie untersucht die Grabmäler von insgesamt drei Päpsten und 17 Kardinälen, die zwischen 1250 und 1304 in Kirchen der Bettelorden errichtet wurden, davon elf (zwei Päpste, acht Kardinäle) bei den Dominikanern und neun (ein Papst, acht Kardinäle) bei den Franziskanern. In Anbetracht der unruhigen Zeitverhältnisse und der damit verbundenen Schwierigkeiten der Kirchenspitze, sich in Rom gegen Kommune und Baronaladel zu behaupten, ist die geographische Verteilung der betreffenden Sepulchralmonumente wenig überraschend: Nur zwei davon befinden sich in der Ewigen Stadt, vier in Lyon, eines in Clermont-Ferrand, die übrigen in Orvieto, Viterbo, Perugia, Todi und Assisi. Für eine umfangreichere statistische Auswertung kommt ein Corpus von zwanzig Exempeln nicht in Frage. Zudem ist der sozialhistorische Hintergrund der hier Erfassten äußerst heterogen; er deckt das ganze Spektrum von führenden, an der Kurie fest etablierten Familien Italiens bis zu Aufsteigern ab, die aus bescheidenen Verhältnissen über die Orden in den Senat der Kirche emporgekommen sind. Das Einzige, was die ins Visier gerückte Personengruppe verbindet, ist somit ihr Begräbnisort. Dieses Merkmal ließe sich potentiell unter zwei leitenden Fragestellungen analysieren: Welche Zielvorstellungen verbinden die in Franziskaner- und Dominikanerkirchen Bestatteten bzw. ihre familiären und kirchlichen Umfelder mit dieser letzten Ruhestätte? Und welches sind die Perspektiven der aufnehmenden Orden allgemein und vor Ort im Besonderen? Eine das Thema ganzheitlich angehende Studie müsste beide Blickrichtungen in der einen oder anderen Weise kombinieren. Leider hat sich die Vf. ausschließlich für die zweite Leitfrage entschieden und damit den Themenkomplex der mit der Grabmalserrichtung verknüpften Memoriabildung und ihrer auf Perpetuierung von Rang und Status im weitesten Sinne ausgerichteten Strategie nahezu komplett ausgeklammert. Das ist umso bedauerlicher, als solche auf understatement, also auf den ostentativen Nachweis von humilitas gepolten Perspektiven für Ausschnitte kurialer Führungsgruppen von der Spätantike bis in die Gegenwart von Interesse und entsprechend relevant waren und sind; sichtbaren Niederschlag fand der in Dominikaner- und Franziskanerkirchen herrschende Zwang zur Zurückhaltung, ja Zurücknahme der eigenen Person und zu sorgsam zelebrierter Demut zum Beispiel im fast völligen Fehlen apologetischer Inschriften. Vom Standpunkt der Bettelorden betrachtet waren solche Grabmäler, wie die Autorin überzeugend nachweist, verlockend und problematisch zugleich; der starke Anreiz für die erst kürzlich approbierten und – vor allem im Falle der Franziskaner – keineswegs allgemein akzeptierten oder auch nur von Häresieverdacht völlig freien Gemeinschaften bestand in der gewissermaßen offiziellen Anerkennung, die ihnen dadurch zuteilwurde, dass Mitglieder der schmalen kirchlichen Elite hier den Anbruch des Jüngsten Tages zu erwarten gesonnen waren. Dieser Legitimierungseffekt war vor allem bei den frati minori höchst erwünscht, wenngleich nicht unbestritten. Scharfsinnige Argumente dagegen lieferte vor allem Pierre de Jean Olivi: Aufwändige Grabmonumente sind des Personenkults verdächtig, untergraben die spirituelle Gleichheit vor Gott, erzeugen Neid und Habgier, lenken die Ordensmitglieder von wertvolleren pastoralen Tätigkeiten ab und schaffen durch Kapellengründungen private Rechtshoheiten im eigentlich de jure egalitären Kirchenraum. Die Abwägung von pro und contra geschah jedoch überwiegend, wie es auch die Statuten erlaubten, nach „Ordensräson“: Wenn der Nutzen für die Gemeinschaft und damit für die Christenheit überwog, wurde die entsprechende Erlaubnis gemeinhin erteilt. Im Einzelnen werden die insgesamt zwanzig Untersuchungsobjekte überwiegend deskriptiv behandelt; falls vorhanden, werden schriftliche Begleit-Quellen zu den Grabmälern zitiert, diese selbst mit ihren wichtigsten Merkmalen aufgelistet und beschrieben, aber nicht ikonologisch analysiert. Nur am Rande sei angemerkt, dass der Arbeit jeder Hinweis auf das langjährige Forschungsprojekt „Requiem“ zu den Papst- und Kardinalsgrabmälern der Neuzeit fehlt, das mit seiner Datenbank und diversen Kongress-Veröffentlichungen mancherlei weiterführende Anregungen für eine methodisch vertiefte Interpretation der betrachteten Objekte hätte bieten können; dass deutschsprachige Publikationen nur in Spurenelementen Eingang in die Bibliographie fanden, sei gleichfalls milde melancholisch angemerkt. Fazit: eine insgesamt interessante, aber über weite Strecken auch etwas oberflächlich geratene Studie, die mit erweiterten Fragestellungen Anstöße zu relevanten Weiterführungen liefern kann.
Volker Reinhardt
Carole Mabboux, Cicéron et la Commune. Le rhéteur comme modèle civique (Italie, XIIIe–XIVe s.), Roma (École française de Rome) 2022 (Bibliothèque des Écoles françaises d’Athènes et de Rome 400), 536 S., Abb., ISBN 978-2-7283-1545-1, € 37.
„Im Mittelalter wurde Cicero mehr gepriesen als gelesen“, formulierten sicher übertrieben Martin Schanz und Carl Hosius vor knapp 100 Jahren in ihrer „Geschichte der römischen Literatur“. Inzwischen wurde dieses Bild durch viele Studien zur Cicero-Rezeption im Mittelalter erheblich korrigiert. Die unterschiedlichen Facetten und genrespezifischen Rezeptionszusammenhänge wurden deutlich herausgearbeitet. Dabei dürfte dem Urteil des anzuzeigenden Buches wohl zuzustimmen sein, dass Ciceros Rolle als Rhetor in seinen rhetorischen Schriften wohl insgesamt überwog. Der Vf. geht es mit der vorliegenden, sehr materialreichen Studie nun nicht um eine Neubewertung der Cicero-Rezeption im Mittelalter insgesamt, sondern um eine wesentlich präzisere Frage. Wie ist aus dem im früheren Mittelalter verehrten, durch die Kirchenväter quasi christianisierten Moralisten, Rhetor und Rhetoriklehrer Cicero die im späteren Mittelalter neu entdeckte Figur des römischen Senators und republikanischen Politikers als Idealbild bürgerlicher Tugend geworden, und wie gut lässt sich die jüngst etablierte Vorstellung erhärten, Cicero sei zunehmend als Vorbild und Norm bürgerlicher Politik in den italienischen Städten inszeniert worden? Schauplatz ihrer Untersuchung sind also die norditalienischen Stadtkommunen und Stadtrepubliken. Den Zeitraum steckt die Vf. von den ersten Publikationen des mit Cicero vertrauten Bologneser Rhetorik-Professors Boncompagno da Signa 1190 bis zur neuen Normierung Ciceronianischer Stilistik im frühen 15. Jh. (S. 15) ab. Damit steht diese Studie in einer jüngeren, vor allem von Enrico Artifoni intensivierten, im Anschluss aber von vielen fortgeführten und erweiterten Tradition von Studien zur Oratorik, Eloquenz, aber auch zur schriftlichen Rhetoriklehre im Feld der ars dictaminis. Die Vf. greift diese Befunde zur im 12. Jh. neu belebten und gelebten Bewertung und Benutzung öffentlicher Rhetorik auf, um sehr konkret die Rezeptions- und Appropriationsvorgänge Ciceros zu analysieren und im historischen Raum städtischer Politik und Kultur zu kontextualisieren und nachzuzeichnen, wie sich Cicero und sein Bild auch als Geschichte bürgerlicher Normvorstellungen studieren lässt. Das Buch ist in fünf Teile und 18 ihrerseits wieder fein untergliederte Kapitel unterteilt. Im ersten Teil steht die handschriftliche Überlieferung im Mittelpunkt, im zweiten dann die Appropriation Ciceros im vielfältigen kommunalen Schriftgut. Im dritten Teil zeichnet die Vf. nach, wie im Verlauf des 13. Jh. aus dem vornehmlich als auctoritas der Rhetorik verstandenen Tullius der Politiker und Verteidiger bürgerlich-kommunaler Normen Cicero geworden sei. Während im vierten Teil unterschiedliche Formen antiker Vorlagen und Legitimationen kommunaler Ordnung aus den vielfältigen Quellen herausgearbeitet werden, wird im letzten Teil nochmals Ciceros Rolle im kommunalen Diskurs und seine legitimatorische Instrumentalisierung diskutiert. Insgesamt erweist sich das Bild dabei als weniger konsistent als zuletzt in der Forschung entworfen. Die Vf. arbeitet überzeugend die Vielgestaltigkeit Ciceros in diversen Appropriationsvorgängen heraus, den Rhetor, den Orator, den Senator, den moralisch guten Freund und nicht zuletzt den geschickten, listigen Politiker. Angesichts der politischen Kämpfe zwischen Guelfen und Ghibellinen, zwischen etablierter Kommune und dem comune del popolo und nicht zuletzt im Kontext der aufsteigenden Signorien sei eine je spezifische Appropriation Ciceros erkennbar, die alles andere als einheitlich gewesen sei. Vor allem dann die Entdeckung der Briefe Ciceros habe den Weg für ein in gewisser Weise ernüchtertes Cicerobild geebnet, das diesen weniger als Politiker und mehr als kontemplativen Gelehrten habe erscheinen lassen. Dass hier also insgesamt mehr Differenzierung erforderlich sei, ist die wohl wichtigste Kernaussage der Studie. Der Vf. ist mit ihren differenzierten Befunden eine sehr bemerkenswerte, quellengesättigte und stets gut belegte Arbeit gelungen, die auch dank ihrer Systematik vollauf zu überzeugen weiß. Eine Stärke des Buches liegt in der intimen Kenntnis und Nutzung eines sehr breiten Quellenspektrums, das von normativen Quellen, Florilegien, artes dictandi und Traktaten zum buon governo bis zu den zahlreichen Kommentaren, Übersetzungen und Überlieferungen Ciceronianischer Schriften reicht. Auffallend ist in der Bibliographie leider eine gewisse Ausblendung deutscher Forschungen; überraschender dagegen erscheint mir das völlige Ignorieren der einschlägigen, aktuellen und das Thema unmittelbar berührenden, 2019 publizierten Studie von James Hankins, „Virtue Politics. Soulcraft and Statecraft in Renaissance Italy“. An der hohen Qualität der Studie insgesamt ändern diese Einschränkungen allerdings wenig. Das gut lesbare Buch schließt mit vier kurzen Editionen (der Einleitung zum Kommentar von „De officiis“ des Bartolomeo del Regno, dem „Accessus“ Luigi di Gianfigliazzis, einer Vulgarisierung „Nel sesto dì“ der „Rhetorica ad Herennium“ sowie einer verdienstvollen Auflistung der Entlehnungen Ciceros in Giovanni di Viterbos „De regimine civitatum“), einem Orts- und Werkverzeichnis sowie einem sehr detaillierten siebenseitigen Inhaltsverzeichnis.
Florian Hartmann
Albertino Mussato, De lite inter Naturam et Fortunam. Edizione critica, traduzione e commento a cura di Bianca Facchini, Firenze (SISMEL. Edizioni del Galluzzo) 2021 (Edizione nazionale dei testi mediolatini d’Italia 60; Serie II 30), 374 S., ISBN 978-88-8450-966-6, € 76.
Vorliegender Bd. geht auf eine tesi di laurea magistrale zurück und enthält die erste kritische Edition samt italienischer Übersetzung von „De lite inter Naturam et Fortunam“. Der Text stammt von Albertino Mussato (1261–1329). Entstanden ist er in dessen letzten Lebensjahren wohl um 1327, auf jeden Fall nach seiner 1325 erfolgten Exilierung aus Padua. Gewidmet ist er Pagano della Torre, Patriarch von Aquileia. Thematisch kreist der Dialog, besser: das Streitgespräch zwischen den Personifikationen von Natura und Fortuna, um die Kräfte, die das Universum und die menschliche Existenz beherrschen. Umschlossen wird der Dialog von einem Vorwort und einer Schlusssequenz, in der Christus den finalen Richterspruch fällt. Abgehandelt werden nicht nur die Rolle der beiden Figuren bei der Schaffung und Lenkung der Welt, ihre Machtbefugnisse und Verantwortlichkeiten, sondern auch philosophische Konzepte wie „Freundschaft“ (durch biographische Details exemplifiziert und untermauert) und „Schicksal“, „Unterwelt“ und „Vorhersehung“. Die Aussagen der beiden Dialogpartner beleuchten das Unglück, das ungerechterweise auch den Weisen heimsuchen kann, die Essenz der Glückseligkeit (beatitudo) und das Wesen wahren Adels, den Mussato eher im vorbildhaften moralischen Verhalten als in der Abstammung begründet sieht. Der (unausweichliche) Verfall politischer Gemeinwesen treibt den Paduaner Gelehrten augenscheinlich um. Im Munde von Natura werden Entstehung, Aufstieg und Verfall dieser Institutionen mit dem Zyklus der menschlichen Existenz verglichen. Mussato widmet sich ausführlich der Frage nach dem Einfluss der Sterne und nach der Existenz und der Macht des Schicksals (fatum) – und bezieht dies in kleinen biographisch geprägten Schlaglichtern immer auch auf sich selbst und auf die Geschicke seiner Stadt Padua, der altera Troia. Ursprünglich von der unanimitas seiner Bewohnerschaft geprägt, sei das Gemeinwesen in die Hände einiger weniger gefallen, zur Oligarchie geworden, um danach von einem einzigen Tyrannen regiert zu werden. Komplexe Probleme der Natur- und Moralphilosophie werden von autobiographischen Exkursen und Verweisen auf die antike und mittelalterliche Geschichte mit einigen ihrer Schriftsteller und Dichter begleitet. Die thematische Breite spiegelt sich in der Verwendung unterschiedlicher sprachlich-rhetorischer Register wider. Der Wortschatz ist, angemessen für einen philosophischen Disput, häufiger abstrakt, weist eine Vielzahl rhetorischer Fragen auf, wird aber immer wieder durch ausgesprochen derbe Invektiven unterbrochen. Auch humoristische Elemente sind beim direkten Schlagabtausch zwischen Natura und Fortuna zu finden. Vor der Lektüre des eigentlichen Textes ist ein Blick auf die umfangreiche Zusammenfassung des Inhalts unbedingt sinnvoll (S. 5–19) – sie erleichtert das Verständnis des mitunter dunklen Editionstextes ganz erheblich. Gattungsspezifisch ist „De lite“ dem Bereich des mittelalterlichen Dialogs zuzuordnen (altercatio, conflictus, processus, lis), genauer dem philosophischen Dialog und der quaestio, Formen also, die typisch für das späte Mittelalter und den Frühhumanismus sind. Das Streitgespräch zwischen Fortuna und Natura wird als Traum des Autors im Exil charakterisiert – ein Exilierungsprozess, für den, so Mussato, eine „fortuna non dicam aversante set favente“ („De lite“, paragr. 3) verantwortlich zeichnet. Sowohl Natura als auch Fortuna betonen, über ihren Schützling Mussato ein Füllhorn an Wohltaten ausgeschüttet zu haben, und erwähnen sein uneigennütziges, erfolgreiches Agieren zum Wohle Paduas. Dies gibt Anlass zur Hoffnung, dass man seiner, obwohl exiliert, dort noch immer mit Wertschätzung gedenkt („De lite“, paragr. 136): „In bonorum et gravium, qui in urbe sunt, se persistere laude et comendatione confidit.“ Indirekt wird damit auch der Hoffnung Ausdruck verliehen, dereinst wieder aktiver Teil dieses Gemeinwesens sein zu können. Die Editorin sagt das Nötige zur ungeheuren Popularität insbesondere von Fortuna seit dem 12. Jh. und ordnet vorliegenden Text in das einschlägige Schrifttum ein. Mussato gehört zum Kreis der aus Padua stammenden bzw. in der Stadt wirkenden Frühhumanisten, für die eine umfangreiche Kenntnis der griechischen und lateinischen Klassiker selbstverständlich war. So ist die Anzahl von Klassikerzitaten in „De lite“ wenig überraschend sehr hoch. Offen bleiben muss zum jetzigen Zeitpunkt allerdings, ob Mussato aus einer direkten Lektüre der Texte selbst schöpfte oder doch eher auf Florilegien zurückgriff. Diese Frage stellt sich insbesondere mit Blick auf seine unbestreitbare Vertrautheit mit den Werken des Aristoteles, dessen Aussagen in gut mittelalterlicher Manier mit denjenigen Platons amalgamiert und in Übereinstimmung gebracht werden. Direkt aus den Werken selbst sind wohl die auf Cicero zurückgehenden Zitate entnommen – er galt den Paduaner Frühhumanisten als das Vorbild rhetorischer Vollendung schlechthin. Einige allgemeinere Aspekte innerhalb der Erzählstruktur machen eine Kenntnis von Dantes „Commedia“ wahrscheinlich – Facchini greift hier Forschungen der letzten Jahre zu möglichen Bezugspunkten wieder auf, mahnt jedoch zur Vorsicht und fordert völlig zu Recht weitere Untersuchungen ein. Die Rezeption von „De lite“ erfolgte verhalten: Mussato selbst bezog sich auf seine Schrift, Pietro Alighieri zitierte eine Passage (und verwies dabei auf einen „poeta quidam novus Paduanus“ als Vf.) und auch Domenico Bandini zeigte sich mit dem Werk vertraut. Dann geriet es in Vergessenheit. Erst 1897 wurde es in Sevilla wiederentdeckt. „De lite“ ist heute in zwei Hss. überliefert (1. C= Sevilla, Biblioteca Capitular y Colombina, 5.1.5, 14. Jh.; 2. Padova, Biblioteca civica, B. P. 2531, 15. Jh.), wobei C 1521 von Padua aus nach Sevilla gelangte: Don Fernando Colombo, Sohn von Christoph Columbus, hatte sie auf einer Reise ins Veneto in Padua erworben. Beide Hss. weisen ein hohes Maß an Fehlern auf, die weitreichende (und in vorliegender Edition stets gut begründete) Eingriffe der Editorin erforderlich machten. Der Editionstext beruht auf der Hs. C und respektiert deren orthographische Gestalt (s. zu den Einzelfallentscheidungen S. 81). Auch die Marginal- und Interlinearglossen wurden berücksichtigt, jedoch aus dem Editionstext selbst ausgelagert (S. 85–92). Der Editionstext selbst (S. 128–325) operiert mit zwei Apparaten (1. apparatus criticus; 2. apparatus fontium). Gefolgt wird er von einem schmalen Kommentar („Note di commento“, S. 327–352), der eher im Sinne einer grundlegenden Verständnishilfe zu verstehen ist. Die zuletzt wieder im Aufblühen begriffene Forschung zu Albertino Mussato und dem Frühhumanismus Paduaner Prägung wird von diesem schwierigen, mustergültig edierten Text profitieren.
Ralf Lützelschwab
Bruno Figliuolo, Dal Mar Nero al delta del Nilo. I pisani e i loro commerci nel Levante (secoli XIII–XIV), Udine (Forum-Editrice Universitaria Udinese) 2021 (Storia. Problemi persone documenti 6), 140 pp., ISBN 978-88-328-3292-1, € 16.
Dopo il suo libro „Alle origini del mercato nazionale. Strutture economiche e spazi commerciali nell’Italia medievale“ (2020), Bruno Figliuolo prosegue le sue indagini sulle origini del mercato nazionale italiano nel Medioevo, analizzando in una prospettiva strettamente economica – che implica il riferimento alla bibliografia esistente per i dati biografici e sociologici dei personaggi menzionati – l’evoluzione della rete commerciale pisana dalla sua espansione fino alla sua relegazione in secondo piano a causa della concorrenza genovese e veneziana (secc. XIII–XIV). In altri saggi (tra i quali „Carte pisane due-trecentesche inedite relative al Levante“, in: Nuova rivista storica 100 [2016], pp. 677–694) l’autore ha già pubblicato alcuni documenti tratti dagli atti notarili, ora estende il lavoro di revisione a quelli che attestano la presenza pisana nel Levante (in senso lato, dalla Romania medievale all’Egitto). L’area è trattata a parte perché non si è verificato un commercio triangolare tra Pisa, il Maghreb – una destinazione commerciale importante per la città tirrenica già esaminata da Mohammed Ouerfelli e Dominique Valerian – e il Levante, e perché Figliuolo ritiene di poter fornire nuovi elementi sfruttando gli abbondanti ma ancora poco conosciuti registri notarili di Pisa, Genova e Venezia, piuttosto che quelli di Palermo e Trapani. Per costruire questo corpus, Figliuolo ha raccolto 69 atti notarili editi di origine pisana, i quali completa esaminando le cronache e l’agiografia dei periodi successivi. La perdita della maggior parte dei relativi atti durante l’incendio dell’archivio di Pisa (1406), ci obbliga però ad affidarci a fonti esogene, in questo caso a un centinaio di registri notarili di Venezia e Genova, la cui ricchezza è ben nota, in particolare per gli anni 1270 riguardo a Laiazzo e per gli anni 1296–1306 riguardo a Cipro. Dal grafico a p. 16 risulta pertanto che la documentazione raggiunge un picco negli anni 1260–1300, in particolare tra il 1270 e il 1290: nelle 370 voci dell’appendice (pp. 91–115 che elenca nomi, date, luoghi e tipi di attività), sono documentati 350 pisani tra il 1272 e il 1304, anche se la prima transazione scritta che li cita risale al 1201 (conservata a Venezia). La presentazione segue un ordine cronologico e geografico, con una lettura densa per l’accumulo di documenti elencati e analizzati, ma la cui consultazione è facilitata dalle già citate appendici, le tabelle (pp. 76 sg., 78 sg. e 81–83), i grafici (p. 16) e la mappa (p. 72). Anche la sintesi finale (pp. 71–87) è molto suggestiva. L’origine sociale dei pisani è varia, poiché comprende sia famiglie aristocratiche che popolari di tutte le contrade (raramente conosciute), talvolta abbastanza agili da spostarsi nel Mediterraneo. L’assenza di cerchi concentrici sulla mappa, che mostra la localizzazione dei pisani nel Levante (p. 72), non dà un’idea immediata della gerarchia dei luoghi in cui erano presenti. Tuttavia, il corpus ci permette di stabilire che risiedevano principalmente a Laiazzo, San Giovanni d’Acri e Famagosta, in quanto l’asse principale di penetrazione del commercio pisano collegava Pisa a Costantinopoli o a San Giovanni d’Acri e Cipro, con deviazioni verso l’Egitto o la Siria dove la loro presenza rimaneva più rara. Avevano anche strutture politiche e commerciali a sostegno della loro presenza (fondaci, logge, consolati, chiese nazionali e botteghe) a Costantinopoli, Alessandria (probabilmente attestando una presenza più importante di quella conservata negli atti notarili?), Laiazzo, San Giovanni d’Acri, Limassol e Famagosta. Utilizzavano nei loro scambi la moneta locale con grande agilità (e le lire pisane per i patti societari). La varietà delle merci scambiate nei contratti di società (tab. 1) non rivela alcuna specializzazione in un tipo di traffico, anche se quantitativamente dominano le transazioni commerciali di legno e ferro tra l’Armenia e la Siria e l’Egitto. Il cambio marittimo e la società di mare, anche se sembrano obsoleti per l’epoca (poiché, come suggerito da Federigo Melis, i pisani furono tra i primi ad utilizzare gli assegni dopo il 1374), sono gli strumenti privilegiati di credito, con una ripartizione degli utili che a volte supera i consueti ¾, dimostrando così il pieno dominio del socio capitalista. L’esame degli investimenti e delle imbarcazioni utilizzate dimostra che i pisani dovevano fare affidamento su comunità alleate e che il loro livello era inferiore a quello raggiunto dai genovesi, come ha già dimostrato Michel Balard. Tuttavia, Figliuolo non vede nella sconfitta della Meloria la causa del declino economico dei pisani in Levante. Al contrario, egli traccia un convincente parallelo con le tappe del declino di Messina: l’utilizzo delle flotte alleate, poi l’ingresso di società straniere nell’assetto del capitale dove i messinesi sarebbero rimasti una minoranza, e infine la delega di tutte le operazioni commerciali (acquisto, trasporto, rivendita) agli imprenditori delle marine più potenti, accontentandosi di godere della rendita di posizione del porto. Questo „lento regresso“ (p. 86) subì una brusca svolta dopo la caduta di San Giovanni d’Acri (1291), poi la presenza dei pisani a Cipro dopo il 1305 divenne rara nei registri dei notai genovesi (cfr. pp. 68 sg.), fino a farli quasi scomparire dal Levante nella seconda metà del XIV secolo (p. 85).
Cédric Quertier
Agostino Paravicini Bagliani, La papessa Giovanna. I testi della leggenda (1250–1500), Firenze (SISMEL. Edizioni del Galluzzo) 2021 (Millennio Medievale 120. Testi 32), 694 S., Abb., ISBN 978-88-9290-130-8, € 140.
Es handelt sich bei vorliegendem Werk um ein „riesame sistematico della tradizione letteraria sul papa donna“ (S. 4). Mit anderen Worten: nicht alles musste neu zusammengetragen und gewichtet werden. Bedeutende Vorarbeiten lagen vor, um das Phänomen der „Päpstin Johanna“ nun mit frischem, durch stupende Quellen- und Literaturkenntnisse geschärftem Blick zu betrachten. Für die Zusammenstellung seiner Quellen konnte Agostino Paravicini Bagliani, der große Kenner des spätmittelalterlichen Papsttums, auf Listen zurückgreifen, die Alain Boureau in seiner Arbeit über die Päpstin Johanna bereits zur Diskussion gestellt hatte (und die später von Max Kerner und Klaus Herbers kritisch untersucht, korrigiert und partiell ergänzt wurden). Rund 80 Texte waren bisher bekannt, die Passagen (manchmal aber auch nur einige dürre Sätze) zur Päpstin Johanna enthalten. In vorliegendem Bd. konnte die Quellenbasis um einige Stücke auf 118 erweitert werden – nicht zuletzt durch mittelalterliche Marginalglossen zu bestehenden Texten, die von deren Rezeption zeugen. Die Arbeit ist in vier große Abschnitte gegliedert. Zunächst werden die literarische Tradition der Legende selbst („La legenda della papessa nella tradizione letteraria“, S. 3–92) und der vermeintliche „Brauch“ einer Überprüfung der päpstlichen Männlichkeit („Le legenda della verifica della mascolinità nella tradizione letteraria“, S. 93–114) behandelt. Es schließt sich das eigentliche Herzstück der Arbeit an, in dem die Texte (im Original und in italienischer Übersetzung), vor allem aber ihre Kommentierung im Mittelpunkt stehen („Testi, traduzioni, commenti“, S. 115–554). Unterschiedliche Tabellen bereiten schließlich das komplexe, vielschichtige Material in kongenialer Weise auf: Mit einem Blick lässt sich so etwa das Wirrwarr erfassen und deuten, das die Biographie der Protagonistin in besonderer Weise auszeichnet (555–631). 120 hochwertige Farbabb. vor allem von Hss. und Drucken befördern das Verständnis zusätzlich. Der weiteren inhaltlichen Durchdringung und Erschließung dienen auch die Indizes der Namen und Orte, der Hss. und der Inkunabeln (mit Zensurvermerken). Nicht nur die Texte selbst, sondern auch deren kodikologischer und editorialer Kontext, nicht nur die Textverbreitung, sondern auch die Materialität der einschlägigen Hss. standen zur Debatte. Die Entscheidung, den Zeitraum der analysierten Texte bis 1500 zu führen, darf als glücklich gelten, wird es dadurch doch möglich, den Einfluss der mittelalterlichen Textzeugen in einem neuen Verbreitungskontext, dem Buchdruck, in den Blick zu nehmen. In Abschnitt I finden sich zwei frühe Texte, in denen von einem weiblichen Patriarchen von Konstantinopel die Rede ist („Anonymus von Salerno“; „Littera In terra pax Leos IX.“). Über den Einfluss dieser Texte auf die Ausbildung der Legende vom weiblichen Papst ist das letzte Wort noch nicht gesprochen: weitere Forschungen sind nötig, um den Stellenwert dieser Tradition im Gesamtkontext der Überlieferungsgeschichte klar zu deuten. In den folgenden Abschnitten II–IX finden sich diejenigen Textzeugen die von der Päpstin Johanna und dem Nachweis der päpstlichen Männlichkeit handeln, vom ältesten (Jean de Mailly, 1250–1254) bis zum jüngsten („Die Cronica von der hilliger Stat van Coellen“, 1499). Der zehnte Abschnitt ist den modernen Interpolationen gewidmet. Der wichtigste, weil wirkmächtigste Textzeuge findet sich in Abschnitt IV: die Rezension C der Chronik des Martinus Polonus (Martin von Oppeln), gleichzeitig der erste Text, in dem die Päpstin mit Namen erscheint. Der Großteil der danach entstandenen Texte ist auf die ein oder andere Weise von Martins Chronik abhängig. Abschnitt VI demonstriert, in welchen literarischen Formen die Erwähnung Johannas erfolgen konnte, war dies doch beileibe nicht nur in chronikaler Form möglich. Hier finden sich auch zwei Berichte, die sich stark vom Vorbild Martins von Oppeln unterscheiden und neue inhaltlich-biographische Aspekte ins Spiel bringen: Erwähnung findet darin nicht nur der Geliebte der zukünftigen Päpstin („Papa Jutta qui non fuit Almanus“), sondern auch ihr Sohn, der später zum Kardinalbischof von Ostia aufsteigen sollte (Insert im Berliner Codex, SB, lat. Qu. 70). Selbstverständlich kommen auch literarische Texte zu ihrem Recht – von Boccaccios „De mulieribus claris“ über den Bericht des Augustiners Iacopo Filippo Foresti bis zum „Songe du Vieil Pèlerin“ des Philippe de Mézières oder dem „Champion des Dames“ von Martin Le Franc. Historische Dekonstruktionen der Legende finden sich bei Eneas Silvio Piccolomini und dem päpstlichen Zeremoniar Johannes Burkhard. Der Bd. wird seinem erklärten Ziel – „agevolare future ricerche“ (S. 13) – in doppelter Hinsicht gerecht. Zum einen werden auf sicherer, umfassender Textgrundlage vergleichende Forschungen zur Päpstin Johanna nun sehr viel leichter möglich, zum anderen lässt sich die Textsammlung hervorragend im universitären Unterricht verwenden. Ein Bd., der in keiner Universitäts- und Seminarbibliothek fehlen sollte. Inzwischen ist bei SISMEL eine Kurzversion („La Papessa Giovanna e le sue leggende“, Firenze 2023) für eine breitere Leserschaft erschienen.
Ralf Lützelschwab
Hannah Barker, That Most Precious Merchandise. The Mediterranean Trade in Black Sea Slaves, 1260–1500, Philadelphia (University of Pennsylvania Press) 2022, 314 S., Abb., ISBN 978-1-5128-2366-0 (Paperback), USD 29,95.
Nach seiner Veröffentlichung im Hardcover (2019) und im Taschenbuchformat (2022) hat Hannah Barkers „That Most Precious Merchandise“ recht schnell den Status als prämiertes Grundlagenwerk für den mittelalterlichen Sklavenhandel im östlichen Mittelmeerraum erlangt. Die anhaltende Aufmerksamkeit ist vollkommen gerechtfertigt, denn es ist die erste integrative Studie, die die federführenden Kräfte im Handel mit versklavten Menschen aus dem Schwarzmeerraum – Genua, Venedig und das Mamluken-Sultanat – anhand von italienischen, lateinischen und arabischen Quellen gemeinsam betrachtet. Anhand der fundierten Analyse des dichten empirischen Textmaterials – wie Notariatsregistern, Steuer- und Abgabelisten, Rechtstexten, Chroniken, Briefen, Reiseberichten und Ratgebern – leitet Barker ihre Hauptthese ab: „Christian and Muslim inhabitants of the Mediterranean shared a set of assumptions and practices that amounted to a common culture of slavery“ (S. 3). Dabei geht es ihr konkret um die soziale und rechtliche Akzeptanz von Sklaverei, um religiöse Alterität als inhärentes Merkmal des Sklavenstatus sowie um Sklaverei als Bedrohung für alle Bewohnerinnen und Bewohner des Mittelmeerraumes. Den Zeitraum von 1260 bis 1500 abdeckend sind die sieben thematisch sortierten Kapitel in zwei Teile – Sklaverei als Institution und Praxis, Akteure und Strukturen des Sklavenhandels – gruppiert. Im ersten Kapitel stehen zeitgenössische Verständnisse, Terminologien und Legitimierungskriterien für Versklavung im Fokus. Barker argumentiert überzeugend, dass das normative Prinzip, Mitglieder der eigenen Glaubensgemeinschaft nicht zu versklaven, in der Praxis recht flexibel ausgelegt wurde. Erklärungen gibt es im zweiten Kapitel: Die Zuschreibung des Sklavenstatus basierte auf einer Intersektion von Kategorien, die neben Religion auch Sprache und Rasse umfasste, wodurch manche Menschen im Mittelmeerraum für die Großimporteure ‚versklavbarer‘ waren als andere. In den italienischen und mamlukischen Gesellschaften mit Sklavinnen und Sklaven, um die es im dritten Kapitel geht, war versklavte Arbeitskraft soziales und finanzielles Kapital. Eingesetzt im Haushalt oder im Militär (bei den Mamluken), ausgebeutet für Sex, das Hervorbringen von Erben sowie zur Prestigegenerierung, war die individuelle Erfahrung von Sklaverei stets an die jeweilige soziale Position des Besitzenden gekoppelt. Dass der Kauf ein komplexer Vorgang war, bei dem unter Beteiligung von Brokern Preise ausgehandelt und Körper inspiziert wurden, wird im vierten Kapitel erläutert. Im zweiten Teil des Buches werden die Zwischenerkenntnisse gekonnt in geopolitische Kontexte eingebettet. Im fünften Kapitel konzentriert sich Barker auf den historiographisch oftmals als bloßes Sklavenreservoir abgetanen Schwarzmeerraum, um das Zustandekommen des Angebots an Sklavinnen und Sklaven entlang der Faktoren von Gewalt und Verkauf zu beleuchten. So stellt sie nicht nur einen tatarisch-tscherkessischen Wandel im Angebot als Folge von geopolitischen Dynamiken heraus, sondern geht chronologisch auf die Entwicklungen in Caffa, der genuesischen Kolonie auf der Krim, und Tana, einer bedeutenden venezianischen Niederlassung im Schwarzmeerraum, ein. Besonders das genuesische Streben nach Hegemonie, das in der Etablierung eines rigorosen Steuerregimes gipfelte, habe die Strukturen des Handels entschieden beeinflusst. Wie im sechsten Kapitel ausgeführt, reagierten Händler nicht nur auf herrschaftspolitische Maßnahmen, sondern forderten Wetterbedingungen, schwankende Preise und umkämpfte Kontrollsphären über Schlüsselrouten des Sklavenhandels (wie den Bosporus oder die anatolisch-syrische Landgrenze) zu Anpassungsstrategien auf. Im siebten Kapitel wird deutlich, inwiefern der Sklavenhandel ideologisch aufgeladen und mit dem Kreuzzugsgedanken verwoben werden konnte, wie Barkers Analyse von Traktaten, in denen italienische Händler im Dienst der Mamluken als „schlechte Christen“ (S. 187) diffamiert wurden, nahelegt. Barkers Darstellung von komplexen Zusammenhängen in verschiedenen historischen Settings zeichnet sich durch eine klare Argumentationslinie aus. Spannendes Diskussionspotenzial – z. B. mit Studierenden in Lehrveranstaltungen – bietet die These des dualen Status von Sklavinnen und Sklaven als Ware und Mensch und die „Wertsteigerung“ durch das Mensch-Sein (S. 98, 212). Auch die These des muslimisch-christlichen Transfers von Praktiken hinsichtlich des freien Status von Kindern von Sklavinnen (S. 82 f.) ist äußerst interessant. Für die minutiöse Revision von Forschungsdaten zu Genua aus Werken von Domenico Gioffrè und Michel Balard ist Barker zu danken. Dem Buch fehlt wenig. Weiteres Kartenmaterial mit Landrouten und Herrschaftsgebilden um den Schwarzmeerraum wäre für die Lektüre des zweiten Teils hilfreich gewesen. Der Einbezug der kleineren Mitspieler in dem italienisch-mamlukisch dominierten Fernhandel (wie den Händlern von der Iberischen Halbinsel) sowie eine punktuelle Rückanbindung der Ergebnisse an westmediterrane Sklavenhandelsstrukturen hätten der bereits ausgezeichnet recherchierten Studie noch mehr Tiefe gegeben. Wer sich mit Sklavenhandel und Sklaverei im Mittelalter beschäftigen möchte, wird in Barkers „That Most Precious Merchandise“ eine gut geschriebene und äußerst eindrucksvolle Darlegung der situativen Machtdynamiken und Interaktionsgeflechte innerhalb des ostmediterranen Sklavenhandels finden. Für die gegenwärtige Sklavereiforschung, die für akteurszentrierte, multi-sprachliche und räumlich dezentrierende Ansätze plädiert, ist Barkers Studie ein absolutes must-read.
Corinna Peres
Les officiers et la chose publique dans les territoires angevins (XIIIe–XVe siècle). Vers une culture politique? / Gli ufficiali e la cosa pubblica nei territori angioini (XIII–XV secolo). Verso una cultura politica, études réunies par Thierry Pécout, Roma (École française de Rome) 2020 (Collection de l’École française de Rome 518/4), 669 S., Abb., ISBN 978-2-7283-1444-7, € 56.
Der vorliegende Bd. versammelt 23 französische und italienische Beiträge der vierten Tagung des Projektes „Europange“, die 2016 in Saint-Étienne durchgeführt wurde. Zunächst erschien der Bd. elektronisch auf der Publikationsplattform „Openedition Books“ (https://books.openedition.org/efr/6423?lang=de), die gedruckte Fassung kurze Zeit danach. Vorangestellt ist eine Einleitung, die vom „Nicht-Angevinisten“ (S. 1) Olivier Mattoni beigesteuert wurde (S. 1–20); den Abschluss bildet die Auswertung des Hg. Thierry Pécout (S. 617–620). Erschlossen wird der stattliche Bd. durch die französischen und italienischen Zusammenfassungen der Beiträge sowie ein Orts- und Personenregister (S. 621–640 bzw. 641–666). Die Beiträge sind in sechs durchaus unterschiedlich gewichtete Sektionen gegliedert. Der erste Abschnitt „Schriftlichkeit“ („Pratiques de l’écrit“) steuert drei Beiträge bei, während die beiden folgenden Abschnitte zur „administrativen Kultur“ („Une culture de l’administration“) sowie „Bilder der Macht“ („Images du pouvoir“) jeweils sechs Aufsätze umfassen. Demgegenüber fallen die beiden nächsten Blöcke zu „adeligen und geistlichen Modellen“ („Modèles nobiliaires et modèles ecclésiaux“) und zum „Horizont des Staates“ („Horizont de l’état“) leicht ab, die wieder nur vier bzw. drei Beiträge beinhalten. Gar eine eigene Sektion wurde aus dem Beitrag von Maryvonne Michel, Thierry Pécout und Anne Tchounikine gebildet. Dieser stellt die prosopographische Datenbank, die dem Projekt „Europange“ zugrunde liegt, vor und damit dessen kollaborative Basis. Somit versammelt der Bd. eine beeindruckende Zahl an Beiträgen; leider erst in der Zusammenfassung erfahren die Leserinnen und Leser, dass insgesamt sechs Beiträge zur Tagung nicht mit abgedruckt wurden, darunter einer des frühverstorbenen Andreas Kiesewetter sowie des Hg. selbst (S. 617, Anm. 1). Ein gemeinsames Band lässt sich nur schwer finden, da die politische Kultur als titelgebendes Element leider nicht definiert wird. Als Zielsetzung wird aber wohl die Untersuchung des gemeinsamen Wirkens („ce travail en comun“, S. 18) verschiedener Amtsträger formuliert und die Frage aufgeworfen, ob dieses zur Entstehung der bewussten politischen Kultur beigetragen habe. Etwas kryptisch formuliert könnte man diese somit als Übereinstimmung zwischen den Eliten und den Werten bzw. dem politischen Projekt der Anjou verstehen (S. 18 f.). Untersucht wird mit anderen Worten die Zirkulation von politischen Ideen, Praktiken und Modellen zwischen Adel und Monarchie sowie zwischen den verschiedenartig geprägten Reichen bzw. Territorien, die nicht zwangsläufig über längere Zeit verbunden, aber durch ein Band ganz eigenen Gepräges verknüpft waren, worauf Thierry Pécout abschließend noch einmal nachdrücklich hinweist (S. 618). Die verschiedenen Beiträge weisen ein überaus unterschiedliches Niveau und einen stark voneinander divergierenden Zuschnitt auf. Einige Beiträge gehen auf eine langjährige Beschäftigung mit dem Thema zurück (wie der Aufsatz von Benoît Grévin zur Rhetorik am Hof der Anjou, S. 23–52), während wieder andere aus Qualifikationsschriften resultieren (Justine Moreno über die Rechnungskammer von Angers, S. 53–69). Geographisch werden alle von den Anjou beherrschten Regionen abgedeckt, also Frankreich, Neapel und Ungarn. Darüber hinaus widmen sich einige der Beiträge aber auch Regionen, in denen die Dynastie kaum bzw. nur flüchtige Spuren hinterlassen konnten (Matteo Ferrari/Riccardo Rao/Pierluigi Terenzi zur Repräsentation der Macht der Anjou in den mittelitalienischen Kommunen, S. 279–319, oder Gianvito Campobasso zur Kunst in Albanien, S. 359–422). Das Wirken der Amtsträger (als Gruppen, Individuen oder Familien) wird aus verschiedenen Blickwinkeln beleuchtet: Bildung, administrative Praxis, Laufbahn, religiöse Prägung, Aufgaben bzw. Entwicklung der Ämter, Repräsentation in der Heraldik und Grabmalen. Aus dem Rahmen fällt der letzte Beitrag der fünften Sektion von Cristina Andenna, der keine Beamten, sondern die Teilhabe der Herrscherinnen an der Regierung in verschiedenen Funktionen (consors, Vikarin, Regentin) untersucht (S. 569–600). Insgesamt präsentieren die hier vereinten Aufsätze also ein beträchtliches Spektrum an thematischen Facetten zum Leitmotiv. Alles in allem leistet der Bd. einen wichtigen Beitrag zur Frage nach der Zirkulation politischer Ideen und dem Verhältnis zwischen Adel und Monarchie im Machtbereich der Anjou. Die besondere, oftmals nur lose Verbindung zwischen den verschiedenen, durch diese Dynastie beherrschten Territorien hätte allerdings noch deutlicher herausgearbeitet werden können. Eine wirkliche kohärente Linie, etwa im Sinne einheitlicher Leitfragen, weisen die Beiträge leider nicht auf. Vergleichende Blicke, z. B. auf die luxemburgische Herrschaft in ihren verschiedenen Territorien, hätten die Ergebnisse des Bd. noch besser konturieren können. Dennoch handelt es sich um einen sehr substantiellen Beitrag für die Erforschung der Herrschaft der Anjou, dessen Ergebnisse fruchtbringend auch für andere Forschungsfelder herangezogen werden können.
Sebastian Roebert
Wolfgang P. Mueller, Marriage Litigation in the Western Church, 1215–1517, Cambridge (Cambridge University Press) 2021, 270 S., ISBN 978-1-108-84542-7, GBP 75.
Seit dem 12. Jh. entwickelte sich im christlichen Abendland ein europäisch-kanonisches Recht, welches von Seiten des Papsttums mit einem universellen Geltungsanspruch formuliert wurde. Für den Abschluss einer gültigen Ehe zählte hierbei allein der frei geäußerte Ehekonsens durch beide Brautleute. Durch die Gleichsetzung des Bundes zwischen Mann und Frau mit dem Bund zwischen Christus und seiner Kirche wurde die Ehe spätestens durch die copula carnalis unauflösbar. Neben den Rechtsnormen entwickelte die Kirche ein ordentliches Verfahren (ordo iudicarius), nach welchem die kirchlichen Richter bei Rechtsverstößen handeln sollten. An diesem Punkt setzt in Abgrenzung zum Modell von Richard H. Helmholz Wolfgang P. Müller mit seiner These an. Nach Auswertung spätmittelalterlicher Prozessakten konstatiert Müller nicht nur deutliche Unterschiede zwischen Mittel- und Südeuropa, sondern legt vor allem für den Norden dar, dass bei Eherechtsfällen nur selten auf das vollständige kanonische Prozessrecht zurückgegriffen wurde. Zugleich war hier die eigentlich nach dem ordo iudicarius unzulässige Verwendung von auf Hörensagen beruhenden Beweisen zugelassen. Kap. 1 widmet sich Xanten und Basel (S. 23–54), wo Eheprozesse mehr im Sinne von Buße und weniger rein juristisch betrachtet wurden. Machten Paare widersprüchliche Angaben über das Vorliegen einer Ehe, neigten die Richter zur Abweisung der Klage; zugleich sollten beide Parteien ihr Gewissen befragen, ob eine eheliche Bindung bestehe. Beim sich von Paris bis Regensburg erstreckenden franko-germanischen Raum (Kap. 2, S. 55–83) deckt sich das Ergebnis weitestgehend mit dem Befund des vorherigen Kapitels. Klageabweisungen wurden von Frauen wohl von vornherein einkalkuliert. Aber erst die Aussagen der beklagten Männer ermöglichte ihnen, in einem Zivilprozess auf eine Entschädigung für die defloratio oder zur Versorgung eines gemeinsamen Kindes zu klagen. In Kap. 3 folgt die Auswertung englischer Kirchengerichte (S. 84–113). Auch hier konstatiert Müller eher einen büßenden Charakter bei den Urteilen. Eine regionale Besonderheit bestand bei den Gerichtsinstanzen, die nicht dem üblichen Muster von bischöflicher, erzbischöflicher und päpstlicher Gerichtsbarkeit folgten. Stattdessen existierten unterschiedliche Amtsträger, die quasi nebeneinander Recht sprachen, so dass ein Fall von verschiedenen Richtern behandelt werden konnte, ohne eine feste Appellationshierarchie einzuhalten. Im Süden nahm das Notariatswesen einen festen Platz bei der Ausarbeitung von Eheverträgen und bei Vertragsverletzungen ein. Für Venedig und Lucca (Kap. 4, S. 117–149) ist das völlige Fehlen von Bußmerkmalen bei Ehefällen festzustellen. Vom ordo iudicarius geforderte juristische Standards fehlten nur selten; der Notar nahm eine vermittelnde Funktion ein. Der Abschluss einer Ehe war eine Sache zwischen Familien, so dass die Zustimmung für eine Hochzeit und die damit verbundene vertragliche Aushandlung von Mitgift und Co. stärker von Verwandten abhing, die auch bei Vertragsbrüchen aktiv wurden. Katalonien (Kap. 5, S. 150–182) wurde stark durch Visitationen bischöflicher Richter geprägt, die u. a. verbotene Konkubinate aufdecken sollten. Die Exkommunikation folgte, sofern betroffene Paare sich nicht trennten oder einer feierlichen Hochzeit nicht zustimmten. Neben geistlichen Sanktionen konnten weltliche Strafen nur dann verhängt werden, wenn der zuständige Bischof zugleich auch Lehnsherr des Paares war. In Kastilien (Kap. 6, S. 183–214) besaßen die kirchlichen Gerichte nicht die alleinige Zuständigkeit in Eherechtsfragen. So war es möglich, Klagen auch an weltliche Gerichte der Stadt oder der Krone zu richten. Zudem existierten im kastilischen Recht neben der Ehe vertraglich geregelte Konkubinatsformen, welche selbst von Kirchenmännern eingegangen werden konnten. Im kurzen Fazit (S. 215–217) zeigt sich der Gewinn der Studie. Behandelte Eherechtsfälle nahmen geographisch nicht nur von Norden nach Süden sondern auch von Osten nach Westen ab. Kirchliche Gerichte waren nicht überall in Europa die alleinig zuständige Instanz. Innerhalb der Gerichte gab es zum Teil deutliche Unterschiede bei der Prozessführung. Aus diesen Ergebnissen folgt, dass sich die Umsetzung des allgemeingültigen Kirchenrechts in den Regionen weit individueller vollzog, als dies bisher von der Forschung angenommen wurde. Gleichzeitig sollte aber Müllers Befund für weitere Regionen durchaus kritisch überprüft werden. Überaus hilfreich ist der mitgelieferte Anhang (S. 218–245), der die von Müller bearbeiteten Fälle aus Paris, Cambrai (mit Brüssel), Basel, Augsburg, Regensburg, Ely, Rochester, Venedig und Lucca mit Referenzen auflistet und nach Art des Urteils untergliedert. Festgehalten sind auch weitere Informationen wie das Geschlecht des Klägers oder der Ausgang des Verfahrens. Schließlich runden das Quellen- und Literaturverzeichnis (S. 246–263) sowie ein Index für ausgewählte Namen, Orte und Sachen (S. 264–270) das Buch ab.
Alexander Maul
Isabella Lazzarini, L’ordine delle scritture. Il linguaggio documentario del potere nell’Italia tardomedievale, Roma (Viella) 2021 (La storia. Temi 84), 396 pp., ISBN 978-88-3313-488-8, € 32.
Alcuni potrebbero considerarla, erroneamente, un’opera minore, una raccolta di lavori già pubblicati, ma con „L’ordine delle scritture“ Isabella Lazzarini è ben lontana dall’aver fatto solo questo. L’opera in esame è la rielaborazione di una linea di lavoro che l’autrice ha sviluppato per vent’anni. E dico rielaborazione, perché non si è limitata alla semplice ripubblicazione dei testi, ma si assiste a un lavoro di rivisitazione e riorganizzazione degli stessi secondo una logica coerente rispetto all’analisi dell’oggetto di studio (che non sempre coincide con l’ordine cronologico in cui l’autrice li ha affrontati e pubblicati). Sono stati tutti tradotti in italiano (alcuni erano stati pubblicati in francese) e, inoltre, è stata inserita un’introduzione metodologica che motiva l’intera analisi, nonché un nuovo testo che fa da colophon, almeno cronologicamente, al resto dei contenuti. Nei vari lavori che compongono il libro, Lazzarini ha analizzato progressivamente i diversi aspetti che caratterizzano il rapporto tra scrittura e potere nel contesto italiano tardomedievale che lei conosce bene. Pertanto, l’ordine di lettura dell’opera prevede che il punto di partenza sia l’analisi del rapporto tra potere, linguaggio e documenti. Per farlo, si affronta nel primo capitolo la figura dei funzionari, esaminando sia l’elenco in sé, sia le fonti che permettono di riconoscerli, siano essi repubblicani o signorili. La descrizione dello spazio, „la scrittura dello spazio“ secondo le parole dell’autrice, occupa il secondo capitolo che esamina il modo in cui si riflettono nello scritto le diverse visioni che le varie potenze italiane hanno dello spazio in cui convergono, passando dai Libri Officiorum a libri di viaggio e trattati diplomatici. Il terzo capitolo si sviluppa seguendo una linea geografica, e si concentra sul modo in cui i poteri trovano espressione nella documentazione della cancelleria, attraverso l’analisi dei suoi registri. Si concentra sul rapporto fondamentale tra la comunicazione pubblica e il suo utilizzo per la costruzione del potere politico, concentrandosi in questo caso su Milano, Mantova e Ferrara. La prima sezione si conclude con il quarto capitolo, dedicato all’intima relazione (sia dal punto di vista politico che scritturale) tra diplomazia e scrittura, in cui sono al centro dell’analisi la diversità dei poteri coinvolti e il grande peso che gioca come mezzo di comunicazione politica. La seconda sezione si sofferma sulla lettera come elemento scritturale. Come sottolinea la stessa autrice, nella seconda metà del XIV secolo si assiste a una vera e propria esplosione dell’uso della lettera come elemento integrante della cultura della comunicazione. Nei tre capitoli che compongono questa parte, la studiosa si concentra sull’analisi delle forme utilizzate nelle lettere autografe (simbolo di cultura e familiarità), sulla grafia corsiva e il suo uso e, infine, sulle lettere scritte dalle donne nel Trecento italiano. Infine, la terza sezione si occupa dell’ordine della scrittura. Un ordine che, come ho anticipato nell’introduzione, è fondamentale perché è il risultato di un’evoluzione concreta del potere e delle sue forme di espressione, un’evoluzione che implica cambiamenti e trasformazioni nelle due sfere: il potere e il suo uso della scrittura. Questo viaggio vede in primo luogo la tipologia delle liste e le loro variazioni (e ragioni), per proseguire con i commenti di cancelleria (la loro forma, l’uso e l’evoluzione), e concludersi infine con la creazione di un genere documentario: le lettere esterne o diplomatiche nell’area già caratteristica di Milano, Mantova e Ferrara. A chiusura dell’opera, come accennato, troviamo un capitolo inedito, in cui Lazzarini analizza i trattati come forma di scrittura politica con caratteristiche specifiche, concentrandosi sul caso della Pace di Lodi, di cui apprezza il modo in cui l’ordine del discorso è determinato dal periodo di cambiamento e di transizione tra il Medioevo e l’età moderna. Come si può vedere, l’opera passa quindi in rassegna i vari aspetti che coinvolgono potere e scrittura: dal potere femminile ai tipi di scrittura, dalla rappresentazione geografica alla diplomazia … Si può dire che manchi solo una cosa: sarebbe stato molto interessante avere delle conclusioni finali, a mo’ di riepilogo di tutto ciò che è stato detto fino a quel momento, sui vari aspetti trattati circa l’oggetto del discorso presentato già nel titolo. Non si tratta tuttavia, dopo una lettura attenta, di una mancanza imperdonabile. Vent’anni di lavoro richiedono molto impegno, sia per quanto riguarda il tenersi aggiornati, sia per lo sviluppo dell’oggetto di studio stesso. Nel corso degli anni il tema della scrittura come elemento di analisi politica nel tardo medioevo italiano è stato sviluppato e ampliato, con analisi chiare e concrete di momenti specifici e fonti molto diverse, cosa a cui la studiosa ha sempre prestato particolare attenzione (e che si ripete in quasi tutti i contributi del libro). I risultati eterogenei e di diversa natura che venivano dati alle stampe da Isabella Lazzarini hanno rappresentato un grande traguardo, ancora più importante se si considera come sono stati rivisti e unificati ora in un unico libro che ci permette di comprendere meglio il filo conduttore che ha guidato queste indagini. Indubbiamente una grande opera.
Óscar Villarroel González
Amedeo Feniello, Demoni, venti e draghi. Come l’uomo ha imparato a vincere catastrofi e cataclismi, Roma-Bari (Laterza) 2021 (I Robinson. Letture), 336 S., ISBN 978-88-581-4547-0, € 20.
Das Buch „Demoni, venti e draghi. Come l’uomo ha imparato a vincere catastrofi e cataclismi“ von Amedeo Feniello bietet eine umfassende Untersuchung der Auswirkungen der Klimaveränderungen ab dem 14. Jh. auf diverse Gesellschaften und liefert damit einen wichtigen Beitrag am Schnittpunkt zwischen historischer Klimaforschung, Umwelt- und Sozialgeschichte. Amedeo Feniello stützt sich auf ein breites Spektrum von Quellen, darunter historische Aufzeichnungen, naturwissenschaftliche Daten und literarische Werke. Er zeichnet ein weitumfassendes Bild davon, wie mittelalterliche Gesellschaften auf Umweltveränderungen, beispielsweise bedeutende Schwankungen der Temperatur- und Niederschlagsmuster sowie daraus resultierenden Konsequenzen reagierten. Es gelingt ihm dabei mühelos die Leserinnen und Leser über Kontinente hinweg und durch unterschiedlichste Kulturräume zu lotsen und zu faszinieren. Der gigantische Forschungsraum erstreckt sich über eine Vielzahl von Ländern und Regionen, darunter die Mongolei, Indien, Russland, Indonesien, China und Europa. Besonders intensiv beschäftigt sich Amedeo Feniello mit den letztgenannten vier sehr weitfassenden Räumen, zu denen er tiefgreifendere Untersuchungen durchführt. Darüber hinaus betrachtet er auch historische Beispiele, in denen Kulturen und Gesellschaften nicht in der Lage waren, sich an die klimatischen Veränderungen und deren naturbedingte und gesellschaftliche Folgen, seien es Überschwemmungen, Dürren, Kriege oder Seuchen, anzupassen oder angemessen zu reagieren. Als Beispiel werden das antike khmerische Königreich oder das in Folge mehrerer Krisen geschwächte Byzantinische Reich angeführt. Im ersten Teil betrachtet Amedeo Feniello ausführlich die gesellschaftlichen Auswirkungen und verschiedenen Katastrophen, die die Menschheit seit dem 14. Jh. heimgesucht haben, und wie unterschiedliche Akteure auf diese Herausforderungen reagierten. Er thematisiert die Entwicklung neuer Technologien und Strategien sowie deren erfolgreiche Implementierung, aber auch deren Scheitern. Dabei geht er auf die Besonderheiten der unterschiedlichen Räume ein, welche in Folge der Klimaveränderungen mit ganz unterschiedlichen neuen Rahmenbedingungen umzugehen lernen mussten. Beispielsweise kam es in Europa in Folge von Dürren oder Überschwemmungen zu Hungersnöten und Seuchen, während die Absenkung der Durchschnittstemperaturen zu einer Verkürzung der Vegetationsperiode führte, sodass die Landwirtschaft nachhaltig beeinträchtigt wurde. Auf dem indischen Subkontinent hingegen hatten die klimatischen Veränderungen große Auswirkungen auf die temperatursensiblen Luftzirkulationen (Monsun), was wiederum die prekäre Ernährungssituation verschärfte und zu weitreichenden sozialen Veränderungen in den betreffenden Regionen führte. Amedeo Feniello geht in seinem Buch nebst den genannten Folgen für die Gesellschaften des Mittelalters auch Phänomenen wie wiederkehrenden Heuschreckenplagen oder auch der Ausbreitung der Pest durch das Bakterium Yersinia pestis und dessen radikalen sozialen Folgen nach. Im zweiten Teil widmet er sich der Neukonfiguration in Folge der beschriebenen Krisenszenarien und den Bewältigungsstrategien unterschiedlicher gesellschaftlicher Akteure. Der Autor geht auf die unterschiedlichen Reaktionen der Gesellschaft auf die Klimaveränderungen ein und beschreibt in drei Unterkapiteln, wie China, der geographische Raum Russland bis Indonesien und Europa auf die Veränderungen reagierten, und welche Art an Innovation und/oder Neuerung zum Erfolg führte. Er beschreibt diese Prozesse dabei für jeden der genannten Räume differenziert und erläutert, wie die entsprechenden technologischen, wirtschaftlichen, finanziellen, juristischen, politischen, kulturellen oder religiösen Ansätze die gesellschaftliche Entwicklung prägten. Eine der größten Stärken des Buches ist sein multidisziplinärer Ansatz. Der Rückgriff auf unterschiedlichste Quellengattungen und Forschungsergebnisse vielfältiger Fachgebiete ermöglicht den Leserinnen und Lesern ein tieferes Verständnis der komplexen Art und Weise, in der die Umwelt die menschliche Kultur, Politik und Wirtschaft beeinflusste. Amedeo Feniello liefert eine kritische Bewertung der verschiedenen Forschungsansätze, die bei der historischen Klimaforschung verwendet wurden. Dazu gehören eine Analyse der Stärken und Grenzen historischer Aufzeichnungen sowie eine Untersuchung der Rolle wissenschaftlicher Daten für das Verständnis des Klimas der Vergangenheit. Durch diese Analyse unterstreicht Amedeo Feniello die große Bedeutung für das Verständnis der Auswirkungen des Klimawandels für unsere Gesellschaft, sowie den Bedarf an fortlaufender Forschung in diesem Bereich. Ob der umfangreichen Informationsfülle und weitumfassenden Räume ist es nachvollziehbar, dass sich der Autor in manchen Abschnitten zu sehr in Details verliert und dadurch die übergreifenden Zusammenhänge nicht immer klar ersichtlich sind. Der spannende und kurzweilige Schreibstil macht es jedoch sehr leicht, dem Buch auch über längere Passagen ohne Probleme zu folgen. Insgesamt bietet „Demoni, venti e draghi. Come l’uomo ha imparato a vincere catastrofi e cataclismi“ einen umfassenden und spannenden Einblick über die Veränderungen der Gesellschaft im Zuge der Klimaveränderungen des 14. Jh. Die einzigartige Raumvielfalt verleiht dem Buch eine besondere Tiefe und ermöglicht einen Einblick in die unterschiedlichsten Gesellschaften. Das Buch ist daher nicht nur für Historikerinnen und Historiker sowie Geographinnen und Geographen interessant, sondern auch für all jene, die sich für Umwelt- und Sozialgeschichte in einem globalen Kontext interessieren.
Jens Ritter
Jürgen Miethke, Politische Scholastik – Spätmittelalterliche Theorien der Politik, Tübingen (Mohr Siebeck), 2021 (Spätmittelalter, Humanismus, Reformation 122), XV, 649 pp., ISBN 978-3-16-153487-4, € 139.
I 26 saggi raccolti in questo volume sono stati scelti meditatamente tra i numerosissimi lavori pubblicati dall’autore tra il 1980 e il 2018 sui temi della trattatistica politica tardomedievale di ambito universitario. L’autorevolezza di Jürgen Miethke in questo settore di studi è universalmente riconosciuta e ne fa un interlocutore privilegiato per chiunque affronti il problema del contributo dato dalla scolastica alla riflessione e alle pratiche relative agli aspetti della vita sociale che potremmo raccogliere – con qualche rischio di anacronismo – sotto l’espressione „governo della cosa pubblica“. Particolarmente ricco il dialogo con gli studiosi italiani. Basti ricordare, lungo un arco di tempo che abbraccia almeno due generazioni, i nomi di Ovidio Capitani, di Diego Quaglioni, di Roberto Lambertini. Si consideri che cinque dei lavori qui presenti (nr. 4, 5, 11, 17, 21) sono versioni in tedesco di saggi pubblicati originariamente in Italia e nella nostra lingua, quasi sempre in atti di convegni che hanno segnato tappe importanti nella storiografia sul pensiero politico medievale. Il libro è articolato in quattro sezioni. I saggi compresi nella prima („Probleme“) affrontano i grandi temi: il conflitto tra libertà e potere (nr. 1); la trattatistica politica di fronte al delinearsi di una prima secolarizzazione degli stati (nr. 2); la legittimazione dell’attività di normazione giuridica (nr. 3); il concetto di bene comune (nr. 4). Già in questa prima sezione emerge una delle caratteristiche che contraddistinguono l’interpretazione complessiva dell’autore e le sue scelte espositive. Si procede attraverso l’analisi delle prese di posizione di singoli autori e testi, spesso segnate dai tratti dell’eccezionalità: certo non tali da poter disegnare un’evoluzione lineare del pensiero politico in un’epoca (com’è ancora quella bassomedievale) in cui alle speculazioni sulla politica non è ancora riconosciuto lo statuto di disciplina autonoma, ma capaci, se accostati l’uno all’altro, in grado di illuminarsi a vicenda e di segnalare l’emergere di interessi passibili di ulteriori sviluppi. La seconda sezione („Traditionen“) presenta una ricca rassegna dei materiali sui quali si sviluppa il lavoro dei teorici della politica nel Tre-Quattrocento:. Questi in breve i temi: ricezione della „Politica“ aristotelica attraverso gli scritti di Tommaso d’Aquino, Egidio Romano, Marsilio da Padova (nr. 6); stato originario della creazione nel paradiso terrestre, età apostolica, povertà francescana come tre luoghi deputati all’esercizio dell’autocoscienza religiosa e della riflessione critica sulla società (nr. 7); teorie politiche dei maestri agostiniani (nr. 8); lo Pseudo Dionigi Areopagita nell’ecclesiologia politica agostiniana (nr. 9); Marsilio, Ockham e il conciliarismo (nr. 10); presenza e usi della donazione di Costantino negli ambienti della curia papale (nr. 11); proiezione dell’immagine della guerra santa antipagana sul conflitto tra Ordine Teutonico e regno di Polonia (nr. 12); la teologia scolastica di fronte all’emergere dello Stato moderno (nr. 13). Le teorie politiche di cui si tratta in queste pagine mostrano con tutta evidenza, per le fonti e gli autori (maestri nelle università e nelle scuole degli Ordini) il segno della loro origine scolastica. Tuttavia, la cifra distintiva della lettura di questi scritti che ci propone Miethke è proprio l’invito a non chiuderli entro il perimetro delle scuole: la scrittura è sì fondata sulle auctoritates antiche o moderne, ma è animata dall’esperienza dei conflitti che percorrono la scena politica europea nel tardo medioevo, chiamando in più di un caso gli intellettuali ad un impegno di vera e propria militanza. Gli autori poi non si si rivolgono ai soli intellettuali di professione, ma raggiungono, direttamente o indirettamente, un pubblico molto più vasto, fatto di persone che di quei conflitti fanno a loro volta esperienza, come attori o come spettatori. Quindi un’attenzione puntuale al contesto di produzione e di fruizione; anzi, ai diversi contesti. Perché anche qui Miethke pone grande attenzione ad affrontare ogni episodio nella sua singolarità, sfuggendo alla tentazione di costringere la varietà entro pochi modelli in qualche modo precostituiti. È chiaro il suo proposito di evitare generalizzazioni artificiose, che non darebbero conto della diversità delle situazioni e degli ambienti, così come nella sezione precedente ci si preoccupava di non dare l’impressione ingannevole di una continuità nelle linee di sviluppo attraverso il tempo. Nella terza sezione („Positionen“) sono compresi lavori incentrati sulle teorie politiche di grandi protagonisti della scolastica medievale, sul loro pubblico e la loro ricezione nel tardo medioevo: Tommaso d’Aquino (nr. 14), Raimondo Lullo (nr. 15), Marsilio da Padova e Ockham (nr. 16 e 17), Lupoldo di Bebenburg e Pietro di Andlau (nr. 18 e 19), Corrado di Megenberg (nr. 20), Niccolò Cusano (nr. 21). Si tratta di autori e di opere che Miethke ha frequentato incessantemente durante tutto il suo percorso di ricerca: da qualunque punto di vista li si voglia affrontare, sarà impossibile accostarvisi senza tener conto delle sue analisi e proposte di lettura. La quarta sezione è intitolata „Theorie und Praxis der Scholastik“. La traduzione nella pratica delle teorie scolastiche è osservata attraverso la letteratura consiliare tardomedievale di contenuto e interesse politico (nr. 22); nei dialoghi scritti in latino e in volgare nel Trecento (nr. 23); nei processi di ricezione della „Politica“ di Aristotele grazie all’opera di Alberto Magno (nr. 24); nei conflitti tra canonisti e teologi circa la competenza delle rispettive discipline (nr. 25); si tratta infine dell’influenza che intellettuali attivi presso la corte di Ludovico il Bavaro, come Marsilio e Ockham, svolsero nelle pratiche politiche del loro tempo (nr. 26). I lavori che compongono quest’ultima sezione rendono esplicita quella che, come si è detto, è una delle linee portanti del discorso sviluppato in tutto il volume: l’attenzione alla ricezione al di fuori della scuola del discorso scolastico sulla politica, alle modalità di fruizione di questo patrimonio culturale da parte di un pubblico molto variegato, alle funzioni che le teorie elaborate dagli intellettuali di scuola hanno avuto nelle pratiche sociali e politiche.
Carla Frova
Esther Tello Hernández, Pro defensione regni. Corona, Iglesia y fiscalidad durante el reinado de Pedro IV de Aragón (1349–1387), Madrid (Consejo Superior de Investigaciones Cientificas) 2020 (Serie Histórica 8), 645 S., ISBN 978-84-00-10709-3, € 42.
Der zu besprechende Bd. ist die überarbeitete Fassung der Diss., die die Autorin an der Universität Zaragoza und der Institució Mila i Fontanals in Barcelona absolviert hat. Sie steht an der Schnittstelle zwischen Herrschafts-, Kirchen- und Wirtschaftsgeschichte, und es gelingt ihr, substanzielle Erkenntnisse zu all diesen Feldern beizutragen. Die Finanzgeschichte des Spätmittelalters und insbesondere der Krone Aragon ist in den vergangenen Jahren vermehrt in den Fokus der Forschung gerückt. Ausgehend von dieser neuen Finanzgeschichte, die nach Akteuren sowie der Umsetzung in konkreten Kontexten fragt, will Tello Hernández den finanziellen Druck, den die Krone auf den Klerus ausübte, sowie dessen Anteil an der Ausbildung eines Steuersystems systematisch untersuchen. Dies soll am Beispiel des langen Regnum von Peter IV., dem Zeremoniösen, geschehen, dem bereits eine revolución fiscal attestiert wurde, und das so als zentrale Etappe der Geschichte der Reichsfinanzen in der Krone Aragon gelten kann. Außerdem bietet die Regierungszeit Peters IV. eine außergewöhnlich reichhaltige Quellenlage, die eine solche Tiefenstudie erlaubt. Dabei sollen die verschiedenen Mittel, Zehnte und Sonderzahlungen, aber auch die Anfragen von Städten, Krone und Cortes untersucht und jeweils in den historischen Zusammenhängen kontextualisiert werden. Positiv hervorzuheben ist, dass Tello Hernández sich nicht nur auf die Quellen des Kronarchivs in Barcelona (insb. die Registerserien Peccuniae, Demandarum und Cámara Apostolica sowie die Bestände des Maestre Racional, des Real Patrimonio und des Tesaurars) beschränkt, sondern auch die vatikanische Überlieferung systematisch einbezieht. Das Thema wird in zwei Hauptteilen bearbeitet. Einleitend findet sich eine historische Einordnung, die sowohl die verschiedenen Quellen als auch den Kontext der Krone Aragon und des Papsttums, vor allem im Hinblick auf die Finanzgeschichte vorstellt. Außerdem wird das Thema in die europäische Forschung zur Entwicklung staatlicher Finanzen im Spätmittelalter eingeordnet. Der erste Hauptteil widmet sich schließlich dem Zehnt, den die Päpste im Untersuchungszeitraum nahezu durchgängig gewährten und der so zu einer planbaren Einnahmequelle des Königs wurde. Der zweite Hauptteil nimmt die weiteren Zahlungen und Forderungen, die weltliche Amtsträger an den Klerus stellten, in den Blick. Die Ergebnisse der Studie sind zahlreich und können hier nur angerissen werden. Würde man diese auf einen Nenner bringen wollen, genügt der Blick auf den Titel des Bd.: „Pro defensione regni“, zur Verteidigung des Reiches, denn diese war in den meisten Fällen der Grund für die Gewährung kirchlicher Zahlungen. Dabei ging es vor allem um die Sicherung Sardiniens, das als päpstliches Lehen unter aragonesischer Herrschaft stand. Die zahlreichen Kriege in Peters Regierungszeit führten zu weiteren Sonderzahlungen, oder aber zu einer Zweckentfremdung des regulär für Sardinien gewährten Zehnts. Wichtige Erkenntnisse bietet die Studie auch auf Akteursebene. So kann Tello Hernández nachweisen, dass beim Eintreiben der Abgaben Laien und kirchliche Amtsträger eng zusammenarbeiteten. Aufseiten des Regnum bildeten sich hier sogar Ämterstrukturen heraus, was dafürspricht, dass davon ausgegangen wurde, dass man zumindest den Zehnt als dauerhaft existierende Steuer einplanen konnte, auch wenn er meist nur für drei Jahre gewährt wurde. Die Einnahmen aus kirchlichen Institutionen wurden nahezu vollständig in das Finanzsystem des Reiches integriert. In finanziellen Krisenzeiten, vor allem Kriegen, wurde starker Druck auf den Klerus ausgeübt und nicht immer waren die Zahlungen freiwillig oder in Geldform. Die Autorin deckt beispielsweise Fälle auf, in denen der König Kirchengut konfiszierte oder sich in Abwesenheit der Amtsinhaber aneignete. Tello Hernández ist eine Arbeit gelungen, die das Abhängigkeitsverhältnis von Kirche und Staat im Spätmittelalter am Beispiel der Finanzpolitik in der Krone Aragon genau und gewinnbringend untersucht. Anschlussfähig ist die Studie jedoch nicht nur für die regionale Forschung zur Krone Aragon. Die finanzpolitischen Auswirkungen der Beziehungen zwischen weltlicher und kirchlicher Macht spielen in der gesamten Christenheit eine entscheidende Rolle, gerade im Zuge der Neuausrichtung päpstlicher Finanzen unter Johannes XXII., für die das Buch ebenfalls Erkenntnisse bereithält. Auf diesen Gebieten Forschenden steht mit Tellos Buch eine außerordentlich gut überlieferte und rigoros aufgearbeitete Fallstudie zur Verfügung, die als Inspiration und Vergleichsfolie gleichermaßen dienen kann und sollte.
Robert Friedrich
Luciana Petracca, Le terre dei baroni ribelli. Poteri feudali e rendita signorile nel Mezzogiorno aragonese, Roma (Viella) 2022 (I libri di Viella 419), 334 pp., ISBN 979-12-5469-004-8, € 32.
Nell’ambito nel vasto e articolato tema dei poteri signorili nell’Italia tardomedievale, che di recente è stato nuovamente posto al centro del dibattito storiografico (da ultimo con il PRIN 2015, intitolato „La signoria rurale nel XIV–XV secolo“ e coordinato da Sandro Carocci), il lavoro di Luciana Petracca, partendo da un ampio caso di studio, si propone di contribuire all’esplorazione „di piste d’indagine“ ancora poco battute dalla ricerca. Sebbene negli ultimi anni, per quanto riguarda il Mezzogiorno quattrocentesco, vi siano stati sviluppi rilevanti, l’attenzione verso la dimensione politica risulta ancora preponderante, a discapito di quella economica (più valorizzata, invece, presso i modernisti). Il focus principale di questo volume è proprio la valutazione del peso e del significato economico dei domini feudali, attraverso l’analisi della struttura e della composizione delle loro rendite. Tale analisi viene condotta, in sostanza, avvalendosi delle numerose informazioni contenute nel „Libro singolare d’intrate feudali de diversi contati de diverse province del Regno de baroni ribelli del anno 1494“: un corposo registro (confluito nel fondo Relevi della Regia Camera della Sommaria, nell’Archivio di Stato di Napoli) in cui i funzionari del sovrano riportarono, insieme agli elenchi delle terre confiscate alla maggior parte dei feudatari coinvolti nella celebre „Congiura“ del 1485–1487, la descrizione minuziosa dei beni e dei diritti signorili gravanti sulle comunità infeudate. La fonte (la cui edizione è tutt’ora in corso di stesura, a cura della stessa Petracca), configurandosi come una „parziale istantanea“ del patrimonio incamerato dalla Corona all’indomani della ribellione, permette dunque di delineare la composizione degli „stati“ baronali in questione; di ragionare sulla gestione del „possesso“ feudale nel Mezzogiorno, e sulle sue potenzialità economiche, nonché di operare una „comparazione tra più complessi signorili, così come tra corpi differenti di un medesimo dominio“ (p. 14). Tutto ciò riguarda però la seconda parte del volume, la quale è preceduta da due capitoli che svolgono di fatto la funzione di un’ampia premessa: l’autrice vi ricostruisce in primo luogo, attraverso la più aggiornata bibliografia, il „quadro storico-politico“ della Congiura e le fasi della guerra (cap. 1), per poi dedicarsi allo spazio geografico del Regno, naturale e antropico, con le sue risorse, le sue circoscrizioni amministrative, le sue principali vie di comunicazione, e soprattutto i suoi assetti feudali laici ed ecclesiastici (cap. 2). Come si è accennato, la parte II riguarda invece il tema centrale dei diritti signorili e della rendita feudale. Vi sono dunque presi in considerazione gli introiti di uffici come baglive, capitanie e mastrodattie, i diritti bannali, i tributi relativi a servizi di natura personale o a prerogative signorili su minoranze etniche; ma anche le varie forme di prelievo sulla terra (censi, terraggi, decime, fide, erbaggi e altri diritti) e le entrate provenienti dalla gestione diretta o indiretta degli immobili, fra cui, ovviamente, terreni, mulini, forni, trappeti, impianti per la lavorazione tessile e delle risorse minerarie o forestali. Tutti questi elementi vengono ripartiti in tre „componenti essenziali“ (secondo uno schema utilizzato anche in altri studi di questo tipo), che sono analizzate in altrettanti capitoli: reddito giurisdizionale (cap. 3), rendita fondiaria (cap. 4) e rendita immobiliare (cap. 5). Il censimento e l’analisi dei cespiti feudali sono accompagnati anche da digressioni esplicative, inerenti ad esempio all’amministrazione della giustizia baronale (a cui è dedicato il primo paragrafo del cap. 3) e la presenza di „signorie personali“. È inoltre presente un corposo apparato di tabelle, poste sia all’interno dei tre capitoli (dove si riportano non solo le varie entrate, ma anche i reati e le rispettive sanzioni), sia in una sezione a parte, dopo le „Note conclusive“. In quest’ultima, si trovano tanto le entrate, secondo la suddetta tripartizione, quanto i fuochi relativi ai singoli centri, che sono raggruppati per signore feudale e circoscrizione amministrativa di appartenenza. Nella „Appendice bio-bibliografica dei baroni ribelli“, l’autrice fornisce poi delle brevi ma utili schede sui feudatari coinvolti nella Congiura (e non solo), seguite da altre tabelle in cui sono riportati i loro domini – l’indicazione dei fuochi, anche nel 1443/1447, risulta fondamentale per valutare gli sviluppi demografici –, nonché da mappe cartografiche (a cura di Antonio Magurano), realizzate attraverso la georeferenziazione dei dati e „atte a visualizzare l’entità territoriale e la distribuzione geografica“ di 23 complessi feudali. Nell’insieme, il volume si presenta ricco d’informazioni e ben argomentato, vantando notevole prudenza e rigore nell’approccio alla fonte principale. La seconda parte offre specificamente molteplici considerazioni e spunti di riflessione, ad esempio riguardo alle difformità riscontrabili tra feudalità maggiore e minore, o tra diversi contesti provinciali, circa la prevalenza della rendita giurisdizionale o fondiaria; alla „pervasività“ dei signori di territori più circoscritti e meno popolosi; all’assetto del prelievo in termini di rendita „pro foco“; all’incidenza del comparto manifatturiero. Gli unici limiti di questo lavoro sono, di fatto, quelli imposti dalla stessa fonte utilizzata (visione non diacronica, incompletezza dei dati sui patrimoni feudali, ambiguità degli introiti baiulari), dei quali l’autrice si mostra, dopotutto, perfettamente consapevole, presentando il suo come un „preliminare bilancio sulla rendita signorile nel Mezzogiorno tardomedievale“ (p. 174).
Alessio Russo
Angelo Piacentini, L’epistolarum liber di Uberto Decembrio, Roma (Viella) 2020 (Medioevo milanese 2), 384 S., ISBN 978-88-3313-494-9, € 45.
Die Häuser nicht aus Stein, sondern aus Holz und Lehm, die Einwohner halbnackt bei großer Kälte im Freien, Frauen und Männer unzüchtig nackt in Badehäusern, die Männer faul und Prostituierten zugeneigt, schlechtes Essen, Bier statt Wein, ein schmutziger, aber geschäftiger Ort, immerhin durch Karl IV. mit guten Bauten und einer Universität ausgestattet, kurzum: „Je länger ich hier bin, desto klarer wird mir, wie viel besser es bei uns ist!“ – Die Beschreibungen der Stadt Prag, die Uberto Decembrio 1394 auf einer Gesandtschaftseise an den Hof Wenzels verfasste (diese Stadt erschien ihm wie ein Rom des Nordens, ansonsten war ihm nur Wien der Erwähnung würdig), gelten als „der früheste geschlossene, weitgehend mit selbständigen Beobachtungen angefüllte Bericht eines nach dem Norden reisenden Italieners“ (Klaus Voigt, Italienische Berichte aus dem spätmittelalterlichen Deutschland, Stuttgart 1973, S. 45). Die beiden Briefe (hier V und VI) sind in einer Mailänder Hs. (Biblioteca Ambrosiana, B 123 sup.) überliefert, die Angelo Piacentini nun erstmals einer Gesamtanalyse nach allen Regeln der Kunst mit Edition und Übersetzung vorgelegt hat. Vorgeschaltet ist eine kurze Biographie des nicht unbekannten Uberto (ca. 1360–1427), der eine hervorragende Gestalt des Mailänder Frühhumanismus war; darin relativiert der Hg. die These einer persönlichen Bekanntschaft Ubertinos mit Francesco Petrarca. Ubertinos Werke sind in einem Familien-Zibaldone, den der nicht minder bekannte Sohn Pier Candido Decembrio mit seinem Bruder Modesto anlegte, überliefert. Der (stark literarisch geprägte) Zibaldone enthält, neben Werken Petrarcas, Ciceros, einer Übersetzung von Platons „Politeia“ und einigen Epigrammen von Pier Candido, Uberto Decembrios „De re publica“, seinen „Moralis philosophie dyalogus“, ferner „De modestia“ und „De candore“, dann seinen „Epistolarum liber“. Letzteren sieht Piacentini als nicht komplett und eventuell auf der Grundlage einer ersten Briefsammlung Ubertinos selbst zusammengestellt an (S. 40–42). Die erhaltenen 31 Briefe und drei Reden lassen humanistische Bekanntschaften und Freundschaften erkennen, u. a. mit dem verehrten Coluccio Salutati (die Widmungsepistel Nr. I strotzt von Vergleichen Florenz-Rom), dessen Briefwechsel hier durch eine bisher unedierte Missive bereichert wird (Nr. XV, an den Sieneser Iacopo Manni), außerdem Antonio da Vimercate, Bartolomeo Capra u. a. m. Neben eher privaten finden sich Briefe politischer Natur, verfasst als Mitglied der Visconti-Kanzlei und Sekretär des Pietro di Candida, später auch für Capra, an Päpste (Wahlgratulationen für Gregor XII., Nr. XXII, sowie Alexander V., Nr. XXIII, dessen Wahl 1409 er als Ende des Schismas ansieht, an Johannes XXIII., Nr. XXIX) und weltliche Herren (unter anderem an den römisch-deutschen König Ruprecht von der Pfalz, Nr. XXI, in dem er ganz Italien als ghibellinisch bezeichnet!). Einige der Briefe gestatten Einblicke in die Mailänder Reichs- und Kirchenpolitik jener Zeit, auch in Bezug auf das Konzil von Konstanz. Von Interesse sind schließlich die drei Reden, gehalten wohl anlässlich des Mailand-Aufenthalts Papst Martins V. während seines langen Possesso nach Rom. In ihnen gibt der Orator dem Wunsch Ausdruck, dieser neue Papst möge das zerrissene Italien nach dem Schisma wieder einen. Neben den inhaltlichen Aspekten (beispielsweise auch solchen, welche die Scholastik-Kontroverse berühren) wird die Humanismusforschung auch die sprachlich-stilistischen und orthographischen Analysen Piacentinis in seiner vorbildlichen Edition schätzen, der eine breite Rezeption zu wünschen ist. Nicht zuletzt lässt sie auch die bekannten Briefe aus Prag kontextualisiert in einem neuen Licht erscheinen.
Tobias Daniels
Ignacio Garcia-Lascurain Bernstorff, Die Athleten und der Vikar Christi. Untersuchung zur Semantik der Beziehung zwischen dem Johanniterorden und dem Heiligen Stuhl (1393–1503), St. Ottilien (EOS-Verlag) 2021 (Münchener Theologische Studien. Historische Abteilung 42), 416 pp., ISBN 978-3-8306-8039-0, € 39,95.
Questo volume è l’edizione della tesi di Dottorato di ricerca in Filosofia sostenuta nel 2019 presso la Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di Baviera. Si tratta di una ricerca approfondita sui rapporti tra l’Ospedale di San Giovanni di Rodi e la Sede Apostolica – gli „atleti“ e il „vicario di Cristo“ – in un arco di tempo molto significativo che comprende sia il grande scisma d’Occidente che la guerra contro i Turchi nel Mediterraneo e che, sia per il papato che per i Giovanniti, può essere considerata un’epoca di resilienza. Lo studio della comunicazione tra le due istituzioni passa per una serie di grandi temi, a cominciare dalle vicende dello scisma, oggetto di un capitolo a parte. Durante lo scisma, la maggior parte dell’Ospedale, con il gran maestro Juan Fernández de Heredia, scelse l’obbedienza avignonese, mentre il suo ramo italiano ebbe un gran maestro alternativo, Riccardo Caracciolo, di obbedienza romana. Come nota l’autore dopo un attento esame delle fonti, l’Ospedale finì per uscire rinforzato dallo scisma, ritrovando la sua unità nel 1410 con il capitolo generale di Aix-en-Provence. Trattando questa specifica problematica, l’autore affronta anche, per la prima volta, la questione della presenza dei procuratori generali dell’ordine presso la curia papale e quella dei cardinali protettori dell’Ospedale, così come una serie di altri argomenti, come ad esempio il ruolo della famiglia Orsini. Il capitolo seguente è dedito all’intervento dei papi nella vita dell’ordine, dove si nota tutta una serie di azioni a difesa e a sostegno dei Giovanniti, ma si affronta lungamente anche la questione del carisma e della spiritualità dell’Ospedale. Il capitolo successivo è interamente consacrato alle finanze dell’ordine, piuttosto disastrate secondo i risultati della grande inchiesta pontificia condotta nel 1373, e sulle misure economiche a suo favore, come ad esempio gli esoneri dalle decime. Infine, l’ultimo capitolo tratta la crociata contro i Turchi nel Levante vista come una fonte di legittimazione dell’Ospedale di San Giovanni e ragione della sua esistenza. A questo punto, entra in gioco anche la corona aragonese, che ebbe un ruolo rilevante nella vicenda. Il libro si conclude con la considerazione che il rapporto tra l’Ospedale e la Sede Apostolica era proficuo e utile per entrambe le istituzioni che, in questi tempi, rappresentavano un carattere universale in tutta il mondo cristiano, a differenza ad esempio degli altri ordini militari come quello dei Teutonici, ormai radicati in territori specifici. Il papato ha sempre considerato l’Ospedale come una istituzione affidabile e ha rispettato la sua autonomia decisionale. Nell’appendice troviamo l’elenco dei registri pontifici esaminati, degli schemi delle lettere papali a beneficio dell’ordine, l’elenco dei procuratori generali dell’Ospedale e quello dei suoi cardinali protettori. Sebbene in qualche modo „mimetizzato“ come uno studio sulla comunicazione, questo libro è in realtà un’importante ricerca di storia, a cavallo tra il Medioevo e l’epoca moderna. Esso si basa su una ottima scelta di fonti di diversa provenienza e su un’ampia bibliografia. Mettendolo in confronto con il lavoro di Jürgen Sarnowski, „Macht und Herrschaft im Johanniterorden des 15. Jahrhunderts“ (Münster 2001) e le numerose ricerche di Anthony Luttrell, si ha adesso un quadro completo della storia dell’Ospedale nel lungo Quattrocento. Una lunga serie di approfondimenti degli argomenti specifici, che talvolta escono dall’ambito della comunicazione puro e semplice, mettono luce su questioni sino ad ora poco affrontate.
Kristjan Toomaspoeg
Lauren Jacobi, The Architecture of Banking in Renaissance Italy. Constructing the Spaces of Money, Cambridge (Cambridge University Press) 2019, 252 S., Abb., ISBN 978-1-108-67347-1, GBP 75.
Praktiken des Bankgeschäfts im Florentiner Spätmittelalter und der Renaissance haben ihre bis heute sichtbaren Spuren im Stadtbild verschiedener Orte hinterlassen. Bankgebäude, Familienpalazzi, die Paläste der Zünfte sowie die Häuser korporativer Banken sind das Ergebnis ökonomischer Verfahrensweisen, der Vermögensbildung und wirtschaftsethischer Normvorstellungen – aber sie verliehen Letzteren zugleich Ausdruck. Lauren Jacobi verknüpft zwei Erzählstränge: Erstens analysiert sie Praktiken der Bargeldkredite, der Münzprägung, der Buchgeldgeschäfte und des Geldgewinns sowie deren Wirkung auf urbane sowie architektonische Gestaltung. Zweitens stellt sie die Strukturierung von Räumen durch soziale Praktiken sowie damit die urbane und architektonische Zeichensprache im Zusammenspiel mit den Verfahrensweisen der ökonomischen Wertproduktion dar. Als Schwerpunkt ihrer Untersuchung wählt sie die Florentiner Bankiers des 14. bis 16. Jh. und deren Aktivitäten sowohl in der Heimatstadt als auch außerhalb. Zur Schärfung ihrer Argumentation zieht sie Beispiele aus anderen Zusammenhängen, etwa aus Perugia, heran. Im ersten Kapitel entwickelt die Autorin einen urbanistischen Zugriff des „Spacing“ durch die Interpretation der lokalen Bankgeschäfte im Lichte der moraltheologischen, der zünftischen sowie der obrigkeitlichen Regulierung. Dabei zeigt sie das Bedürfnis der offen sichtbaren Behandlung des Münzgeldes als Strukturierungsprinzip, in dessen Folge die vernetzte Ballung von Lokalbanken am Mercato Nuovo in Florenz entstehen. Die gleichen Praktiken werden in Rom im rione Ponte um die Kirchen SS. Giuliano e Celso und S. Giovanni dei Fiorentini reproduziert. Das zweite Kapitel beschäftigt sich mit Situierung und Aufbau der Gebäude der Münzprägung in Florenz und Perugia. Überzeugend vermag Jacobi, die besondere Bedeutung der Münzprägung unter hoheitlichem Symbolismus für die Anordnung der Räumlichkeiten in der Stadt und deren Innenraumgestaltung zu erfassen. Indem sie einen Blick auf den Regimewechsel in Florenz unter Herzog Cosimo um die Mitte des 16. Jh. lenkt, führt sie vor, wie sich mehr als die politische Machtausübung und herrschaftliche Signierung der Münzen die Tradition der Münzprägung als Veranschaulichung der Generierung von Wert durchhält. Im dritten Kapitel schildert Lauren Jacobi anhand der Niederlassungen der Florentiner Medici-Banken in Brügge und Mailand, wie die Praktiken der internationalen Bankgeschäfte eine bewusste Gestaltung der Gebäudestrukturen bewirken. Selbst wenn diese Palazzi wie im Mailänder Fall sowohl repräsentatives Wohnhaus waren als auch Geschäftsräume beherbergten, finden sie doch eine spezifische Formensprache in Dekorum, Inneneinrichtung und Architektur. Anders als bei lokalen Bankaktivitäten mit der Wendung des berüchtigten Banktisches unter die Augen der Allgemeinheit rückt die Buchführung für die internationalen Bankgeschäfte eher in ein abgelegenes („verborgenes“) Hinterzimmer. Das vierte Kapitel zitiert einen besonders spektakulären Fall zur Ausleuchtung der architektonischen Sondersprache: die seit dem 15. Jh. vermehrt entstehenden Monti di Pietà, die auf Stiftungen und Einlagen gegründeten Banken für Kleinkredite. Gemeinsam ist den verschiedenen Beispielen für diesen Fall der lokalen (städtisch-korporativen) Banken (Fallbeispiele Rom und Padua), dass in ihre Fassaden Darstellungen des „Barmherzigen Jesus“ eingelassen sind. Auf diese Weise werden die kulturellen Systeme des am Profit orientierten Bankgeschäftes und des insbesondere von Franziskanern vertretenen christlichen Leitmotivs der Armenfürsorge miteinander verschränkt. In einem Epilog beschäftigt sich Lauren Jacobi mit der Bank des Officium di San Giorgio zu Genua, um ihre Generalthese der Verknüpfung von sozialen und politischen Praktiken mit ökonomischen Verfahrensweisen auf der einen und der Strukturierung von Raum auf der anderen zu unterstreichen. Zweifelsohne liegt eine der Stärken der Untersuchung von Lauren Jacobi darin, dass sie kenntnisreich moraltheologische Hintergründe für das Vorgehen mit Münzgeld bis hin zur Geldpolitik aufzuspannen vermag, von denen sie dann städtebauliche und architektonische Fallbeschreibungen ableitet. Allerdings ist etwas misslich, dass sie ihre Argumentation an gut erforschten Fallbeispielen wie den Medici-Palazzi sowie den Monti di Pietà zu Padua und Rom durchspielt. Ihre Interpretationen hätten sehr wohl an Kraft gewonnen, wenn weniger prominente und vielleicht eher zweitrangige Gebäude den Erzählstrang unterfüttert hätten. Während Jacobi bei den Geldtheorien und der Behandlung von Münzgeld eine bemerkenswerte Präzision an den Tag legt, verschwinden andere wirtschaftliche Praktiken wie die Buchführung – sie betont oft, dass damit insbesondere die Doppelte Buchführung und Wechselbriefe gemeint seien – hinter eher nebulösen Annahmen. Der Begriff des „Kapitalismus“ geistert etwas verloren als Schlagwort durch die Argumentation, selbst wenn am Ende der Bogen zur jüngeren Bank-Architektur geschlagen wird. Ein teilweise aufmerksameres Lektorat hätte dem Buch gutgetan. In der Verflechtung der bankgeschichtlichen und architekturhistorischen Analysen unter der Vermittlung der Interpretation sozialer Praktiken besteht der besondere Wert eines überaus anregenden Buches.
Heinrich Lang
Maria Grazia Blasio/Dario Internullo/Concetta Ranieri (a cura di), Impronte di Dante nella cultura romana fra Tre e Cinquecento, Roma (Roma nel Rinascimento) 2021, XI, 245 S., ISBN 978-88-85800-39-9, € 25.
Im Dante-Jahr 2021 durfte auch eine Publikation zur Rezeption des Dichters in Rom nicht fehlen. Seit langem wird über die Äußerungen Dante Alighieris zur Kapitale der Christenheit, zum Papsttum und zum antiken Erbe debattiert. Der vorliegende Bd. nähert sich dem Thema für die Zeit bis zum 16. Jh. von verschiedenen Seiten, wobei in dieser Besprechung die eher historisch orientierten vor den rein literaturwissenschaftlichen Beiträgen (denen sich Stefano Benedetti und Giuseppe Crimi widmen) vorgestellt werden sollen. Nach Ausweis von Dario Internullo waren römische Dante-Leser Exponenten des Baronal- wie Stadtadels (von den da Ceccano und di Vico bis hinunter zu Baroncelli, Franchi und dem berühmten Chronisten Anonimo Romano) sowie Mitglieder der jüdischen Gemeinde Roms (Immanuel Romano, Jehudà ben Moshè ben Daniel, bekannt auch als Jehudà Romano bzw. Lionello Giudeo). Die ghibellinische Tradition der Familien da Ceccano und di Vico zeigte sich schon durch den Adler in ihrem Wappen (S. 33–35). Cristiano Lorenzi Biondi und Giulio Vaccaro wenden sich zunächst den raren Hss. der „Divina Commedia“ in Rom und Latium zwischen dem 14. und 15. Jh. zu. Die Schuld an der mageren Ausbeute wurde oft dem Sacco di Roma gegeben. Es zeigt sich zudem die Schwierigkeit, zu eindeutigen Zuschreibungen von Dante-relevanten Hss. in den römisch-latialischen Sprachraum zu gelangen. Diego Quaglioni hinterfragt die gängige Zuschreibung eines in zwei böhmischen Textzeugen überlieferten Kommentars zu Dantes „Monarchia“ an Cola di Rienzo. Als Alternativen für die gemeinhin angenommene Autorschaft Cola di Rienzos bringt der Vf. Namen von Juristen ins Spiel, wie den des Römers Paolo Vaiani sowie die Koryphäen Bartolo da Sassoferrato und Alberico da Rosciate, die Rom anlässlich des Jubiläums von 1350 besucht haben könnten (S. 81–84). Maria Grazia Blasio will Assonanzen zwischen der Verwerflichkeit des steinreichen Kardinallegaten Annibaldo von Ceccano und seines makabren Todes (1350) in der plastischen Schilderung des Anonimo Romano zu Dantes Stigmatisierung der Geizigen und Verschwender sehen. Massimiliano Corrado geht mit seiner Analyse des in Florenz um ca. 1334 verfassten „Ottimo Commento“ der Göttlichen Komödie den umgekehrten Weg und fragt nach der Rezeption der „Storie de Troia e de Roma“ in diesem Dante-Kommentar. Die „Storie de Troia e de Roma“ waren eine Übersetzung der lateinischen Kompilation der antiken Geschichte „Multe ystorie et Troiane et Romane“ in das Romanesco des 13. Jh. Diese Übertragung in Volgare entsprach den Bedürfnissen sowohl des Baronaladels wie auch der aufstrebenden Schichten von homines novi – nicht nur der Kaufleute, sondern auch von Gebildeten wie Cola di Rienzo –, die sich (manchmal nicht einmal des Lateinischen mächtig) historisch-legendäres Wissen aneignen wollten (S. 101). Der toskanisierte Textzeuge hatte nun seinerseits eine beachtliche Verbreitung (S. 103). Bildquellen für die Rom-Rezeption in den illustrierten Hss. der „Commedia“ analysiert Luca Marcozzi. Dabei hat die viel zitierte „topografia dantesca di Roma“ (S. 130) immer noch nicht zur Gewissheit über die tatsächliche Anwesenheit des Dichters in Rom anlässlich des Jubiläums von 1300 geführt. Die Illustrationen in Hss. und Drucken erfassen oft nicht die allegorischen Aspekte und polemischen Anspielungen gegen den verachteten Bonifaz VIII., mit dem etliche der von Dante erwähnten Örtlichkeiten (die Engelsbrücke der Pilger, der Vorhof von St. Peter usw.) verbunden waren. Roms Mission verweist letztlich gegen das Papsttum auf das idealisierte antike Kaisertum.
Andreas Rehberg
Joachim Knape, Freiheit. Zur Ideengeschichte und Ideenrhetorik der Renaissance als Aufbruch in die Moderne, Stuttgart (Anton Hiersemann) 2021, 457 S., ISBN 978-3-7772-2134-2, € 59.
Joachim Knape, Professor emeritus für Allgemeine Rhetorik der Eberhard Karls Universität Tübingen, legt mit seiner Publikation einen wichtigen Beitrag zur Geschichte des Diskurses über Freiheit in Renaissance und Früher Neuzeit (von ca. 1350 bis ca. 1600) vor. Mit „Freiheit“ geht es dem Vf. um das „Diskursphänomen des Westens, also um die zunächst in Europa ausgeprägte Idee der Freiheit, die sich zu dem entwickelte, was man den europäischen Freiheitsdiskurs nennen könnte“ (S. 10). Wie er in einem Forschungsbericht deutlich macht (S. 45–49), wurde die Bedeutung des Themas ‚Freiheitʻ in der Frühneuzeit-Forschung zwar durchaus erkannt, seine diskursive Ausfächerung aber bislang nicht systematisch untersucht. Auch eine Zusammenstellung einschlägiger Texte fehlt bislang. Der Vf. schafft mit seinem Buch hier Abhilfe. Er erschließt dafür ein Korpus von 15 Texten von 14 Autoren: Francesco Petrarca (2 Texte), Coluccio Salutati, Leonardo Bruni, Lorenzo Valla, Alamanno Rinuccini, Sebastian Brant, Martin Luther, Ulrich von Hutten, Thomas Müntzer, Erasmus von Rotterdam, Stephanus Junius Brutus, Michel de Montaigne, Niccolò Machiavelli und Etienne de la Boétie. Als die von ihnen bedienten Diskursfelder benennt der Vf. „Religion und (anthropologische) Philosophie … sowie Politiktheorie mit rechtlich-sozialen Perspektiven“ (S. 24). Knapes besonderes Interesse gilt dabei der „Entwicklung der Freiheitsidee in Deutschland als Teil der vernetzten europäischen Intellektualkultur in der Frühen Neuzeit“ (S. 74). Entsprechend ordnet er die Texte anhand ihrer deutschen Rezeptionslage und zielt damit auf „eine kleine Rezeptionsgeschichte der europäischen Freiheitsidee im frühneuzeitlichen Deutschland“ (ebd.). Der Vf. wählt dafür einen ideenrhetorischen Zugang, den er sehr sorgfältig von ideen- und begriffsgeschichtlichen Herangehensweisen abhebt (S. 50–71). Der Vf. legt den Fokus auf die rhetorischen Vermittlungswege und Vermittlungsstrategien, die die Autoren beim Ausarbeiten und Verbreiten ihrer Freiheitskonzepte anwendeten. Dabei geht es ihm um dreierlei: 1) um eine Analyse der Gedankenführung im Text; 2) um „Textrhetorik“, worunter er die Untersuchung von „Strukturen auf der Textdesign- oder Textinszenierungsebene“ versteht, also all das, was „der Idee als Botschaft im Text Gestalt geben soll, sie strukturiert, sie verständlich, akzeptabel und mental verankerungswürdig macht“ (S. 71); und 3) die Medialisierungsweise des Textes (dazu eingehender unten). Im ersten Teil seiner Studie (S. 73–300) legt er die rhetorischen Stratageme der Autoren in den Texten bis ins Detail offen (handelt also Punkt 1 und 2 seines Analyseprogramms ab). Die Texte sind aus Platzgründen nicht abgedruckt, die Ausgaben, auf die sich der Vf. bezieht, sind ausgewiesen, die behandelten Textstellen genau benannt und gut auffindbar. Knape ist höchste Transparenz in der Darstellung wichtig. Eine originelle und für die Leserschaft überaus hilfreiche Idee setzt Vf. im zweiten Teil seines Buchs um („Überlieferungen, Medialisierungen und ideengeschichtliche Fingerprints“, S. 301–372). Hier stellt er (gemäß Punkt 3 seines Analyseprogramms) in aller Kürze die wichtigsten Informationen zu den behandelten Werken zusammen. Nach Angaben zur Überlieferungs- und Druckgeschichte erweisen sich die fünf, mitunter sechs „Fingerprints“ als besonders wertvoll. Es sind die Aspekte, mit denen die Werke Spuren im Diskurs über Freiheit hinterlassen konnten oder de facto haben. Unter „Neon“ informiert der Vf. über das Neue, was der jeweilige Autor mit seinem Text zum Verständnis von Freiheit in seiner Zeit beitrug. Dem gibt er eine charakteristische „Schlüsselsentenz“ aus dem Werk in Originalsprache und deutscher Übersetzung bei. Unter „Darstellungsweise“ geht es um die gewählte Textsorte mit ihren Darstellungsbedingungen (also etwa Brief, Traktat, Dialog), und wie der jeweilige Autor sie erfüllte. Unter „Rhetorik“ sind Informationen zu Aufbau, Argumentationsweise, Stilmittel und gegebenenfalls Orientierung an Vorbildern (z. B. bestimmte Reden Ciceros) zusammengestellt. Unter „Kennwörter und Termini“ führt der Vf. die zentralen Begriffe der Texte zweisprachig und mit Stellenangaben in der von ihm gewählten Referenzausgabe auf. In einzelnen Fällen führt er schließlich noch „Metaphern“ an, die in den jeweiligen Texten für bestimmte einschlägige Sachverhalte gewählt wurden. Das Buch runden eine ausführliche Bibliographie (S. 414–437) und ein kombinierter Personen-, Sach- und Terminologie-Index ab. Kurz: Ein Buch mit mustergültigen Rhetorik-Analysen, das vor allem mit seinem zweiten Teil die Basis für weitere Forschungen auf dem Gebiet legt und sich hervorragend für die Vorbereitung und Durchführung von Lehrveranstaltungen zum Thema anbietet.
Florian Neumann
Kurt Weissen, Marktstrategien der Kurienbanken. Die Geschäfte der Alberti, Medici und Spinelli in Deutschland (1400–1475), Heidelberg (Heidelberg University Publishing) 2021, 647 S., ISBN 978-3-96822-022-2, € 49,90.
Kurt Weissen hat mit dieser Monografie ein neues Standardwerk zur Aktivität florentinischer Banken im 15. Jh. im deutschsprachigen Raum vorgelegt. Den Rahmen der eindrucksvollen Monografie bildet die Suche auf die Antwort nach einer alten Kontroverse: Klaffte im europäischen Netz der italienischen Bankiers des Mittelalters an der Stelle Deutschlands ein Loch, wie Arnold Esch festgestellt hat, oder liegen in den italienischen Archiven noch Informationen verborgen, die auf eine Aktivität der Medici und ihrer Konkurrenten in Deutschland schließen lassen, wie Wolfgang von Stromer spekulierte. Diese Frage beantwortet Weissen auf über 450 Seiten Text, doch geht der Inhalt deutlich darüber hinaus. Geliefert wird hier eine als abgeschlossen zu bezeichnende Geschichte der Aktivität von Kurienbanken in Deutschland von 1400 bis 1470. Dabei schwankt Weissen zwischen wirtschaftsgeschichtlich allgemeinen Darstellungen und quellenbasierter, eher narrativer Geschichtsschreibung. Die Monografie beginnt mit einem kurzen Abriss über die Geschichte der päpstlichen Kurienbanken allgemein im Laufe des 15. Jh. mit einem Fokus auf Deutschland, ohne jedoch zu eingrenzend zu sein. Es folgt ein wirtschaftsgeschichtlicher Teil über die Funktionsweise des für die Geschäfte primär relevanten Wechselsystems, als Methode des bargeldlosen Transfers. Darauf wiederrum folgt eine Vorstellung der einzelnen in Deutschland aktiven Banken und ihrer Geschichte, wiederum gefolgt vom Hauptteil des Buches: Sortiert nach Örtlichkeit zeigt Weissen minutiös quellengestützt, welches Bankhaus wann in welcher Form und wie lange vor Ort agierte. Partnerschaften mit lokalen Händlern wie jener zwischen den Medici und den Paumgartner in Nürnberg werden hier ebenso genannt wie direkte Niederlassungen, wie jene der Alberti in Köln, und Mischformen, etwa in Gestalt von Agenturen vor Ort. Neben zahlreichen anderen Beispielen bleibt besonders prominent die Geschichte des entfernten Medici-Verwandten Ludovico Bueri in Erinnerung, der eine Reihe an Aufzeichnungen hinterließ. In farbigen, aber klaren Bildern schildert Weissen den Werdegang des Florentiners in Deutschland, sein kompliziertes Abhängigkeitsverhältnis zu den Medici, seine zunehmenden finanziellen Schwierigkeiten und den am Ende unvermeidbaren wirtschaftlichen Kollaps und Bruch mit Cosimo. In all diesen Beispielen auffällig ist die Bedeutung der außerdeutschen Bankplätze (hauptsächlich Venedig und Brügge) als Orte der Verrechnung und „Achsen“ zwischen den Wirtschaftsräumen. Ebenso zieht sich die Relevanz konkreter persönlicher Bekanntschaften von Vertrauensverhältnissen zwischen einzelnen Akteuren durch das Kapitel. Durch die Unterteilung in Banken einerseits und später Orte lassen sich Redundanzen nicht vollständig vermeiden. Es ist schlicht unmöglich, die Geschichte der Medici in Deutschland zu erzählen, ohne darauf einzugehen, wo sie jeweils Geschäfte machten. Ebenso muss die Unterteilung nach Orten ab und an längeren Herleitungen weichen, für die in der klaren Struktur an vorheriger Stelle kein Platz war. So beginnt das Kapitel über Lübeck mit einem Abschnitt zu den Alberti in Brügge und ihren Geschäften mit dem Deutschen Orden, also Finanzverbindungen, die explizit nicht über Lübeck liefen. Solche Abweichungen sind jedoch keinesfalls der Struktur anzulasten, sondern vielmehr der Breite und Mannigfaltigkeit des Themas. Dass dieses überhaupt in dieser Klarheit aufbereitet ist, muss als beeindruckend bezeichnet werden. Das nachfolgende Kapitel „Marktraumstrategien“ setzt sich mit allgemeinen Strategien der Banken und vor allem mit den örtlichen Problemen auseinander. Relativ kurz und anhand von Beispielen schildert Weissen die beliebtesten Handelsrouten und Kommunikationswege sowie deren Dauer und Sicherheit. Das Narrativ der „Deutschen Rückständigkeit“, die die Italiener abgeschreckt hätte, wird hier deutlich relativiert. Da alle Beispiele sich auf individuelle Aspekte beziehen, setzt es die individuelle Geschichte voraus, bleibt aber dennoch weit allgemeiner. Weissen schließt mit dem Fazit, dass Arnold Esch grundsätzlich zuzustimmen ist mit der Aussage, es habe wenig Verbindungen zwischen Deutschland und Italien gegeben, relativiert die These von einem „Loch“ zu „abgegrenzten Wirtschaftsräumen“ jedoch mit einem besonderen Fokus auf jene Verbindungen, die existierten. Abgerundet wird das Buch durch einen Exkurs über die ökonomische Praxis der Banken in ähnlichem Stil wie bereits die Kapitel über das Wechselsystem und die Strategien. Besonders erwähnenswert sind außerdem die beigefügten Transkriptionen sämtlicher nicht publizierter Archivfunde. Kurt Weissen liefert ein lange nötiges Standardwerk für die italienische Bankengeschichte in Deutschland, wobei er unzählige regionale und bankenbezogene Studien zusammenträgt, verbunden durch eine aufwändige und kleinteilig nachvollziehbare Archivrecherche und beeindruckend in beiden Funktionen. Noch für lange Zeit werden alle Forschenden im Bereich Bankengeschichte nicht an „Marktstrategien der Kurienbanken“ vorbeikommen.
Jan Martin Engelhardt
Eleonora Plebani, I Consoli del Mare di Firenze nel Quattrocento, Roma (Sapienza Università Editrice) 2019 (Studi e Ricerche 82), 176 pp., ISBN 978-88-9377-125-2, € 23.
Almeno dalla seconda metà del XX secolo, nell’ambito della storiografia sul Mediterraneo medievale l’esperienza marittima di Firenze, legata in particolare alla vicenda della navigazione delle galee di Stato fra il 1422 e il 1484, è considerata in genere, fin dal classico studio di Michael Mallett („The Florentine Galleys in the Fifteenth Century“, Oxford 1967), come un episodio minore della storia dell’economia fiorentina, per non dire un completo fallimento. Conseguentemente, dopo le indagini pionieristiche condotte da Armand Grunzweig („Les fonds du Consulat de la Mer aux Archives de l’État à Florence“, in: Bulletin de l’Institut Historique Belge de Rome 10 [1930], pp. 5–122) e quelle successive dello stesso Mallett („The Sea Consuls of Florence in the Fifteenth Century“, in: Papers of the British School at Rome 27 [1959], pp. 156–168), anche il cospicuo fondo archivistico dell’ufficio dei Consoli del Mare conservato nell’Archivio fiorentino è rimasto per lungo tempo in un sostanziale cono d’ombra rispetto all’interesse dei ricercatori. Va quindi ascritto a merito dell’autrice l’aver raccolto l’invito, lanciato già alcuni anni fa da Sergio Tognetti („Firenze, Pisa e il mare [metà XIV – fine XV sec.]“, in: id. [a cura di], „Firenze e Pisa dopo il 1406. La creazione di un nuovo spazio regionale“, Firenze 2010, pp. 151–175), a riconsiderare l’importanza complessiva di questa esperienza, e quindi di aver nuovamente focalizzato la propria attenzione sulla massa di dati desumibile da questo importante complesso documentario. Il risultato di questa fatica è uno studio che pone in evidenza lo sforzo compiuto da una parte almeno del ceto di governo fiorentino per sfruttare le opportunità che la sottomissione di Pisa (1406) e soprattutto l’acquisizione di Livorno (1421) avrebbero potuto aprire per un’espansione dell’attività commerciale fiorentina anche nel settore marittimo. Non a caso, l’istituzione della nuova magistratura risale proprio allo stesso 1421 e il modello evidente al quale ci si ispirò fu quello del sistema delle „mude“ veneziane, che a partire dalla fine del XIII secolo assicuravano servizi di trasporto regolari ai mercanti della Serenissima. L’autrice evidenzia tuttavia come l’interferenza delle Arti nell’attività del nuovo ufficio fin dalla sua costituzione, con il fine di „indirizzare“ la produzione delle manifatture fiorentine in direzione delle richieste dei mercati, abbia costituito una sorta di „peccato originale“ destinato a influenzare negativamente tutta l’attività della navigazione delle galee di Stato nei decenni successivi. Eccessivamente focalizzati su alcuni mercati, come quelli delle Fiandre, o quello di Alessandria, sui quali si trovarono a dover competere con la consolidata supremazia degli operatori economici veneziani e genovesi, i fiorentini non seppero ad esempio cogliere pienamente le possibilità presentate dai mercati tirrenici e nordafricani, dove avrebbero potuto fare tesoro della lunga presenza toscana e della rete di contatti creata dai pisani, finendo per trovarsi a gestire un’impresa economica in perdita. Non va sottovalutato, nel considerare questa scarsa capacità di approfittare delle occasioni, assai singolare per operatori esperti quali gli uomini d’affari di Firenze, il ruolo giocato dal disinteresse, se non dalla vera e propria ostilità, dimostrati dai circoli di governo medicei nei confronti dell’impresa dopo il tramonto dell’egemonia degli Albizzi. Le modifiche nella composizione e nel numero dei membri del collegio dei Consoli del Mare e la loro progressiva trasformazione da ufficio investito del compito di progettare una politica di espansione dei commerci sul mare a quelle più modeste, anche se non meno importanti, di magistratura giudicante nelle cause che riguardavano questioni marittime, riflettono questo progressivo declino di un progetto che avrebbe potuto effettivamente avere risultati economici di ben diverso rilievo. Il malinconico abbandono della navigazione delle galee di Stato nel 1484 non implica tuttavia che questa esperienza non abbia avuto un impatto concreto; la seconda parte dello studio, dedicata a una puntuale ricostruzione della gestione delle galee, dalla composizione degli equipaggi alle regole di gestione in mare, e all’attenta analisi di fonti preziosissime quali sono i diari di viaggio di Felice Brancacci e di Luca degli Albizzi, il secondo dei quali particolarmente ricco e importante, fornisce in questo senso un quadro dettagliato di un mondo del commercio marittimo quattrocentesco nel quale anche i fiorentini seppero comunque giocare un loro ruolo, penalizzato probabilmente, oltre che dalle divergenze politiche interne, dai più generali cambiamenti che in quell’epoca stavano trasformando il Mediterraneo e che in breve avrebbero segnato la fine della lunga stagione della preminenza mercantile italiana.
Enrico Basso
Antoine Arjakovsky/Barbara Hallensleben (Hg.), Le Concile de Florence (1438/39) – une relecture œcuménique / The Council of Florence (1438/39) – an Ecumenical Rereading, Münster (Aschendorff) 2020 (Studia Oecumenica Friburgensia 99), 324 S., ISBN 978-3-402-12249-5, € 46.
Die 550-Jahrfeier des Konzils von Ferrara – Florenz 1988/1989 hat bekanntlich der Erforschung dieser Unionssynode zwischen lateinischer West- und griechischer Ostkirche neue und nachhaltige Impulse verliehen. Sie fand Niederschlag in einer quantitativ wie qualitativ bemerkenswerten Zunahme einschlägiger Publikationen, unter denen nach meiner Einschätzung das Opus magnum des auch in diesem Bd. als Autor vertretenen Byzantinisten Sebastian Kolditz herausragt (Sebastian Kolditz, Johannes VIII. Palaiologus und das Konzil von Ferrara – Florenz 1438/39. Das byzantinische Kaisertum im Dialog mit dem Westen, 2 Bde., 2013/2014). In den weiteren Jubiläumskontext (und vielleicht auch als deren – vorläufigen – Abschluss?) mag man den hier anzuzeigenden Sammelbd. mit 21 französisch- und englischsprachigen Beiträgen zu zwei 2018 in Paris und Florenz veranstalteten Kolloquien situieren, der sich ganz in die Tradition der Arbeit des Institut d’études œcuméniques an der Universität Freiburg/Schweiz einreiht. Naheliegenderweise sind recht viele ostkirchliche Vertreter an dem Unternehmen beteiligt, die vornehmlich über Aspekte der (Nicht-)Rezeption des Ferrariense – Florentinum in ihrem Bereich handeln und grundsätzlich die nach wie vor fundamentale Relevanz dieser Synode auch für den heutigen Dialog zwischen Orthodoxie und römischer Kirche betonen. Mit Nachdruck plädieren sie für eine Annäherung beider Konfessionen im Geiste der – bis auf die ersten Jahre nach ihrem Erlass in der Welt des Ostens zwischen Konstantinopel und Moskau kaum rezipierten – Unionsbulle Laetentur Coeli (6. VII. 1439). In den Beiträgen werden sowohl die sich durch die Jahrhunderte ziehende Verweigerung im Osten (z. B. Moskauer Patriarchat) ebenso wie im Westen (z. B. Pontifikat Pius’ IX.) als auch die nicht erst seit und nach dem II. Vatikanum einsetzenden Bemühungen um Annäherung und Einheit thematisiert, wobei das frühe, z. T. von Rom unterbundene Engagement mehr als nur kurze Erwähnung (wie etwa bei Marotta/De Mey, S. 270–272) verdient hätte. Etlichen Beiträgen eignet, offen gestanden, ein eher pastoral-appellativer denn wissenschaftlicher Charakter, der sich aus dem starken ökumenischen Engagement der Veranstalter erklären mag und explizit in einem eigenen Schlussteil „Ouverture d’un nouveau dialogue“ (S. 287–315) zum Ausdruck kommt. Quellen- und Literaturreferenzen geraten darüber manches Mal recht kurz; eine Grundorientierung bietende Einleitung fehlt ebenso wie eine Konklusion und ein Register am Schluss. Bisweilen scheinen Hefele (und nicht einmal Hefele – Leclercq) oder die „maîtres ouvrages“ von Joseph Gill (so Antoine Arjakovsky S. 152) als einzige westliche Werke von Relevanz. Andererseits ist man dankbar für manchen Zugang zu hierzulande oft schon wegen der Sprachbarriere schwer zugänglicher Literatur insbesondere russischer Provenienz. Ich halte es nun nicht für zielführend, im Folgenden alle Beiträge einzeln zu präsentieren und ggf. unter Hinweis auf besagte Unzulänglichkeiten beckmesserisch vorzuführen, sondern will bewusst nur durch die Nennung ausgewählter Artikel deren m. E. weiterführenden Wert herausstellen. Das trifft zwar nicht auf das in einfacher Form einleitende Kurzreferat von Marie-Hélène Congourdeaux, „Que savons nous du Concile de Florence?“ (S. 1–12) zu, doch sei es erwähnt, weil die renommierte Byzantinistin sich konsequent auf die Nachzeichnung der wichtigen Grundlinien des Themas beschränkt, und der Beitrag damit seinen Wert zumindest für französischkundige Anfänger hat und überdies als eine Art reduzierter Introduktionsersatz seinen Zweck erfüllen mag. Vorzüglich fällt, wie gesagt, der Beitrag von Sebastian Kolditz, „Conciliar Structures and Procedures of Ferrara – Florence“ aus (S. 26–48), der im Übrigen als einziger Autor die unterschiedlichen Konzeptionen der Parallel- bzw. Gegenkonzile von Basel und Ferrara – Florenz vergleicht und so (zum Teil bis heute relevante) ekklesiologische Grundpositionen markiert. Zudem stellt er eine neue, freilich unbeweisbare These zur Diskussion, wonach den Lateinern nach der Einigung mit den Griechen bei den folgenden Abschlüssen weiterer Unionen vielleicht weniger am Ziel der Einheit an sich als vielmehr an der Sicherung ihrer eigenen, ihnen durch das Konstanzer Dekret Frequens zugesicherten Existenz auf die Dauer ihres Wirkens für die Union gelegen war. Wohnte mithin, wenn auch aus ganz anderem Grund, Florenz ebenso wie Basel eine Tendenz zur „permanenten Synode“ (Johannes Helmrath) inne, die denn auch nie ein förmliches Ende fand? Andrea Riedl widmet sich dem Vorfeld der Kirchenversammlung, wenn sie unter Rekurs auf zwei einschlägige Hss. (Rom, BAV, Vat. lat. 4260; Venedig, Bibl. Marciana, ms. lat. III 96) darlegt, wie sich die Lateiner auf die Diskussion mit den Griechen vorbereiteten (S. 57–71), indem sie nämlich vor allem auf Autoren des 13. Jh. wie Thomas von Aquin rekurrierten, die ihnen gewisse Vereinbarkeiten mit den von griechischen Vätern eingenommenen Positionen aufzuweisen schienen. Dass die Anmerkungen des Aufsatzes von Ellen Moorhouse, „Cartel, Faith and Art as Strategies of the Medici in the 15th Century“ (S. 109–148) von wiederholten Grabungen auf sehr alten Literaturfriedhöfen zeugen (z. B. Joseph Zhisman, Unionsverhandlungen, 1858 [S. 116, Anm. 21]), und die Vf. sich nicht immer strikt an das Tagungsthema hält, ändert nichts an dem Umstand eines erneut eindrucksvollen Nachweises der diskreten Effizienz, mit der die Medici ihre Macht aus dem Hintergrund auszuüben verstanden. Das Sujet lohnt wohlgemerkt, bestätigt aber den Charakter eines inhaltlich ohnehin recht disparaten Sammelbd., der sich bisweilen der vielzitierten Buchbindersynthese nähert. Und noch etwas am Rande, das sich dem Historiker des Basler Konzils nicht recht erschließen will: Was in aller Welt soll hier etwa ein Johann von Ragusa, der am Ende den Leser urplötzlich wie Kai aus der Kiste anspringt (S. 118)? Lehrreich ist schließlich der Beitrag von Nazar Zatorskyy über die Akzeptanz der Union im Metropolitanat Kiew bis an die Schwelle des 16. Jh. (S. 187–204). Allen Widerständen zum Trotz (Isidor von Kiew) erfolgte der eigentliche Bruch mit dem Dekret schon 1453, wobei die Zerwürfnisse beileibe nicht nur theologica betrafen, sondern auch ihre politischen und jurisdiktionellen Gründe hatten, und obendrein geographische und ständische Faktoren wie etwa im Fall des ruthenischen Adels eine Rolle spielten. Auch und gerade Rezeptionsgeschichte will mithin differenziert betrieben sein. Einen positiven Schlusspunkt dieser Auswahl der Auswahl setzt der bereits kurz erwähnte, gleichfalls rezeptionsgeschichtlich orientierte Beitrag von Saretta Marotta/Peter De Mey, „The Reference to the Council of Florence at Vatican II“ (S. 271–285). Danach legten die Väter des 20. Jh. gegenüber den Verlautbarungen des Florentinum eine überraschend große Zurückhaltung an den Tag. Ihnen war offenbar die bloße Zitierung dieser Synode als Zeugnis der Einheit wichtiger als eine genaue Analyse ihrer Texte, die gar so manches Mal – bis heute – einem Gang über verminte bzw. nur durch notdürftige Kompromisse zusammengehaltene Wortfelder gleicht. Non multum, sed multa könnte mithin als Devise über dem anzuzeigenden Bd. stehen. Was andererseits – und generell! – bedeutet: Welche Überfülle an noch unbearbeiteten bzw. nur unzulänglich oder allenfalls partiell untersuchten Themen hält Konziliengeschichte bereit, vor allem wenn sie sich modernen Fragestellungen öffnet, die von der Wirtschaftshistorie über prosopographische Sachverhalte bis hin zur Ideengeschichte (einschließlich der Relevanz der Konzilien für die Struktur der katholischen Kirche der Zukunft) reichen können. Es gilt veritable Schätze nicht zuletzt zum Nutzen der allgemeinen Geschichtswissenschaft zu heben, wie gerade die Forschungen der letzten Jahrzehnte zu den großen Kirchenversammlungen des Spätmittelalters eindrucksvoll erwiesen haben.
Heribert Müller
Piero Zattoni, Venezia e il Gran Turco. La guerra del 1463–1479 e il suo contesto internazionale, Cesena (Società di studi romagnoli) 2022 (Saggi e repertori 55), 180 S., Abb., ISBN 978-88-314-1311-4, € 20.
Der Bd. behandelt die kriegerischen Auseinandersetzungen zwischen der Republik Venedig und dem Osmanischen Reich zwischen 1463 und 1479 im Anschluss an die symbolträchtige Einnahme Konstantinopels durch die Osmanen im Jahr 1453, die beachtliche mediale Schockwellen verursachte. Der Konflikt wird einerseits als Ausweitung des osmanischen Herrschaftsbereichs und andererseits als Versuch Venedigs behandelt, eigene ökonomische, politische und koloniale Interessens- und Einflusssphären in den Überseegebieten der Levante unter Einsatz des Militärs zu sichern – Zattoni spricht hier vom „mini-impero veneziano“ (S. 132). Im Laufe des Krieges hatte Venedig herbe Verluste insbesondere in griechischen Überseeterritorien hinzunehmen. Nach kurzer Einleitung folgen die Kapitel chronologisch dem Verlauf des Kriegsgeschehens, das sehr detailliert dargestellt wird. Quellenauszüge, Karten und Abbildungen werden in einem Anhang präsentiert. Zattoni bespricht die Vorgeschichte des Konflikts und die Entwicklung der Kreuzzugsideologie sowie die damit einhergehenden politischen Unstimmigkeiten bezüglich eines mächteübergreifenden, militärischen Vorgehens gegen die Osmanen. Es folgt eine detaillierte Beschreibung der beteiligten, militärischen Streitkräfte sowie des Kriegsverlaufes mit maritimen Vorstößen Venedigs gen griechische Halbinsel und ungarischen Einsätzen zu Land in Bosnien. Die anfänglichen venezianisch-ungarischen Erfolge wichen zunehmend osmanischen (Rück-)Eroberungen, welche die militärischen Schwächen Venedigs offenlegten. Als Ungarn nach dem Tod Pius’ 1464 als Kriegspartei ausschied, folgten langwierige venezianische Offensiven unter der Führung Sigismondo Malatestas, der über Rimini herrschte. Zattoni bespricht Venedigs Suche nach neuen Verbündeten wie etwa Neapel, dem Malteserorden, Moskowien und dem turkmenischen Herrscher Uzun Hasan. Anschließend werden die osmanischen Gewinne im umkämpften Albanien, Skanderbegs Rolle während dieser Auseinandersetzungen sowie die symbolisch aufgeladene, gescheiterte osmanische Belagerung von Shkodra (1474) und die osmanischen Angriffe im Friaul thematisiert. Nach dieser detaillierten Darstellung versucht sich Zattoni an einem abschließenden Urteil: „La guerra che Venezia aveva intrapresa contro il Gran Turco si concludeva così, dopo sedici anni, con un’indubbia sconfitta. Si trattò peraltro di una sconfitta onorevole“, insofern Venedig zwar einige wichtige Besitzungen verlor, andere jedoch halten konnte (S. 126). Als weitere Folge konstatiert der Autor eine Verschiebung des mediterranen Mächtegefüges. Mit der Schwächung der venezianischen Flotte sei eine osmanische Übermacht zu See einhergegangen, die einer „aggressività turca“ (S. 128) und dem „pericolo turco“ (S. 130) Vorschub geleistet habe. Das militärische Vakuum im Mittelmeerraum kam dem Osmanischen Reich zweifelsohne gelegen, ob jedoch derart aufgeladene Begrifflichkeiten benutzt werden müssen, um dies zu beschreiben, ist fraglich. Zattoni konstatiert vielleicht ebenso wenig überraschend eine „crisi del modello classico di Crociata“ (S. 9), das sich auch aufgrund von Streitigkeiten innerhalb christlicher Mächte vom ritterlichen Kreuzzug gegen Glaubensfeinde hin zu pragmatischen, zwischenstaatlichen Allianzen entwickelt habe. Der Bd. reflektiert abschließend, welche Umstände zur Niederlage Venedigs führten. Die generelle Ressourcenknappheit und ein zu geringer Impetus auf diplomatische Verhandlungen werden ebenso angeführt wie die Langwierigkeit kollektiver Entscheidungsfindungen in der Republik Venedig. Letztere Überlegung scheint mir interessant, bedürfte aber einer umfangreicheren Quellendiskussion zu politischen, militärischen und pragmatischen Entscheidungskulturen im venezianischen Herrschaftsbereich im Vergleich zu administrativen Entscheidungsfindungen im Osmanischen Reich und der weiteren mediterranen Nachrichtenzirkulation. Der vorliegende Bd. ist eine lesenswerte und recht detaillierte politische, militärische und diplomatiegeschichtliche Ereignisgeschichte. Grundsätzlich hätte man sich eine stärkere Auseinandersetzung mit der Literatur der weiteren Forschungslandschaft gewünscht. Giovanni Riccis „Appello al Turco. I confini infranti del Rinascimento“ (Roma 2011) hätte noch einmal eine andere Perspektive auf Venedigs Bündnisbestrebungen mit Uzun Hasan ermöglicht. Auch weitere Studien zur Geschichte der venezianischen Levante, Albaniens und Ungarns sowie die hervorragenden Arbeiten südosteuropäischer Historikerinnen und Historiker hätten eine weitere Kontextualisierung der Forschungsergebnisse ermöglicht. Die zeitgenössischen Ereignisse führten auch zu einer beachtlichen griechischen und albanischen Migration in die Lagunenstadt, die noch stärker in den Mittelpunkt der Arbeit gerückt hätte werden können, um die komplexe Gemengelage an Positionen innerhalb Venedigs stärker herauszuarbeiten.
Stefan Hanß
Frühe Neuzeit
Judith E. Tucker (Ed.), The Making of the Modern Mediterranean. Views from the South, Berkeley (University of California) 2019, 232 S., Abb., ISBN 978-0-520-30460-4, GBP 29.
Seit der monumentalen Studie von Fernand Braudel verfügen die europäischen Geschichtswissenschaften über das Narrativ des Mittelmeeres als Bezugsrahmen für Forschungsperspektiven. Insofern als die Geschichte der „Méditerranée“ vom jeweiligen Betrachtungskontext abhängt, nimmt der vorliegende Bd. die Sichtweise vorwiegend aus dem Süden – der Levante und des Maghreb – ein und bricht damit allerdings das verführerische Konzept des Mittelmeerraumes als europäische Netzwerkerzählung auf. Dieser Bd., der auf eine Tagung an der Georgetown University von 2013 mit dem Titel „The Mediterranean Re-imagined“ (ein Titel, der vielleicht besser für das vorliegende Buch gepasst hätte) zurückgeht und als Würdigung des 2008 verstorbenen Soziologen sowie Mittelmeerforschers Faruk Tabak gedacht ist, vereinigt verschiedene Ansätze zur Reinterpretation der schillernden und situativ angepassten „mediterranen“ Identitäten. Der erste, von Nabil Matar verfasste Beitrag nimmt die arabische (nicht die osmantürkische) Wahrnehmung („Arab eyes“) auf und wirft der europäischen Seite grundsätzlich einen neo-kolonialen Ansatz vor. Denn aus der Perspektive Nordafrikas stellt sich das Mittelmeer weniger als verbindendes Medium als vielmehr als Grenzraum gegen die Übergriffe (Bedrohungen) des christlich geprägten Nordens dar. Den Zusammenhang der Herrschaften im Maghreb hingegen greift Julia Clancy-Smith auf und erklärt die Verbindung der italienischen Stadtrepubliken mit Tunesien (Tunis) zu einer Konstante der mittelmeerischen Geschichte, die allerdings mit der Blindheit für seefahrende Frauen, die mangelnde Berücksichtigung der Berichte von Schiffbrüchigen und das Leitmotiv des Verlorengehens („go missing“) symptomatische weiße Flecken aufweist. Einen umfassenden Ansatz zur Interpretation des Mittelmeeres als Interaktionsraum einer vergleichend angelegten „Weltgeschichte“ schlägt Edmund Burke III. vor und entwickelt dabei einen geschärften Blick auf die beginnende Industrialisierung und die Integration des Mittelmeerraumes in die globalisierende Wirtschaft als einschneidende Umwälzung traditioneller Lebenswelten. In diesem Sinne deutet er „mediterrane Modernität“ als das Auftreten tiefgreifender und anhaltender sozialer Konflikte infolge der Neustrukturierung von Grundbesitz. Joshua M. White schildert eine charakteristische Grauzone mediterraner Identitäten, indem er die Praktiken zur Legitimierung von Sklaven („slave laundering“) im islamisch-osmanischen Raum und damit die Kontingenz der osmanischen Identität im Einzelfall darstellt. Lokale Größen operierten mit den Ambiguitäten kollektiver und individueller Zuschreibungen sowie der Schwierigkeit der „Durchsetzung“ von Identität im rechtlichen Sinn, um eine Art Kreislaufwirtschaft der Versklavung zu betreiben. Mit der Analyse parasitärer Aktivitäten wendet sich Judith E. Tucker der Piraterie im 18. Jh. zu. Das Grundverständnis der Spielregeln betrachtet sie anhand juristischer Diskurse, lokaler Regulierung und an Verträgen, die der Legalisierung von Beutefahrten durch diplomatische Verfahren dienten. Osama Abi-Mushed erläutert die kolonialen Implikationen der französischen Aufklärung am Beispiel der Schrift „Système de la Méditerranée“ Claude-Henri de Saint-Simons (1760–1825), worin Europa unter dem Signum der Industrialisierung ins Verhältnis zum südlichen Mittelmeer und als Modell für die Entwicklung der Kulturen („civilisations“) gesetzt wird. Auf diese Weise zeichnet er das sich hieraus ergebende Fortschrittsnarrativ in der wissenschaftlichen Literatur im französischen 19. Jh., wie im Werk von Michel Chevalier, nach. Im abschließenden Beitrag stellt William Granara den Roman „Sang des Races“ (1899) des nach Algerien übergesiedelten Franzosen Louis Bertrand drei auf Arabisch verfassten Werken (1936–1948) des Tunesiers Zin al-‘Abidīn as-Sanūsī gegenüber. Während Bertrand geradezu ein Avantgardist der „Afrique Latine“ ist und ein komplexes Bild aus nordmediterraner Sicht malt, charakterisiert Sanūsī die Folgen der Eroberung Nordafrikas als Abkehr der arabischen Kultur vom christlichen Norden und betreibt die Erweiterung des mediterranen Raumes auf den afrikanischen Kontinent, um die Aneignung des Mittelmeerraumes durch die Kolonisatoren mit einer eigenen Erzählung abzuschütteln. Letztlich bleibt diese Sammlung hochspannender und durchweg qualitativ hochwertiger Aufsätze (weitgehend) die Antwort schuldig, worin die Modernität von „Modern Mediterranean“ bestehen sollte – als außer in der Neu-Konzeption einer fragmentierten Realität. Das nicht erklärte Leitmotiv der Autorinnen und Autoren ist die charakteristische Mehrdeutigkeit mediterraner Existenzen, die sich jeder enggeführten Zuschreibung von Identitäten entziehen. Das mit knapp 200 Textseiten eher schmale Bändchen mit Neuorientierungen offenbart eine ungewöhnliche Reichhaltigkeit diversifizierender Perspektiven.
Heinrich Lang
Confessional Diplomacy in Early Modern Europe, ed. by Roberta Anderson/Charlotte Backerra, New York (Routledge) 2021 (Routledge Studies in Renaissance and Early Modern Worlds of Knowledge 16), 264 pp., ISBN 978-0-367-53226-0, GBP 130.
Il campo degli studi sulla storia della diplomazia nell’età moderna ha conosciuto negli ultimi anni un ampio processo di rinnovamento metodologico e di allargamento di temi e prospettive di analisi. In varia misura connesso al superamento, o comunque alla messa in discussione del paradigma storiografico dello stato moderno, lo sviluppo di una „nuova storia diplomatica“ (secondo la formula coniata nel 2008 da John Watkins) ha determinato un progressivo virare dell’attenzione degli storici dagli attori istituzionali e dalle fonti ufficiali della diplomazia, tradizionalmente centrali nella storiografia, verso un orizzonte più ampio e complesso di contesti, figure e problemi. Non più considerata unicamente nella prospettiva – pur ineludibile, e imprescindibile – della storia politica e dei rapporti tra gli stati, la storia della diplomazia si è così aperta a nuove proposte e ad approcci interdisciplinari, tesi a indagare, anche attraverso gli strumenti dell’antropologia storica, della storia culturale e della sociologia, aspetti cruciali ma a lungo trascurati della pratica diplomatica. Tra questi particolare interesse hanno suscitato, negli studi recenti sulla diplomazia di antico regime, i temi dei cerimoniali e della ritualità, delle dinamiche fazionarie, degli scambi culturali e del significato dei doni, della circolazione di libri ed oggetti, dei luoghi della rappresentanza e delle prerogative simboliche, giuridiche e religiose ad essi connesse. Altrettanto studiate sono state inoltre l’esistenza e la peculiare articolazione, intorno e alle spalle dell’ambasciatore residente, di complessi network locali o trans-nazionali di agenti, informatori e mediatori impegnati in attività di diplomazia informale di varia natura, non di rado in grado di influenzare, anche attraverso i canali alternativi dell’arte, della cultura o della religione, i negoziati parallelamente condotti dalle rappresentanze ufficiali sul piano più strettamente istituzionale e politico. La ricca collezione di saggi curata da Roberta Anderson e Charlotte Backerra si inserisce in questo ampio e movimentato panorama di studi, proponendosi di indagare proprio il ruolo di quelle figure di „intermediaries“, ufficiali e informali, che nel periodo successivo alla diffusione della Riforma protestante, dinanzi alla inedita necessità di condurre relazioni tra stati cristiani divisi ormai anche dal punto di vista religioso oltre che politico, contribuirono allo sviluppo in Europa di nuove forme di „cross-confessional diplomacy“ (p. 1). Il volume raccoglie, divisi in tre parti („Papal Diplomacy“; „Clerics as diplomats“; „Religions as a matter of diplomacy“), undici saggi che coprono un’ampia cronologia (dal primo Cinquecento alla metà del Settecento), approfondendo figure ed episodi relative a contesti geografici e politico-culturali molto diversi tra loro: dalla Polonia-Lituania alla Gran Bretagna, dalla Danimarca e dalla Svezia all’area del Sacro Romano Impero e alle corti asburgiche di Vienna e di Madrid, fino alla Roma papale (mancano all’appello, tra gli altri, gli Stati italiani indipendenti dalla Santa Sede, i Paesi Bassi e la Francia, la cui importanza per la storia della diplomazia e dei conflitti religiosi in età moderna avrebbe forse potuto suggerire una più specifica considerazione). La prima parte, dedicata proprio alla „Papal diplomacy“, propone tre casi di studio finalizzati a mettere in luce le specificità dell’azione diplomatica pontificia in relazione ad altrettanti scenari europei „di frontiera“, che assunsero per Roma una particolare rilevanza nel corso dell’età moderna: la Confederazione polacco-lituana, di cui si interessa il saggio di Dorota Gregorowicz attraverso l’analisi delle istruzioni e dei dispacci dei nunzi pontifici nei periodi di interregno dei secoli XVI e XVII; l’area dell’Ungheria e dell’Europa centrale, presa in esame da Béla Vilmos Mihalik con attenzione all’interazione tra i network diplomatici imperiale e pontificio al tempo della Lega Santa promossa da Innocenzo XI contro gli Ottomani (1676–1689); e l’Irlanda cattolica, le cui vicende vengono rilette da Cristina Bravo Lozano attraverso lo studio della missione a Roma nel 1709–1711 del frate minore Bonaventura de Burgo, già guardiano del collegio di Sant’Isidoro, e della sua ampia corrispondenza con diversi vescovi irlandesi in esilio. Parimenti dedicati a figure di religiosi che si distinsero in ambito diplomatico sono i tre saggi che compongono la seconda parte. Katharina Beiergrößlein ricostruisce la singolare vicenda di Robert Barnes, ex priore del convento agostiniano di Cambridge, il quale condannato come apostata ed eretico fuggì nel 1528 dall’Inghilterra ma trovò poi modo di rendersi utile alla causa di Enrico VIII come inviato presso il principe protestante Federico di Sassonia e il re di Danimarca Cristiano III. Ernesto Oyarbide Magaña si focalizza sull’attività del domenicano Diego de la Fuente, cappellano dell’ambasciata spagnola a Londra di cui fu de facto il primo rappresentante durante la prolungata assenza dell’ambasciatore titolare tra il 1618 e il 1620. Infine Rubén González Cuerva ben ricostruisce il profilo di „confessor-ambassador“ del cappuccino Diego de Quiroga, guida spirituale e fidato portavoce alla corte di Vienna dell’infanta di Spagna Maria Anna d’Austria, dal 1637 imperatrice al fianco di Ferdinando III d’Asburgo. Spostando l’obiettivo dagli attori ai luoghi della diplomazia e al loro funzionamento in contesti di alterità confessionale, diversi contributi della terza parte pongono al centro dell’analisi la questione delle speciali prerogative riconosciute (anche in materia religiosa) agli ambasciatori, e del progressivo riconoscimento di uno status di extra-territorialità alle ambasciate e alle cappelle ad esse legate. Roberta Anderson ricostruisce in particolare l’attività, allo stesso tempo diplomatica e religiosa, degli ambasciatori cattolici e dei loro cappellani nell’Inghilterra di Giacomo I; Charlotte Backerra prende in esame la stessa realtà di Londra e la corte di Vienna nel periodo 1700–1745, mentre il saggio di Martin Bakeš e Jiři Kubeš osserva in prospettiva comparata la storia delle cappelle dei rappresentanti imperiali nella Sassonia luterana (Dresda) e nei regni scandinavi (Copenaghen, Stoccolma) al tempo di Leopoldo I (1658–1705). Infine è il tema della dimensione trans-confessionale di alcune dinamiche proprie della diplomazia europea di antico regime a riemergere nei contributi di Steve Murdoch, dedicato al caso del calvinista scozzese James Spens, ripetutamente impiegato in missioni diplomatiche dai luterani sovrani di Svezia tra il 1593 e il 1632, e di Gábor Kármán, incentrato sulle strategie di legittimazione diplomatica impiegate dal principe ungherese Ferenc Rákóczi nel corso della ribellione anti-asburgica del 1703–1711. Quest’ultimo saggio, tra gli altri, sembra offrire utili elementi a sostegno di una delle più rilevanti riflessioni di carattere generale che sembrano emergere dal volume, relativa alla necessità di studiare meglio il ruolo giocato dalle appartenenze confessionali e dalle identità religiose – sul piano tanto retorico quanto pratico – nelle strategie e nelle relazioni diplomatiche inter-europee non soltanto del periodo delle guerre di religione e delle più marcate divisioni confessionali, ma anche nel periodo successivo alla pace di Westfalia (1648). Meno convincente – e meritevole probabilmente di ulteriore elaborazione critica – appare invece la proposta della formula „Confessional Diplomacy“. Ciò a ragione, in primo luogo, della sostanziale indeterminatezza della definizione fornita nella breve introduzione e nelle conclusioni, in cui si rimanda alla categoria o paradigma storiografico della confessionalizzazione tradizionalmente legato ai nomi di Wolfgang Reinhard e Heinz Schilling, senza tuttavia far seguire una adeguata problematizzazione storiografica dello stesso, soprattutto in relazione alle nuove tendenze degli studi sulla diplomazia in età moderna, anch’esse peraltro richiamate in maniera talora poco sistematica. Di fronte alla notevole eterogeneità della documentazione e dei temi sviluppati nei diversi contributi, in gran parte originali e fondati sull’analisi di fonti primarie, avrebbe in altre parole certamente giovato un maggiore sforzo di sintesi, tale da fornire una più evidente coerenza interna e una più forte caratterizzazione storiografica ad un volume che, in ogni caso, si segnala come utile repertorio di casi di studio, questioni e spunti di ricerca di sicuro interesse per la storia delle relazioni complesse e multiformi tra diplomazia e religione nell’Europa dell’età moderna.
Michele Camaioni
Mary Hollingsworth/Miles Pattenden/Arnold Witte (Eds.), A Companion to the Early Modern Cardinal, Leiden-Bosten (Brill) 2020 (Brill’s Companions to the Christian Tradition 91), XVIII, 705 S., Abb., ISBN 978-90-04-31096-4, € 193,89.
Nun hat auch das Kardinalat bzw. das Kardinalskollegium in der Frühen Neuzeit (ca. 1420–1800) sein „Brill’s Companion“ bekommen. Die Kardinäle gehörten zur Regierung der immer mehr globalen Kirche und waren konstitutiver Teil auch der weltlichen Regierung der Päpste über ihr Territorium; dennoch habe sich – so die Hg. in ihrer Einführung – die Geschichtsschreibung vorwiegend auf die Päpste konzentriert. Immerhin sind in den letzten Jahrzehnten grundlegende Strukturen zu den Genealogien und zur Verflechtung der Kardinäle erschienen, so durch Christoph Weber (vgl. dessen Zusammenschau „Senatus divinus“) und für das frühe 17. Jh. durch Wolfgang Reinhard und seine Schule. Ein multiperspektivisch-interdisziplinäres Kompendium kann so einerseits viel Wissen aus unterschiedlichen Disziplinen zusammenführen, andererseits nicht alle Forschungslücken schließen, die es für viele Fragestellungen und Teilepochen noch gibt. Barbara Bombi fasst den Forschungsstand über die mittelalterliche Formationsgeschichte des Kardinalskollegiums zusammen. Im 8. Jh. wurde cardinalis als Adjektiv für die suburbikanischen Suffraganbistümer verwendet; bald auch für die Priester der römischen Titelkirchen und im 11. Jh. für die sieben diaconi palatini. Im Papstwahldekret 1059 sind sie Papstwähler, mit einer herausgehobenen und entscheidenden Funktion der Kardinalsbischöfe. Es besteht jeweils ein Bezug zur liturgischen Funktion der so Bezeichneten. Ende des 11. Jh. löste das Konsistorium die römische Synode als Beratungs- und Entscheidungsgremium ab. Im 12. Jh. kam es zur Entsendung von Kardinälen als legati a latere; dazu fällten Kardinäle nun als Mitglieder der kurialen Gerichtshöfe jurisdiktionelle Entscheidungen. Das Hochmittelalter sah diese so als Teile des päpstlichen Leibes, die zunehmend Anteil bekamen am Regiment der Kirche. Im Spätmittelalter wurde das Kardinalskollegium in der Regel als Senat der Kirche gedeutet; zugleich bedeuteten die zunehmende Bürokratisierung der Kurie, die größere werdende Zahl der Kardinäle und die nepotistischen Strukturen hinter ihrer Ernennung (die Wahlkapitulationen ab 1352 konnten die Päpste de facto nicht binden) einen Machtverlust des Kollegiums. Mary Hollingsworth folgt Simon Ditchfield in seiner Relativierung des Paradigmas von Paolo Prodi, der die Kongregationsbildung von 1588 als machtpolitischen Niedergang des (oligarchischen) Kardinalskollegiums gedeutet hatte: die Kardinäle konnten über ihre Rolle in der päpstlichen Bürokratie ihre Mitregierungsfunktion, die im 15. Jh. zunächst reduziert wurde, so wieder ausbauen (das typische Paradox einer absolutistischen Herrschaft), wenn auch nicht als Gesamtkollegium. Dieses war seit dem 16. Jh. stets in verschiedene Faktionen gespalten; mit dem Zurückdrängen des Nepotismus seit 1692 und der zunehmenden Italienisierung des Kollegiums scheint dessen Bedeutung im 18. Jh. wieder gestiegen zu sein. Jennifer Mara DeSilva untersucht die Ernennungs- und Abdankungsrituale von Kardinälen; auch zeremoniell wird unterstrichen, dass diese ihre Kreation dem Papst verdanken, so dass eine Patronage-Beziehung bzw. -Verpflichtung dadurch erwuchs. Ein Beitrag von Mary Hollingsworth widmet sich ihrer Funktion als Papstwähler im Konklave. Die Quellenlage ist v. a. deshalb nicht schlecht, da in der Vormoderne nur Stillschweigen für die Zeit während des Konklaves gefordert wurde. Die Konklaveorte wechselten, seit 1549 war es in der Regel die Sixtina in Verbindung mit der Sala regia und einigen anderen Sälen des Vatikanischen Palastes. Vor dem Bezug konnten die Römer die aufgebauten cubicula besichtigen. Politisch war es das Wichtigste, sich für die eigene Familie das Wohlwollen des neuen Papstes zu sichern, also nicht wegen der Politik im Konklave in Ungnade zu fallen. Die Skrutinien wurden de facto immer schriftlich eingeholt; zur Beschleunigung konnte seit dem 15. Jh. der Accessus eingesetzt werden bzw. der Versuch, per adorationem die nötige 2/3-Mehrheit zu erreichen. Eine wichtige Rolle bei der Mehrheitsbildung kam den Faktionsführern (meist die Kardinalnepoten der vorherigen Päpste) zu. 1621 wurde strikt die geheime Wahl vorgeschrieben und die Adorationswahl verboten, um das Gewissen vom Druck der Patronage- und Klientelerwartungen zu befreien. Dem Amt des Kardinalnepoten und damit dem System des Nepotismus geht Birgit Emich systematisch nach. Die Epoche des formalisierten Nepotismus, der an sich ein uraltes Phänomen war, sei 1538–1692 gewesen: der Kardinalnepot sei Ausdruck dieser Formalisierung. Neben einer machtpolitischen Funktion sei Nepotismus eine moralische Pflicht der Dankbarkeit gegenüber der eigenen Familie bzw. dem eigenen Netzwerk gewesen (pietas), die erwartet werden konnte, wenn sie innerhalb eines bestimmten Rahmens blieb. Der Nepot führte seit 1538 nicht nur die päpstliche Außenpolitik, sondern managte auch die päpstliche Patronage und unterstützte die Interessen der Papstfamilien; so konnte der Papst selbst zugleich sich als Vater aller, über diesen Interessen stehend, präsentieren. Die folgenden Kapitel behandeln die Kardinäle in verschiedenen Beziehungen, etwa zu kirchlichen Institutionen (so stand der Pönitentiarie, deren Funktion auch in Sedisvakanz nicht stillstand, ein Kardinalpönitentiar – oft am Ende einer kirchlichen Karriere – vor, der sich im Lauf der Neuzeit kaum mehr, so Kirsi Salonen, in die faktische Arbeit der Behörde einbrachte; die Inquisition wurde erst 1542 zu einer Kardinalsbehörde, so Vincenzo Lavenia; immerhin etablierte sich in Spanien bereits einige Jahrzehnte vorher ein Großinquisitorenamt, da aufgrund königlicher Patronage dieser spanisch-kirchlichen Behörde in dieser Anfangsphase ein Kardinal vorstand, während es ein solches Amt bei der mittelalterlichen Inquisition noch nicht gab). Dem Verhältnis von Kardinalprotektoren und religiösen Institutionen wie Bruderschaften und Orden, die die Kardinäle protegierten, geht Arnold Witte nach. Für diese brachte ein Protektor den Vorteil des Papstzugangs bzw. kurialen Einfluss; für die Kardinäle die Erweiterung des Netzwerks, Möglichkeiten der Versorgung von Klienten und Ansehen innerhalb der römischen Gesellschaft. In der Sektion des Verhältnisses der Kardinäle zu weltlichen Herrschern hat Alexander Koller einen grundlegenden Beitrag über Kardinäle als päpstliche Gesandte verfasst. Als legati a latere entsandte sie der Papst zu wichtigen politischen Ereignissen; daneben gab es zeremonielle Gesandtschaften, etwa zu dynastischen Eheschließungen (seit dem 17. Jh. die dominante Form). Die Kardinäle reisten mit famiglia, waren mit Instruktionen und Vollmachten ausgestattet und folgten einem genauen Zeremoniell. Die sich im 16. Jh. etablierenden Nuntiaturen wurden dann nicht mehr mit Kardinälen, sondern Bischöfen besetzt. Sie konnten aber mitunter ein Karrieresprungbrett werden; die Nuntiatur an wichtigen Höfen führte meist nach Beendigung zur Kardinalserhebung. Dem komplexen Verhältnis von Kardinälen zur Theologie widmet sich Jean-Pascal Gay. Obwohl auch einige herausragende Theologen Kardinal wurden, blieb der Anteil derjenigen, die Theologie studiert hatten, konstant niedrig, besonders unter den italienischen Kardinälen (etwa 10 %). Zahlreicher waren die Juristen bzw. Kanonisten. Die Zahlen werden freilich, so Gay, ein wenig dadurch relativiert, dass die Theologenkardinäle oft nicht aus dem aristokratischen Milieu kamen, in einem höheren Alter zum Kardinal erhoben wurden und diese Funktion deshalb kürzer ausübten. Zudem bedurften die Kardinäle der Theologie für viele Ämter und Aufgaben, so dass sie theologische Konsultoren fördern mussten. Die folgenden Kapitel behandeln die Beziehungen der Kardinäle zu Besitz und Einkommen; zu Rom und dem Kirchenstaat (als Legaten oder Gouverneure und Statthalter waren Kardinäle wichtige Mittler zwischen Zentrum und Peripherie; teilweise unterliefen sie so die Funktion der dortigen Bischöfe, so Irene Fosi), zu den Missionen, zur Literatur und zur bildenden Kunst. Ihr Selbstverständnis als Elite, analog den Prinzen an weltlichen Höfen, machte sie zu Förderern von Künstlern und zu Sammlern, was mitunter in Spannung zu ihrem kirchlichen Selbstverständnis stand. Dabei gab es große Unterschiede, was Herkunft und Einkommen anging. Die Erziehung spiegelt den Umstand, dass der humanistisch gebildete Kirchenfürst mehr und mehr vom Typ des juristischen Bürokraten, der Erfahrung in die kurialen Kongregationen hatte, abgelöst wurde. Aufs Ganze ist ein informativer und perspektivenreicher Band entstanden, der in vielen Feldern aber auch den Bedarf von weiteren Forschungen anzeigt.
Klaus Unterburger
Marco Pellegrini, Venezia e la Terraferma (1404–1797), Bologna (Il Mulino), 2022 (Universale Paperbacks il Mulino 808), 214 pp., ISBN 978-88-1529541-5, € 15.
Marco Pellegrini è uno studioso valente, interessato soprattutto ad aspetti politici ed ecclesiastico-religiosi della storia italiana in epoca rinascimentale: temi già oggetto di quattro sue monografie pubblicate con il Mulino, fra testi di alta divulgazione e indagini più impegnative. Ed ecco un altro libro, insieme scientifico e divulgativo, pensato pure per studenti universitari, che è anche il primo di una serie di sette volumi che l’editore annuncia di voler dedicare agli antichi stati italiani. Per inciso, sorge una curiosità sul rapporto di questo libro con la collana di appartenenza, la quale si propone di „raccontare la fisionomia e la storia dei maggiori stati italiani preunitari“ (p. 2), tra formazione e sviluppo, corte e ceto dirigente, identità in chiave socio-culturale, tradizioni e stili. Tutti quei temi sono senz’altro presenti in questo libro, che peraltro comprende brani cumulativamente significativi di narrazione delle vicende diplomatico-militari della Repubblica. Esso tuttavia s’incentra in tanta parte sul nesso Venezia-terraferma, e nel complesso non mi sembra proporre contenuti d’importanza adeguatamente proporzionata sullo Stato veneziano più in generale, specialmente ma non solo in relazione al rapporto col dominio da mar (che fece pur sempre parte di questo antico stato italiano!), col rischio – se non altro – di una qualche difformità d’impostazione dai volumi successivi della collana. Ma concentriamoci sul libro di Pellegrini. Il lettore si trova di fronte un testo scorrevole il cui andamento mescola sequenza cronologica e approfondimento tematico; esso si articola in quattro capitoli, ognuno suddiviso in paragrafi. Nelle note – diciassette pagine in tutto, collocate in fondo ai singoli capitoli – ci sono rinvii a una bibliografia molto estesa e aggiornata, a dimostrazione del grande impegno profuso dall’autore nelle letture di preparazione del libro. Come ben sanno gli autori e lettori della pubblicistica prettamente accademica, ormai da parecchio tempo la dimensione della terraferma è entrata appieno nella storiografia veneziana riferita all’età moderna. Ma un ulteriore passaggio di questo processo è rappresentato dalla pubblicazione di una monografia di alta divulgazione sull’argomento: insomma, era più che giusto scriverlo e pubblicarlo. Il primo capitolo, „La formazione dello Stado da Terra“, è dedicato al ’400 e si suddivide in paragrafi così denominati: „Una vorticosa avanzata terrestre“; „La spinta espansionista“; „Da mercanti a statisti. La ‚sapienza civileʻ“; „Rettori, sindaci provveditori“; „L’inaspettato collasso del 1509“. S’incentra sul ’500 il secondo capitolo, „Dopo Agnadello. Risollevamento e stasi“, che si articola anch’esso in cinque paragrafi: „Rinegoziare, ricostituire“; „Localismo e sovralocalismo“; „Le serrate oligarchiche“; „Flessibilità e moderazione“; „Un retroterra economico“. S’intitola „Mito e realtà della pax veneta“ il capitolo sul ’600, così suddiviso: „Sovranità in stile patrizio“; „Centro e periferia. Irradiazioni“; „Fortificare per dissuadere“; „Un paesaggio a regola d’arte“; „Dentro il Seicento. Faglie e cedimenti“. Infine il capitolo sul ’700, „1797. Dissoluzione di un microcosmo“, che si articola in tre soli paragrafi: „L’illusione della perpetuità“, „La neutralità e i suoi costi“, „Il ciclone napoleonico“; esso si presenta più breve degli altri, anche a riflettere lo stato di avanzamento oggettivamente più debole della ricerca pertinente (ma a parer mio si potevano comunque sviluppare maggiormente questioni inerenti alla Terraferma). Ho partecipato pienamente allo sviluppo pluridecennale delle ricerche sul rapporto fra la Repubblica di Venezia e il suo dominio italiano, e perciò sono forse recensore a rischio di soggettività maggiore del solito, o almeno di pignoleria. L’essere storico fin troppo professionista mi complica, poi, la valutazione di alcune caratteristiche della scrittura. Mi si consenta comunque qualche osservazione sulle cure editoriali e soprattutto sulla stesura di questo libro. Quanto al corredo al testo, avrei preferito un indice finale più completo, che ai nomi già presenti di autori e personaggi storici avesse aggiunto pure quelli dei luoghi. Poi, anche se è sempre impegnativo inserire cartine efficaci nei libri (a maggior ragione su pagine che misurano soltanto 21 x 12,5 cm, come in questo caso), qui proprio non basta un’unica cartina che spazia da Barcellona fino a Trebisonda! Quanto alla stesura, essa mi sembra generalmente ben calibrata nella capacità di attirare e impegnare l’attenzione. Qualche passaggio, tuttavia, potrebbe risultare indigesto per densità concettuale: come p. es. a p. 10: „la condizione di Venezia come civitas superiorem non recognoscens risultava irricevibile nell’ottica delle gerarchie universaliste dell’Europa medievale“. E l’insufficienza di conoscenze pregresse del lettore potrebbe rendere opaco per il lettore questo o quel passaggio. Ne è esempio il commento (p. 22) su Cosimo de’ Medici, che nell’offrire sostegno a Francesco Sforza contro Venezia a metà ’400 dimenticò d’aver avuto precedentemente protezione veneziana „nel momento della disgrazia“: comento che andrebbe chiarito esplicitando il riferimento al suo periodo di esilio da Firenze, terminato col rientro dal Veneto nel 1434. Capita non di rado, poi, di trovare cenni a singoli argomenti – p. es. la finanza pubblica, la giustizia e il diritto – distribuiti fra più paragrafi del libro, magari intercalati come parziale approfondimento tematico in una narrazione incentrata su altro. Ancora sulla collocazione di singoli elementi dell’analisi: Pellegrini non doveva certo ridursi a rigidità insensata pur di rispettare confini cronologici dei singoli capitoli (che egli infatti non caratterizza esplicitamente come riferiti a secoli); ma a volte, mi pare, si prende libertà non necessarie, p. es. piazzando cenni alla „De republica et magistratibus Veneciarum“ di Gasparo Contarini nel primo capitolo. Talvolta, poi, uno stile senz’altro efficace sembra quasi forzare nel trattare faccende su cui magari era meglio sfumare o alleggerire. P. es. trovo senz’altro eccessiva, in riferimento al ’400, l’affermazione seguente: „Guidato dai suoi tre capi, personaggi influentissimi e perciò sempre rasentanti la fuoriuscita dai limiti della legalità, il Consiglio dei Dieci si fece carico ora di reperire le risorse ora di riorganizzare le strutture amministrative dei territori conquistati“ (p. 33). Scappa pure qualche errore: non è esatto che „l’ufficio di rettore non veniva retribuito“ (p. 45). Potrei aggiungere altri casi a quelli appena citati (tutti riferiti al primo capitolo), ma una siffatta operazione andava semmai fatta in veste di reader in fase pre-stampa: veste che molto legittimamente nessuno m’ha proposto di indossare! Insistere in questa sede con osservazioni su singole scelte e interpretazioni rischierebbe di falsare il messaggio di fondo della recensione: si tratta di un libro editorialmente opportuno, fondato su solide letture e riflessioni, di gradevole lettura, utile anche agli studiosi per il fatto di unire in una sintesi ragionata tanti frutti di ricerche più e meno recenti.
Michael Knapton
Giuseppe Olmi, Arte e scienza lungo la via Emilia. Storia naturale, illustrazioni e collezioni nell’età moderna, Firenze (Edifir) 2022 (Le voci del museo 44), 262 S., 51 Abb. in s/w, 25 Abb. in Farbe, ISBN 978-88-9280-104-2, € 28.
Der vorliegende Bd. enthält sechs ausgewählte Schriften des italienischen Wissenschafts- und Naturhistorikers Giuseppe Olmi, die zu diesem Anlass geringfügig erweitert, bibliographisch aktualisiert und mit einem Personenregister versehen wurden. In ihnen treten die großen Linien der Entwicklung der Naturwissenschaften im Italien der Frühen Neuzeit, konkret am Beispiel der an kulturellen und akademischen Zentren so reichen Emilia-Romagna, deutlich hervor. Den Spuren der verschiedenen, aus unterschiedlichen sozialen Milieus stammenden Protagonisten folgend – Universitätslehrer, Ordensleute, Adelige bis hin zu regierenden Fürsten – zeichnet der Autor ein faszinierendes Bild der zwischen Wissenschaft und Kunst oszillierenden naturkundlichen Studien dieser Epoche. Die Reihe der Aufsätze wird eröffnet mit einer Würdigung bedeutender Kapuzinerpatres der Ordensprovinz von Bologna, die teilweise vor Ort, aber auch als Missionare in Afrika oder Amerika botanische Forschungen betrieben in „una realtà così diversa da quella europea“ (S. 32). Sie fanden z. T. Niederschlag in Publikationen mit mehr oder weniger gelungenen ikonographischen Beilagen (Ananas aus dem Kongo!). Im Anhang werden einige Briefe des Fra Gregorio da Reggio u. a. an Aldrovandi, Vincenzo und Francesco Gonzaga publiziert. Der zweite Text behandelt die Entwicklung der naturkundlichen Sammlungen und Gärten des Hauses Este vom 15. bis ins ausgehende 18. Jh., die von den Herzögen von Ferrara (ab 1598 von Modena) teils aus wissenschaftlichen, teils aus dynastischen Gründen unterstützt wurde. Gerade durch das Mäzenatentum der Fürsten konnten Natur und Kunst(-handwerk) jene Symbiose eingehen, von der die Wunderkammern der Zeit ein beredtes Zeugnis abgeben. Keineswegs übertrieben erscheint der Titel des dritten Beitrags, der das Bologna des 16. Jh. als die Hauptstadt der naturbezogenen Forschungen bezeichnet. Diese Reputation verdankt die Stadt vor allem dem großen Forscher, Universalgelehrten und Hochschullehrer Ulisse Aldrovandi. Dieser war Teil eines weit gespannten europäischen Netzwerks an Gelehrten, die sich untereinander mit Informationen und seltenen Naturalien (getrocknete Pflanzen, Samen, Fossilien, Mineralien etc.) versorgten. Der vierte hier abgedruckte Aufsatz führt nach Parma gegen Ende des Ancien Régime, wo die naturkundlichen Aktivitäten durch zwei Protagonisten, dem Abate Guattieri und dem Conte Sanvitale, geprägt wurden (Text der Einleitung zur Ornithologie des Sanvitale im Anhang). Der Tod des Herzogs Ferdinand und kurze Zeit später der seines Sohnes Ludovico, vor allem aber die Wirren der napoleonischen Zeit beendeten abrupt diese Blüte der vom Geist der Aufklärung geprägten Studien, bevor sie in der Restaurationszeit unter Maria Luisa von Bourbon wieder aufgenommen werden konnten, dann mit einer neuen Schwerpunktsetzung auf dem Gebiet der Chemie. Der fünfte Text porträtiert eingehend Ludovico von Bourbon, der bereits in jungen Jahren, beeinflusst durch seine Lehrer, ein großes Interesse für naturkundliche Themen und Forschungen entwickelte, das sich während seines Spanienaufenthalts weiter intensivierte und auch auf exotische Naturalien ausweitete nicht zuletzt durch Kontakte nach Übersee (Argentinien, Antillen, Louisiana, Mexico). Der Anhang enthält Dokumente zu den naturkundlichen Sammlungen von Colorno, deren Schicksal nach der Übernahme der Toskana durch Lodovico, seinem Umzug nach Florenz und frühen Tod im Dunkeln liegen. Der abschließende Text ist dem aus Forlì stammenden Ordensmann Cesare Majoli gewidmet, der die zeitgenössische Verbindung aus Natur und Kunst in gewisser Weise selbst verkörperte, da er die von ihm gesammelten und untersuchten Pflanzen und Fische nicht nur beschrieb (auf Latein und in der Umgangssprache, mit Angabe von Eigenschaften, etwa Heilwirkungen bei Pflanzen, Verzehrbarkeit bei Fischen), sondern sie auch zeichnete oder malte. Dabei folgte er streng den Vorgaben der Natur und verzichtete konsequent auf jede Form von künstlerischer Ausschmückung. Mit großem, durch profunde Studien gewachsenem Sachverstand vermag es Olmi, das breite und vielfältige Spektrum naturkundlicher Studien in der Frühen Neuzeit entlang der Via Emilia zu entfalten. Das Buch sei all denjenigen empfohlen, die sich mit den von Sammelleidenschaft, enzyklopädischem Drang und dem Bedürfnis nach ästhetisch ansprechender Wiedergabe und Präsentation geprägten Anfängen der europäischen Naturwissenschaften beschäftigen wollen.
Alexander Koller
I demoni di Napoli. Naturale, preternaturale, sovrannaturale a Napoli e nell’Europa di età moderna, a cura di Francesco Paolo De Ceglia/Pierroberto Scaramella, Roma (Edizioni di Storia e Letteratura) 2022 (Temi e testi 205), 360 S., Abb., ISBN 978-88-9359-548-3, € 28.
„I demoni di Napoli“, ein von Francesco Paolo De Ceglia und Pierroberto Scaramella (Università degli Studi di Bari Aldo Moro) hg. Sammelbd., ist das Ergebnis der gleichnamigen Tagung, die im Oktober 2019 Historiker und Philosophen an der Universität Bari zusammengebracht hat. Ziel war es, zu verstehen, wie im Laufe der Zeit die Grenzen der Natur zum Übernatürlichen und damit das Verhältnis zu den anderen möglichen Kausalordnungen neu gezogen wurden. „In den ersten Jahrhunderten des Christentums“ – S. IX – waren die Grenzen zwischen dem Natürlichen und dem Wunderbaren … noch sehr verschwommen und eher wahrnehmungsbezogen oder sogar emotional als ontologisch bestimmt. Etwa ab dem 13. Jh. und vor allem nach dem Konzil von Trient entwickelte die Theologie den Ehrgeiz, die Grenzen der Natur genauer festzulegen, wodurch der irisierende Begriff des Wunderbaren … zu etwas Übernatürlichem wurde. Die Geburt des Übernatürlichen wurde damit in die „Geschichte einer Trennung zwischen Gott und Natur“ übersetzt, wie Alessandro Laverda einen kürzlich erschienenen Bd. betitelte („La nascita del sovrannaturale. Storia di una separazione tra Dio e natura“, Milano-Udine 2021, S. IX–X). Durch das Buch ziehen sich bizarre Ereignisse, die an der Grenze des Natürlichen wahrgenommen werden. So zeigen die Autoren unter Berufung auf magnetische Kräfte, auf Tote, die beim Anblick des Mörders Blut verlieren, auf Vampire, Exorzismus oder sympathisch wirkende Heilmittel, wie diese Grenzen das Ergebnis der Artikulation verschiedener Kenntnisse, Konflikte und Traditionen sind. Es handelt sich um eine komplexe und widersprüchliche Realität, die im Neapel des 15. und 16. Jh. angesiedelt ist, einer Stadt, in der die Gegenreformation triumphierte, und welche die Hauptstadt einer Region war, in der Wissenschaft, Natur und Religion diskutiert wurden. In den Inquisitionsgerichten von Neapel gibt es zum Beispiel eine Fülle von Prozessen über Magie und Hexerei, in denen die echte Anwesenheit des Teufels diskutiert wird, wobei viele auf die Tatsache verweisen, dass die Sinne zu Irrtum, Halluzination und Täuschung führen können. Neapel erscheint als eine Stadt, in der Reliquien und die Macht des Bildes ein Nachdenken über die Kontinuitäten und Brüche zwischen der Antike und der Neuzeit in Bezug auf die Heilkräfte von Dingen und Menschen ermöglichen. Der von Andrea Maraschi (Università di Bologna) analysierte Fall Vergils veranschaulicht diese Veränderungen und den Übergang der Kräfte von einer Figur zur anderen: Während Vergil bereits vor seinem Tod Gegenstand literarischer Bewunderung und Verehrung war, wurde sein Name im Mittelalter mit wundertätigen Kräften in Verbindung gebracht, und sein Grab in Neapel wurde für einige Jahrhunderte das Ziel von Pilgerfahrten und Verehrung. Vergil wurde zum Arzt und Zauberer gemacht, bis er in dieser Funktion durch San Gennaro, den gemarterten Bischof, dessen Blut im Dom aufbewahrt wird, ersetzt wurde. In diesem Sinne erinnert das Kapitel von Maria Conforti (La Sapienza) daran, dass dieses Buch auch ein Versuch ist, das von Francesco De Ceglia in seinem Artikel über Gennaro ausgearbeitete Konzept aufzugreifen: „Mit Heiligen denken“ („Thinking with the Saint. The Miracle of Saint Januarius of Naples and Science in Early Modern Europe“, 2014); das heißt, es geht hier darum, wie man in der longue dureé eine Geschichte der Wissenschaft, des Wissens und der Medizin unter Berücksichtigung der Rolle des Wunderbaren, der Rolle der Objekte und der Hagiographie denken kann. Das Buch ist nach einer Einleitung der Hg. in fünf Abschnitte gegliedert: Wunder („Meraviglie“), Heilige („Santi“), Dämonen („Demoni“), Geister („Spiriti“) und Transite („Transiti“), die jeweils mehrere Kapitel umfassen. In dieser thematischen Gliederung findet sich eine chronologische Ordnung, die, ob man will oder nicht, von der Ersetzung von Talismanen und Dämonen durch magnetische und spiritistische Kräfte im 19. und 20. Jh. spricht. Das Buch enthält ein Dossier mit farbigen Reproduktionen von Barockwerken, die von Engeln und Dämonen bevölkert sind, um die Macht dieser Bilder zu zeigen, ein Thema, das den Medientheoretikern am Herzen liegt. Kurzum, ein interessantes Buch, das – konzentriert auf den Fall einer Stadt – Zeiten, Themen und Probleme miteinander verbindet, die auch heute noch aktuell sind.
Irina Podgorny
Jörg Reimann, Spionage und Gegenspionage im Italien der Renaissance 1450–1650, Hamburg (Verlag Dr. Kovac) 2020 (Studien zur Geschichtsforschung der Neuzeit 104), 238 pp., ISBN 978-3-339-11796-0, € 88,90.
Il tema dello spionaggio e del controspionaggio tra Medioevo ed Età Moderna ha riscontrato un rinnovato interesse da parte della storiografia degli ultimi tre decenni. Seguendo la scia dei pioneristici studi di Paolo Preto, la cui produzione bibliografica viene tutta scandagliata nel testo e nelle note, il libro di Jörg Reimann si colloca in queste nuove correnti di studi che cercano di sottolineare il ruolo e l’importanza della diplomazia segreta, dello spionaggio e del controspionaggio prima della Pace di Vestfalia (1648). I capitoli del libro, divisi non in numeri ma per lettere alfabetiche, sono organizzati seguendo una doppia chiave: la prima di natura geografica, coprendo gli stati regionali italiani politicamente più espressivi tra la seconda metà del Quattrocento e la prima metà del Seicento. Si tratta di Venezia, Firenze, Roma e gli Stati della Chiesa, Milano e, in minor misura, anche Bologna, Ferrara e Mantova. La seconda prende in considerazione le fattispecie e le tipologie dello spionaggio promosso, ma anche subìto, da queste entità politiche: militare, politico, economico e industriale, dando anche ampio spazio alle tecnologie impiegate per l’ottenimento e la trasmissione delle informazioni ottenute, quale la crittografia. Reimann sceglie un approccio molto schematico di esposizione dei propri argomenti, impiegando un modello di domanda e risposta nei sottocapitoli del lavoro che facilita la lettura dell’opera. Il primo capitolo (A), che occupa un terzo del volume, è dedicato a Venezia e al suo intricato sistema di spionaggio e controspionaggio, primo tra tutti quello di natura economica e produttiva. Reimann attribuisce un particolare protagonismo ai Turchi, che già dalla seconda metà del Trecento cercavano di attrarre la manodopera qualificata veneziana; azione combattuta dal senato veneziano con serrati controlli, severa legislazione ed efferata repressione. Le principali industrie gelosamente custodite erano quella del vetro di Murano, della lavorazione delle stoffe (soprattutto della seta), della stamperia e della costruzione navale. Nel capitolo, Reimann concede molto spazio anche allo spionaggio attivo promosso dalle autorità lagunari nei confronti dei potentati italiani ed esteri. Si fa ampio riferimento ai soggetti impiegati e alle loro diverse categorie, così come alle strategie più generali a cui si faceva ricorso, come lo strumento della denuncia segreta e anonima, il sabotaggio vero e proprio, fino all’uso sistematico degli avvelenamenti. La parte veneziana dell’opera è molto debitrice, oltre che a Preto, agli studi di De Vivo e Iordanou, i cui lavori vengono spesso citati nelle note al volume. Il secondo capitolo (B) si concentra sulla Firenze di Lorenzo il Magnifico, i cui inviati diplomatici nei territori d’interesse agivano secondo un doppio registro: uno al servizio della Repubblica e un altro, segreto, direttamente legato a Lorenzo e ai suoi segretari personali. Il capitolo fornisce un elenco dettagliato dei soggetti attivi nello spionaggio promosso dal Magnifico, con alcuni particolari sui cifrari da loro impiegati, e delinea le zone di interesse dei fiorentini. Occupa grande spazio nel capitolo anche il controspionaggio fiorentino, essenziale nel contrasto a rivolte e sommosse, prima tra tutte per l’autore, quella dei Pazzi del 1478, di cui sottolinea l’influenza dei potentati esterni. Un altro scopo del controspionaggio fiorentino era di natura economica e produttiva, volto soprattutto alla protezione della manifattura del vetro, specie delle lenti ottiche. L’approccio scelto nella trattazione delle vicende fiorentine è soprattutto di natura cronologica: prima la Repubblica sotto Lorenzo il Magnifico, poi il Granducato di Cosimo I e di Ferdinando I, sotto il quale fiorì l’istituzione degli Otto di Guardia e di Balia, che gestivano da vicino gli exploratores inviati a nome della città del Giglio. Il terzo capitolo (C), di sole 13 pagine, vede come protagonisti gli attentati contro i Papi, più di uno sostenuto dai Medici, e in minor misura lo spionaggio promosso da molti pontefici, da Nicolao V a Urbano VIII, che fungono anche come punto di riferimento per le divisioni del capitolo. Tra gli aspetti interessanti approfonditi da Reimann, vanno sottolineati sia l’impiego dei gesuiti come portatori dei messaggi segreti dei Papi, sia il fatto che la corte papale stessa fosse ritenuta uno dei principali centri per l’ottenimento di informazioni strategiche del periodo. Il quarto capitolo (D) cerca di enfatizzare come gli Sforza detenessero a Milano uno dei migliori sistemi informativi delle città-stato tra Medioevo ed Età Moderna, basato su condottieri che rendevano Francesco Sforza un vero „Signore di Novelle“. La trattazione si chiude con una sezione „varie“ (Sonstiges – G), in cui l’autore passa in rassegna alcuni aspetti delle città di Bologna, Ferrara e Mantova. Si tratta di un lavoro soprattutto di sintesi ed intreccio dei principali studi sul tema dello spionaggio e controspionaggio promosso dai più importanti potentati italiani del Rinascimento. Le note del volume attestano che, purtroppo, non ci sono state visite dirette dall’autore agli archivi italiani per la stesura dell’opera, cosa che avrebbe potuto consentire di apportare contribuiti più inediti al tema. Rimane comunque una densa e solida lettura storiografica.
Edward Loss
Carlo Campitelli, Un diplomatico in esilio. Bartolomeo Cavalcanti tra fuoriusciti e letterati (1503–1562), Roma (Viella) 2022 (Studi e ricerche. Dipartimento di studi umanistici. Università di Roma Tre 39), 320 pp., ISBN 979-12-5469-008-6, € 29.
Fu Rudolf von Albertini, a metà Novecento, a richiamare l’attenzione sul fuoriuscitismo antimediceo e ad avviare una serie di studi su un fenomeno di vaste dimensioni e dalle profonde e durature ricadute sulla storia politica, culturale e sociale non solo italiana, ma anche europea. È, tuttavia, la carenza di accurati profili biografici di singoli esuli a indurre Campitelli a illustrare la lunga movimentata vita di Bartolomeo Cavalcanti, detto Baccio. Nato in una potente e ricca famiglia, imparentata con importanti membri del patriziato fiorentino, la sua formazione venne affidata a illustri maestri, tra i quali Marcello Virgilio Andriani e Francesco Cattani da Diacceto, che gli diedero una compiuta istruzione classica. A iniziarlo alla politica ebbe, però, un peso determinante Machiavelli, di cui fu amico e confidente, mentre a indirizzarlo verso posizioni filofrancesi nella lotta antimedicea contribuì certamente il matrimonio (1523) con Dianora Gondi la cui famiglia, da tempo trasferitasi oltralpe, aveva legato la propria sorte a quella dei Valois, tant’è che la figlia di Dianora e di Baccio, Lucrezia, fece parte del corteo che accompagnò nel 1533 Caterina de’ Medici andata sposa del futuro Enrico II e fu sua dama d’onore. Negli anni tumultuosi che segnarono la storia fiorentina dalla restaurazione dei Medici nel 1512 alla disfatta a Montemurlo delle truppe antimedicee (1537), preceduta e seguita da molteplici sconfitte militari dei fuoriusciti – anni di insanabili divergenze tra correnti popolari e ottimatizie – fino alla scelta irreversibile di lasciare la patria, Cavalcanti, „non perdonando a fatica alcuna“ (p. 43), svolse numerose difficili missioni oltralpe e in Italia, talvolta affiancando la diplomazia ufficiale, barcamenandosi tra i frequenti mutamenti della compagine governativa fiorentina e l’alternarsi delle alleanze con le grandi potenze; comunque si rivelò, sempre, un prezioso informatore e negoziatore, ma anche un tenace difensore degli ideali repubblicani. Campitelli, attingendo proficuamente a fonti disparate, ricostruisce con precisione le mete e gli scopi delle sue „ambascerie“ ed evidenzia la sagacia e l’acume delle sue analisi politiche. Sarebbe, peraltro, complicato seguire il fiorentino in tutti i luoghi in cui trovò protezione e aiuti militari ed economici per la causa repubblicana, sui quali si dilunga con dovizia di informazioni Campitelli. Sia sufficiente ricordare gli undici anni al servizio di Ercole II d’Este a Ferrara come consigliere (1537–1548), i tre anni romani come consulente per la politica estera di Paolo III e del cardinale Alessandro Farnese, la sosta parmense (1551–1552) al fianco del duca Ottavio, gli anni trascorsi a Siena di fatto come governatore e come artefice della riforma del governo cittadino (1552–1555), città da dove dovette fuggire sotto la minaccia di Cosimo I, per fare ritorno a Roma come agente di Ottavio. Progressivamente esautorato dai Farnese, alleatisi con Filippo II, entrò al servizio del cardinale François de Tournon fin quando, nel 1559, rinunciò all’attività politico-diplomatica e si trasferì a Padova e, „abbandonato da tutti quelli che aveva fedelmente servito … visse gli ultimi suoi anni in tristezza e povertà“ (p. 273), privo di beni personali, confiscati da Cosimo I. Morì il 5 dicembre 1562. Stupisce, peraltro, che un uomo così avveduto non avesse percepito l’inaffidabilità congenita di sovrani, principi, cardinali, pontefici, interessati esclusivamente alla promozione dei propri casati. Erano, questi, anni di guerre che lo videro coinvolto a diverso titolo, ma sempre con ruoli rilevanti: dalla guerra di Parma e della Mirandola per la riconquista del ducato da parte di Ottavio contro le truppe imperiali e pontificie, alla guerra di Siena la cui libertà era minacciata dal progetto di Cosimo I di costituire uno stato regionale toscano, alla guerra dei Carafa contro il regno di Napoli. Solo la pace di Cateau-Cambrésis porrà fine ai conflitti tra Asburgo e Valois per l’egemonia sulla penisola. Esplorando una variegata messe di fonti (corrispondenza privata e diplomatica, relazioni di ambasciatori, agenti e spie medicei, memoriali, Orazioni, suoi scritti su vari argomenti), l’autore illustra come Cavalcanti, pur nel mezzo di tanti affanni, fin dagli anni ferraresi, superando il disagio della vita di corte, riuscì a intrecciare indissolubilmente impegno civico – in quanto di fatto leader della diaspora antimedicea – e dedizione alle humanae litterae, lasciando una cospicua produzione, in parte rimasta a lungo inedita. La vitalità intellettuale dell’ambiente ferrarese, la vicinanza di Venezia e Padova, con il loro dinamismo culturale ed editoriale e il loro mercato di codici e libri antichi, indussero Cavalcanti a dedicare molto del suo tempo agli studi, sui quali l’autore si sofferma con grande perizia, illuminando la fecondità di un intenso dialogo con gli antichi e con scrittori amici, talvolta critici verso le sue posizioni, e dimostrando come con i suoi scritti mirasse a offrire momenti di riflessione e di ammaestramento agli esuli repubblicani sul piano militare e diplomatico. In tal senso è emblematico che tra i suoi primi studi fossero la traduzione in italiano di un frammento del „Discorso circa la milizia romana“, dalla circolazione manoscritta, e della „Comparazione tra l’armadura et l’ordinanza de’ Romani e de’ Macedoni“ (edita a sua insaputa nel 1552), di Polibio, opere nelle quali, da discepolo di Machiavelli, additava esempi da seguire. Ma l’„opera di una vita“ del Cavalcanti, alla quale attese con maggiore impegno fu la „Retorica“, „una sorta di manuale di oratoria“, dal „chiaro intento politico-divulgativo“ (pp. 131 sg.), pubblicata a Venezia da Giolito de’ Ferrari nel 1559 che riscosse un notevole successo, con 8 successive edizioni fino al 1585. Pur se un posto privilegiato veniva assegnato ad Aristotele e pur se non mancava di erudizione, lo scopo preminente della „Retorica“ era divulgativo e, in quanto tale, un veicolo dei valori repubblicani cui l’autore aveva sempre aderito. In tal senso i „Trattati o vero discorsi sopra gli ottimi reggimenti delle Repubbliche antiche e moderne“ che, sebbene incompiuti, furono stampati postumi con discreto successo editoriale da Francesco Sansovino nel 1571, costituivano un’appendice dell’opera principale. Con questo studio di solidissimo impianto, Campitelli ha il merito di aprire, attraverso l’importante figura del Cavalcanti, scenari inediti della storia italiana ed europea lungo l’arco di quasi un cinquantennio e di porci di fronte a tutte le contraddizioni e ai continui cambiamenti di schieramento degli Stati regionali italiani contro o a favore dell’egemonia spagnola o francese nella penisola. Un quadro di indiscutibile complessità ricostruito con competenza tale da assicurare rilievo a questa ricerca.
Gigliola Fragnito
Susanna Peyronel Rambaldi, Giulia Gonzaga. A Gentlewoman in the Italian Reformation, translated by Richard Bates, Roma (Viella) 2021 (Viella History, Art and Humanities Collection 11), 300 pp., ISBN 978-88-3313-763-6, € 49.
Quando lo storico Roland Bainton pubblicò „Women of the Reformation in Germany and Italy“ nel 1971, egli aprì una direzione di ricerca di tipo biografico nella storia di genere del Protestantesimo che stentò a prendere avvio in Italia. Il libro „Una gentildonna irrequieta. Giulia Gonzaga fra reti familiari e relazioni ortodosse“ di Susanna Peyronel Rambaldi, uscito nel 2012 e tradotto nel 2021 come „Giulia Gonzaga. A Gentlewoman in the Italian Reformation“, non solo sembra adottare questo approccio. Va al di là di ciò nella sua lunghezza e nella sua complessità metodologica e tematica. A differenza degli schizzi biografici di sei donne italiane, tra cui Giulia Gonzaga, inserite da Bainton ai margini di eventi storici, Peyronel la colloca al centro di loro. Già nell’„Introduzione“ alla edizione italiana (1991), la storica criticava questa valutazione fatta dallo storico di Yale; notava la lacuna storiografica su Giulia Gonzaga; e proponeva metodologicamente che le donne fossero considerate „non individualmente, ma come gruppo, per rintracciarne frequenti rapporti interpersonali, le caratteristiche culturali e l’influenza che ebbero nelle loro corti“ (p. 14), al di là della famiglia e del matrimonio. Tali aspetti critici si ritrovano in questo importantissimo libro sulla storia del dissenso femminile nell’Italia della Riforma. Suddiviso in un’introduzione, cinque capitoli tematici e una conclusione, il libro spazia dalla nascita di Giulia Gonzaga nel 1513 a Gazzuolo, una città fortificata nel Nord (capitolo „Born in Gonzaga“), al trasferimento dovuto al matrimonio a Fondi nel Sud e alla vedovanza (secondo capitolo „The Real Golden Age“) e allo spostamento a Napoli (terzo capitolo, „Naples, Most Loyal“). Lì entra a far parte del circolo dei cosiddetti spirituali di Juan de Valdés in stretto contatto con la Riforma fino alla sua morte, avvenuta nel 1566 (gli ultimi due capitoli, „Ruling from the Convent“ e „Female Patronage and Heretical Networks“). Scrivere la storia di gruppi del dissenso femminile e dei loro rapporti interpersonali sembra essere uno dei fili rossi di questo libro così complesso. La nonna Antonia del Balzo fu la prima donna di potere nella vita di Giulia Gonzaga, ma secondo l’autrice non la si può considerare una dissidente. Dopo la morte del marito, divenne „an example of a short-lived phenomenon, representative of a real female power replacing that of the men“ (p. 23) nel Nord d’Italia. Fu de facto „head of the family“ (p. 24) investita con diritti legali quali „the right of pardon“ (p. 30), ma governò anche in base alla sua differenza sessuale creando un’ampia rete di alleanze matrimoniali per difendere i diritti e i beni della famiglia: „a territory with which the women of the house were intimately familiar“ (p. 25). Isabella, figlia del marito di Giulia Gonzaga, è un’altra donna presente nella sua vita. Dopo la scomparsa del marito nel 1528, Giulia Gonzaga governa il piccolo stato di Fondi assieme a Isabella per un breve periodo, ma non avendo prove legali del possesso, deve lasciare il posto di „lady of Fondi“ (p. 75) ad Isabella. Rifiutandosi di ritornare in Lombardia, si trasferisce in un convento a Napoli; „she was now fully rooted in the South and was starting a spiritual and intellectual journey of relations and friendships, personal crises and choices that would have far-reaching consequences“ (p. 92). Tra queste conseguenze ci fu quella dell’amicizia con Juan de Valdés. Secondo Peyronel, la sua ricca corrispondenza condotta dal convento sia con uomini e donne rileva 1. l’intreccio tra idee politiche e relazioni di tipo religioso e 2. le reti pubbliche e segrete con donne dissenzienti tra cui Isabella Bresegna (una delle poche nobili rifugiate per la sua fede nel 1557) e Lucrezia Gonzaga (che la abiurò nel 1568). Nel contesto in cui tante nobildonne erano processate dall’Inquisizione e di cui si sa poco, Giulia Gonzaga riesce a sfuggire alle accuse. „Silenced, these women seem to disappear from the chronicles of the Inquisition.“ (p. 241) In questo contesto, un aspetto che avrebbe potuto essere approfondito o brevemente spiegato è di quale ala della Riforma si trattasse in questo volume: luterana, calvinista, radicale? Questa omissione potrebbe essere tuttavia spia di quel che l’autrice definisce come un „fluid religious climate“ (p. 97) nell’Italia del Cinquecento, in cui le nuove idee circolavano senza prendere una forma concreta. Di nuovo in riferimento alla Riforma, è curioso notare che il titolo in inglese contiene il termine ma tralascia del tutto il tema delle reti familiari e delle relazioni eterodosse, mentre nel titolo italiano non c’è alcun riferimento alla Riforma. Tutto sommato, la versione in inglese, che fa parte del progetto della Società di Studi Valdesi di tradurre in inglese opere della storiografia italiana sulla Riforma e movimenti religiosi in Italia dal Medioevo ai giorni nostri, facilita la diffusione globale di un contributo di altissimo livello accademico sulla poco nota storia del dissenso femminile nell’Italia della Riforma. Uno dei valori aggiunti di questo libro è appunto la gran quantità di dettagli sulle reti femminili e sui vari personaggi dissenzienti senza perdere di vista il contesto politico-religioso. In questo modo, l’autrice è riuscita con successo nel suo intento a scrivere una storia di donne non „ghettizzate“ (Peyronel 1991, p. 45).
Laura Popa
Anna Esposito, „Roma pare una abatia spogliata“. Una città e i suoi abitanti al tempo della peste (1522–1523). Appendice Andrea Turini, Utile consiglio preservativo e curativo della peste, a cura di Giuseppe Crimi, Roma (Roma nel Rinascimento) 2022 (RR inedita 101, saggi), 190 S., Abb., ISBN 978-88-85800-85-0, € 34.
Anna Esposito gehört gewiss zu den besten Kennerinnen der sozialen Verhältnisse im Rom des späten Mittelalters und der frühen Neuzeit. Sie verbindet dieses Wissen mit profunden Kenntnissen des Notariats- und Hospitalwesens in der Ewigen Stadt. Die vorliegende Studie fasst ihre Arbeiten aus den letzten Jahren zur Pest von 1522–1523 zusammen. Vor allem aus den reichen Quellen der diplomatischen Berichte und der Notariatsprotokolle schöpfend, untergliedert sie den Bd. in drei Kapitel. In Teil I beschreibt sie den Umgang der Römer mit diesem traumatischen Ereignis, in Teil II erläutert sie die Tätigkeit der in Rom verbliebenen Notare und in Teil III präsentiert sie drei exemplarische Fälle aus ihren Quellen. Ausgangspunkt ist die Rekonstruktion der Entstehung und Verbreitung dieser Pestwelle, deren katastrophale Auswirkungen dadurch verstärkt wurden, dass der im Januar 1522 gewählte Papst Hadrian VI. erst im August in Rom eintraf, die Stadt mithin über Monate ohne energische Regierung dastand und von allgemeiner Anarchie bedroht war. Auch die städtischen Organe glänzten nicht durch Effizienz. Wer konnte, verließ Rom fluchtartig. Die Einwohner behalfen sich nach Kräften selbst; es kam aber neben den Zeugnissen gesteigerter Religiosität auch zu kruden Formen von Aberglauben. Breiten Raum nimmt die Schilderung der Vorsichtsmaßnahmen der Notare ein, die – auf social distancing bedacht – ihrer Arbeit an der Türschwelle oder von Fenster zu Fenster in Sichtkontakt mit den Erkrankten nachgingen. Zeugen waren oft nur noch schwer beizubringen. Trotzdem ist man erstaunt, dass viele Arten von Rechtsakten weitergeführt wurden, wobei allerdings proportional – aus nachvollziehbaren Gründen – die Nachfrage nach Testamenten anstieg. Erstaunlich viele Frauen regelten ihre Angelegenheiten. Die Vielfalt der Situationen wird auch durch die drei Einzelanalysen unterstrichen. Der Fall der Witwe Paolina Pacca betraf die Anfechtung des Vermächtnisses ihres zweiten Ehemanns aufgrund der in der Stadt herrschenden Anarchie. Die donatio inter vivos des eximius sculptor Antonio Elia gewährt auch dank des damit verbundenen Inventars Einblick in dessen (auch künstlerische) Hinterlassenschaft. Als Ende Oktober 1522 ein Gerichtsdiener die Inbesitznahme eines „infizierten“ Hauses durch den Schuhmachermeister Pietro Brai aus Biella verfügte, hatte dies einen notariellen Akt zur Folge, der die unter der Pest erschwerten Übernahmerituale genau protokollierte. Die heutigen Leserinnen und Leser erfahren von der prekären Situation einiger jüdischer Mietsleute dieses zugewanderten Mannes, der sich wie so viele im Rom der Renaissance eine neue Existenz aufgebaut hatte und sich gerne an einen Notar aus der Heimat wandte (die Schar der Notare war bekanntermaßen in Rom international zusammengesetzt). Es folgen die Transkriptionen dieser Schriftstücke. Beschlossen wird der Bd. durch die von Giuseppe Crimi besorgte Edition der Schrift des Arztes Andrea Turini „Utile consiglio preservativo e curativo della peste“. Das allerdings nicht sehr innovative Werk wurde von dem deutschstämmigen Drucker Marcellus Silber zwischen 1522 und 1525 herausgebracht. Man kann die Durchschlagkraft der darin empfohlenen diätetischen, medizinischen und organisatorischen Maßgaben durchaus bezweifeln.
Andreas Rehberg
Heinrich Lang, Internationale Kapital- und Warenmärkte, transalpiner Handel und Herrscherfinanzen. Die Kooperation zwischen den Handelsgesellschaften der Welser und den Florentiner Kaufmannbankiers der Salviati-Gruppe, Stuttgart (Franz Steiner Verlag) 2021 (Deutsche Handelsakten des Mittelalters und der Neuzeit 24), XXVI, 757 S., ISBN 978-3-515-12836-0, €122.
Die Florentiner Salviati gehören mit den Augsburger Fuggern und Welsern zu den bedeutendsten Handels- und Bankhäusern des 16. Jh. Die vorliegende Quellenedition ist eine umfangreiche Dokumentation der Geschäftspraktiken und -beziehungen des oberitalienischen Handels- und Bankhauses der Salviati mit den Augsburger Welsern in der ersten Hälfte des 16. Jh. Während für die Fugger eine breite Überlieferung vorliegt, fehlt für die Welser ein entsprechender Nachlass. Ihre Geschichte ist bislang vorwiegend aus verstreuten externen Quellen erschlossen worden. Einige fragmentarische Reste ihrer Geschäftsbücher, die die Jahre 1496–1551 umfassen, sind vor einigen Jahren in einer aufwändigen editorischen Aufarbeitung von Peter Geffken, Mark Häberlein und Sven Schmidt herausgegeben worden. Diese Rechnungsfragmente bieten schwerpunktmäßig Aufschlüsse zu den geschäftlichen Unternehmungen der Welser im nordwestdeutschen Raum. Über ihre Handels- und Kreditgeschäfte in Lyon, einem im 16. Jh. führenden Zentrum des europäischen Handels- und Wechselverkehrs, fehlten bislang tiefergehende Informationen. In diese Lücke stößt die vorliegende gewichtige Quellenedition. Für die toskanische Händlerdynastie der Salviati existiert eine außergewöhnlich reichhaltige Überlieferung von Rechnungs- und Briefkopierbüchern. In diesem Nachlass ist Heinrich Lang auf bislang unbekannte und ungewöhnlich dichte Geschäftsbeziehungen zwischen beiden Häusern gestoßen. Anhand dieser externen Überlieferung vermag der Hg., die über 35 Jahre hinweg am Handels- und Finanzplatz Lyon andauernde geschäftliche Kooperation zu rekonstruieren. Die Zusammenarbeit der beiden Häuser beschränkte sich nicht allein auf rein geschäftliche Transaktionen, sondern schloss engere Kooperationsformen, wie Gesellschaften oder joint ventures ein. Über die Salviati-Korrespondenz konnte Lang in weiteren florentinischen Archiven, denen der Naldini del Riccio und Bartolini Salimbeni weitere Geschäftsbeziehungen der Welser aufdecken. Die vorliegende, über mehr als 700 Seiten umfassende Edition konzentriert sich auf die in den Rechnungsbüchern, den Personen- und Warenkonten, Schuld- und Messebüchern sowie den Briefkopialbüchern gefundenen Geschäftsbeziehungen der Welser mit den Salviati. Sie sind ein ausgesprochen bemerkenswertes Zeugnis der über die südfranzösischen Märkte laufenden gemeinsamen transalpinen Finanz- und Warengeschäfte und bieten einen detaillierten Einblick in die frühneuzeitliche, geradezu globale Reichweite des Fernhandels der Geschäftspartner mit außereuropäischen Waren, wie Pfeffer und Zucker, und ihre Finanzgeschäfte. Die in dem Bd. editierten Quellen gewähren zudem Hinweise auf Handelspraktiken und Netzwerke anderer Nürnberger Kaufmannsbankiers. Der vorliegende Editionsbd. beginnt mit einer ausführlichen Einleitung, in der Heinrich Lang zunächst in knapper Weise einen geschichtlichen Überblick über die Präsenz der oberitalienischen und süddeutschen Kaufleute in Südfrankreich, besonders Lyon, gibt, bevor er dann jeweils in getrennten Abschnitten die wirtschaftlichen Tätigkeiten der Salviati und der Welser beschreibt, um dann auf ihre Kooperation und die Überlieferungstradition einzugehen. In Anschluss daran bietet die Einleitung eine ausführliche Erläuterung der zeitgenössischen Buchhaltungssystematik und der spezifischen Rationalität kaufmännischen Wirtschaftens, auf deren Grundlagen die Geschäftsbeziehungen rekonstruierbar sind. In dem letzten Teil der Einleitung legt er ausführlich die Editionsrichtlinien dar. Es folgt ein ausführliches Glossar, ein Verzeichnis der zeitgenössischen Maße, Gewichte und Währungen sowie Regesten. Der Bd. schließt mit einem detaillierten Register der Personen, Handelsgesellschaften und Sachbegriffe. Es handelt sich um eine ausgesprochen aufwändige und sorgfältige Edition der Geschäftstransaktionen der Salviati mit den Welsern. Sie orientiert sich an bereits vorliegenden Richtlinien zur grafischen Darstellung von Buchhaltungskonten und erweitert sie. Auszüge aus Briefkopialbüchern werden zum Verständnis der Geschäftsvorgänge vereinzelt angefügt. Die umfangreiche Edition ist in mehrfacher Hinsicht überaus begrüßenswert. Zum einen ist sie als Ergänzung zu der vor kurzem erschienen Habilitationsschrift Heinrich Langs zu verstehen. Zum anderen gewährt sie über bedeutsame Einsichten in die Geschäfts- und Kooperationstätigkeit zweier geradezu global agierender Unternehmen hinaus tiefergehende allgemeine Aufschlüsse über Handels- und Finanzpraktiken an einem der führenden Handels- und Finanzzentren der Epoche. Darüber hinaus stellt der vorliegende Editionsbd. Anreize und Grundlagen zu weiteren Forschungen bereit.
Margrit Schulte Beerbühl
Leo Andergassen/Hanns-Paul Ties (Hg.), Reformation in Tirol und im Trentino. Kunst- und kulturhistorische Forschungen / Riforma protestante in Tirolo e in Trentino. Studi di storia dell’arte e di storia culturale, Innsbruck (Studien-Verlag) 2019 (Schlern-Schriften 373), 352 S., Abb., ISBN 978-3-7030-1093-4, € 42.
Der vorliegende Sammelbd. ist entstanden im Rahmen des Reformationsjubiläums 2017. Im Schloss Tirol wurde vom 7. bis 9. September 2017 eine internationale, zweisprachige Tagung organisiert. Es sollten älteres Wissen und neuere Erkenntnisse zur Wirkung insbesondere der lutherischen Reformation im Tirol und Trentino zusammengetragen und diskutiert werden, u. a. auch auf dem Hintergrund, dass die Reformation gerade in der Kunst von Tirol und Südtirol bedeutende Spuren hinterlassen, doch dies sich kaum in der Literatur niedergeschlagen hat, also demzufolge auch ein Forschungsdesiderat darstellt. Schön, dass gerade im Kunstbereich zahlreiche einzigartige Aufnahmen den Bd. illustrieren. Naturgemäß können im Rahmen einer Rezension nicht alle Beiträge en détail vorgestellt werden. Um so mehr sollen einige Aspekte aus denselben aufgegriffen werden, gerade auch aufgrund der Tatsache, dass der größere Kreis der Autoren keine Theologen und keine Reformationshistoriker sind – theologisch-philosophisches Detailwissen finden wir vor allem in den Beiträgen von Astrid von Schlachta (S. 39–49), Kai Bremer (S. 283–294) und Andres C. Pizzinini (S. 193–213). Demzufolge liegt – wie auch der Untertitel verrät – der Schwerpunkt des Tagungsbd. stärker auf der Kunst- und Kulturgeschichte. Freilich ist dieser interdisziplinäre Zugang zur Theologie- bzw. Reformationsgeschichte oft besonders ertragreich, wie jüngere Forschungen aus Graubünden zeigen, beispielsweise eine soeben erschienene Studie über die Hasenstube und das Antistitium von Chur (Kirchgasse 10–12), den Wohnsitz des Pfarrers zu St. Martin (Chur 2023). Bekanntlich ist die europaweite Ausbreitung – und dazu gehören Tirol und das Trentino gleichermaßen wie die Lombardei oder Venezien – des humanistisch-reformatorischen Denkens insbesondere dem aufblühenden Buchdruck des 16. Jh. zuzuschreiben. Dieses Phänomen belegt facettenreich (trotz mangelnder Quellenlage) der Beitrag von Ursula Stampfer (S. 125–139): Humanistische und protestantische Einblattdrucke, Flugschriften und Bücher sind in Tirol von Laien wie von Geistlichen bis um 1615 greifbar und rezipiert worden, obwohl zahlreiche Landesfürsten und Bischöfe eine Verbreitung und die Lektüre von „allerlay sectische und sonst verbottne Biecher“ mit verschiedenen Methoden zu unterbinden versuchten. Wie gefährlich dies war, zeigen 15 Bücher aus dem Besitz von Lienhard von Palaus († 1568), die hinter einer Holztäfelung versteckt waren und ihn eindeutig als Anhänger der Wittenberger Reformation ausweisen (S. 138 f). Ein ähnliches Phänomen wie in Ungarn oder Böhmen, dass nämlich der Adel – u. a. durch die Anschaffung eigener Schlossbibliotheken und Einrichtung von Bildungsstätten – eine Bedeutung für die Verbreitung und Rezeption humanistisch-reformatorischen Denkens hatten, zeigt sich auch in Tirol, wie der Beitrag von Heinz Noflatscher anhand des Fallbeispiels der Fuchs von Fuchsberg und der Wolkenstein illustriert (S. 15–38). Manche Angehörige dieser Adelsgeschlechter blieben zwar im Einklang mit dem Landesfürsten der Alten Kirche treu, andere wurden evangelisch oder wanderten gar aus. Noflatscher entwickelte bemerkenswerte Indikatoren, die zu seiner Erkenntnis führen: Heiratskriterien, Namensgebung der Kinder, Einflussnahme auf Pfründenbesetzung oder Migrationsabsichten (S. 28). Der faszinierende Beitrag von Max Siller geht der Frage nach, welche Reflexe der Reformation sich in den Tiroler Spielen der Frühneuzeit niedergeschlagen haben (S. 103–123). Dies ist insofern ein interessanter Zugang, da bekannterweise der Multiplikationsfaktor der mündlichen Kommunikation – bei einer sehr divergenten Lese- und Schreibfähigkeit im Europa des 16. Jh. – für die Ausbreitung reformatorischer Ansichten von kaum zu unterschätzender Bedeutung war. Im Fastnachtsspiel „Die zween Stenndt“ (1532) klingt ohne Zweifel Kritik am Ordens- und Pfarrklerus an, aber auch am höheren Klerus, sowie an den unterschiedlichen Standesregeln (Geistliche und Bauern). In einem Bereich – nämlich der Frage nach dem Verhältnis von „Menschenlehre und Gotteswort“ (S. 113–115) – ist allerdings ernsthaft zu fragen, ob es sich hier insbesondere um lutherischen Einfluss handelt? Ist diese Gegenüberstellung („Antithese“) doch ein Typicum insbesondere der Zürcher Reformation, und nicht von Luther – ist ja der Ursprung des Täufertums, welches sich auch in Tirol und im Trentino fand, gleichermaßen in Zürich zu suchen. Luthers Typicum wäre „Gesetz und Evangelium“. Nichtsdestotrotz erkennt Siller mit Recht, dass sich gerade in den Fastnachtsspielen das sogenannte „Nikodemus-Syndrom“ offenbart (S. 120 f.). Ein latenter Nikodemismus wird sowohl von der erkenntnisreichen Studie von Hanns-Paul Ties, der biblische Inschriften in profanen Räumen untersucht (S. 165–192), als auch in den kunstgeschichtlichen Beiträgen von Leo Andergassen, Giovanni Dellantonio und Domizio Cattoi (S. 215–281) bestätigt. Auf diesem Hintergrund ist es verständlich, dass die Organisatoren den Schwerpunkt der Tagung auf den Einfluss der lutherischen Reformation legten – zeichnete dieselbe sich doch durch keine so strenge Bilderfeindlichkeit aus wie die reformierte Richtung der Reformation. Bekannt geworden sind der Reformationsaltar in Wittenberg (S. 273) oder die eindrückliche Darstellung „Gesetz und Gnade“ (1529) von Lukas Cranach d. Ä. im Schloss Gotha. Den Hg. ist für diesen lesenswerten Tagungsbd., der mit einem Orts- und Personenregister schließt, ausdrücklich zu danken.
Jan-Andrea Bernhard
Václav Bůžek, Tod und Begräbnisse Ferdinands I. und seiner Söhne. Repräsentation katholischen Glaubens, politischer Macht und dynastischen Gedächtnisses bei den Habsburgern, Wien-Köln-Weimar (Böhlau) 2021, 252 S., ISBN 978-3-205-21294-2, € 40.
In jüngster Zeit hat sich die historische Forschung – gerade im Zusammenhang mit der Beschreibung der Eigenheiten der frühneuzeitlichen Fürstenhöfe und Ständeversammlungen – verstärkt Problemen der politischen Symbolik und des Zeremoniells zugewandt und deren Funktion im politischen sowie sozialen Kontext unterstrichen. Neben Krönungen haben in diesem Zusammenhang vor allem die Riten beim Tod eines Herrschers und die anschließende Bestattung eine hohe Aussagekraft. Im Zentrum der vorliegenden Studie werden die letzten Momente und die Trauerfeierlichkeiten von Kaiser Ferdinand I. und seiner Söhne, Maximilian II., Karl von Innerösterreich und Ferdinand von Tirol, untersucht, die in Prag (Veitsdom), Seckau (Abteikirche und Kathedrale, Mausoleum) bzw. Innsbruck (Hofkirche, Silberne Kapelle) ihre letzte Ruhestätte fanden. Berücksichtigt werden auch die letzten Lebensphasen und die jeweiligen Erkrankungen, die zum Tod führten, unter anthropologischen Aspekten, d. h. bezüglich der Auswirkungen auf die Regierungstätigkeit, und weniger aus medizinhistorischer Perspektive. In kurzen Exkursen werden auch die Details der Bestattungsriten der Gemahlinnen dieser vier bedeutenden Habsburger angesprochen: Anna Jagiello, Maria von Habsburg, Maria von Bayern, Philippine Welser, Anna Katharina Gonzaga. Die Untersuchung basiert auf der Grundlage von umfangreichem ungedrucktem und gedrucktem Quellenmaterial. Gerade die gelungene Zusammenführung von Material aus zahlreichen europäischen Archiven (u. a. München, Prag, Wien, Wittingau [Třeboň]) mit den publizierten Nuntiaturberichten, Tagebüchern, Zeremonienbüchern, Hofordnungen, Itineraren, Korrespondenzen etc. ergibt ein profundes Bild der Abläufe beim und nach dem Ableben der genannten Fürsten. Dem Hauptteil vorgeschaltet sind ein gelungener Abriss der habsburgischen Herrschaft in Zentraleuropa vom Ende des 15. bis ins beginnende 17. Jh. und Beobachtungen zu den Trauerfeiern für Karl V. in Brüssel (1558) und Augsburg (1559), die in vielerlei Hinsicht modellhaft auf die späteren, in dieser Publikation behandelten habsburgischen Herrscherbegräbnisse wirkten (S. 49). Bei den Trauerriten für die vier habsburgischen Regenten behandelt Bůžek neben dem zentralen Requiem (mit den Vigilien am Vorabend) und der anschließenden Beisetzung weitere, an verschiedenen Orten abgehaltene Seelenmessen und die Transferierung des Leichnams vom Sterbe- zum Beisetzungsort, die v. a. im Fall von Maximilian II. (von Regensburg nach Prag), aber auch bei Ferdinand I. (von Wien nach Prag) und Karl von Innerösterreich (von Graz nach Seckau) mit hohem logistischem Aufwand verbunden war. Besondere Aufmerksamkeit widmet der Autor zu Recht den Trauerkondukten zur Begräbniskirche unmittelbar vor der eigentlichen Trauerfeier, die hochgradig rituell und symbolisch konnotiert waren. Die Mitte des Zuges bildete der Sarg begleitet von zwölf Männern (die Zahl verweist auf die Apostel Christi). Besonders hervorgehoben waren im unmittelbaren Umfeld des verstorbenen Fürsten die Insignien der weltlichen Macht, Funeralwaffen, der Orden vom Goldenen Vlies sowie Fahnen und Wappen zur Repräsentation der Herrschaftsgebiete. Diese Elemente begegnen mehr oder weniger in allen vier hier beschriebenen Zeremonien. Grundsätzlich wurden bei diesen Prozessionen die hierarchische Ordnung des politischen Systems (mit entsprechenden Positionen für die Familienmitglieder, Vertreter des Hofes, der Regierung, des Klerus und der Stände der verschiedenen Territorien) einerseits und die Übertragung des politischen Körpers des verstorbenen Fürsten an den legitimen Nachfolger andererseits abgebildet. Einige kleinere Fehler fielen bei der Lektüre auf: Der Name des venezianischen Botschafters am Hof Maximilians II. lautet Vincenzo Tron (nicht Irone, S. 108), Maximilian I. war der Urgroßvater, nicht der Großvater Maximilians II. (S. 92) und die Grazer Jesuitenkirche St. Ägydius war zur Zeit des Todes von Erzherzog Karl von Innerösterreich noch keine Domkirche (S. 161 und passim; diesen Rang erhielt das Gotteshaus erst 1786). Bezüglich der letzten Momente im Leben von Maximilian II. und der Frage, ob der Kaiser als Katholik gestorben sei, unterliegt der Autor einer Fehlinterpretation (S. 112 f., 202), da die Stelle im Bericht des päpstlichen Nuntius vom 12. Oktober 1576 „di voler morire come havevano fatto tutti gli altri suoi progenitori da principe catholico“ (Neri, NBD III/8, S. 640) nicht die Absicht Maximilians, sondern die Aufforderung des Bischofs von Wiener Neustadt wiedergibt. Maximilian II. starb letztendlich ohne vorhergehende Beichte und Kommunion, wie u. a. aus den chiffrierten Mitteilungen des Nuntius (ebd., S. 637, vgl. auch R. Vocelka, MIÖG 84 [1976], S. 108) hervorgeht. Dies hatte insofern Bedeutung für die folgenden Bestattungsfeierlichkeiten im katholischen Ritus, da die Orthodoxie des Verstorbenen gewährleistet sein musste. Die ultimative Haltung Maximilians II. auf dem Sterbebett wurde deshalb von katholischer Seite bewusst geheim gehalten, um eine Beisetzung des Monarchen nach dem Herkommen durchzuführen. Die Studie von Bůžek stellt unabhängig von diesen Bemerkungen einen wichtigen Beitrag für die Erforschung von politischer Repräsentation und Symbolik in der Frühen Neuzeit dar, der nach der tschechischen Erstausgabe nun erfreulicherweise auch auf Deutsch vorliegt. Eine besondere Anerkennung verdient die gelungene Übersetzung von Markéta Ederová.
Alexander Koller
Hannah Marcus, Forbidden Knowledge. Medicine, Science, and Censorship in Early Modern Italy, Chicago (The University of Chicago Press) 2020, 360 pp., ISBN 978-0-226-73658-7, USD 45.
Nella sua ricca monografia, Hannah Marcus esplora un aspetto rilevante della medicina moderna, le motivazioni culturali e scientifiche che si sviluppano dalla censura, cioè nel processo di identificazione di libri proibiti e da mettere all’indice in quanto scritti da eretici o contenenti aspetti eretici, e come questo processo abbia svolto un ruolo rilevante nella costruzione della figura del medico e della medicina moderna. Come si intuisce dall’introduzione, l’asse che si sviluppa è quello tra conoscenza proibita e conoscenza utile – d’altra parte, il libro si apre con una citazione di Francesco Redi sul Paradiso dell’Eden e sui libri come oggetto proibito che sostituisce il frutto proibito dell’albero della conoscenza del bene e del male. Redi è consapevole, come i suoi contemporanei e predecessori, dell’importanza dei libri proibiti, che nell’Italia del tardo Cinquecento e del Seicento produce un complesso gioco di divieti e controllo intellettuale. Tutto ciò mostra l’evoluzione di una pratica importante nella cultura moderna, e dell’opera di quei medici che avevano lottato duramente contro il regime censorio. Il libro di Marcus dipana questi aspetti, arricchendo il quadro dei processi di censura e mostrando le complessità inerenti alla conoscenza proibita, e mettendo in luce la storia della censura ecclesiastica della scienza soprattutto medica dell’Italia moderna, che comincia ben prima di Galileo, il cui caso resta senz’altro quello più noto ai lettori, mostrando quindi un’enfasi e conseguenze diverse. Se negli ultimi due decenni gli studi sulla censura e sull’indice sono aumentati notevolmente, anche in merito all’apertura degli archivi della Inquisizione Romana, il libro di Marcus ruota attorno alla questione dell’efficacia della censura nella misura in cui ci si interroga su quali furono i prodotti culturali e scientifici della censura. Da un lato, infatti, la censura trasforma la riflessione circa l’utilità della conoscenza scientifica – si tratta di uno dei paradossi della censura stessa, quello cioè di sviluppare uno spazio per discutere e analizzare i libri proibiti e il loro contenuto. Dall’altro lato, il caso della medicina, preso in esame da Marcus, è particolarmente rilevante, proprio perché i medici difendevano strenuamente l’importanza di aver accesso a ogni tipo di libro, inclusi quelli proibiti, il che però rendeva più complesso ogni discorso sull’utilità della conoscenza nei limiti dell’ortodossia religiosa, e nel tentativo, riuscito, di negoziare un’autonomia dai limiti ecclesiastici – financo nella necessità di ri-definire il proprio ambito del sapere. In questo senso, tuttavia, secondo Marcus emerge come la censura religiosa abbia svolto un ruolo cruciale nel definire i criteri della professione e della scienza medica. In ultima istanza, questo permette di ricostruire l’area entro cui delimitare i medici cattolici, le loro strategie (intellettuali e logistiche) per attraversare indenni le maglie della censura e avere accesso al sapere proibito. Nel primo capitolo, l’autrice analizza l’Indice Paolino del 1559, e il successivo Indice Tridentino del 1564, ricostruendo i collegamenti attraverso cui i medici italiani giustificavano l’impiego dei libri proibiti, mantenendo legami intellettuali nonostante le divisioni confessionali. Nel secondo capitolo, Marcus descrive il meccanismo censorio che si sviluppa nel decennio tra il 1596 e il 1607, quando gruppi di censori, composti sia da teologi che da laici, vennero stabiliti nei diversi centri europei, mostrando le difficoltà conseguenti al loro operato. Nel terzo capitolo, l’autrice studia il caso paradigmatico di Girolamo Rossi, che divenne censore di se stesso, identificando i cambiamenti della cultura della lettura e interpretazione in Italia. Nel capitolo quinto, Marcus esamina più di 5200 richieste di licenza di lettura, mostrando l’interesse dei medici per i libri proibiti, e permettendo di individuare quali testi riscuotevano maggior attenzione e ricostruendo una geografia del sapere proibito. Nel capitolo sesto, l’autrice ricostruisce la storia materiale dei libri all’indice, presentando le diverse pratiche di alterazione del testo. Nel capitolo finale, Marcus colloca questi libri nelle librerie più importanti della penisola, a cominciare da quella Vaticana, indicando i rischi di rendere accessibili questi testi al lettore. Nell’epilogo, infine, l’autrice ripercorre il caso Galileo sull’asse dell’utilità della conoscenza, che emerge al di fuori del contesto baconiano di riforma della scienza, e che si situa nel contesto italiano della Controriforma. Il libro di Marcus è un ottimo contributo alla storia della medicina nell’Italia della prima modernità, soprattutto nella sua intersezione con la religione, censura, medicina e scienza, mostrando come il contesto religioso e medicale che si sviluppa attorno all’affaire Galileo sia tutt’altro che minoritario.
Fabrizio Baldassarri
Gennaro Cassiani, Tommaso Bozio. I saperi scientifici e i libri ‚Lincei‘, con l’edizione del Librorum index, Roma (Edizioni di Storia e Letteratura) 2022 (Uomini e dottrine 71), 311 S., ISBN 978-88-9359-692-3, € 48.
Der aus Gubbio stammende, seit 1569 in Rom ansässige Oratorianer Tommaso Bozio ist der neueren Historiographie vor allem durch sein anti-protestantisches Opus magnum „De signis Ecclesiae Dei“ (1591) wie auch aufgrund seiner gegen Macchiavelli gerichteten staatstheoretischen Schriften bekannt. Mit der Akzentuierung seines Engagements im Bereich der Naturbeobachtung – Cassiani spricht von scienza, um 1600 bevorzugte man den Begriff der storia naturale – versucht diese erste Monographie des Gelehrten, dem Bild seiner Persönlichkeit eine bislang wenig beachtete Facette hinzuzufügen. Eine solche Ausrichtung Bozios wird nicht nur in den Kommentaren zum biblischen Schöpfungsbericht deutlich, die der Oratorianer in seinen postum publizierten „Annales antiquitatum“ (1637) vorlegte, sondern auch dort, wo das Buch „De signis Ecclesiae“ die Wirksamkeit Gottes in der Heilsgeschichte mit den zivilisatorisch-technischen Errungenschaften der römisch-katholischen Kirche zu begründen sucht. Dass schon der Index von Bozios Bibliothek einen beträchtlichen Anteil naturkundlicher und technischer Werke umfasst, hatte Carlo Poni bereits 1966 betont. In die gleiche Richtung ging Giuseppe Finocchiaro, als er 2002 ein Exemplar von Johannes Ecks „De nova stella disputatio“ (1603) bekannt machte, das nicht nur eine handschriftliche Widmung des Vf. an Bozio aufweist, sondern auch zahlreiche autographe Wiederherstellungen des Originaltextes, die späteren zensorischen Eingriffen zum Opfer gefallen waren. Erstaunlicherweise gingen diese im Geiste des aristotelisch-ptolemäischen Weltbildes vorgenommenen Korrekturen auf Federico Cesi, mit Eck zusammen Gründer der römischen Accademia dei Lincei, zurück. Die Lincei genießen den Ruf, eine der fortschrittlichsten wissenschaftlichen Forschergruppen des frühneuzeitlichen Italiens zu verkörpern. Finocchiaro vermutete, dass Eck zu einem früheren Zeitpunkt die von Bozio im Rahmen seiner Kongregation geleitete Accademia Parelia besucht hatte. Cassiani bringt noch ein weiteres Dokument ins Spiel, demzufolge Cesi selbst seit 1596 gemeinsam mit Bozio der römischen Compagnia delle Stimmate di San Francesco di Assisi angehörte, woraus er schließt, dass der später so bedeutende, damals allerdings erst elfjährige Naturkundler zu dem fast fünfzigjährigen Bozio in ein Schülerverhältnis getreten sei und der Oratorianer auch die Rolle seines Beichtvaters übernommen habe. Ob die verbindende Bruderschaft tatsächlich zu so weitreichenden Spekulationen berechtigt, sei dahingestellt; jedenfalls ist die Stoßrichtung des angezeigten Buches damit vorgegeben. Es geht Cassiani darum, die meist vorausgesetzte Kluft zwischen den frühen Oratorianern und der Accademia dei Lincei zu schießen und glaubhaft zu machen, dass die Patres der Chiesa Nuova bei Ende des Cinquecento eine unübersehbare Stellung in der römischen respublica litterarum einnahmen. Die Beweisführung kreist im Folgenden um das in der Biblioteca Vallicelliana unter der Signatur P. 206 bewahrte, auf das Jahr 1610 zu datierende Inventar von Bozios Bibliothek, das der Vf. mit erstaunlicher Gelehrsamkeit analysiert. Wissensgebiete wie Philosophie, Astronomie, Botanik, Zoologie und verschiedene Sparten der Technik, vertreten durch antike und neuzeitliche Autoren, fallen dabei ins Auge. Die Wirkung der verzeichneten Schriften auf Bozios eigene Werke wird allerdings nur sporadisch greifbar. Aufschlussreich scheint überdies die Neulektüre von Bozios Buch „De signis Ecclesiae“, das Cassiani mit dem epistemologischen Zugriff von Giovanni Battista Della Portas Physiognomik vergleicht. Beiden sei es um die Deutung von Zeichen gegangen; mehr als Historiker und Theologe zu sein, habe Bozio deshalb als „Semiologe“ zu gelten. Della Porta wurde ebenfalls Mitglied der Lincei. Ihr wissenschaftliches Credo sei mit dem der Oratorianer auch insofern deckungsgleich gewesen, als beide Gruppen darauf abzielten, die Natur als Spiegel Gottes zu begreifen und vom Sichtbaren zum Transzendenten fortzuschreiten. Ob diese Tendenz in den unterschiedlichen Gelehrtenkreisen tatsächlich gleichermaßen ausgeprägt war, dürfte mancher Leser mit Skepsis bewerten. Spekulativ bleibt der Weg einzelner Bücher, den Cassiani nachzuzeichnen versucht. Immer wieder sind es bei ihm die Autoren selbst, dann aber auch Vincenzo Badalocchio und Federico Cesi, die Bozio die gewünschten wissenschaftlichen Werke überlassen haben sollen. Zu beweisen ist das nicht. Ebenso wenig lässt sich zeigen, dass die berühmte, mit Hilfe von Galileis Fernrohrbeobachtungen dargestellte Mondlandschaft unter Cigolis „Apokalyptischem Weib“ in der Cappella Paolina von S. Maria Maggiore auf Bozios Belehrung des Malers zurückging. Der von ihm für die Ausmalung der Kuppel überlieferte Programmentwurf erwähnt die entsprechenden Details jedenfalls nicht. Ohnedies sollte das intellektuelle Profil des Oratorianers nicht zu einseitig in Richtung einer vermeintlichen „Modernität“ überzeichnet werden. Natürlich weist das Verzeichnis seiner Bücher ebenso zahlreiche theologische und hagiographische Werke auf, wie denn auch die „Signa Ecclesiae“ über viele Seiten hinweg als unkritisches Exzerpt mittelalterlicher Heiligenlegenden daherkommen. Verwundern dürfte manche Leserinnen und Leser schließlich die Behauptung, Kopf des wissenschaftlichen Bemühens der Oratorianer sei ihr Gründer, Filippo Neri selbst, gewesen, womit Cassiani unter die angeblich verfehlte Vorstellung von Neris simplicitas den längst überfälligen Schlussstrich ziehen möchte. Man wäre eher bereit, dem Autor zu glauben, wenn er eine Erklärung dafür bereithielte, warum diese Seite Neris in den Zeugenaussagen seines Kanonisationsprozesses und den frühen Viten so vollständig übergangen werden konnte. Heiligkeit und Gelehrsamkeit schlossen einander nicht aus. Unbefriedigend bleibt die Edition des „Librorum index“. Anstatt jedes identifizierte Werk mit Autor und Titel zu benennen, verweist der Hg. immer wieder auf Nummern elektronischer Datenbanken, denen die gesuchten Angaben zu entnehmen sind. Benutzerfreundlich ist das nicht. Dennoch darf man dem Autor danken, dass dieses wichtige Dokument jetzt auch im Druck vorliegt. Es wird fortan ebenso zu diskutieren sein wie die Schlussfolgerungen, die Cassiani aus ihm zieht.
Ingo Herklotz
Christian Wiesner, Tridentinisches Papsttum und Trienter Residenzpflicht. Römische Konzilsrezeption zwischen Kurienzentralismus und Seelsorgsreform (1563–1680), Stuttgart 2022 (Päpste und Papsttum 49), 721 S., ISBN 978-3-7772-2124-3, € 164.
Die Beschäftigung um die Wirkung und Durchsetzung der Reformbeschlüsse des Konzils von Trient (1545–1563) erlebt in den letzten zehn Jahren eine erneute besondere Aufmerksamkeit. Besonders in der aktuellen Forschung kann durch die Aufnahme neuer methodischer Ansätze und vielfältiger Perspektiven von einem return der Diskussion um „das Konzil von Trient und seiner Rezeption“ gesprochen werden. Ein solcher perspektivischer Neuansatz liegt mit der Monografie von Christian Wiesner vor. Die vorliegende Publikation hat sich dabei zum Ziel gesetzt, exemplarisch die Rezeption der vom Konzil von Trient vorgeschriebenen „klerikal-disziplinarische Rechtsordnung der Residenzpflicht“ zu analysieren. Der Theologe versteht dabei die „Anwesenheitspflicht der Geistlichen bei ihren Kirchen und den damit einher gebrachten konkreten Vollzug ihrer seelsorgerischen Pflichten“ (S. 3). In den Blick nimmt Wiesner dabei die eigens nach dem Konzil von Trient etablierten, „hochgradig zentralistisch ausgerichtet[en]“ römischen Kongregationen mit einer universalkirchlichen Zuspitzung (S. 37), gemeint sind die Konzilskongregation und die Kongregation für die Residenzpflicht der Bischöfe. Der monografische Beitrag spannt dabei einen zeitlichen Bogen von der Mitte des 16. Jh. bis zur zweiten Hälfte des 17. Jh. Der Autor selbst begründet die Zäsur mit dem Jahr 1680 als „quellenbedingt“, und weil „das Verhältnis des Papsttums zum Konzil bzw. die kurial-betriebene Konzilsrezeption in diesem Zeitraum in einem Wandel begriffen war“ (S. 11). Zudem umfasst die Studie ein geografisches Gebiet, das sich nicht nur auf Rom oder den Kirchenstaat konzentriert, sondern die „Territorien der catholica“ (S. 10) umfasst. Die Perspektive in partibus stellt für Wiesner ein Gradmesser dar, um „Wirkung und Durchsetzung“ sowie die von der Kurie betriebene Art der Konzilsrezeption in Bezug auf die Residenzpflicht zu analysieren. Wie der Autor jedoch selbst konstatiert, nimmt die Studie eine dezidiert kurial-römische Perspektive ein (S. 10). Die für die Arbeit vom Vf. gewählte Methode folgt dabei dem Konzept der Konfessionskultur, das theologische und kanonistische Normengeschichte mit institutionengeschichtlichen Aspekten und mikropolitischen Interpretamenten verbindet. Der beschriebene methodologische Ansatz wird sodann mit der Konzilsrezeption am Beispiel der Residenzpflicht zu einer gemeinsamen Perspektive gekoppelt (S. 38). Der Autor vertritt den Standpunkt von einer posttridentinisch-kurialen Konzilsrezeption und ihrer Durchsetzung vor Ort durch die beiden untersuchten Dikasterien. Das heißt, er begreift die von Rom betriebenen Rezeptionsmaßnahmen des Konzils von Trient auf zweierlei Wegen: zum einen als „die Rezeption der Trienter Residenzpflicht durch die kurial hierfür zuständigen Organe und dann die Rezeption der römischen Lesart der Trienter Residenzpflicht in partibus“. Beide Rezeptionsprozesse definiert Wiesner als „Rezeptionsrezeption“ und stellt in diesem Sinne nach dem Tridentinum „eine Romanisierung“ (S. 36) dar. Zugleich versteht der Autor die Konzilsrezeption konfessionskulturell als eine von mehreren Rezeptionsweisen der Beschlüsse des Trienter Konzils (S. 38). Die in seiner Einleitung dargelegten vertretenen Prämissen bestätigt Wiesner sodann in den daran anschließenden drei Kapiteln: Im ersten Abschnitt „Schafe ohne Hirten?“ (S. 49–212) liefert der Vf. eine Bestandsaufnahme rund um die Residenzpflicht bis zum Abschluss des Konzils. Den „eigentlichen Hauptteil“ (S. 11) der Monografie bildet das zweite Kapitel „Römische Hirten?“ (S. 213–445). Hier widmet sich der Autor der Konzilskongregation, die sich nicht nur für die Umsetzung und Durchführung der Reformdekrete des Konzils von Trient verpflichtete, sondern das posttridentinische Papsttum hielt mit diesem Dikasterium „das entscheidende Werkzeug zur eigenen Konzilsrezeption sowie Steuerung und Kontrolle in den Händen“ (S. 11). Die Aufmerksamkeit des dritten Kapitels, „Disziplinierung der Hirten?“ (S. 447–585), richtet sich auf die unter Papst Urban VIII. Barberini 1635 errichtete Sacra Congregatio super Residentia Episcoporum. Im bearbeiteten Zeitraum ergab das empirische Material der bischöflichen Residenzpflicht mit insgesamt 1825 Fällen der Konzilskongregation (S. 267) und 3689 Fällen der Kongregation für die Residenzpflicht der Bischöfe (S. 513) das Ergebnis, dass ca. 85 % der untersuchten Fälle die italienische Halbinsel und insbesondere den zentral-meridionalen Raum betrafen. Somit stellt der Autor fest, dass die an der römischen Kurie ausgeübte Konzilsrezeption „limitiert“ war und „ihre Ansprüche kaum noch geltend machen“ (S. 594) konnte. Auf dieser Basis sieht Christian Wiesner den „universalrömische[n] Anspruch“ und „die koordinierende Rolle der beiden Kongregationen bei der Implementierung und Abwicklung der Residenzpflicht für den gesamten Episkopat …, zumindest was seine Breitenwirkung anbelangt, als gescheitert“ (S. 519) an. Im Ausklang des monografischen Werkes (S. 587–596) fasst der Autor die wichtigsten Schlussfolgerungen in vier Thesen zusammen, die im Grunde genommen seinen in der Einleitung aufgestellten Forschungsansatz bestätigen. Im Großen und Ganzen verfasste Wiesner ein solides Werk zur Frage nach den Umsetzungen der Reformbeschlüsse im Nachgang an das Konzil von Trient und leistet damit einen wichtigen Beitrag zur längst noch nicht abgeschlossenen Erforschung der beiden von ihm untersuchten Kongregationen, dem „tridentinische[n] Papsttum“ und einer „Rezeptionsrezeption“ vor Ort. Die Untersuchung basiert neben gedruckten Quellen auf ungedrucktem Material aus einer ganzen Reihe von österreichischen, italienischen und römischen bzw. vatikanischen Archiven und Bibliotheken. Abgerundet wird der monografische Beitrag durch ein umfangreiches Literaturverzeichnis (S. 613–700), ferner durch Personen- und Ortsregister (S. 701–721).
Claudia Curcuruto
Dennj Solera, La società dell’Inquisizione. Uomini, tribunali e pratiche del Sant’Uffizio romano, Roma (Carocci) 2021 (Studi Superiori 1288), 244 pp., ISBN 978-88-290-1079-0, € 25.
Già autore di un libro dedito ai familiares dell’Inquisizione romana (Sotto l’ombra della patente del Santo Officio. I ‚familiares‘ dell’Inquisizione romana fra XVI e XVII secolo, Firenze 2019), Dennj Solera estende ora le sue ricerche al „procedere quotidiano e minuto“ (p. 9), lungo l’arco di oltre tre secoli, di tutto il personale addetto alla gestione dei tribunali periferici e dei loro vicariati foranei. Si tratta di ben 47 tribunali, oltre quello di Malta, insediati nel corso degli anni nell’Italia centro settentrionale e dipendenti dal 1542 dalla Congregazione romana del Sant’Ufficio istituita da Paolo III con la Licet ab initio. Precede l’analisi della stretta collaborazione di migliaia di persone con la parte più intransigente e intollerante della Chiesa cattolica, un interessante excursus sulle rappresentazioni letterarie, artistiche e cinematografiche dell’inquisitore, fondate sul mito negativo dell’Inquisizione spagnola dalle ampie ricadute su quella romana. Necessario, quindi, illustrare il divario tra queste rappresentazioni e l’inquisitore della storia. Solera vi si accinge, munito di una straordinaria conoscenza delle fonti, basata su estesissime indagini negli archivi della Congregazione per la Dottrina della Fede, dei tribunali periferici e dei loro vicariati foranei, nonché della manualistica rivolta a tutti gli ufficiali della corte di giustizia o specificamente a singoli funzionari. L’attenta lettura dei numerosi trattati gli consente di delineare l’immagine „ideale“ dei patentati codificata in precise istruzioni sui criteri che dovevano presiedere alla loro selezione – requisiti professionali, culturali, morali e sociali – e sulla disciplina della loro condotta. Tuttavia, la documentazione relativa ai loro effettivi comportamenti illustra la profonda difformità tra norma e prassi e fa emergere lo spaccato, a dire poco sconcertante, di una „società dell’Inquisizione“ – deputata alla tutela della fede e della moralità dei fedeli – adusa a ogni sorta di soprusi, abusi, illeciti ed efferati crimini. Non rinunciava ad atti illegali nessuno dei componenti del tribunale: né il titolare o il suo vicario, né tanto meno i notai, gli avvocati fiscali o i consultori sia teologi che giurisperiti, reclutati tra uomini di fama, appartenenti a famiglie preminenti, come i Leopardi di Recanati, né i mandatari, ossia i cursori chiamati a notificare gli atti della corte di giustizia. La ripetitività quasi ossessiva dei ricorsi e delle denunce delle vittime alla Congregazione romana – che rende, sia detto per inciso, la lettura di queste pagine alquanto faticosa – e l’impunità che essa garantiva ai rei per non offuscare l’aura sacrale del tribunale, mostra la frequenza delle iniquità compiute ai danni delle popolazioni. Ma spiega anche perché il tribunale fosse „assai invidiato, per non dire odiato“, come scrisse l’inquisitore di Ancona (p. 41), nonché il moltiplicarsi di atti ostili da parte dei fedeli – dovuti, nella fase più cruenta, alle torture, sevizie, condanne al rogo e ai sequestri dei beni dei seguaci della Riforma protestante – che indussero i giudici a farsi proteggere da una guardia armata, i familiares, e Pio V a emanare, la costituzione „Contra offendentes statum, res, et personas Officij Inquisitionis haereticae pravitatis“ (10 aprile 1569) – la cui reiterazione illustra la sua inefficacia. Non è un caso che le prime concessioni di armi a uomini adibiti alla protezione degli inquisitori furono rilasciate dai governatori spagnoli per le sedi del ducato di Milano, non solo dopo la fallita introduzione della Suprema, ma anche con ogni probabilità per contenere l’espansione della familia armata dell’arcivescovo Carlo Borromeo, oggetto di un duro contenzioso con le autorità civili. È questo un aspetto che andrebbe approfondito per avere un quadro più completo dell’agire di questi uomini armati. D’altro canto, alla loro violenza rispondeva quella dei perseguitati dal Sant’Ufficio: l’inquisitore di Modena chiedeva alla Congregazione l’autorizzazione a tenere armi nella propria camera, mentre le notti dell’inquisitore di Ferrara erano turbate dal sogno ricorrente di morire per mano degli eretici. Ma, per tornare ai patentati, è indubbio che a favorire i loro reati fossero gli enormi privilegi di cui godevano: dall’esenzione dal fisco e dalla giustizia civile al porto di armi proibite – privilegi le cui conseguenze di lunga durata sulla mentalità e sui comportamenti degli italiani avrebbero meritato qualche approfondimento. Non furono i soli effetti dirompenti della pervasività della giustizia inquisitoriale. Al di là dei costanti conflitti con le autorità secolari, il radicamento dell’istituzione esigeva anche il reperimento di risorse finanziarie, cui si impegnò Pio V. Progressivamente vennero assegnati alle sedi locali pensioni e benefici ecclesiastici decurtando le entrate delle mense vescovili, creando attriti con gli ordinari diocesani e gravi danni per l’attività pastorale – come illustrato dall’importante volume di Germano Maifreda (I denari dell’inquisitore. Affari e giustizia nell’Italia moderna, Torino 2014), che sarebbe stato opportuno tenere maggiormente presente. Una scelta, questa, sufficiente ad attestare la preminenza della politica repressiva rispetto all’impegno pastorale della Chiesa e che si tradusse anche nel lento e stentato decollo dei seminari per la formazione del clero (Carlo Fantappiè, Problemi della formazione del clero in età moderna, in Istituzioni e società in Toscana nell’età moderna, a cura di Claudio Lamioni, Roma 1994, pp. 729–747). La lotta su più fronti per l’affermazione del Sant’Ufficio ebbe, quindi, conseguenze a dir poco negative che suggeriscono di mettere, ancora una volta, in discussione la categoria storiografica del disciplinamento applicata all’età post-tridentina. Il libro di Solera, ricco di stimoli per ulteriori indagini, ha anche il grande merito di gettare piena luce sugli effetti devastanti della presenza dell’Inquisizione romana in ampie zone della penisola sul piano politico, sociale, religioso e morale. E non è poco.
Gigliola Fragnito
Laura Quadri, Una fabula mystica nel Seicento italiano. Maria Maddalena de’ Pazzi e le Estasi (1609–1611), Firenze (Olschki) 2020 (Biblioteca della Rivista di Storia e Letteratura religiosa. Studi 35), XVI, 320 pp., ISBN 978-88-222-6680-4, € 38.
Alla straordinaria figura della mistica Maria Maddalena de’ Pazzi (1566–1607) – beatificata nel 1625 e canonizzata nel 1669 – sono stati dedicati importanti studi storici, letterari e teologici e il corpus dei testi della carmelitana fiorentina è stato più volte riedito (L’„Epistolario completo“, i „Quaranta giorni“ e le „Revelatione et intelligentie“ nel 2009 e nel 2016 a cura di Chiara Vasciaveo). Tra gli studi devono essere menzionati almeno quelli pionieristici di Giovanni Pozzi, che – con insuperata finezza – ne aveva analizzato il linguaggio mistico, mettendo in luce anche le particolari modalità di redazione dei testi maddaleniani e l’originale intreccio tra oralità e scrittura che ne è all’origine. La mistica fiorentina, infatti, scrisse di suo pugno solo una ventina di lettere, mentre il resto dei suoi testi è frutto di parole „dette sì ma non dettate da lei, poiché l’autrice si estraniò completamente dalla trascrizione delle parole da lei pronunciate“ in estasi (Pozzi 1984), e raccolte dalle consorelle in „presa diretta“, attraverso un meccanismo molto razionale di ascolto/registrazione/trascrizione. In ambito storico Anna Scattigno ha indagato il ruolo di de’ Pazzi nella comunità monastica di Santa Maria degli Angeli, il valore modellizzante della sua esperienza per la santità femminile fiorentina della prima età moderna, la politicità delle sue lettere profetiche, che invitavano a una „renovatione“ della Chiesa. Oggetto del volume di Quadri sono invece gli scritti agiografici del prete secolare e confessore del monastero Vincenzo Puccini che, pochi anni dopo la morte della carmelitana, fu autore di due opere agiografiche: una prima biografia, dedicata alla regina Maria de’ Medici nel 1609 („Vita della Madre Suor Maria Maddalena de’ Pazzi fiorentina“) e una seconda, corredata da un’antologia di testi (che incorpora passi delle „Estasi“, 1611). Puccini rielaborò parte del corpus di scritture custodito dalla comunità ed ebbe un ruolo decisivo nel trasformarli in una agiografia in linea con i criteri che la chiesa cattolica dei primi decenni del XVII secolo stava elaborando per definire e vagliare la santità. In questo senso la sua opera rappresenta uno dei primi esempi di „nuova agiografia“. Il suo principale obiettivo fu quello di costruire un’immagine della religiosa come „santa“ e un discorso – fabula, nella citazione di De Certeau che dà il titolo al libro – sulla sua esperienza mistica, che fosse conforme al nuovo modello di santità. Questo era fondato sull’esercizio delle virtù, sul valore delle opere e sull’ortodossia delle dottrine, in un’epoca in cui le autorità ecclesiastiche guardavano con crescente sospetto alle esperienze mistiche. Innanzi tutto l’autrice mette a fuoco la figura di Puccini e la sua cultura (cap. 1), inserendo il lavoro del prete in quel vero e proprio cantiere agiografico che fu la Firenze dei primi decenni del ’600. In quegli anni furono attivi agiografi come Lombardelli e i fratelli Razzi, il cui operato procedeva in sintonia con la politica religiosa dell’arcivescovo Alessandro Marzi Medici. Dedica quindi un capitolo (2) ai destinatari della „Vita“ del 1609. Sottolinea il rapporto di collaborazione tra l’agiografo e le monache, che già nel 1598 avevano commissionato un „Breve Ragguaglio della vita“ della consorella. Il cap. 3 propone un confronto tra la biografia di Puccini e i „manoscritti originali“. L’autrice individua le caratteristiche dell’operato di Puccini nella selezione e nell’organizzazione dei materiali e nella loro sistematizzazione finalizzata al processo di canonizzazione, formulando anche ipotesi sull’esclusione di alcuni testi (in particolare le lettere sulla Renovatione). Il rapporto di Puccini con le fonti – dato il loro carattere composito e l’autorialità incerta – rimane una questione difficile da dipanare: in questo senso una maggiore precisione circa i criteri e i metodi di lavoro adottati dall’autrice, avrebbe giovato. Lo studio si colloca infatti all’intersezione tra una prospettiva filologico-letteraria, un approccio storico e una chiave di lettura teologica: seppur stimolante come esercizio transdisciplinare, questo movimento tra piani di analisi differenti rischia talvolta di penalizzare l’approfondimento e di disorientare chi legge. Quella di Puccini fu sicuramente una strategia oculata e vincente, come l’autrice sottolinea a più riprese: tanto nella costruzione del discorso agiografico quanto nell’uso della comunicazione. Egli promosse infatti un’ampia devozione nei confronti della carmelitana e affidò a Francesco Curradi un progetto iconografico che enfatizzava i tratti ascetici dell’esperienza di Maria Maddalena, facendone un modello di „santa della Controriforma“. Puccini – questa la tesi dell’autrice – avrebbe scelto una via intermedia tra la mistica estatica e la virtù disciplinata della monaca claustrale, aprendo così la via al riconoscimento ecclesiastico della santità di Maria Maddalena e facendo di lei un modello esemplare per la comunità carmelitana. La sua costruzione agiografica, inoltre, espungeva la dimensione profetica e politica enfatizzando l’ascetismo, il dolore, la centralità della Passione. Il cap. 6 è dedicato alla biografia del 1611, edita nello stesso anno della causa di beatificazione di cui Puccini fu promotore. Il cap. 7 è incentrato sul tema del silenzio. Sebbene Puccini inserisca de’ Pazzi nella tradizione carmelitana, egli rende tuttavia evidenti anche le influenze di altri ordini religiosi, aspetto che l’autrice mette bene in luce. A partire dalle influenze domenicane (cap. 4), grazie al grande modello mistico di Caterina da Siena e al filone savonaroliano, giunto fino a Maria Maddalena attraverso confessori domenicani e poi, soprattutto, tramite la figura della terziaria Maria Bagnesi (m. 1577), il cui corpo era sepolto nella chiesa del Carmelo e alla quale de’ Pazzi riconosceva virtù taumaturgiche. Il terzo ordine religioso la cui influenza viene ritenuta decisiva è quello dei gesuiti, attraverso il ruolo di alcuni confessori e la pratica degli esercizi spirituali ignaziani. Nelle conclusioni viene affrontata la questione – ineludibile – del rapporto con un precedente illustre, oltre che recente: quello di Teresa d’Avila, il cui processo di canonizzazione (1622) segnò un momento decisivo nella definizione dei nuovi modelli agiografici. L’autrice propone un confronto tematico, basato su tratti distintivi dell’esperienza delle due mistiche, laddove un’analisi ancorata ai contesti storici e/o alle specificità delle fonti avrebbe garantito – a parere di chi scrive – un fondamento più solido.
Adelisa Malena
Le vite, e detti de padri, e fratelli della Congregatione dell’Oratorio da S. Filippo Neri fondata nella Chiesa di S. Maria in Vallicella raccolti da Paolo Aringhi Prete della detta Congregatione e da Altri, edito e commentato da Maria Teresa Bonadonna Russo con la collaborazione di Renato De Caprio, vol. I–II, Roma (Edizioni Oratoriane) 2018, XVII, 391 S., ISBN 978-88-901-8126-9; 2020, XIII, 689 S., ISBN 978-88-901812-8-3, ohne Preis.
Die von Filippo Neri (1515–1595) begründete Kongregation der Oratorianer zählt zu den wirkungsreichsten Instrumenten der religiösen Erneuerung im nachtridentinischen Rom. Neben Neris schon 1958–1963 von Giovanni Incisa della Rocchetta und Nello Vian publizierten Kanonisationsakten stellen Paolo Aringhis (1600?–1676) seit der Mitte des 17. Jh. entstandene Viten der Kongregationsväter die für die Frühzeit der Glaubensgemeinschaft wichtigste, von den Spezialisten seit langem ausgewertete Quelle dar. Aus den 78 bis auf Aringhis eigene Zeit führenden Väterbiographien, die in den Hss. O. 58–60 der römischen Biblioteca Vallicelliana bewahrt werden, und denen dort noch die Lebensskizzen einiger Laienbrüder beigefügt sind, konnte die jüngst verstorbene Maria Teresa Bonadonna Russo freilich nur eine Auswahl vorlegen. Sie umfasst neben Neris eigener Vita die der bedeutendsten kirchlichen Würdenträger, welche aus den ersten Jahrzehnten des Oratoriums hervorgingen; angesprochen sind der Bischof von Saluzzo Giovenale Ancina sowie die Kardinäle Cesare Baronio, Francesco Maria Tarugi und Orazio Giustiniani. Hinzu kommen die Lebensbeschreibungen von zwanzig weiteren Vätern, die Neri noch selbst in die Gemeinschaft aufgenommen hatte. Mögen die Kenner der Kongregation dieser Edition vielleicht nicht allzu viel entnehmen, was ihnen nicht schon aus Antonio Cistellinis monumentaler Biographie „San Filippo Neri“ von 1989 bekannt gewesen wäre, so vermittelt Aringhi doch Einblick in das Selbstverständnis der Institution, wie es sich um die Mitte des 17. Jh. darstellte, denn was vor dem Auge des Lesers evoziert werden soll, ist fraglos das Bild einer Gemeinschaft von Heiligen. Topisch zählen nahezu alle Viten die „filippinischen“ Tugenden auf: Gehorsam und Demut, die bedingungslose, in Predigt und Beichtabnahme sich bekundende Seelsorge, das selbstlose Aufgehen in den Werken der Barmherzigkeit und die zumeist unüberwindbare Distanz zu sämtlichen Ämtern und Würden der kirchlichen Hierarchie. Neben dem dono delle lacrime verfügten einzelne Väter über die Gabe, in die occulti del cuore ihres jeweiligen Gegenübers schauen zu können; sie besaßen Heilkräfte und prophetische Veranlagungen. Ansätze zur kultischen Verehrung werden folgerichtig für nicht wenige der Kongregationsmitglieder nach ihrem Tode bezeugt. Insbesondere die überlange Vita des Giovanni Matteo Ancina liest sich wie die Materialsammlung für einen zukünftigen Kanonisationsprozess. Neri selbst und die erbarmungslose Neigung, mit der er seine Anhänger immer wieder zur tiefsten Selbsterniedrigung nötigte, sind in diesen biographischen Aufzeichnungen allgegenwärtig. Unverkennbar bleibt überdies eine gewisse Misogynie, die in Teilen der so jungfräulichen Kongregation herrschte. Aringhis Stärke liegt in seiner Zusammenstellung der memorie domestiche, der im Hause bei S. Maria in Vallicella verfügbaren schriftlichen Unterlagen über die älteren Väter, aber auch der Erinnerungen und mündlichen Überlieferungen, die innerhalb der Gemeinschaft noch lebendig waren. Der historiographische Blick für größere Zusammenhänge tritt dagegen zurück. Die Legationsreisen, an denen einzelne Oratorianer – vorgeblich gegen ihren Willen, aber dann doch mit großem Erfolg – teilnahmen (Spanien, Portugal und Frankreich 1571–1572, Polen 1586–1587, Ferrara 1598), finden zwar Erwähnung, bleiben in ihrer politischen Dimension jedoch völlig unbestimmt. Nur oberflächlich werden überdies die epochalen intellektuellen Leistungen des Oratoriums wie Baronios „Annales ecclesiastici“, dessen gerade in Spanien Ärger provozierende „Monarchia sicula“ oder Tommaso Bozios „De signis ecclesiae“ charakterisiert. Wie sehr die Kongregation über die eigenen Reihen hinaus Einfluss zu nehmen vermochte, erahnt man dort, wo Aringhi ihr und einzelnen der Mitglieder das Wohlwollen der zeitgenössischen Päpste attestiert. Aufhorchen lässt zudem die Prominenz derer, die sich unter die Obhut von Beichtvätern aus Neris Kreis begaben. Angehörige der Crescenzi, der Aldobrandini, der Barberini sowie weiterer Adels- und Papstfamilien zählten dazu. Dank ihrer jahrzehntelangen Beschäftigung mit Neris Reformbewegung gelingt es M. T. Bonadonna Russo, die vorgelegten Viten unter Berücksichtigung der publizierten wie auch der handschriftlichen Überlieferung erschöpfend zu kommentieren, so dass ihre Fußnoten mithin mehr an neuen Einsichten vermitteln als die edierten Quellentexte selbst. Für diesen gewaltigen Arbeitsaufwand darf die Forschung ihr äußerst dankbar sein. Es bleibt zu hoffen, dass die Edition von einem anderen Hg. fortgesetzt werden kann.
Ingo Herklotz
Tobias C. Weißmann, Kunst, Klang, Musik. Die Festkultur der europäischen Mächte im barocken Rom, München (Hirmer) 2021 (Römische Studien der Bibliotheca Hertziana 50), 332 S., Abb., ISBN 978-3-7774-3896-2, € 98.
Der im Hirmer-Verlag in München erschienene, reich illustrierte Prachtbd. von Tobias C. Weißmann nimmt unter dem knappen Übertitel „Kunst, Klang, Musik“ die Festkultur der europäischen Mächte im barocken Rom vom 17. bis zur Mitte des 18. Jh. ins Visier. Der Autor konzentriert sich dabei auf die zahlreichen Feste, die von auswärtigen Diplomaten, Kardinalprotektoren und anderen Vertretern der in Rom befindlichen „nationalen“ Fraktionen aus Anlass von dynastischen, politischen oder militärischen Ereignissen veranstaltet wurden. Ausgehend von der Frage, ob all diese Feste und die dabei errichteten ephemeren Apparate tatsächlich so spektakulär waren, wie sie auf den zeitgenössischen Gemälden und Kupferstichen, in Festbeschreibungen und Zeitungsartikeln dargestellt wurden, widmet sich der Autor aus einer gerade für dieses Thema besonders fruchtbaren interdisziplinären Perspektive von Kunst- und Kulturgeschichte, Musikwissenschaft und Sound Studies, Intermedialitätsforschung, Sozial- und Kommunikationswissenschaft dem komplexen Zusammenspiel der Künste bei der Gestaltung der Festinszenierungen in den Botschafterpalästen, Nationalkirchen und im urbanen Raum der Ewigen Stadt. Der Autor konnte bei seiner Untersuchung zwar auf zahlreiche, in den letzten beiden Jahrzehnten erschienene Publikationen zur römischen Festkultur und Musikgeschichte zurückgreifen, die er in seinem umfangreichen Literaturverzeichnis auch alle nennt, doch fehlte bislang eine profunde Zusammenschau und Analyse der Festveranstaltungen der in Rom ansässigen Diplomaten in deutscher Sprache. Ausgangspunkt der Untersuchung bildeten die zum jeweiligen Anlass publizierten Printmedien (Festbeschreibungen, Druckgrafiken und Libretti), aber auch zahlreiche neu erschlossene handschriftliche Quellen (Korrespondenzen, Diarien und Rechnungsbücher). Durch die kritische Analyse und Gegenüberstellung der offiziellen Festpublizistik mit anderen Quellen wurde ein neuer, differenzierter Blick auf die römische Festkultur möglich. Das Buch ist in vier große Kapitel gegliedert: Im ersten Teil wird die soziale, politische und kulturelle Struktur des barocken Rom als „Stadt der ‚Nationen‘, Diplomaten und Feste“ vorgestellt, gefolgt von einem Überblick über die wichtigsten sakralen und profanen Festanlässe sowie über die verschiedenen Akteure und Institutionen aus dem spanischen, französischen und deutschen Kulturraum, die für die Veranstaltung der Feste verantwortlich zeichneten. Im zweiten Kapitel werden die vielfältigen optischen und akustischen Elemente in den drei im Titel genannten Kategorien „Kunst, Klang und Musik“ systematisiert und in ihren jeweils spezifischen materiellen und personellen Aspekten analysiert, wobei unter „Kunst“ die visuellen, ephemeren Künste mit ihren Festdekorationen und -apparaten, Illuminationen und Feuerwerken verstanden werden, während mit „Klang“ sämtliche Geräusche – vom Glockengeläut über Trompeten- und Trommelspiel, Böller- und Salutschüsse bis hin zu Feuerwerkslärm – gemeint sind, im Unterschied zur „Musik“ als komponierter oder improvisierter Tonkunst, zu der Kirchenmusik ebenso gehörte wie die Huldigungskompositionen der Kantaten und Serenaten. In diesem Kapitel wird auch der Transformation des Stadtbildes und -klanges besonderes Augenmerk geschenkt, ein Thema, das in der Folge noch weiter vertieft wird. Im dritten Teil werden die visuellen und auditiven Medien der Botschafterfeste in ihrem intra- und intermedialen Zusammenspiel analysiert, wobei Weißmann auch neuere theoretische Ansätze und Begriffe aus der Theater- und Kulturwissenschaft wie Inszenierung, Performanz und Theatralität gewinnbringend auf seinen Gegenstand anzuwenden versteht. In diesem Kapitel liegt ein besonderer Fokus auf den Feuerwerksspektakeln und der Aufführung von Kantaten und Serenaten auf Festarchitekturen, die als synästhetische und ikonografische Einheiten dargestellt werden. Im abschließenden vierten Teil wird die Festkultur der europäischen Mächte als Kommunikationsraum interpretiert, in dem die Akteure der „nationalen“ Fraktionen in vielerlei Hinsicht interagierten: Während die Veranstalter ihre Feste nutzten, um symbolisch verschlüsselte oder auch konkret formulierte politische Botschaften zu vermitteln und das Publikum durch sinnliche Überwältigungsstrategien von der Macht und Größe der gefeierten Monarchen zu überzeugen, konnten ihre Kontrahenten auf der politischen Bühne auch gegenteilige Positionen beziehen, indem sie die Festveranstaltungen sabotierten, persiflierten oder überhaupt verhinderten. Dabei erreichten die Botschafterfeste durch die mediale Vermittlung mit Hilfe der Printmedien nicht nur das Publikum in Rom, sondern auch eine weit größere europäische Öffentlichkeit; damit prägten sie das Bild Roms als „gran teatro del mondo“ – eine Bühne, welche auch die Repräsentanten der katholischen Fürsten im 17. und beginnenden 18. Jh. für ihre internationale Außendarstellung zu nutzen wussten.
Andrea Sommer-Mathis
Don Fader, Dance, and Franco-Italian Cultural Exchange c. 1700. Michel Pignolet de Montéclair and the Prince de Vaudémont, Rochester (Boydell & Brewer Ltd) 2021, 362 pp., ISBN 978-1-78327-628-8, GBP 65.
Don Fader’s „Dance, and Franco-Italian Cultural Exchange“ offers a richly sourced patronage study that centers on the Vaudémont period of Milan. Drawing on the archive of Charles-Henri de Lorraine, prince de Vaudémont, who governed Milan under Spanish rule from 1698 to 1706, Don Fader’s book details the prince’s sponsorship of cosmopolitan repertories, then broadens to discuss French-Italian exchange in what Don Fader calls the „Northern Italian Nexus“. This book is a must-read for students and scholars of early modern musical cosmopolitanism. Following an introduction, in which Don Fader provides insights regarding „French“ and „Italian“ styles, the book unfolds in four chapters. The first two chapters focus most directly on Vaudémont’s patronage in Milan; chapter three broadens to the „nexus“ of northern Italian cities; and chapter four centers on the violinist, composer, and pedagogue Michel Pignolet de Montéclair, whose international experiences earned him a place in Vaudémont’s court. In chapter one, Don Fader demonstrates masterful handling of primary sources. This chapter extends a series of stepping stones, starting with a biography of Vaudémont, then continuing with a summary of the Vaudémont papers, a summary of the patron’s exposure to Italian repertories, a discussion of French fascination with Italian culture, and a biography of Montéclair. The chapter ends with a detailing of the process by which Vaudémont assembled his musicians. Each subsection is based on findings from the Vaudémont collection. Vaudémont, like many princes, used patronage as a representational strategy. His situation, as a French governor, in an Italian city, under Spanish rule, was tenuous – a fact that helps explain his interests in creating a cosmopolitan court. Chapter two establishes Milan, under Vaudémont’s authority, as a center of cultural exchange. As Don Fader demonstrates, the absence of a permanent opera ensemble resulted in Vaudémont’s continuing to seek talent among neighboring principalities. He expressed personal tastes in hiring Parisian and German instrumentalists. By far the most robust installment of the volume, chapter three explores French-Italian collaborations in the „Northern Italian Nexus“. The chapter proceeds in four parts. Part I focuses on the integration of French dance in northern Italy. Part II studies Turin, a city that „saw a constant presence of French dance music and musicians“, as a model for other northern Italian centers. Part III summarizes Milanese opera productions of the Vaudémont period; and Part IV discusses influences of the „French style“. In summarizing this chapter, Don Fader notes the „unique combination of influences“: French musicians and dancers, and Italian composers and librettists, each of whom contributed their own ideas of what „French“ and „Italian“ artistry might mean. With the final chapter, Don Fader both narrows and broadens his scope again, returning to the artist Montéclair and studying his contributions to a réunion des goûts (mixture of styles) across the span of his career. Though historically a peripheral figure, Don Fader mounts a compelling argument for Montéclair’s inclusion in wider discourse. The multi-talented artist engaged in a wide array of musical activities, including as a performer, collector and editor, pedagogue, composer, and critic. In Don Fader’s words, he represented a „new breed of [public] musician“ whose career was not court dependent. Throughout the volume, Don Fader demonstrates a skilled and rigorous approach to identifying, interpreting, and weaving primary evidence into a meaningful conversation. His excellent use of primary sources stands in parallel to the remarkable contribution of this book’s contents. The initial focus on music of the Vaudémont period – less than a decade in length – is swiftly entangled with an international context and with far-reaching questions about the „self“ versus the „other“. At several points, the author states the need for further investigation, noting the lack of substantive studies on French musical influence in northern Italy. A much broader augmentation could consider how global oceanic travel informed and impelled discourse on selfhood and otherness at this time. Though a highly focused study, Don Fader invites the non-specialist to take part. The book begins with reference to familiar figures (Mozart, Haydn), and the author uses opportunities to contextualize by mentioning well known events. I suggest the diplomatic transcriptions of scores could be annotated to facilitate integrated reading. In addition to holding value for students and scholars of French and Italian traditions, this is, again, a worthwhile read for scholars of early modern cosmopolitanism; and for university instructors, it provides substance for conversations on opera c. 1700 outside the epicenters of Paris, Venice, and Rome.
Megan Kelly Eagen-Jones
Gian Paolo Romagnani, „Religionari“. Protestanti e valdesi nel Piemonte del Settecento, Torino (Claudiana) 2021 (Studi storici), 309 pp., ISBN 978-88-6898-276-8, € 34.
Il lavoro di Gian Paolo Romagnani indaga il mondo valdese e i suoi contatti con l’Europa protestante del Settecento, dipanandolo dalle nebbie di un’età all’apparenza „senza storia“ (p. 9). Il XVIII secolo non vide massacri né martiri e per questo è stato tralasciato dalla storiografia valdese. L’autore muove da questa considerazione per andare molto oltre, fornendo un importante contributo alla comprensione di quel mondo attraverso l’analisi e la ricostruzione dei contesti politici, religiosi, sociali e culturali che attraversano l’Europa del tempo. Il lavoro si apre con un’analisi volta ad inquadrare lo stato dell’arte storiografico sulle vicende valdesi tra Sette e Ottocento. Da fine Ottocento si è consolidato il mito del petit peuple valdese, perseguitato e ghettizzato nelle alpi pinerolesi, martirizzato e sempre in tensione tra feroci persecuzioni e resistenza armata. Se questa interpretazione è una chiave di lettura adeguata alla narrazione dei secoli XVI–XVII, risulta difficoltoso applicarla egualmente al XVIII secolo. In sostanza, cosa significa essere minoranza religiosa nel Settecento? Ciò che emerge da questo studio è una vivace analisi che racconta dell’„eccezionalità“ delle valli valdesi e dei suoi abitanti riformati (pp. 34 sg.). Si tratta di luoghi montani non isolati, a contatto con l’Europa protestante, vissuti da una popolazione altamente alfabetizzata in grado di muoversi tra le norme imposte dai poteri centrali di stampo cattolico. L’autore affronta, a partire da alcuni casi di studio, la vivacità di questo secolo che vede sorgere una nuova élite culturale ed economica. Una novità per il mondo valdese è quella del consolidamento di alcune famiglie che, facendo leva sul prestigio dei propri membri, si muovono per occupare i luoghi di potere del mondo cui appartengono. La dimensione confessionale appare sempre più sfocata rispetto all’avanzare di nuovi costumi: la ricchezza diviene un fattore di divisione e segna un secolo che sta velocemente mutando; una maggiore libertà sessuale si affaccia nelle vite dei valdesi; una nuova considerazione dei rapporti di forza entra prepotentemente nella sfera famigliare e comunitaria. In particolare, uno snodo essenziale per la comprensione del Settecento valdese è il racconto della vita quotidiana delle comunità attraverso gli atti dei Sinodi. Romagnani esamina dall’interno la rigida morale dei ministri di culto e il „deplorevole vizio“ che, a loro avviso, si stava diffondendo ovunque (p. 75). Ciò che emerge è proprio la difficoltà, da parte dei pastori, di comprendere il processo di secolarizzazione che coinvolge l’Europa e – gioco forza – la società valdese. Questo mutamento lo si intende anche nei rapporti con la monarchia sabauda, e in particolare nella gestione della presenza riformata entro i suoi confini. Se da una parte i Savoia si mostrano come garanti di Santa Romana Chiesa sul territorio, dall’altra Torino è di fatto un crogiolo di presenze protestanti. È il caso della colonia di ginevrini – come venivano indicati i banchieri e commercianti protestanti – che si legò inscindibilmente con i progetti di rinnovamento commerciale del regno. Comprendere questo significa dare valore ad un ulteriore elemento di novità del Settecento valdese: la nascita di una intraprendente classe imprenditoriale. Romagnani prosegue affrontando un tema rilevante per la storia valdese: il suo rapporto con l’Illuminismo. Ciò che l’autore mostra è come la cultura illuministica penetri in profondità all’interno delle valli e, in particolare, tra i ministri di culto abituati ad avere contatti fuori dai propri confini. Ginevra, Losanna, Basilea e i Paesi Bassi sono i loro luoghi di riferimento, nei quali si formano e incontrano molti degli intellettuali del tempo. Tornando nelle valli, portano con sé quella poliedrica cultura fatta di enciclopedismo, scienza sperimentale, razionalismo, teofilantropia, simpatie filo-rivoluzionarie. I casi di studio che Romagnani ricostruisce ambiscono proprio a fornire il primo quadro di un lavoro ancora, per la maggior parte, da affrontare. L’analisi del binomio valdesi-età napoleonica, tema molto caro all’autore, ne è una logica conseguenza. L’occasione è quella di osservare come l’amministrazione francese del Piemonte cambiò il volto delle valli, da un punto di vista politico e religioso. La lente con cui interpretare questo mutamento risiede nella ricostruzione della carriera del moderatore Pierre Geymet, nominato da Napoleone sottoprefetto della città di Pinerolo e delle valli. Fu il primo valdese ad accedere alle più alte responsabilità politiche del tempo, collocandosi in quel radicale, seppur breve, vento di cambiamento. Di quella simpatia che i valdesi provarono verso gli anni di dominazione francese, Romagnani offre al lettore un affascinante ms.: si tratta del canzoniere di Jean-Jacques Lausarot, segretario valdese dell’amministrazione comunale del piccolo villaggio di Bobbio Pellice dal 1806, nonché régent – il maestro – dal 1811. Da questa fonte, i musicologi potranno trarne preziose informazioni. Gli storici che si occupano di storia valdese non possono che rimanerne affascinati: trattasi, in parte, „di canzoni della rivoluzione francese adattate per l’occasione alla realtà delle Valli valdesi“(p. 223). Dalla vitalità di questi componimenti, Romagnani ha messo in scena uno spettacolo musicale nel settembre 2022, mostrando come le fonti non solo parlino – se adeguatamente interrogate – ma cantino, e possano soprattutto coinvolgere anche i non addetti ai lavori. Un’appendice molto ampia conclude il lavoro. È un vero e proprio strumento per coloro che vorranno occuparsi nel futuro di „religionari“ in Piemonte. Sono dati statistici relativi a censimenti settecenteschi conservati negli archivi piemontesi; vi è l’elenco dei diplomatici e degli alunni britannici alla Reale Accademia di Torino; e infine sono enumerati i pastori, moderatori e componenti della Tavola valdese tra il 1700 e il 1801. L’autore mette a disposizione, organizzandola, questa mole di documentazione e non si può che apprezzarne l’intento. Il lavoro di Romagnani è, come lo stesso afferma, „il punto di arrivo (e di partenza) di una ricerca ventennale“ (p. 11). È un’opera che, in effetti, non intende semplicemente fare il punto sugli studi che l’autore ha condotto sopra il Settecento valdese e protestante italiano. È soprattutto un lavoro ricco di appassionanti piste di ricerca ancora da sondare.
Marco Bettassa
Tatiana Korneeva (Ed.), Mapping Artistic Networks. Eighteenth-Century Italian Theatre and Opera Across Europe, Turnhout (Brepols) 2022 (Music History and Performance Practices in Context 5), 360 S., Abb., ISBN 978-2-503-58495-9, € 125.
„Mapping Artistic Networks“ – das ist laut Titel die Zielsetzung dieses von Tatiana Korneeva herausgegebenen Sammelbd., der aus überarbeiteten und erweiterten Vorträgen einer Konferenz aus dem Jahr 2019 kompiliert wurde und sich mit italienischen Theaternetzwerken im 18. Jh. beschäftigt. Was unter dem im griffigen Titel enthaltenen „mapping“ verstanden wird, bleibt die Hg. in ihrer Einleitung allerdings schuldig: So verwenden die Beiträge in diesem Sammelbd. weder informationstechnologische noch kartographische Methoden, um die Netzwerke des italienischen Theater- und Opernbetriebs zu beleuchten. Auch eine Untersuchung im Sinne der geschichtswissenschaftlichen „mental maps“ wird in der Einleitung Tatiana Korneevas nicht thematisiert. Die Nichterfüllung der durch den Haupttitel kreierten Erwartungshaltung soll aber den Beitrag nicht schmälern, den dieses Buch zur Forschung des italienischen Theaterbetriebs im 18. Jh. leistet. So nutzen die elf Beitragenden aus den Disziplinen Theater-, Literatur-, und Musikwissenschaft, sowie Kunst- und Architekturgeschichte bei der Annäherung an Fragen bezüglich der Bedeutung, Funktionsweise und Auswirkungen von italienischen Theaternetzwerken eine klassische historisch-quellenkritische Methodik und stellen Bezüge zur historischen Netzwerkforschung her. Das propagierte Ziel des Bd. ist „shift the attention from the theatrical canon of well-known works and composers to the careers and activities of Italian performers and theatre practitioners as central agents of cultural transfer“ (S. 13). Tatsächlich gelingt es den einzelnen Aufsätzen, unterschiedlich umfassende Perspektiven auf das Thema zu entwickeln und vor allem den bislang nur rudimentär betrachteten Bereich italienischer Netzwerke in Osteuropa und Russland miteinzubeziehen. Unberücksichtigt bleibt in diesem Bd. der skandinavische Raum, etwas, dass die Hg. allerdings als Desiderat erkennt und weshalb sie auf die einschlägige Literatur verweist. Der Sammelbd. gliedert sich in drei Teile, die einen unterschiedlichen methodischen und teilweise auch disziplinären Fokus besitzen. Im ersten Teil steht die Frage nach Akteuren und deren Netzwerken im Bereich der italienischen Oper im Vordergrund und wird hier einerseits in unterschiedlichen lokalen Kontexten (wie beispielsweise in Marc Niubos Beitrag über Opernproduktionen in Prag, welcher den kontinuierlichen Austausch zwischen mobilen Truppen und vermeintlich stabilen Ensembles veranschaulicht), oder Anna Parkitnas Beitrag über den maßgeblichen politischen Einfluss des Regenten auf die Opernaufführungen in Warschau beleuchtet; andererseits thematisieren die umfassenden Beiträge von Melania Bucciarelli (anhand von Senesinos Engagement in London) und Gesa zur Nieden (anhand der Sängerfamilie Masi) bewusst komplexe transnationale Netzwerkaktivitäten – und deren Auswirkungen auf Karrierestrategien und Aufführungspraxis sowie Werkgestalt. Der zweite Teil von „Mapping Artistic Networks“ widmet sich dem Einfluss italienischer Theater- und Opernnetzwerke in Russland. Der Beitrag von Tatiana Korneeva präsentiert St. Petersburg als wichtige Karrierestation für operisti und gibt Einblicke in die Engagementpraxis des russischen Hofs und Rezeption italienischer Pasticci durch das St. Petersburger Publikum. Aus einer kunstwissenschaftlichen Sicht thematisieren die Beiträge von Nadezhda Chamina die wenig bekannten Bühnenbilder des italienischen Architekten Quarenghi in St. Petersburg und von Anna Korndorf die Rolle von italienischen Bühnenbildnern in Aufführungen von Kompositionen von Katharina der Großen. Die Rolle der opera seria als Vehikel für die Vermittlung politischer Ideologien demonstriert Bella Brover-Lubovsky. Der dritte Teil legt den Fokus auf Transfers von italienischer Oper außerhalb Italiens auf der Ebene der Libretti: Javier Gutiérrez Carou analysiert mittels quantitativer Methoden Metastasios Adaptionen seines Semiramide-Librettos auf Anraten Farinellis für eine Aufführung in Madrid. Neue Einblicke in die Libretti von Goldoni für die sächsisch-polnischen Hoftheater und deren Verhältnis zur Tradition der commedia dell’arte bietet Piermario Vescovos Beitrag, wogegen Massimo Ciavolella auf Giacomo Casanovas wenig beachtete Tätigkeit als Librettist und Übersetzer hinweist. Sämtlichen Kapiteln in diesem Bd. ist gemein, dass sie das bei weitem noch nicht erschöpfte Forschungspotential deutlich machen, das in der Untersuchung von Netzwerken im Bereich der italienischen Oper im 18. Jh. liegt. Durch die Publikation in englischer Sprache ist der Sammelbd. einem breiteren Adressatenkreis zugänglich und somit geeignet, den wissenschaftlichen Diskurs auf einer transnationalen Ebene zu befruchten. Die in „Mapping Artistic Networks“ versammelten Einzelstudien präsentieren durchaus reizvolle Aspekte, die aber für sich allerdings disziplinär isoliert bleiben. Dennoch wurde mit diesem Sammelbd. ein erster wichtiger Schritt geleistet, der zahlreiche Ausgangspunkte für zukünftige interdisziplinäre Forschungsaktivitäten bietet.
Ingeborg Zechner
Anthony R. DelDonna, Instrumental Music in Late Eighteenth-Century Naples. Politics, Patronage and Artistic Culture, Cambridge (Cambridge University Press) 2021, 322 pp., ISBN 978-1-108-47761-1, GBP 75.
Non mancano né una (buona) idea chiave né una prospettiva unitaria e qualificante allo studio con cui Anthony R. DelDonna contribuisce alla ricerca, che non accenna a dar segni di stanchezza, attorno alla civiltà musicale napoletana. La singolarità del nuovo apporto consiste nella scelta d’un oggetto apparentemente marginale come la musica strumentale. Che a Napoli se ne praticasse, e di qualità, nella vasta arcata tra Pietro Marchitelli e Saverio Mercadante, non è certo un mistero; ma focalizzarvi l’attenzione distogliendo lo sguardo dallo splendore abbacinante della musica vocale (da teatro, da chiesa, da camera) equivale al coraggio di trascurare la statua per dedicarsi alle finezze di un piedistallo, negletto quanto meritevole di attenzione. Non meno focalizzata è la prospettiva: se prende in considerazione una stagione specifica (il „late eighteenth century“), come l’autore ammette candidamente, la ricerca muove soprattutto dalla fascinazione per il mecenatismo attuato dalla regina Maria Carolina, „powerful cultural broker“ (p. 117), di cui si citano i diari, si indagano collezionismo e committenza, si segue la pratica della tastiera coltivata in proprio e dalle figlie. Sottotraccia si scorge un fil rouge intergenerazionale d’una dinastia musicalissima, che dai consigli impartiti alle nozze da parte della madre Maria Teresa, imperatrice e regina, conduce alla pratica musicale della figlia, Maria Teresa come la nonna (dobbiamo a lei il nomignolo della „Theresienmesse“ di Haydn), e come la nonna imperatrice. Da Vienna a Napoli e ritorno, insomma. A giudizio di chi scrive, uno dei meriti più cospicui di questo studio andrà individuato nella dimostrazione circostanziata dei rapporti strettissimi che, mezzo secolo dopo la fine del dominio austriaco su Napoli, e dunque in piena stagione borbonica, legano la città di Partenope a Vienna, e più in generale alla cultura tedesca. Le fonti molteplici addotte da DelDonna mostrano infatti l’importazione massiccia di musica e musicisti da Austria e Germania. Eloquente è già la presenza cospicua di sinfonie di Haydn nella biblioteca reale; ancor più quella in carne ed ossa di Adalbert Gyrowetz, Norbert Hadrava, Ignaz Pleyel, Joseph Schuster, discussa in connessione con la coltivazione di generi tipici del Classicismo viennese (il quartetto e la sinfonia) nella Napoli degli anni Ottanta del Settecento, sullo sfondo d’un pensiero estetico esplicitato dalle lettere di Hadrava. Specifica della piazza napoletana, rispetto a Vienna, ma anche a Parigi o Londra, è la mancanza praticamente totale di sedi pubbliche che potessero ospitare esecuzioni di musica strumentale. La Corte, gli ambienti aristocratici, le rappresentanze diplomatiche (oltre alla pratica borghese privata) finiscono così per rappresentare gli interlocutori obbligati e decisivi, che proiettano questa produzione musicale in un contesto dal gusto raffinato. In questo senso, argomenta DelDonna, di particolare rilievo appare il ruolo dei sovrani, „arbiters of taste“ (p. 275) nell’orientare le preferenze dei sudditi, specie in ambito strumentale: Maria Carolina, ma anche Ferdinando, appassionato di lira organizzata, come ben sanno gli studiosi di Haydn. Di questa produzione – con particolare attenzione a sonate e concerti delle „tre corone“: Paisiello, Cimarosa e l’oggi negletto Pietro Alessandro Guglielmi – DelDonna analizza un buon numero di composizioni, operazione rara e perciò assai benvenuta per il repertorio strumentale nato alle falde del Vesuvio. Certo, da quando si è saldamente affermato il fondamentale „Music in the Galant Style“ di Robert Gjerdingen, faro ermeneutico di questo studio e mallevadore dello stesso, di cui lo stesso Gjerdingen ha offerto un’attenta lettura (p. XV), si fatica a sottrarsi all’impressione d’una giocosa caccia agli „schemata“, che viene quasi a prevalere rispetto al perseguimento degli esiti critici. In questo caso: l’individuazione d’uno stile specificamente napoletano. Attrezzato con una conoscenza assai solida e aggiornata dell’ormai cospicua bibliografia specifica, DelDonna ne fa buon uso, ad esempio restituendo un quadro ben argomentato della macchina straordinaria della formazione del „musico napolitano“ attraverso i quattro conservatori, di cui mette in evidenza il delicato funzionamento della gestione economica e soprattutto il rilievo assoluto di un sistema pedagogico originale, che vede nei partimenti e nei solfeggi di maestri indiscussi come Francesco Durante e Pasquale Cafaro i fondamenti d’una scuola di straordinaria efficacia e lunga durata. Non risulta trascurata nemmeno la vivace attività dei costruttori di strumenti musicali, che vanta eccellenze come Alessandro Gagliano, allievo di Antonio Stradivari e fondatore d’una dinastia familiare di liutai. Un mondo relegato nell’oblio come più complessivamente l’intera pratica strumentale, ignorata già dalla stampa coeva, interessata unicamente alla musica vocale. Lo studio di DelDonna ha così il merito indiscusso di accendere i riflettori su un ambiente musicale vivace e interessante, collocandolo con intelligenza nel contesto estetico e nella rete di relazioni, politiche e artistiche, che gli è proprio.
Raffaele Mellace
19.–20. Jahrhundert
Karoline Rörig, Cristina Trivulzio di Belgiojoso. Storiografia e politica nel Risorgimento, Milano (Scalpendi) 2021 (Trivulziana. Pubblicazioni della Fondazione Trivulzio 18), 432 S., ISBN 979-12-59-55058-3, € 45.
Als im Jahr 2021 in Mailand der 150. Todestag Cristina Trivulzio di Belgiojosos (1808–1871) begangen wurde, konnte durch die feierliche Aufstellung einer Statue zu Ehren der berühmten Mailänderin nicht nur auf den Missstand der hochgradig unterrepräsentierten Frauen in der Denkmalkultur Italiens aufmerksam gemacht werden – ihr Denkmal ist das erste Denkmal für eine Frau in Mailand, neben 121 Denkmälern, die Männern gewidmet sind –, es war auch die Gelegenheit, Leben und Werk der ungewöhnlichen Gräfin in besonderem Maße zu würdigen. Dieses Ziel hat sich auch Karoline Rörig in ihrem Buch „Cristina Trivulzio di Belgiojoso. Storiografia e politica nel Risorgimento“ gesetzt. Bei der umfassenden Biographie handelt es sich dabei um die italienische Übersetzung der in Deutschland 2013 erschienenen Diss. Rörigs. Die Geschichte des Risorgimento ist lange Zeit eine ausnahmslos männliche gewesen, erst in den letzten Jahren rückt zunehmend auch die Frage nach den Frauen im Risorgimento in den Blick der Forschung (z. B. Elena Doni et al., Donne del Risorgimento, Bologna 2011; Maria Teresa Mori, Figlie d’Italia. Poetesse patriotiche nel Risorgimento, 1821–1861, Roma 2011; Sharon Worley, Revolutionary Feminist Narratives and Perspectives on the Italian Risorgimento, Newcastle upon Tyne 2022). In diese Forschungen lässt sich auch Rörigs Studie einordnen: In chronologischen Kapiteln werden das Leben und das Werk der Protagonistin dargestellt, in einer vorangestellten Einleitung werden Forschungsstand, Quellenkorpus und methodologische Herangehensweise ausführlich erörtert. Cristina Trivulzio entstammte einer der reichsten Adelsfamilien Mailands. Als ihre Kontakte zu oppositionellen Gruppen die junge Adlige dem österreichischen Polizeiapparat suspekt machen, geht sie 1830 nach Frankreich ins Exil. Hier beginnt sie mit ihrer journalistischen Arbeit, bekannt wird sie aber vor allem durch den von ihr Mitte der 1830er Jahre eingerichteten Salon, der zu einem wichtigen Treffpunkt der Pariser Gesellschaft wird. 1840 kehrt sie nach Mailand zurück und widmet sich fortan verstärkt ihrer publizistischen Tätigkeit: 1842 erscheint „Essai sur la formation du dogme catholique“, ein Jahr später die Übersetzung ins Französische der „Scienza Nuova“ von Giambattista Vico. Ab 1845 unterstützt und initiiert sie verschiedene Zeitungsprojekte, so die „Gazzetta italiana“, eine mehrmals wöchentlich auf Italienisch in Paris erscheinende Zeitung, sodann ab 1846 die Monatsschrift „L’Ausonio“. Vor allem in letzterer erscheinen mehrere Artikelserien aus der Feder Trivulzio di Belgiojosos, so „Stato attuale dell’Italia“, „Studi sulla storia d’Italia“. Die Revolutionsgeschehnisse 1848/1849 begleitet sie sowohl in Mailand als auch anschließend in Rom, einerseits als kritische Beobachterin, andererseits durch aktive Teilnahme, so übernimmt sie in Rom die Leitung des Lazaretts für die verwundeten republikanischen Soldaten. Als die römische Republik im Sommer 1849 zusammenbricht, geht sie erneut ins Exil, von wo aus sie erst 1855 zurückkehrt. Von Mailand aus verfolgt sie die politischen Entwicklungen Italiens, von den Einheitskriegen bis zur Gründung der Königreiches und der abschließenden Einnahme Roms. Ihre journalistische und essayistische Tätigkeit behält sie auch nach der gescheiterten Revolution bei, sie korrespondiert mit der „New York Daily Tribune“ und verfasst weiter Abhandlungen zu italienischer Geschichte und Politik. Neben der äußerst detailreichen Darstellung des Lebens Cristina Trivulzio di Belgiojosos ist das Hauptverdienst der Studie, dass in die Biographie die Beschreibung, Erörterung und Analyse der einzelnen Schriften Trivulzio di Belgiojosos eingeflochten sind. Rörigs Interesse ist, Belgiojoso als Intellektuelle, als Historikerin (oder zeitgenössisch Historiographin) und Journalistin vorzustellen und damit eine über die herkömmlichen Erzählungen hinausgehende Interpretation anzubieten. Der im Untertitel des Buches verwandte Begriff „storiografia“ ist gewissermaßen irreführend und zielweisend zugleich, denn einerseits könnte er leicht als Übertreibung der effektiv von Trivulzio di Belgiojoso erschienenen und rezipierten Schriften historischen Inhalts aufgefasst werden, andererseits ist genau dies das Hauptinteresse der Autorin, nämlich den Schriften der mailändischen Adligen zu (neuem) Gehör zu verhelfen. Die Arbeit ist angereichert mit einem umfangreichen Anhang, in dem die Autorin zunächst in einem Tafelteil Bilder aus allen Lebensaltern Cristina Trivulzio di Belgiojosos zusammengeführt hat, es folgen eine kleinere Anzahl ausgewählter transkribierter Dokumente und Briefe sowie eine auf den aktuellsten Stand gebrachte Genealogie und schließlich noch eine ausführliche Chronologie, in der alle Etappen und wichtigen Ereignisse des Lebens Trivulzio di Belgiojosos, das nahezu die gesamte Zeit des Risorgimento umfasste, angegeben werden. Der Bd. schließt mit einer Auflistung der der Arbeit zugrundeliegenden unveröffentlichten und veröffentlichten Quellen und der herangezogenen Sekundärliteratur sowie einem Personenregister ab. Karoline Rörig gelingt es, mit ihrer Arbeit das Leben, aber auch und vor allem das Werk der adligen Freiheitskämpferin darzustellen, fast nebenbei erzählt sie dabei auch die Geschichte des Risorgimento bis zur Eroberung Roms 1871, mit interessanten Hinweisen auf die jeweiligen nationalen und internationalen Konditionen. Dass die Möglichkeit, die Diss. aus dem Jahr 2013 zu aktualisieren und ggf. für die italienische Übersetzung zu straffen, nicht genutzt werden konnte, mag man bedauern, aber es bleibt zu hoffen, dass die Übersetzung ins Italienische dem Buch zahlreiche neue Leserinnen und Leser verschaffen wird.
Mirjam Neusius
Giuseppe Barone, Città in guerra. Sicilia 1820–1821, Bari-Roma (Laterza & Figli) 2022 (Storia e società), 342 S., ISBN 978-88-581-4739-9, € 25.
Trotz einer Vielzahl an kleineren Spezialstudien und laufenden Promotionen hat die Zweihundertjahrfeier der italienischen Revolutionen von 1820/1821 keine neue Synthese zum Thema hervorgebracht, auf die viele Interessierte seit Jahrzehnten warten. Vielleicht ist es aber auch an der Zeit, auf nationale Räume beschränkte Darstellungen zu überwinden und größere Räume sowie übergreifende Zusammenhänge historischer Phänomene in den Blick zu nehmen, wie Maurizio Isabella mit seiner neuen globalgeschichtlichen Studie über die 1820er Jahre vorschlägt. Die sizilianische Regionalregierung jedenfalls wollte einen eigenen erinnerungspolitischen Akzent innerhalb des Revolutionsjubiläums setzen und hat bei Giuseppe Barone, pensioniertem Ordinarius an der Universität Catania und einem der besten Kenner der Materie, eine Monographie über Sizilien innerhalb der ersten Revolutionswelle nach Napoleon in Europa in Auftrag gegeben. In einem kurzen Vorwort resümiert Barone grob den Forschungsstand und erklärt es zum Ziel seiner Arbeit, die sizilianischen Konflikte im Revolutionszeitraum stärker als bisher sozialgeschichtlich zu analysieren und die überlokalen Klientel- und Patronagenetzwerke in den Mittelpunkt zu rücken. Er betont, dass die Revolution 1820/1821 auf Sizilien vor allem ein urbanes Phänomen mit tiefgreifenden sozioökonomischen Verschiebungen im Zuge neuer territorialer Hierarchien gewesen sei. Sie habe für eine bedeutende politische Mobilisierung breiter Bevölkerungsschichten gesorgt und reihe sich mit ihren zentralen liberalen und konstitutionellen Forderungen in politisch-kulturelle Austauschprozesse des gesamten euromediterranen Südens ein. Zudem stelle sich die Revolution auf Sizilien als Bürgerkrieg mit einem komplizierten Frontverlauf dar, den es anhand der drei Achsen öffentliche Ordnung vs. politische Gewalt, Verteidigung des Eigentums und der bürgerlichen Ordnung sowie Dezentralisierung und regionale Autonomie zu untersuchen gelte. Barones Buch gliedert sich in sieben wohlkomponierte, etwa gleich starke Kapitel mit jeweils fünf Unterkapiteln. Die große Zahl behandelter Orts- und Personennamen lässt sich über entsprechende Register am Ende erschließen. Im ersten Kapitel ordnet der Vf. sein Thema in den Kontext europäischer Geschichte seit Napoleon ein und beschreibt gründlich die Ausgangslage Siziliens in den ersten beiden Jahrzehnten des 19. Jh., v. a. die Verwaltungsreform im Zuge der Begründung des Königreichs beider Sizilien 1816/1817. Kapitel zwei und drei behandeln dann den separatistischen Aufstand Palermos innerhalb der süditalienischen Revolution sowie die Ausbreitung des Guerillakrieges über die gesamte Insel. Die anschließenden beiden Kapitel vier und fünf widmen sich einerseits den Gewinnern neuer territorialer Hierarchien und andererseits den Verlierern der bourbonischen Neuordnung in den unruhigen peripheren Gebieten Siziliens. Kapitel sechs stellt ausführlich die Niederschlagung des aufständischen Palermos durch die neapolitanische Regierungsarmee dar, während sich das letzte Kapitel mit der weiteren Repression und Verfolgung der Separatisten, mit der Verquickung von politischer und privater Gewalt, mit der Ausbreitung der Geheimgesellschaften sowie mit der Anpassungsfähigkeit vieler Sizilianer an die neue alte Ordnung beschäftigt. Ohne auf die zahlreichen differenzierenden Befunde Barones eingehen zu können, sei zumindest hervorgehoben, dass es ihm eindrucksvoll gelingt, die alte dichotomische Meistererzählung zu dekonstruieren, wonach der separatistische Aufstand allein vom adligen Palermo und seiner ländlichen Umgebung getragen worden sei, wohingegen der „bürgerliche“ Osten Siziliens mit Catania als Zentrum einträchtig an Neapels Seite gekämpft habe. Er zeigt zudem historische Handlungsalternativen zur harschen Unterdrückung mit mehr Autonomie für Sizilien auf, die am Ende vielleicht sogar einen militärischen Sieg des konstitutionellen Königreichs beider Sizilien gegen die österreichische Interventionsarmee im Frühjahr 1821 hätte ermöglichen können. Die große Stärke des Buches liegt zum einen in der hervorragenden Quellen- und Literaturkenntnis des Autors begründet, zum anderen darin, dass er überwiegend aus den Quellen schreibt und wohldosiert einschlägige ältere und aktuelle italienischsprachige Literatur einfließen lässt sowie Lücken für weitere Forschungen – meist vertiefende biographische Studien zu einzelnen Protagonisten – aufzeigt. Etwas schwächer fallen hingegen das erste Kapitel zum größeren europäischen Kontext und all diejenigen Stellen aus, an denen internationale Forschungen anderer Sprachräume, aber auch wichtige italienischsprachige Studien gewinnbringend hätten eingesetzt werden können. Dies gilt beispielsweise für neuere Darstellungen zum Wiener Kongress und der Wiener Ordnung von Brian Vick und Mark Jarrett, zu Metternich von Wolfram Siemann und Luigi Mascilli Migliorini, aber auch zu Presse und Öffentlichkeit in der Revolution im Königreich beider Sizilien 1820/1821 von Werner Daum. Vermutlich auf den Verlag zurückzuführen ist die Entscheidung, das Buch nicht stärker mit visuellen Materialien anzureichern, denn außer einer einzigen Karte nach dem Vorwort wird der interessierten und gewiss nicht nur sizilianischen Leserschaft keiner der oft recht komplizierten Sachverhalte optisch veranschaulicht. Diese kleinen Kritikpunkte vermögen die souveräne Leistung Giuseppe Barones jedoch keinesfalls zu schmälern: Gut 70 bzw. 50 Jahre nach den Standardwerken von Nino Cortese und Francesco Renda liegt nun endlich eine neue Gesamtdarstellung zu Sizilien in der Revolution von 1820/1821 vor, die zu einem zentralen Referenzpunkt für weitere Forschungen zum Thema werden dürfte.
Jens Späth
Andreas Gottsmann (Hg.), Die Habsburgermonarchie 1848–1918, Bd. X: Das kulturelle Leben: Akteure – Tendenzen – Ausprägungen (Teilbd. 1: Staat, Konfession und Identität / Teilbd. 2: Materielle und immaterielle Kultur), Wien (Verlag der Österreichischen Akademie der Wissenschaften, 2021, XV, 2074 S., ISBN 978-3-7001-8661-8, € 198.
Die inzwischen in zwölf Bde. vorliegende, seit den 1980ern Jahren hg. Reihe „Die Habsburgermonarchie 1848–1918“ bildet bis heute das Standard- und Nachschlagwerk für alle, die sich mit der Habsburgermonarchie befassen. Während aber die ersten Bde. noch stärker die einzelnen Nationalitäten als Akteure in den Vordergrund rückten, versuchen die neueren Bde. die Gemeinsamkeiten – oder die gemeinsamen Elemente in den Unterschieden – aufzuzeigen und die Differenzen nicht bloß in den Nationalitäten zu erkennen. Die diesbezüglichen, innovativen Ansätze der Habsburg-Forschung (vorangetrieben etwa von Moritz Csáky oder Pieter M. Judson) scheinen im zehnten, von Andreas Gottsmann redigierten Bd. sehr gut angewandt worden zu sein: Die Habsburgermonarchie soll zwar nicht als eine einzige Einheit, aber auch nicht als die Geschichte von mehreren, separaten Einheiten erzählt werden. Der Bd. behandelt – wie der Untertitel verspricht – das kulturelle Leben, d. h. die Akteure, Tendenzen und Ausprägungen. „Kultur“ wird sehr weit gefasst verstanden: Staatliche Kulturförderungen, religiöse Kulturen und Praktiken, kulturelle Codes und Transfers im nationalen oder transnationalen Vokabular sowie unterschiedliche Formen der materiellen und immateriellen Kultur bis hin zur Alltagspraxis werden nations-, lokal- oder themenfokussiert dargestellt. Der erste Teilbd. führt in die sehr umfassende Thematik aus mehreren Perspektiven ein: „Kultur“ wird im Kontext der staatlichen Förderungspolitik und Erwartungen bzw. der dynastischen Interessen verortet, zugleich werden auch die nicht-nationalen Akteure (Kirchen, Vereine, gesellschaftliche Schichten) zusammen mit lokal fokussierten Studien (über Banat, Galizien, Kroatien usw.) miteinbezogen. Eine national gespaltene Erzählung lässt sich nur ansatzweise erkennen, aber auch die einzelnen Kapitel (etwa über die tschechische, slowakische, rumänische, slowenische, italienische, kroatisch-slawonische Kulturentwicklung) zeigen die Gemeinsamkeiten und Interaktionen auf. Im Bd. werden auch die Unterschiede zwischen den zwei Reichshälften gut dargestellt. In Österreich stand die Kulturpolitik nicht im Interesse einer staatlichen Nationalisierungs-, Nationalstaatbildungspolitik wie es der Fall in Ungarn war. Die offene Kulturpolitik von Wien kam besonders den italienischsprachigen Gebieten – etwa dem bis 1866 österreichischen Königreich Lombardei-Venetien – zugute, indem Wien die dortigen Kulturgüter oder Universitäten ohne ein eigenes, nationales Programm unterstützte. Diese Situation änderte sich später: Die Forderungen nach einer staatlichen oder katholischen Universität (in Triest bzw. Trento/Trient) blieben etwa unerfüllt. Eine deutschsprachige Hegemonie in der österreichischen Reichshälfte lässt sich allerdings nicht als staatsnationale Ideologie begreifen, weil sich der Deutschnationalismus immer mehr vom Träger eines Staatsliberalismus zu einer nationalen, sogar teilweise antidynastischen Bewegung – nicht zuletzt wegen des deutschsprachigen Protestantismus – entwickelte. Weil sich die österreichische Reichshälfte keiner nationalen Hegemonisierung- oder Homogenisierungspolitik verschrieb, konnten sich die Kulturen der einzelnen Nationalitäten, Religionen oder anderer sozialer Gruppen in den staatlich zur Verfügung gestellten oder durch Vereine, Privatinitiativen ermöglichten Förderungs- und Ausdruckskanälen formulieren, was zugleich mehr Austausch- und Inspirationsraum jenseits der nationalen Cluster bedeutete. Demgegenüber konnte Ungarn nach dem Ausgleich von 1867 auch in der Kulturpolitik stärker zu einer staatlichen Nationalisierung (durch Literatur- und Kunstförderungen, Denkmäler, Erinnerungspolitik usw.) schreiten, wenn auch transnationale Verflechtungen – sowohl auf der Ebene der „elitären“ Kultur als auch im Alltagsleben –, wie die ungarnthematischen Beiträge des Bd. betonen, in der ungarischen Reichshälfte ebenso zu beobachten waren. Die unterschiedliche Gewichtung der staatlichen Kulturpolitikziele lässt sich auch in der Schulpolitik erkennen, die – wie die diesbezüglichen Beiträge zeigen – in Österreich gesamtstaatlich, in Ungarn hingegen nationalstaatlich konzipiert war. Die diesbezüglichen Schulkämpfe waren deswegen anders gerichtet: Die Konflikte entstanden in Österreich wegen der staatlichen Ausbalancierung nationaler Interessen, in Ungarn als Folge der staatlich verlangten Magyarisierung. Das Schulwesen wurde in Österreich nicht staatlich, sondern durch die Privatschule der staatlich zugelassenen Vereine (etwa in Triest oder Istrien durch die Lega Nazionale) „nationalisiert“, auch wenn die Mehrsprachigkeit von der lokalen Bevölkerung – wie etwa die große Zahl italienischsprachiger Kinder in den deutschsprachigen Schulen von Triest bewies – weiterhin praktiziert und gewünscht war. Die Habsburgermonarchie war durch diverse endogene und exogene Einflüsse geprägt, weswegen eine einheitliche „Leitkultur“ nicht einmal in der ungarischen Reichshälfte entstand bzw. durch unterschiedliche („imperiale“, religiöse, nationale, lokale) Codierungen zersplittert war. Deswegen ist es wichtig, dass der Bd. die Kultur aus der Akteursperspektive behandelt. Die „elitäre“, kosmopolitische Kultur von Wien (und ansatzweise in Budapest, Prag oder Triest) ergänzte (und inspirierte) sich von anderen Strömungen, sozialen Vorgängen. Die Interaktionen zwischen den „nationalen“ Eliten waren allerdings – trotz der politischen Rhetorik des Nationalismus – ausgeprägter als zwischen den gesellschaftlichen Schichten (auch innerhalb derselben „Nationalität“). Im Bd. befassen sich mehrere Beiträge mit den einzelnen Konfessionen, Religionen – in einem Vielvölkerstaat konnte nämlich die Religion sowohl als supranationale Idee als auch als Emanzipationsraum marginalisierter Schichten kulturfördernd wirken. In der österreichischen Reichshälfte erlangte vor allem die katholische Religion eine gewisse politische Relevanz aufgrund ihrer gesellschaftlichen Mehrzahl und ihrer Nähe zur Dynastie. Auch die katholische Kultur lässt sich aber nicht einseitig beschreiben. Der Katholizismus entwickelte sich nämlich auch zu einer Volkskultur (durch reges Vereinsleben, Einbeziehung der Frauen, Pilgerfahrten, Feste usw.), die für die katholischen Völker eine zwar national codierte, aber gemeinsame „Sprache“ und somit kulturelle, soziale Teilhabemöglichkeiten darzubieten vermochte. Die katholische Volksfrömmigkeitskultur stellte zugleich eine massenpolitische Reaktion auf die in Österreich und Ungarn nur sporadisch und themenbezogen (im Schul- oder Eherechtswesen) ausgetragenen „Kulturkämpfe“ dar. Die dynastisch und religiös (vor allem katholisch) begründete Staatslegitimation wurde allerdings – wie im Beitrag über die Rechtskultur nachgezeichnet wird – immer stärker von einem legalistischen Rechtsverständnis als gemeinsame Grundlage ersetzt. Der Bd. behandelt die Kulturentwicklungen und Kulturbeiträge der anderen Konfessionen (Protestantismus, diverse Orthodoxien, Islam in Bosnien usw.) ebenso, von denen etwa die jüdische Religion sehr wichtig ist, weil sie einerseits traditionalistische Elemente beinhaltete, andererseits – vor allem in den städtischen, assimilierten Milieus – zur Etablierung transnationaler Codes und Kulturräume beitrug. Gerade in den italienischsprachigen Hafenstädten Triest und Fiume/Rijeka waren viele in der nationalliberalen, italienischsprachigen Elite jüdischer Abstammung. Die kulturtragende und kulturfördernde Elite war zwar in der österreichischen Reichshälfte lange von der deutschsprachigen (wenn auch nicht unbedingt deutschstämmigen) Bevölkerung – allen voran aus den bürgerlichen und adligen Schichten – vorgeprägt, es bildeten sich auch lokale Deutungshoheiten (etwa der „Italiener“ im Küstenland oder der „Polen“ in Galizien) heraus, welche zugleich (etwa von den „Slowenen“ in Triest, von den „Kroaten“ in Istrien oder von den „Ruthenen“ in Galizien) politisch-kulturell herausgefordert wurden. In den böhmischen und mährischen Gebieten gestaltete sich dieses Aufeinandertreffen besonders heftig, weil die tschechische Kultur – im Gegensatz zur slowenischen oder ruthenischen – die deutschsprachige auf Augenhöhe, insofern stärker als Konkurrenz erlebte. Staatspolitische Relevanz erlangten diese Kämpfe etwa in den Debatten über die möglichen (italienisch- oder slowenischsprachigen) Universitäten. Schon die Gegenargumente zeigten aber die unterschiedliche Verwendbarkeit der „nationalen“ Rhetorik: Während eine italienischsprachige Universität in Triest als möglicher Hort irredentistisch-antiklerikaler Gedanken gefürchtet wurde, stieß die Idee einer slowenischsprachigen Universität in Laibach/Ljubljana auf antiklerikale, liberale Widerstände. Die kulturpolitischen Kämpfe um die Deutungshoheit über die lokale Kultur war freilich auch wirtschaftspolitisch und ideologisch geprägt, weswegen sie – wie etwa im Falle der italienischsprachigen Katholiken oder Sozialisten in Triest – oft eigentlich intra-nationale Konflikte verursachten. Die nationale Codierung der Kultur war insofern auch ein politisches Mittel nicht nur gegen eine andere Nationalität, sondern auch im Kampf um die „eigene“ Nationalität. Ein wichtiges Movens der kulturellen Entwicklungen waren die national codierbaren Kulturelemente, die aber – wie etwa die Dante- oder Verdi-Verehrung in Triest und im Küstenland zeigte – nicht notwendig antistaatlich, sondern im Kampf um die lokale Deutungshoheit – unter der Duldung des Wiener „Zentrums“, im Falle der italienisch-liberal dominierten, ungarischen Hafenstadt Fiume/Rijeka sogar unter der aktiven Förderung des Budapester „Zentrums“ – ausgetragen wurden. Die Habsburgermonarchie bot also Strukturen und Formen an, die auch mit nationalen Inhalten „gefüllt“ werden konnten – wie etwa die fast ähnlichen Theaterhäuser der größeren Städte „nationale“ Stücke, Oper auf die Bühne brachten. In der Nationalisierung als Selbstbehauptung oder Selbstemanzipation lässt sich also erkennen, wie die Kultur als politisches Mittel eigentlich auf der unterimperialen Ebene eingesetzt wurde. Dabei wäre eine nähere Analyse der italienischen Kultur in der ungarischen Reichshälfte (in Fiume/Rijeka) auch interessant gewesen, zumal die Italiener in Ungarn – trotz (oder vielleicht wegen) ihrer geringen Zahl – als Träger der lokalen, politischen und kulturellen Deutungshoheit eine auch staatspolitisch wichtige Rolle spielten und im Vergleich zu den anderen Nationalitäten der ungarischen Reichshälfte gegenüber der Budapester Politik wohlwollend eingestellt waren. Der ganze zweite Teilbd. befasst sich mit der materiellen und immateriellen Kultur: Recht, Musik, Literatur, Kleider, Wohnen usw. erscheinen als Kontaktzonen unterschiedlicher nationalpolitischer Prägungen und sozial bedingter Änderungen. Die „Kultur“ wird dabei – vom Rechtsdenken bis zur Gastronomie – weit gefächert dargestellt, auch den „kulturellen“ Randphänomenen oder den in der Historiographie wenig repräsentierten Alltagspraktiken (wie den Wohnungsproblemen oder dem Sterben) sind ausführliche Analysen gewidmet. Nach der Lektüre der einzelnen Beiträge lässt sich auch das „Zentrum“/„Peripherie“-Verhältnis relativieren. Innerhalb des „Zentrums“ lassen sich ebenso „Peripherien“ (etwa in den Arbeitervierteln von Wien oder in den gesellschaftlich-geschlechtlich marginalisierten Schichten wie Arbeitern oder Frauen) erkennen, wie auch das „Zentrum“ nicht nur in Wien oder Budapest, sondern gerade infolge der nationalen Tendenzen ebenso in anderen Städten anzutreffen war. Der Bd. verortet insofern die Kultur – aus unterschiedlichen Lokal- und Akteursperspektiven – auf den mental maps der Habsburgermonarchie. Der zehnte, zweiteilige Bd. der Habsburgermonarchie-Reihe beweist überzeugend, dass sich das Kulturleben der Habsburgermonarchie in die zeitgenössischen Tendenzen anderer europäischer Staaten sehr wohl einordnen lässt; der multinationale Charakter des Staates und der Gesellschaft muss sich dabei nicht als Anomalie erweisen. Die national-sprachliche Vielfalt spielte nämlich nur auf der politischen Oberfläche – in der Theatralik der Politik – eine konfliktbeladene Rolle, ansonsten führte sie zur unterschiedlichen Codierung ähnlicher sozialer Vorgänge und künstlerischer Formen. In den Beiträgen des Bd. werden die nationalen Differenzen demnach weder überhöht noch geleugnet, sondern als Quelle für kulturelle Entwicklungen dargestellt, deren immaterielle und materielle Produkte in der Architektur, der Musik, der Literatur oder der Gastronomie sogar posthabsburgisch nachwirken.
Peter Techet
Francesco Tacchi, Katholischer Antisozialismus. Ein Vergleich zwischen Deutschland und Italien zur Zeit Pius’ X. 1903–1914. Aus dem Italienischen übersetzt von Monika Pelz, Paderborn (Brill/Schöningh) 2021 (Veröffentlichungen der Kommission für Zeitgeschichte, Reihe B: Forschungen 141), XIII, 569 S., ISBN 978-3-506-79108-5, € 99.
Die bei Daniele Menozzi in Pisa und Claus Arnold in Frankfurt verfasste Diss. widmet sich dem katholischen Antisozialismus während des Pontifikats Pius’ X. vergleichend anhand zweier Fallbeispiele, dem Erzbistum Pisa und dem Bistum Mainz. Zum einen soll der jeweilige theoretische Antisozialismus untersucht werden. Bei aller gemeinsamen, lehramtlich immer mehr vorgegebenen Frontstellung lassen sich zudem neben Gemeinsamkeiten auch Unterschiede zwischen Italien und Deutschland herausarbeiten. Antisozialismus von oben und Antisozialismus von unten haben sich dabei jeweils wechselseitig beeinflusst. Die Studie ist in drei Teile gegliedert. Zunächst wird der lehramtliche und theoretische Antisozialismus („von oben“) untersucht. Im Kampf gegen den Sozialismus führte Pius X. im Wesentlichen die Positionen seiner Vorgänger weiter, die seit den 1840er Jahren diesen als Teil der glaubensfeindlichen Moderne deuteten und zur Rückkehr zur Kirche und Unterordnung unter die Hierarchie aufriefen. Der Sozialismus galt als Erbe der sich potenzierenden Irrtümer der Moderne seit Luther, besonders des Liberalismus. Er wurde mit egoistischer, materialistischer Sinnlichkeit gleichgesetzt, als Negation jeder legitimen Autorität. Die Idee, dass Sozialismus und Christentum viele Gemeinsamkeiten hätten, wurde von den intellektuellen Vordenkern des Katholizismus meist scharf abgelehnt und 1901 vom Papst verboten. Während in Italien Organe wie die „Civiltà Cattolica“ (dort v. a. Matteo Liberatore, 1810–1892) sich erst in den 1890er Jahren intensiver mit Marx und Co. auseinandersetzten und analytisch an der Oberfläche blieben (die religiöse Sichtweise mit der Dämonisierung des Gegners blieb dominant), begann in Deutschland der antisozialistische Kurs bereits rund 20 Jahre früher anzuwachsen (und kam mit weniger Dämonisierung aus). In Italien entsprangen die differenzierten Einschätzungen aus der sich formierenden Christdemokratie um Romolo Murri (1870–1944). In Deutschland gab es bald eine differenziertere Auseinandersetzung, etwa von Franz Hitze (1851–1921). In den Stimmen aus Maria Laach setzte man sich vor allem mit dem volkswirtschaftlichen System des Sozialismus auseinander, aber auch mit dessen metaphysischen Grundlagen und dessen Religionspolitik, die er vom Liberalismus geerbt habe. Auch andernorts herrschte die antiliberale Perspektive vor. Den Höhepunkt der katholischen Auseinandersetzung mit dem Sozialismus sieht der Vf. für Italien bei Giuseppe Toniolo (1845–1918), katholischer Wirtschaftshistoriker und Gesellschaftstheoretiker an der Universität Pisa, und für Deutschland beim Jesuiten Heinrich Pesch (1854–1928), einem Nationalökonomen und Sozialphilosophen, gegeben. Mit der besseren Kenntnis kam es bei Pesch zu Differenzierungen in Bezug auf verschiedene Strömungen der Sozialdemokratie, zu einer Auseinandersetzung mit der Marx’schen Werttheorie und zum Entwurf eines „Solidarismus“ als Gegenmodell mitkorporativer Sozialisationsformen. Toniolo, der einen wichtigen Einfluss auf die Opera dei Congressi hatte, sah zwar im Sozialismus geschichtsphilosophisch den Erben einer heidnisch-säkularen antichristlichen Sicht auf den Menschen. Anstatt der üblichen Dämonisierung bemühte er sich aber um wissenschaftliche Begründung und die Etablierung einer Christdemokratie als praktischem Gegenmittel. Unter Pius X. ebbte in beiden Ländern die Beschäftigung mit dem Sozialismus katholischerseits ein Stück weit ab; nun wurde der Antisozialismus praktischer und parteipolitischer und verband sich mit den Fragen um die Erlaubtheit der Teilnahme an Wahlen und der Zusammenarbeit mit den gemäßigten Liberalen. Romolo Murri und Gennaro Aviolo (1858–1928) warben für eine punktuelle praktische Zusammenarbeit mit dem PSI, Ernesto Buonaiuti (1881–1946) hatte Sympathien für einen socialismo cattolico. In Deutschland wurde um die Erlaubtheit der überkonfessionellen christlichen Gewerkschaften gerungen (in der Sicht vieler Katholiken musste der Sozialismus auch geistlich-religiös überwunden werden). Dieser theoretischen Auseinandersetzung „von oben“ stellt Tacchi die praktische Auseinandersetzung vor Ort gegenüber, die er für Mainz und Pisa getrennt behandelt. Mit der Verstädterung und Industrialisierung im Bistum Mainz gewann die SPD enormen Zulauf auch unter katholisch Getauften; im Vergleich zum Wunsch nach besseren Lebensbedingungen spielte der Antiklerikalismus dabei eine geringe Rolle. Wichtigste Antworten auf der Seite der Kirche waren der Ausbau des katholischen Vereinswesens und einer katholischen Presse. Der Diözesanklerus – exemplarisch kann der Mainzer „rote“ Pfarrer Carl Forschner (1853–1918) angeführt werden – passte sich den neuen Anforderungen und Bedürfnissen flexibel an – bezog die soziale Frage in die Seelsorge ein und unterstützte überwiegend die Christlichen Gewerkschaften. Katholische Arbeitervereine sollten die Arbeiter parallel dazu immunisieren und unterstützen. In Pisa beklagte sich der Pfarrklerus um 1900 über zwei große Gefahren: den wachsenden Indifferentismus und die subversiv antikirchliche Agitation in den Fabriken. Gegenmittel waren v. a. Predigt und Katechese, während Vereine im Vergleich zu Deutschland eine deutlich geringere Rolle (eine Ausnahme bildeten die Lombardei und Venetien) spielten. Bei Zusammenschlüssen war die Leitung durch den Klerus viel zentraler als in Deutschland; dazu war der direkte Einfluss des Hl. Stuhls stärker, auch wegen den viel zahlreicheren und kleineren Diözesen. Immerhin neigte der Kardinalerzbischof Pietro Maffi (1858–1931) in praktischer Hinsicht zu mehr Flexibilität als der Papst, da er der Reaktion auf die sozialen Veränderungen und den sozialistischen Antiklerikalismus eine größere Bedeutung beimaß als Pius X., der v. a. den Modernismus im Inneren der Kirche bekämpfen wollte. Dies brachte ihm den Modernismusvorwurf von der Seite der Integralisten ein. Tacchi gelingt es, in seiner Studie Gemeinsamkeiten und Differenzen, die mit einer unterschiedlichen Geschichte und Stellung der Katholiken und mit unterschiedlichen Formen des Sozialismus, die wieder unterschiedlichen Stufen gesellschaftlicher und ökonomischer Modernisierung korrespondierten, überzeugend herausarbeiten. Das Ideal der deutschen Katholiken war die Immunisierung der katholischen Minderheit im katholischen Milieu, während die italienischen Pläne, die società cristiana auszugestalten, im Sozialismus v. a. subversive Wühlarbeit erkennen mussten. In Deutschland konnte sich ein „sozialer Klerus“, anders als in Italien, ausbilden, was durch die grundlegend bessere, theologische (meist universitäre) Ausbildung ermöglicht wurde. Dazu gab es dort katholische Laien, die in einer gewissen Eigenständigkeit vom Klerus agieren und sich organisieren konnten. Einzelne Aspekte wird man sicher ergänzen oder auch anders gewichten können: Vermutlich waren die regionalen Differenzen in Deutschland doch größer als der Vf. meint. Auch dürfte das intellektuelle Spektrum der katholischen Gesellschaftslehre breiter gewesen sein, als es die starke Konzentration v. a. auf die Jesuiten vermuten lässt. Schließlich müsste auch die zunehmend empirisch-konkrete, planende, mit ökonomischen Fragen, rationaler Berechnung des gerechten Lohns, etc. einhergehende Modernisierung neuscholastischen Denkens vielleicht noch elaborierter herausgearbeitet und modernisierungstheoretisch gedeutet werden. Das mindert aber nicht die Bedeutung der Studie, die hilft, Gemeinsamkeiten und Differenzen zweier Katholizismen bis heute besser zu verstehen.
Klaus Unterburger
Rolf Wörsdörfer, Isonzo 1915/17. Völkerschlacht am Gebirgsfluss, Paderborn (Brill/Schöningh) 2022 (Schlachten – Stationen der Weltgeschichte), 302 S., Abb., Kt., ISBN 978-3-306-70265-4, € 29,90.
Der Isonzo (Slowenisch Soča), bis 1915 die Grenze zwischen Österreich-Ungarn und Italien, bildete im Ersten Weltkrieg den Hauptkriegsschauplatz zwischen den beiden ehemaligen Dreibundpartnern und war immer wieder das Zentrum der zwölf nach ihm benannten blutigen Schlachten, die auf beiden Seiten zu Mythenbildungen führten. Zwar gab es auch in den Alpen Kämpfe, aber der Schwerpunkt der kriegerischen Tätigkeiten lag im Karst, einem aufsteigenden, am Rande von einigen kleineren Spitzen überragten Hochplateau, das die Italiener einzunehmen hatten, wollten sie ihr Hauptziel, Triest (Trieste) – die weiße, am Horizont sichtbare Stadt – erobern. Die humusgefüllten Dolinen und zahlreichen Höhlen stellten natürliche Hindernisse für die Schlachten dar: Zwar konnten in den Kavernen Soldaten, Geschütze und anderes militärisches Material vor den gegnerischen Kanonen geschützt werden, aber das wasserdurchlässige Kalkgestein bildete eine feindliche Umgebung für Menschen, Tiere und das z. T. wassergekühlte Kriegsgerät, da das Wasser nur über längere, unsichere Transportwege beschafft werden konnte. Da durch die Granaten das Gestein splitterte, gab es zusätzlich Verletzte und Tote. An diesem „Nebenkriegsschauplatz“ starben auf den Kilometer Frontlinie berechnet ungefähr so viele Soldaten wie an den heftig umkämpften Abschnitten der Westfront. Italien verlor alleine 400 000 von seinen 600 000 Kriegsopfern am Isonzo. Mit dazu bei trugen die maßgeblichen Militärführer, Luigi Graf Cadorna auf italienischer und Svetozar Boroević von Bojna auf österreichisch-ungarischer Seite, da beide geneigt waren, für geringe Geländevorteile die Soldaten nicht zu schonen. Während der Chef des Comando supremo eine reine Schreibtischkarriere ohne operative Erfahrungen, noch nicht einmal im türkisch-italienischen Krieg von 1911/1912, absolviert hatte, galt der „Löwe vom Isonzo“ als größter Stratege des Defensivkriegs, der die angreifenden Italiener verbluten lassen wollte. Im Gegensatz zu Cadorna war der Austro-Serbe (im ungarischen Teil Kroatiens geboren, aber serbisch-orthodoxen Glaubens) „nur“ zuständig für die Südfront. Der italienische Oberbefehlshaber setzte von vornherein auf die Überquerung des Isonzo und die Eroberung von Trient (Trento) und Triest, das für viele seiner Soldaten in unmittelbarer Nachbarschaft lag. Einige von ihnen, vor allem die aus dem Süden und aus den ländlichen Regionen, konnten wenig mit diesen Kriegszielen anfangen. In späteren Jahren trat als weiteres Ziel auch der Durchmarsch nach Wien und Budapest hinzu. Dies geschah aber zu einem Zeitpunkt, als nicht mehr die Schwächungen der Donaumonarchie im Vordergrund stand, sondern deren Zerschlagung. Umkämpft waren vor allem die Erhebungen im Karst, von denen manche mehrmals im Laufe der verschiedenen Schlachten erobert und von den Österreichern zurückgewonnen wurden. Die elf Offensiven brachten in der Regel nur geringe Geländegewinne, aber keinen entscheidenden Durchbruch und waren mit höheren Verlusten für die italienischen Soldaten als für die österreichisch-ungarischen verbunden. Lediglich die 6. und die 11. Isonzo-Offensive führten zu größeren Erfolgen, wobei die bedeutendste die Eroberung von Görz (Gorizia/Gradisca) darstellte. Aber sie gingen alle in der 12. Isonzo-Schlacht verloren, als Österreich-Ungarn mit bedeutender deutscher Unterstützung die Italiener bis zur Piave zurückdrängen konnte, aber nicht mehr die Kraft und die materiellen Möglichkeiten hatte, den Fluss zu überschreiten. Der italienische Sieg bei Vittorio Veneto in der 12. Isonzoschlacht wurde nicht mehr über einen ebenbürtigen Gegner errungen, da zu diesem Zeitpunkt die gegnerische Armee bereits im Zerfall begriffen war. Rolf Wörsdörfer bringt zwar keine neuen Forschungsergebnisse, aber ihm gelingt es, sowohl deutschsprachige wie italienisch und slowenische Quellen – Erinnerungen von an den Schlachten beteiligten Soldaten – auszuwerten und so nicht nur die kriegerischen Auseinandersetzungen nachzuzeichnen, sondern auch das Leben an der Front auf beiden Seiten und die soziale Zusammensetzung der Armeen (ein Vielvölkerstaat gegen viele Rückkehrer aus der Emigration) darzulegen. Relativ knapp wird die Beziehung zwischen den jeweiligen politischen und militärischen Führungen dargestellt. Etwas ausführlicher geht der Autor auf das Verhältnis zwischen Cadorna und seinen Untergebenen ein, etwa hektische Umbesetzungen, sogenannte „Torpedierungen“ (siluramenti), bei Kommandoposten oder das „libretto rosso“, eine Sammlung seiner taktischer Instruktionen, die ganz auf den Frontalangriff zielten, und in Zusammenhang mit der Niederlage von Caporetto sehr stark kritisiert wurde. Vier Karten und 28 Bilder dienen den Leserinnen und Lesern zur Illustration der Vorgänge. Das Buch wird durch ein Personenregister erschlossen.
Franz-Josef Kos
Vanda Wilcox (Ed.), Italy in the Era of the Great War, Leiden-Boston (Brill) 2018 (History of Warfare 120), XIV, 405 pp., ill., ISBN 978-90-04-28871-3, US$ 300.
Vanda Wilcox, The Italian Empire and the Great War, Oxford (Oxford University Press) 2021 (The Greater War Series), 269 pp., ill., ISBN 978-0-19-882294-3, US$ 45.
Vanda Wilcox è una storica italo-britannica che negli ultimi anni ha pubblicato importanti ricerche in lingua inglese sull’esperienza militare italiana nella Prima guerra mondiale. Questa recensione concerne gli ultimi due libri firmati dall’autrice. Entrambi i volumi sono ascrivibili al rinnovato interesse storiografico per la grande guerra indotto sia dal centenario 2014–2018, sia dall’attenzione crescente per la sua dimensione imperiale e globale. A ciò si aggiunga anche la recente riconsiderazione storiografica dei limiti cronologi del conflitto, per la quale la grande guerra è da ritenersi l’epicentro di un ciclo di conflitti armati che cominciarono già nel 1912 e si protrassero fino al 1923 (il libro „The Italian Empire and the Great War“ dell’autrice è pubblicato nella serie „The Greater War, 1912–1923“ della Oxford University Press). Ritroviamo questa stessa cronologia nelle opere qui recensite, con la data d’inizio della „più grande guerra“ anticipata però al 1911 con l’avvio del conflitto italo-turco. Il libro „Italy in the Era of the Great War“, nato da un’idea discussa con l’editore Brill, ha l’obiettivo di presentare alcune delle ricerche più recenti relative all’Italia nella Prima guerra mondiale (p. 2). Il volume ha il merito di mettere insieme ben diciotto saggi scritti da specialisti di lingua inglese e italiana su temi economici, militari, culturali, politici e sociali, dando così vita all’opera più esaustiva in lingua inglese sull’Italia nella Prima guerra mondiale. Nel dettaglio, i saggi di Bruce Vandervort, Fabio Cappellano, Andrea Ungari e Irene Guerrini e Marco Pluviano affrontano temi più propriamente militari, quali la guerra italo-turca, la tattica bellica, lo sviluppo dell’aeronautica e la disciplina marziale. Seguono capitoli dedicati alla politica estera e alle mire espansionistiche italiane firmati da Stefano Marcuzzi, Francesco Caccamo e Valerie McGuire. In successione, Paul O’Brien, Spencer di Scala, Claudia Baldoli, Giulia Albanese, Alison Scardino Belzer e Carlo Stiaccini affrontano argomenti pertinenti alle dinamiche politiche e sociali del paese, quali l’impegno pro-bellico di Benito Mussolini nel 1914–1915, le mosse del presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando nel periodo 1917–1919, il neutralismo delle leghe rurali cattoliche, la violenza politica del primo dopoguerra, il contributo e le esperienze delle donne, e l’attitudine della Chiesa cattolica verso il conflitto e i belligeranti. Gli ultimi capitoli del volume coprono aspetti economici (Douglas J. Forsyth e Fabio degli Esposti) e culturali (Selena Daly, Irene Lottini e Oliver Janz). Alcuni di questi argomenti e la loro trattazione sono perlopiù inediti per i lettori e le lettrici di lingua inglese. Il fatto che i numerosi saggi coprano così tanti temi rende alquanto appariscente la mancanza di saggi dedicati alla medicina o allo stato sociale, due temi rilevanti per una discussione dello sforzo bellico nella sua complessità, delle misure messe in atto per sostenere i combattenti e le loro famiglie, ma anche delle conseguenze di lungo corso del conflitto. Nonostante questa lacuna, il volume costituisce uno strumento essenziale per studiosi/e e studenti/esse, soprattutto anglofoni/e, interessati/e all’Italia nella grande guerra.
Il secondo libro di questa recensione, „The Italian Empire and the Great War“, ha molto in comune col primo, in particolare per quanto concerne la riconsiderazione dei limiti temporali e geografici del primo conflitto mondiale. Al centro delle analisi dell’autrice sono le mire espansionistiche italiane, per cui la grande guerra fu vista dalle élite del paese come l’opportunità per ultimare l’unificazione nazionale, ma anche per creare un impero oltremare. Secondo l’autrice, la considerazione di un arco temporale che va dal 1911 – anno in cui l’Italia mosse guerra contro l’impero ottomano per conquistare la Libia – al 1923 – anno in cui fu siglato il trattato di pace di Losanna – è necessaria per comprendere appieno il conflitto, le sue cause e le sue ripercussioni. Il libro si pone l’obiettivo di esaminare l’Italia nell’ampio contesto bellico del Mediterraneo e dell’Europa sud-orientale. L’autrice rileva la scarsa attenzione attribuita dalla storiografia internazionale della Prima guerra mondiale all’Italia e le sue colonie. L’impero italiano era piccolo, debole, scarsamente popolato e di recente acquisizione. In realtà, l’aspetto più caratteristico dell’impero italiano era costituito non tanto e non solo dai possedimenti coloniali, ma dalla presenza di numerose comunità di emigrati italiani sparse per il mondo (a loro volta chiamate „colonie“). È alla mobilitazione militare e culturale delle comunità italiane all’estero e delle colonie che l’autrice volge la sua attenzione nei capitoli 4 e 5, in cui discute le modalità di rimpatrio dei richiamati alle armi, il coinvolgimento di truppe coloniali nei teatri di guerra non-europei e lo sfruttamento di forza lavoro civile. Il capitolo 6 estende lo sguardo alla guerra nelle colonie italiane – e in particolare al fronte libico, dove le forze armate italiane, assistite dalle truppe coloniali, combatterono contro la resistenza anticoloniale e la guerriglia armata di gruppi indigeni appoggiati dagli imperi centrali. Nel capitolo 7, l’autrice esamina il coinvolgimento italiano su fronti di combattimento per così dire minori che erano però strumentali a mostrare l’impegno bellico dell’Italia a fianco dell’Intesa e a sostenere future rivendicazioni territoriali. Questi episodi ricordano che la grande guerra si svolse su scala mondiale e che il coinvolgimento e gli interessi dell’Italia devono ancora essere pienamente inseriti nella storia globale del conflitto. I capitoli successivi offrono eccellenti punti di riflessione, a cominciare dalla considerazione di concetti quali razza, cittadinanza, nazionalità e sudditanza nella costruzione dell’idea di „italianità“ nella madrepatria e nelle colonie. Alla conferenza di pace di Parigi, le ambizioni territoriali italiane urtarono contro un nuovo clima internazionale che favorì i principi di sovranità e autodeterminazione nella composizione dell’assetto geopolitico post-bellico. Gli inadeguati rapporti dell’Italia con gli alleati e alcuni errori diplomatici compromisero ulteriormente i negoziati e, di conseguenza, gli obiettivi di espansione palesati sin dall’inizio del conflitto. L’autrice passa in rassegna le varie aree d’interesse e/o sotto il controllo italiano nell’Adriatico, nei Balcani, in Africa e nel Mediterraneo per descriverne i cambiamenti intervenuti negli anni successivi alla conclusione della grande guerra e anche le reazioni ai nuovi assestamenti. Per quanto riguarda le zone contese dell’Alto Adriatico, l’autrice invita a porre il caso italiano in dialogo con la recente storiografia dedicata alle zone di confine nei paesi succeduti alla caduta dell’impero asburgico (p. 203), rinnovando così il suo proposito di riesaminare le vicende italiane in chiave di una „più grande guerra“.
Martina Salvante
Sistematica e tecnica nelle codificazioni canoniche del XX secolo, Pontificio Comitato di Scienze Storiche, a cura di Giuliano Brugnotto/Jürgen Jamin/Sébastien Naonyir Somda, Città del Vaticano (Libreria Editrice Vaticana) 2021 (Facoltà di Diritto Canonico San Pio X Venezia. Atti e documenti 52), VIII, 354 S., ISBN 978-88-266-0660-6, € 25.
Historisch steht das Kirchenrecht am Ende der Epoche der bedeutenden Kodifikationen, welche ab der zweiten Hälfte des 18. Jh. die Gesetzgebung zahlreicher europäischer Staaten modernisierte, von Bayern (1756: Codex Maximilianeus Bavaricus Civilis) über Preußen (1794, Allgemeines Landrecht) bis zum Deutschen Reich (1900: BGB), von Österreich (1766: Codex Theresianus) über Frankreich (1804: Code civil) bis nach Portugal (1867: Código civil) und Spanien (1889: Código civil). Im Jahr 1917 promulgierte Papst Benedikt XV. die von seinem Vorgänger Pius X. veranlasste Kodifizierung des kanonischen Rechts, den Codex iuris canonici (CIC). Ihn sollte im Jahr 1983 ein im Lichte der Beschlüsse des II. Vatikanischen Konzils revidierter Kodex ersetzen. 1990 trat ihm mit dem Codex canonum Ecclesiarum orientalium (CCEO) ein eigenes Gesetzbuch für die lateinischen Ostkirchen an die Seite. Diesen drei großen kirchenrechtlichen Kodifikationen des 20. Jh. widmet sich der von der Kirchenrechtsfakultät San Pio X in Venedig verantwortete Sammelbd., der aus einer internationalen Tagung zur Würdigung der 100. Wiederkehr der Promulgation des CIC/1917 im Mai 2017 hervorgegangen ist. Ein erster Komplex thematisiert die Systematik und Gesetzgebungstechnik der kirchenrechtlichen Kodifikationen. Giuliano Brugnotto, seinerzeit Präside der Venezianer Fakultät und inzwischen Bischof von Vicenza, skizziert knapp die Grundannahmen der ersten Kodifikation, vor allem in vergleichender Perspektive mit dem Code civil. Der gewichtige Beitrag von Andrea Padovani arbeitet die Systematik des im Corpus iuris canonici zusammengefassten Rechtsstoffs heraus, also der Summe der in langen Jahrhunderten gewachsenen kirchlichen Rechtsnormen. So erst wird die immense Herausforderung für den kodikarischen Gesetzgeber deutlich: Es galt, den immensen Rechtsstoff zu sichten, noch Geltendes von Überholtem zu scheiden sowie eine kohärente Systematik zu entwickeln, welche schließlich in einem Gesetzbuch zu synthetisieren war. Die Gegenüberstellung der jeweiligen Systematik von CIC/1917 und CIC/1983 (Patrick Valdrini) lässt deutlich werden, wie grundlegend unterschiedlich die Ausgangslage beider Kodizes war: 1917 ging es tatsächlich um eine „Kodifikation“ im Wortsinn, während vor 1983 der Kodex einer „Revision“ (und zwar am Maßstab der vom II. Vatikanischen Konzil vorgegebenen inhaltlichen Kriterien) unterzogen wurde. Einen nützlichen Seitenblick zu den jeweiligen zeitgenössischen Kodifikationen des weltlichen Rechts bieten Thierry Sol (zum CIC/1917) und Andrea Nicolussi (zum CIC/1983). Dimitri Salachas, emeritierter Exarch von Griechenland, zeigt die Grundlinien des CCEO auf, welcher eine Rahmenordnung für die 23 katholischen Ostkirchen bildet, auf deren Grundlage dann das jeweilige Eigenrecht einer jeder dieser Kirchen aufruht. Seit dem klassischen kanonischen Recht des Hochmittelalters stehen kirchliche und weltliche Rechtsordnung in einem – bisweilen überaus fruchtbaren – wechselseitigen Austausch. Nicht wenige Rechtsinstitute des geltenden weltlichen Rechts verdanken sich dem kanonischen Recht. Der zweite Hauptteil beleuchtet nun, inwieweit der CIC/1917 die weltlichen Rechtordnungen des 20. Jh. beeinflusst und befruchtet hat. Die gewählten Referenzländer ergeben einen gemischten Befund – von einer nahezu ausgebliebenen Rezeption in Frankreich (Brigitte Basdevant-Gaudemet) über manche Wechselwirkungen in Spanien (Joaquín Sedano) bis hin zu spürbaren Auswirkungen in Italien (Romeo Astorri), wie sie vor allem in der Schule der italienischen Laienkanonisten sichtbar wurden. Carlo Roberto Maria Radelli zeichnet sorgsam die dem CIC nachfolgende Entwicklung in der Kanonistik nach, während Chiara Minelli sich eingehend dem aus dem Corpus tradierten wie im CIC rezipierten Axiom der aequitas canonica zuwendet, und Juan Ignacio Arrieta, Sekretär des römischen Dikasteriums für die Gesetzestexte, der Frage nach dem Stellenwert der kirchenrechtlichen Kodifikation in einer globalisierten Welt nachgeht. Der dritte Themenschwerpunkt des Bd. leuchtet den historischen Kontext aus, vor dem die vorbereitenden Arbeiten der Kodifizierung von 1917 zu sehen sind. Angesichts der zahlreichen gravierenden Herausforderungen, denen sich die Kirche damals zu stellen hatte, wird das anerkennende Urteil von Ulrich Stutz (eine „wohlüberlegte, ausgereifte Arbeit“) noch verständlicher: Der Erste Weltkrieg tobte (Gabriele Paolini erläutert die Friedensnote von 1917), während die „Römische Frage“ weiter offen war (Francesco Margiotta Broglio). Gerade ein Jahrzehnt zuvor hatte Pius X. die Kurienreform ins Werk gesetzt (Giorgio Feliciani). In der Endphase der Redaktion des CIC betraten massiv kirchenfeindliche, von gezielter Verfolgung nicht zurückschreckende Regime in Mexiko (Paolo Valvo) und Russland (Adriano Dell’Asta) die Bühne der Weltgeschichte. Insgesamt ein überaus gelungener und instruktiver Bd. (dessen Benutzerfreundlichkeit durch ein Sachverzeichnis noch gewonnen hätte), dem eine weite Verbreitung zu wünschen ist.
Stefan Mückl
Tobias Reichard, Musik für die ‚Achseʻ. Deutsch-italienische Musikbeziehungen unter Hitler und Mussolini bis 1943, Münster-New York (Waxmann) 2020 (Musik und Diktatur 3), 526 pp., ill., ISBN 978-3-8309-4233-7, € 54,90.
Terzo numero della collana „Musik und Diktatur“ diretta da Friedrich Geiger, questa ponderosa monografia è frutto delle approfondite indagini condotte da Tobias Reichard in qualità di assistente di ricerca presso l’Università di Amburgo. A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso la messe degli studi dedicati alla musica e alla vita musicale in Italia e in Germania nel periodo delle dittature, e in particolare all’uso che i due regimi fecero della musica e ai rapporti che i protagonisti delle due scene musicali (compositori, interpreti, critici, organizzatori) intrattennero con il potere, si è enormemente accresciuta: lo testimonia, almeno in larga misura, la stessa nutrita bibliografia posta in calce al volume. „Musik für die ‚Achseʻ“ adotta tuttavia una prospettiva affatto originale. L’obiettivo è puntato sul ruolo svolto dalla musica nello sviluppo delle relazioni tra i due regimi, sul confronto tra due tipi di organizzazione della vita musicale, sulle reciproche influenze, sul non semplice tentativo di individuare strategie comuni e sul peculiare carico ideologico che entrambi i regimi riversarono su questo specifico filone dell’espressione artistica, in tutti i suoi aspetti e corollari. Con valenze mutevoli, che vanno dalla ricerca di affinità, con cui cementare l’alleanza ufficialmente sancita nel 1936, all’oggettivo emergere di differenze di scuole e tradizioni, in un leggibile sottotesto di competizione. Fa da prologo al volume (cap. I) – insieme a un’ampia declaratoria sullo stato dell’arte, le fonti, gli strumenti e le metodologie d’indagine – uno zoom sul viaggio di Hitler in Italia nel maggio 1938. Se ne evidenzia la diversa strategia organizzativa rispetto a quella riservata, nel settembre precedente, alla visita di Mussolini in Germania: se la regia tedesca aveva puntato sull’ostentazione della potenza militare e industriale, in Italia l’esibizione della potenza militare si affianca a quella di una più che millenaria tradizione artistica e culturale. Di qui l’innesco di un percorso che studia e confronta le singole politiche e indaga sistematicamente gli scambi reciproci sub specie musica, sulla base di un’amplissima documentazione, in buona parte inedita, proveniente soprattutto dagli archivi dei ministeri dei due paesi, ma anche dagli archivi dei teatri e dagli archivi privati di singoli musicisti. Individuati alcuni snodi nevralgici nell’ambito della storia politica e delle relazioni diplomatiche tra Italia e Germania, l’autore ripartisce cronologicamente la materia in cinque capitoli (dal secondo al sesto), che inquadrano altrettanti agglomerati tematici lungo il divenire degli orientamenti di politica culturale, e specificamente musicale, di entrambi i paesi. La strategia espositiva è certamente coerente con l’obiettivo della ricerca anche se, andrà osservato, non sempre la segmentazione si dimostra parimenti funzionale alla descrizione delle due diverse realtà. Nel secondo capitolo, che copre il primo decennio di vita del regime fascista e coincide dunque con le fasi apicale e finale della Repubblica di Weimar, l’obiettivo è puntato sul grado di politicizzazione di cui viene investita la musica. Le novità principali non stanno tanto nel rilievo di una sostanziale mancanza di orientamenti governativi precisi (tesi in particolare a identificare, in entrambi i paesi, tendenze musicali ‚nemiche‘), quanto piuttosto nell’evidenziazione della mancanza di risorse infrastrutturali e finanziarie in grado di supportare una tale politica. Il terzo capitolo si concentra sul primo biennio del regime nazionalsocialista (1933–1934). Se era noto che, a differenza del fascismo, la dittatura tedesca si dotò fin da subito di una struttura organizzativa rigorosa e si connotò per orientamenti netti di politica culturale, ben emerge dalla ricerca di Reichard come, in questi anni, il processo verso un sempre più stretto controllo delle attività proceda in modo parallelo e paragonabile. Se l’assetto statale e la strutturazione corporativa di cui il fascismo si era nel frattempo dotato esercitarono un’influenza sull’istituzione e gli sviluppi della Reichskulturkammer (della Reichsmusikkammer nello specifico), la stretta dipendenza di questa dal Propagandaministerium di Goebbels avrebbe fornito un modello per gli sviluppi dell’italiano Ministero della stampa e propaganda, trasformato nel 1937 in Ministero della cultura popolare. Con il quarto capitolo, dedicato agli anni 1935–1937, il cerchio si stringe intorno alle premesse, alla stipula e alle immediate ricadute dell’intesa, sottoscritta dai due capi di stato il 24 ottobre del 1936. Vago nel dettato, ma di profondo significato politico, il patto non solo sancì l’alleanza militare, ma comportò anche un avvicinamento delle due politiche culturali. Come ben rilevato dallo studioso, quest’ultimo intento avrebbe però incontrato in entrambi i paesi non poche difficoltà di realizzazione. È vero che le maglie della definizione di „arte musicale fascista“ – che in una prima fase si erano mantenute abbastanza larghe da comprendere un largo campo di orientamenti diversi, dall’ossequio alla tradizione melodrammatica romantica e verista al recupero nazionale in chiave novecentesca dell’antico passato musicale, fino alla più intrepida proiezione verso il futuro – avevano cominciato in effetti restringersi (anche sulla scia del motto mussoliniano „andare verso il popolo“). Il tentativo di individuare politiche comuni e comuni nemici, tuttavia, si scontrava con tradizioni culturali, e conseguenti visioni dell’altro, oggettivamente diverse (illuminante, a questo proposito, l’ampio paragrafo dedicato alla censura nei due regimi). Il quinto capitolo si concentra sul 1938, l’anno dell’estendersi delle persecuzioni antisemite naziste all’Austria e poi alla Cecoslovacchia, della promulgazione delle „leggi a difesa della razza“ da parte del governo fascista e infine, il 23 novembre, della firma del cosiddetto ‚accordo culturale‘, che prevedeva la creazione di una fitta rete di scambi tra i due paesi, volta alla fusione programmatica delle culture italiana e tedesca. Notevoli elementi di novità si hanno qui proprio nello studio delle reciproche relazioni in tema di politiche di esclusione. Il sesto capitolo è dedicato all’ultimo segmento di questa storia, che dall’inizio della seconda guerra mondiale arriva alla deposizione di Mussolini. Nell’ulteriore saldarsi dell’alleanza (e nel contestuale manifestarsi di uno spirito concorrenziale), tema principale è l’investimento dei due regimi, e i mutui scambi, nell’ambito delle rispettive offerte concertistiche e teatrali. Prospettive di studio decisamente originali si orientano anche sul ruolo della musica direttamente nel campo della mobilitazione bellica, o sul ruolo delle organizzazioni musicali internazionali. Un’interessante appendice documentaria correda questa ricerca importante e di sicuro impatto, tanto per l’apporto di nuovi dati e letture, quanto per la possibilità di estensione ad altre relazioni internazionali.
Mila De Santis
Paul Corner, Mussolini e il fascismo. Storia, memoria e amnesia, traduzione di Teresa Bertilotti, Roma (Viella) 2022 (l’antidoto 5), 160 S., ISBN 978-88-3313-989-0, € 20.
Das vorliegende Buch ist in einer 2020 von Fulvio Cammarano bei Viella ins Leben gerufenen Reihe, „l’antidoto“, erschienen, deren Anliegen es ist, mit den Mitteln der historischen Forschung in aktuellen geschichtspolitischen Debatten insbesondere gegen revisionistische Mythenbildung und fake history Stellung zu beziehen. Die Reihe wendet sich an ein breiteres wissenschaftlich interessiertes Publikum und ist getragen von der Überzeugung, mit Hilfe von Fragen und Ergebnissen der akademischen Geschichtswissenschaft kritisch und erhellend den öffentlichen Diskurs voranbringen zu können. Wenn man in Zeiten der Omnipräsenz der sozialen Medien und eines ausufernden Marktes historischer Angebote aller Art weiterhin auf die aufklärerische Kraft der Geschichtswissenschaft vertrauen will, so ist Paul Corners klar strukturierte, problemorientierte Bilanz der Geschichte des Faschismus und seines Duce ein gelungener, vorbildlicher Beitrag zum Projekt des „Gegengifts“, der ohne didaktisch-moralischen Duktus auskommt und auf nüchterne Information und sachlich differenzierte Argumentation gegen eine seit langem betriebene, auf Relativierung, Verharmlosung und immer wieder auch auf positive Traditionsstiftung zielende „Normalisierung“ des italienischen Faschismus und Mussolinis setzt. Paul Corner kommt dabei nicht nur seine herausragende fachliche Expertise mit einer deutlichen Favorisierung einer sozialgeschichtlich fundierten Politikgeschichte, sondern auch seine Stellung in between als britischer Historiker zugute, der seit Jahrzehnten in Italien zu Hause ist und dort lehrt und forscht. Corner will keine Einführung in die Geschichte des Faschismus bieten, sondern diskutiert in sechs konzisen Kapiteln auf der Grundlage der aktuellen Forschung zentrale Fragen des Charakters der Diktatur, die in besonderer Weise mit dessen postumer Mythisierung verbunden sind. Dazu gehören Gewalt und Repression als konstituierende Faktoren von faschistischer Bewegung und Regime, Fragen des gesellschaftlichen Konsenses sowie des Verhältnisses von Staat und Partei, sozialstaatliche Errungenschaften und ökonomische Modernisierung, Außenpolitik, Imperialismus, Kolonialismus, Rassismus und Kriegführung sowie schließlich die Rolle des Duce in „seiner“ Diktatur. Die Befunde sind allesamt ernüchternd. Insbesondere verweist Corner auf die Kluft zwischen Anspruch und Wirklichkeit, zwischen totalitärer Ideologie und propagandistischer Fassade einerseits und dem Funktionieren und Agieren des Regimes, dem Alltag und den Erfahrungen der Masse der Italiener und Italienerinnen andererseits. Corner betont die dialektische Verschränkung von Zwang und Konsens, den Gewaltcharakter der Diktatur, ihre Fehlleistungen und ihr Scheitern gerade auch in selbstgesetzten, propagandistisch verkündeten Zielen – Spannungen, die unter den Zwängen und Belastungen des Krieges, dem zentralen Projekt und zugleich großen Desaster des Regimes, kulminierten und in die Niederlage mündeten. Corner zielt insbesondere darauf ab, die Rolle und den Einfluss Mussolinis im Faschismus zu relativieren. Für ihn steht außer Frage, dass der Mythos Mussolinis nur als ein Produkt des faschistischen culto del duce erklärt werden könne und überdies bereits Ende der dreißiger Jahre des 20. Jh. gefährlich ins Wanken geraten sei. Mussolini sei im Wesentlichen als Vermittler zwischen den unterschiedlichen Interessen- und Trägergruppen des Regimes zu verstehen, der sich in seinem Handeln weitgehend im vorgegebenen institutionellen Rahmen bewegte. Die „totalitäre Phase“ des Regimes seit 1936 habe sich in einem rein äußerlichen Spektakel erschöpft. Mit dieser zugespitzten Interpretation relativiert Corner einflussreiche Deutungsansätze wie denjenigen Emilio Gentiles vom totalitären Charakter der Diktatur – wie überhaupt Fragen der Ideologie in seiner, man könnte sagen „pragmatischen“, weil auf den alltäglichen „fascismo realmente esistente“ (S. 20) ausgerichteten Analyse, eine eher nachgeordnete Rolle zukommt – und wendet sich dezidiert gegen personalisierende Ansichten vom Faschismus und seiner Epoche, die auf die Rolle einer übermächtigen Führerfigur abheben. Paul Corner plädiert in seinem Essay für eine realistische, d. h. den historischen Erkenntnissen angemessene „memoria utilizzabile“ (S. 142), die die nationale Identität der Italienerinnen und Italiener aus ihrer Anbindung an die faschistische Vergangenheit in Gestalt der Viktimisierung und des Märtyrertums einerseits, des Festhaltens am Glauben an die Größe des Duce andererseits befreit. Ein wichtiger Schritt hierzu bestehe in der Anerkennung des Scheiterns des Regimes. Corner hat für dieses Unternehmen der „Entzauberung“ des Faschismus ein nützliches Instrument bereitgestellt. Es kommt nun nur noch darauf an, es produktiv, auch in der universitären Lehre, zur Wirkung zu bringen.
Martin Baumeister
Amedeo Osti Guerrazzi, Nessuna misericordia. Storia della violenza fascista, Milano (Biblion Edizioni) 2022 (Studi di storia contemporanea 3), 320 pp., ISBN 978-88-3383-264-7, € 25.
Come è stato possibile che tra il 1943 e il 1945 i fascisti repubblicani abbiano compiuto atti di violenza diffusa, operata da polizia, guardia nazionale repubblicana, esercito, brigate, legioni, bande, gruppi autonomi, per reprimere la Resistenza, l’antifascismo, gli ebrei? L’autore indaga il rapporto tra fascismo e violenza inserendosi nel dibattito che parte dagli anni Settanta. L’approccio è quello di indagare storicamente l’origine della violenza fascista ma soprattutto come questa sia sviluppata e trasformata; dalle crisi politiche ed economiche del dopoguerra fino al biennio 1943–1945 con un crescendo che rovescia i valori liberali e cristiani. Un libro drammatico e necessario per l’opacità che permane nella ricerca e per le derive che si avvertono anche oggi in molte democrazie. Rifiutando la scorciatoia dei reparti condotti in azione da psicopatici, per cui la vita umana non aveva sacralità, l’autore indaga piuttosto l’introiezione della violenza, il quadro di riferimento mentale nel lungo periodo a partire dalla guerra di trincea e le sue modalità; un’esperienza vissuta da oltre quattro milioni di italiani. Esiste quindi una specificità della violenza fascista? Una guerra fascista? L’assunto della ricerca è che, ideologicamente connessa al fascismo in uno scatenamento progressivo e senza più limiti, ci fu violenza generalizzata anche contro i non combattenti. I densi due capitoli centrali raccontano un armamentario di turpitudini, ossessioni con annesse giustificazioni utilizzate poi perfino per l’amnistia del dopoguerra. Forme premoderne di punizione, manganello e pugnale per terrorizzare il nemico, bastonatura e aggressione con armi da taglio, il rito dell’olio di ricino, il taglio di barba e capelli, esposizione del corpo nudo erano gli strumenti per ridicolizzare e terrorizzare. Progressiva la trasformazione dell’educazione generale, con addestramento alle armi nella scuola; fino a 14 anni educazione allo spirito militare della nazione, dai 14 ai 18 preparazione ginnico-sportiva, dai 18 anni preparazione militare, dai 21 leva militare. Una Caserma-Italia pronta a guerre di espansione. Molta violenza fascista venne agita da giovani che mai erano stati in guerra. Le truppe della RSI, ad esempio, erano nate tra il 1924 e il 1926. Unite da un quadro di riferimento mentale per ideologia e formazione, generazioni diverse si macchiarono di crimini orrendi contro la popolazione civile. La violenza cui furono esposti gli italiani in quel ventennio ha pochi paragoni nella storia europea. Con il nazifascismo ci furono in Italia brutalità mai prima conosciute; dal 1944 la brutalità del regime repubblicano andò oltre gli episodi sporadici nelle colonie, si ruppe la „matrice maschile della guerra“. Ci fu violenza sui vecchi, sui bambini e sulle donne, con torture sessuali nelle caserme fasciste. Molti veterani delle guerre d’Africa, di Grecia e dei Balcani reiterarono, nell’esercito della RSI, i comportamenti di violenza delle guerre d’Africa, di Grecia e dei Balcani. I giovani militari, forse anche di leva, condussero nella RSI una guerra civile di tale ferocia che si spiega con la fede ideologica di ragazzi nati e cresciuti nell’educazione littoria. Il fascismo è stato sempre guerra; 1921 „riconquista della Libia“, guerra di Etiopia, guerra di Spagna, Seconda guerra mondiale. Lo stato fascista fu sempre in guerra contro l’„antinazione“. La sofisticata rete di polizia, Ovra (acronimo dal significato non conosciuto), gli uffici investigativi della milizia portarono a 12 330 le vittime del confino di polizia dal 1926 al 1943: 145 le donne. Una di esse Elena Di Porto l’ebrea romana che, vicina alla Resistenza, inascoltata, tentò di salvare i correligionari dalla razzia del 16 ottobre 1943. Come inascoltato, da parte dei vertici comunitari, era stato il rabbino capo di Roma Israel Zoller, nei giorni successivi all’occupazione della città, quando propose immediata evacuazione degli ebrei da Roma. L’autore ricostruisce con rigore necessario questi elementi non secondari dell’occupazione di Roma. Quanto ai militari non tutti furono fascistizzati. Non ci furono crimini di guerra nelle campagne condotte tra il 1940 e il 1943 contro gli eserciti francesi, inglesi e americani, né in Africa né in Grecia. Nelle campagne di controguerriglia invece non fu rispettata alcuna convenzione internazionale: lì ci fu „guerra fascista“ ovvero razzista, contro africani, slavi, ebrei al tempo stesso nemici politici e ideologici, „esseri inferiori“. I fascisti parteciparono ai bombardamenti sulla popolazione civile a Barcellona e Guernica quindi contro una popolazione cattolica e latina, in Jugoslavia si comportarono come nella guerra coloniale condotta in Libia e in Etiopia con l’intenzione di dare all’avversario la prova di una schiacciante superiorità, usando quindi artiglieria ed aviazione per qualsiasi minaccia. Sulle suggestioni del saggio di Claudio Pavone del 1991, l’autore espone il tema del nemico interno, del sabotatore durante la guerra a giustificazione della inusitata violenza dal ’43 al ’45. Ossessionati da un mondo di nemici, i fascisti di Salò presero a perseguitare gli ebrei come mai prima in Italia. Nel linguaggio della RSI gli italiani diventano i fascisti e gli altri sono sicari, prezzolati dal nemico. Le stragi di civili, nella repressione della guerriglia partigiana, sono analoghe a quelle attuate nei paesi stranieri dove tutti i civili sono considerati complici dei partigiani a prescindere dalle loro effettive responsabilità. Chiunque fosse nella zona di operazione di un reparto combattente rischiava la vita. Tutto questo ebbe il suo estremo nel 1944 quando limiti di efficienza militare, limiti politici, il retaggio di una cultura militare e politica che aveva fatto della violenza il fulcro dell’ideologia si saldarono in un metodo moralmente inaccettabile. Le analisi dell’autore si discostano in questo dagli studi precedenti di Carlo Gentile. La disumanizzazione del nemico agita dai nazisti contro gli ebrei si ritrova nella violenza fascista contro i partigiani. Il solo fatto di non aderire alla ideologia fascista li rende non uomini, non italiani, colpevoli di essere nati. Il fascismo repubblicano scivola progressivamente verso una guerra totale contro la comunità. Nell’allucinante mondo delle squadre speciali e delle polizie fasciste, inoltre, tutti i riferimenti etici vennero capovolti come nell’universo concentrazionario nazista dove i criminali comuni, i triangoli neri, erano diventati i Kapò assumendo un certo potere all’interno dei campi. In questi capovolgimenti non sorprendono le conclusioni cui la ricerca approda che tanto eloquentemente ci ammoniscono per lo stato della nostra istruzione e la vigilanza sulla saldezza delle istituzioni democratiche. Perché è avvenuto tutto questo? Per mancanza di capacità e di cultura? Per penetrazione pervasiva della propaganda di regime? Sui fatti incalzanti di questo libro drammatico è necessario tornare quando chiediamo una scuola e un’università che abbiano una coscienza civile, capaci non solo di educare all’antifascismo, ma perfino di recuperare quei ragazzi lasciati soli a credere al fascismo. Perché è solo la coscienza civile la cura efficace per un’Italia che è tornata a produrre picchiatori.
Giovanna Grenga
Jana Wolf, In der Schmiede des „neuen Menschen“. Ausleseschulen im italienischen Faschismus, München (Oldenbourg-De Gruyter) 2022 (Studien zur Zeitgeschichte 96), 399 S., Abb., ISBN 978-3-11-077463-4, € 59,95.
Il regime fascista ha non solo teorizzato l’avvento di un „uomo nuovo“, si è anche dotato di strutture per forgiarlo. È proprio la dimensione pratica di quest’opera di modellamento ad orientare la ricerca di Jana Wolf. Attraverso la scelta di un caso di studio inesplorato, quello dei Collegi d’orientamento militare e professionale, l’autrice interroga, in modo originale e pertinente, la formazione concreta delle nuove generazioni e future classi dirigenti fasciste all’interno di queste scuole selettive, „fucine“ della rivoluzione antropologica fascista. La ricerca si fonda su un’impressionante quantità e varietà di fonti (documenti amministrativi, pubblicazioni delle organizzazioni giovanili, libri di testo, giornali scolastici, lettere, memorie e interviste di ex-alunni…), disseminate tra varie biblioteche e ben venti tre fondi archivistici, di cui l’autrice chiarisce, sin dall’introduzione, il valore storico, l’accessibilità e le lacune. Il volume si divide in sette capitoli. I due primi servono di entrata in materia ripercorrendo, da una parte, la storia dell’„uomo nuovo“ fascista, partendo dall’interpretazione che ne proposero tre figure legate alla storia dei Collegi, Mussolini, Renato Ricci e Achille Starace (cap. 1); dall’altra, un panorama delle istituzioni e delle politiche fasciste nel campo scolastico e educativo (cap. 2). La storia vera e propria dei Collegi inizia con il terzo capitolo, tramite uno studio del loro orientamento politico e sociale, della loro organizzazione interna e del loro finanziamento. Per questioni di fonti e di pertinenza, l’autrice si concentra più particolarmente su 5 scuole: i Collegi navali di Brindisi e di Venezia, il Collegio aeronautico di Forlì, il Collegio di specializzazione militare di Bolzano e il Collegio per orfani di guerra di Lecce. I due capitoli successivi, imperniati su un solido approccio prosopografico, offrono invece un’indagine approfondita degli attori, ossia gli studenti (cap. 4) e il personale dei Collegi (cap. 5), e specie del loro reclutamento. Sulla base di questi primi risultati, l’autrice prosegue con una disamina dell’offerta didattica e sportiva (lezioni, gite, attività fisiche …), del ruolo dell’educatore nell’elaborazione dei concetti pedagogici, e della quotidianità della vita in collegio. Questo sesto capitolo è anche l’occasione di vedere come i Collegi si distinguano dalle scuole statali. L’ultimo capitolo interroga le conseguenze, sul lungo termine, dell’educazione nei Collegi, tanto sui diplomati quanto sugli educatori, investigando il loro posizionamento durante la guerra civile e le loro traiettorie di carriera e di vita dopo il 1945. Gli approcci metodologici più originali sono l’approccio comparativo adottato nell’excursus al secondo capitolo, dove, ipotizzando l’esistenza di un „Asse di scuole selettive“ tra Italia fascista e Germania nazista, vengono paragonati i Collegi italiani con tre tipi di scuole selettive (Ausleseschulen) tedesche; e il ricorso, con prudenza e considerazione, alla storia orale – ossia a più di trenta interviste di testimoni contemporanei svolte dall’autrice – per sondare le ripercussioni dell’esperienza dei Collegi. Il libro offre così un quadro preciso e esauriente della storia dei Collegi. Ventidue in totale, essi vengono costituiti tra il 1936 e il 1942, principalmente nell’Italia settentrionale. Ideati da Renato Ricci, sono dapprima sotto il controllo dell’Opera Nazionale Balilla (ONB), guidata da quest’ultimo dal 1927 fino alla sua destituzione nel 1937. Con la subordinazione delle organizzazioni giovanili al partito, i Collegi confluiscono, nell’ottobre 1937, all’interno della Gioventù italiana del littorio (GIL), cappeggiata da Achille Starace. Anche dopo la rimozione del segretario di partito nel 1939, i Collegi continuano ad esistere sotto l’egida della GIL, fino al 1943. Dopo la caduta di Mussolini, la GIL viene conservata nella parte meridionale dell’Italia sotto il nome di Gioventù Italiana (GI), mentre a Nord, Ricci prova a mantenere i Collegi in vita, all’interno di un’ONB nuovamente costituita durante la RSI. I conflitti tra organizzazioni giovanili, partito fascista e ministeri turbano la fondazione dei Collegi, la quale, più improvvisata che pianificata, viene divisa in due fasi dall’autrice. La prima fase, che corrisponde al biennio 1936–1937, vede la nascita dei primi 5 Collegi, il cui orientamento era allora prevalentemente militare. La seconda fase, nel 1941–1942, corrisponde invece alla fondazione della maggior parte dei Collegi, il cui orientamento è tuttavia – malgrado quanto ci si potrebbe aspettare in un periodo di guerra – molto più professionale. In quanto „fucine“ di „un’uomo nuovo“, i Collegi avevano come vocazione di formare una nuova classe dirigente per l’esercito e per lo Stato (marina, aeronautica, istituzioni partitiche, organizzazioni giovanili …). Ciononostante, il progetto dei Collegi italiani era soprattutto quello di fornire degli „specialisti“ alle professioni, certo militari ma soprattutto civili, in modo tale da colmare la carenza di lavoratori qualificati identificata dal regime in vari campi tecnici. La ricchezza del volume è tale da non potere essere debitamente rispecchiata da queste righe. Una questione ci sembra tuttavia costituire uno dei fili rossi del libro, quella del rinnovo delle élites e del ruolo giocato dall’elitismo all’interno della rivoluzione sociale e antropologica fascista. Benché gli studenti fossero scelti sulla base della loro robustezza fisica e dei loro voti, il fatto che la selezione fosse avviata da una lettera di richiesta proveniente dai genitori e che le tasse di iscrizione rimanessero comunque molto alte portano l’autrice ad affermare che i Collegi non promossero né una vera e propria mescolanza sociale, né l’emergenza di una nuova élite. I Collegi servivano soprattutto a captare e a reinserire i figli delle élites tradizionali all’interno delle istituzioni di regime. Sebbene i Collegi non fossero un fulcro di avanzamento sociale nell’ambito della rivoluzione e dell’utopia sociale che si proponeva di raggiungere il fascismo, essi permisero tuttavia una forma di continuità nella formazione di future élites fasciste. Così, tramite quest’interrogazione sull’elitismo – che pervade sia la questione del reclutamento nei Collegi, sia quella della rivalità tra istituzioni statali, organizzazioni giovanili e esercito per la leadership dei Collegi e al centro del progetto di consolidamento e perennità del regime nel tempo – Wolf giunge a risultati notevoli, che saranno utili a più campi di ricerca.
Claire Lorenzelli
Renato Moro, Il mito dell’Italia cattolica. Nazione, religione e cattolicesimo negli anni del fascismo, Roma (Edizioni Studium) 2020 (Cultura Studium 186), 565 S., ISBN 978-88-382-4716-3, € 39.
Die Forschungen zum Verhältnis zwischen katholischer Kirche, vornehmlich dem Heiligen Stuhl, und faschistischem Regime haben in den letzten Jahren, angeregt durch die Öffnung der Bestände der Vatikanischen Archive zum Pontifikat Pius’ XI. 2006 an Fahrt aufgenommen, während die Öffnung der Akten des Pacelli-Papstes 2020 bereits lang anhaltende Debatten über das Verhalten von Papst und Kurie im Zweiten Weltkrieg insbesondere zum Nationalsozialismus und der Shoah neu beflügelt hat. Eine Integration der Forschungen zu katholischer Kirche und Katholizismus in die Geschichte des italienischen Faschismus steht bislang jedoch weitgehend aus, ein Umstand, der sich etwa an einschlägigen Synthesen des „Ventennio“ illustrieren lässt und sich auch in der Welle historischer Publikationen zum Faschismus anlässlich des 100. Jahrestags des „Marschs auf Rom“ abzeichnet. Die vorliegende Studie von Renato Moro bietet eine Analyse der faschistischen Diktatur als Phase einer grundlegenden ideologisch-politischen Transformation des italienischen Katholizismus mit weitreichenden Folgen für die Nachkriegszeit und zeigt dabei Perspektiven auf, wie die Mehrheitskonfession als prägende soziokulturelle Macht Italiens mehr als bisher in die Geschichte des Faschismus einbezogen werden kann. Die umfangreiche Arbeit gründet in einer mehr als vier Jahrzehnte währenden intensiven Beschäftigung des Autors mit dem Thema und zeichnet sich aus durch eine überaus breite Basis weitgehend publizierten Quellenmaterials und ein nuanciertes close reading einer Vielfalt katholischer – d. h. hier auch ausschließlich männlicher – Stimmen, von Papst und Kurie über Vertreter der Hierarchie, des Klerus und einzelner Orden bis hin zu Repräsentanten katholischer Verbände, insbesondere der Azione cattolica und ihrer Teilorganisationen, Institutionen wie der Mailänder Università cattolica sowie katholischer Publizisten und Intellektueller unterschiedlicher Couleur – eine Analyse, die ein facettenreiches Bild unterschiedlicher Strömungen und Positionen innerhalb des italienischen mondo cattolico ergibt. Moro betreibt in erster Linie eine politisch-religiöse Ideengeschichte. Die im Spannungsfeld von Kirche und Faschismus besonders relevanten Phänomene symbolischen Handelns, die sich v. a. in Riten, Liturgien und öffentlichen Auftritten und Inszenierungen manifestieren, stellt er zurück, klammert sie jedoch nicht völlig aus, genauso wie er punktuell auf Einstellungen und Stimmungen der „stummen“ katholischen Massen verweist, wie sie sich v. a. in Berichten der faschistischen Polizei spiegeln. Seine zentrale Frage richtet sich auf das Problem der unter dem Faschismus neu verhandelten nationalen Identität der Italiener und Italienerinnen. Moro interpretiert das faschistische „Ventennio“ als Wende- und Höhepunkt einer bereits im Risorgimento angelegten, seit dem späten 19. Jh. verstärkten Hinwendung des italienischen Katholizismus zur Nation. Er versteht das Verhältnis von Nation, Katholizismus und Regime als zentrales Element in der „rivoluzione dei modi profondi di pensare e di identificarsi degli italiani“ (S. 34). Die Kirche und führende Vertreter des Katholizismus hätten die vom Faschismus propagierte Verbindung von Nation und Religion, den mito dell’Italia cattolica, als Chance für eine religiöse Restauration verstanden und nutzen wollen. Im Mythos der katholischen Nation seien allerdings zwei in Spannung zueinander stehende Modelle und Vorstellungen der Nation aufeinandergetroffen, die zwei in ständiger Konkurrenz beschrittene Wege der Nationalisierung der Massen implizierten. Symptomatisch steht hier etwa der Kommentar Luigi Sturzos zu den Lateranverträgen aus dem Londoner Exil, der Papst strebe den katholischen Staat an, der im Konkordat seinen Ausdruck finde, während Mussolini den faschistischen Staat wolle, für dessen Durchsetzung er das Konkordat das Instrument bilde (S. 155). Moro interessiert sich besonders dafür, wie die politische Instrumentalisierung der Religion durch den Faschismus zur Politisierung und Ideologisierung des Glaubens selbst beitragen konnte, wie sie den Katholizismus – im Unterscheid zur prinzipiellen Verurteilung von Kommunismus und Nationalsozialismus durch das Lehramt – in der Erkenntnis seines totalitären Charakters und damit in der kritischen Abgrenzung blockierte und somit entscheidend zur Konsensbildung für die Diktatur beitrug. Die Selbstdarstellung des Regimes als Wahrer der katholischen Identität Italiens habe die Zustimmung der großen Mehrheit der Katholiken entscheidend befördert, so dass selbst die von katholischer Seite mit tiefem Misstrauen und Ablehnung bedachte Annäherung an das nationalsozialistische Deutschland nicht zum Bruch führte. In der Phase des größten Gleichklangs von Kirche und Regime im Zeichen des Mythos der Italia cattolica brachte dieser die Katholiken zur vorbehaltlosen Identifikation mit dem imperialen Projekt des Faschismus und zur vollen Anerkennung von dessen „carattere provvidenziale“ (S. 196), auch wenn die sich von Kirche und Katholiken favorisierte traditionalistisch-autoritär-korporativ ausgerichtete „soluzione cattolica“ (S. 386) deutlich vom Projekt des stato fascista Mussolinis unterschied. Gleichzeitig, so Moro, verdeckte die Beschwörung des „katholischen Italien“ sich im katholischen Lager ausbreitende Sorgen über schwindende Kirchlichkeit und einen grassierenden Sittenzerfall der italienischen Bevölkerung, Ängste, die allerdings einer weitergehenden Kontextualisierung und Problematisierung bedürften. Eine schmerzliche Lücke lässt die Studie, die mit dem Sturz Mussolinis durch den faschistischen Großrat endet, für den Zeitraum zwischen Juli 1943 und April 1945. Dennoch formuliert Moro weitreichende Thesen für die Nachkriegszeit. Seine Untersuchung legt nicht nur nahe, dass der Mythos des katholischen Italien eine ideologische Grundlage für die lange Hegemonie der Democrazia Cristiana in der Italienischen Republik bildete, sondern sich auch massiv auf den Umgang mit der faschistischen Vergangenheit auswirkte: Er habe eine „vera e propria ‚auto-assoluzione‘ collettiva“ (S. 551) ermöglicht. So konnte sich nach der Niederlage des Faschismus die Auffassung verbreiten, das Land sei letztlich mehr katholisch denn faschistisch gewesen und habe die totalitäre Radikalisierung des Regimes mit Rassismus, Achsenbündnis und dem Gang in den Krieg in seiner Mehrheit nie richtig vollzogen. Diese Form der Dekonstruktion des Mythos der italiani brava gente ist nur einer in einer ganzen Reihe bemerkenswerter Befunde dieser anregenden material- und thesenreichen Studie, die einen fundamentalen Beitrag zur Geschichte des italienischen Katholizismus wie zur Geschichte des Faschismus in Italien leistet.
Martin Baumeister
Guido Pescosolido, Rosario Romeo. Uno storico liberaldemocratico nell’Italia repubblicana, Roma, Bari (Laterza) 2021 (Percorsi), 369 S., ISBN 978-88-581-4240-0, € 30.
Unter den italienischen Historikern des 20. Jh. nimmt der aus Sizilien stammende Rosario Romeo (1924–1987) eine herausragende Stellung ein. Zwar hat Romeo, anders als etwa Franco Venturi, keine eigene „Schule“ hervorgebracht, doch prägte sein wissenschaftliches Werk die Historiographie Italiens in den Jahrzehnten nach dem Ende des Zweiten Weltkriegs enorm. Dies gilt für die von Romeo in den 1950er Jahren vorgelegten Beiträge zur Debatte über die Zusammenhänge von Risorgimento und Kapitalismus, für seine Kritik an der von Gramsci und Sereni verfochtenen These einer ausgebliebenen Revolution auf dem Lande im Risorgimento und ebenso für die monumentale Biographie „Cavour e il suo tempo“ (1969–1984), die bis heute zurecht als Meilenstein der europäischen Geschichtsschreibung betrachtet wird. Das historiographische Œuvre steht auch im Zentrum der konzisen intellektuellen Biographie Romeos, die jüngst Guido Pescosolido vorgelegt hat. Letzterer zählt zu Romeos Schülern und rekonstruiert die Entwicklung seines maestro mit viel Sympathie, zugleich aber mit der notwendigen wissenschaftlichen Distanz. Dabei vermag sich Pescosolido auf eine beeindruckende Kenntnis der Schriften Romeos und dessen leider nur bruchstückhaft überlieferten Nachlass zu stützen. Freilich geht es Pescosolido nicht nur um den Historiker Romeo, sondern ebenso um den Intellektuellen und Politiker, der sich seit den 1950er Jahren als Liberaler mit Verve in politische Diskussionen einmischte. In den 1980er Jahren zog Romeo sogar für die republikanische Partei in das europäische Parlament ein. So vertritt Pescosolido in seinem Bd. die These, der „liberaldemokratische Historiker“ Romeo habe sich nicht nur wissenschaftlich etabliert, sondern eine eminent bedeutsame Rolle als politischer Akteur im engeren Sinne gespielt. Auch wenn nicht zu bestreiten ist, dass im Werk Romeos, wie bei vielen Historikerinnen und Historikern seiner Generation, Historiographie und Politik eine enge Verbindung eingingen, erscheint die These dennoch etwas überzogen. So sehr sich Romeo für die Entwicklung des Süden Italiens (etwa in der Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia) oder im europäischen Parlament engagiert hat, war er doch immer zuerst Wissenschaftler, der Politik und Gesellschaft von der Geschichte her verstand und davon ausgehend seine politischen Positionen bezog. Auf den Vorrang der Historiographie verweist im Grunde auch der Aufbau des Bd. selbst, denn in den ersten acht Kapiteln behandelt Pescosolido ausführlich die Etappen der Entwicklung des Wissenschaftlers, während die fünf folgenden, kürzeren Kapitel dem Politiker und Intellektuellen gewidmet sind. Für beide Handlungsfelder gleichermaßen relevant war freilich Romeos Auseinandersetzung mit der Geschichte des Risorgimento, die der sizilianische Historiker auf breiter Quellengrundlage untersuchte, dabei jedoch seine Fragestellungen – gemäß den Maximen der ethisch-politischen Geschichtsschreibung Croces – aus der Perspektive der Gegenwartsgesellschaft entwickelte. Dabei unterstrich Romeo, wie sein Biograph nachweist, die positive, identitätsstiftende Funktion der nationalen Ideen des Risorgimento, die er in den Jahrzehnten nach 1945 für weiterhin außerordentlich aktuell hielt. Im Gegensatz zu marxistischen Historikern seiner Generation, die in gewisser Weise den historiographischen Mainstream repräsentierten, sah Romeo im liberalen Italien keine Vorstufe des Faschismus, sondern eine sich im Kern frei entfaltende Gesellschaft, die für die sog. Massen zunehmende Chancen der Partizipation bot und sich den Standards der modernen, europäischen Staaten anzugleichen suchte, bis der Erste Weltkrieg das Königreich Italien in eine fundamentale Krise gestürzt habe. Die Grundgedanken dieser Interpretation der italienischen Nationalgeschichte hat Romeo bereits in seiner Dissertation „Il Risorgimento in Sicilia“ (1950) entfaltet, die ihm nach dem Erscheinen sogleich hohes Ansehen verlieh und ihm einen (nicht zuletzt von Federico Chabod und Nino Valeri massiv geförderten) kometenhaften Aufstieg ermöglichte. So erwarb sich Romeo den Ruf, der führende Historiker des 19. Jh. in seiner Generation zu sein, den er nicht zuletzt mit seiner innovativen Cavour-Biographie untermauerte. Als 1969 der erste Bd. des „Cavour“ erschien, war Romeos Weltbild allerdings bereits in eine Krise geraten, denn die nationale Tradition des Risorgimento verlor in der italienischen Gesellschaft seit den 1960er Jahren rasant an Strahlkraft. Darauf reagierte Romeo, indem er sich für die europäische Idee öffnete. Allerdings konnte er sich ein vereintes Europa nur als Synthese nationaler Traditionen und Wertesysteme vorstellen. Das komplexe Geschichtsdenken und die politische Vorstellungswelt Romeos zeichnet Pescosolido mit seinem intellektuellen Profil des Historikers vorzüglich nach.
Thomas Kroll
Francesco Lotoro, Un canto salverà il mondo. 1933–1953. La musica sopravvissuta alla deportazione, Milano (Feltrinelli Roma) 2022 (Varia), 312 pp., ISBN 978-88-07-49317-1, € 20.
„Musica concentrazionaria è la produzione musicale in cattività e, precisamente, in condizioni minime o estreme di privazione dei diritti fondamentali dell’uomo.“ Per comprendere pienamente il fenomeno della musica concentrazionaria oggetto della più che trentennale ricerca del pianista, direttore d’orchestra e docente al conservatorio di Bari, Francesco Lotoro, è necessario precisare che la sua ricerca musicologica mette a confronto i testi e gli spartiti con la storia, ampliando in chiave sociologica il racconto, la riproduzione l’esecuzione dei brani recuperati. Nel 1933 il regime nazista istituì il lager di Dachau e nel 1953, anno della morte di Stalin, si avviava la graduale liberazione dai Gulag sovietici; lo spazio e la storia dei musicisti nell’universo concentrazionario di quel ventennio è ora raccolto in questo denso libro. Leggendo il bando di un concorso a Tel Aviv, il giovane Francesco Lotoro fu sorpreso dal repertorio richiesto ai concorrenti che includeva una sonata per pianoforte scritta a Theresienstadt da Gideon Klein, pianista e compositore cecoslovacco costretto ad abbandonare gli studi accademici vietati agli ebrei dopo l’occupazione nazista della Cecoslovacchia del marzo 1939. In quegli anni Klein era allora un autore completamente sconosciuto a Lotoro ma pure dimenticato dalla letteratura musicale. Incuriosito, Lotoro si reca a Praga nella speranza di trovare altre composizioni di Klein; torna da quel viaggio con 300 opere. L’ opera complessiva di recupero della musica scritta in Ghetti, Lager, Gulag e Campi di prigionia militare, iniziata a Praga negli anni Ottanta e ininterrotta ad oggi, il Maestro la racconta con passione nel libro „Un canto salverà il mondo“, dai capitoli veloci come le giornate dei protagonisti. I primi viaggi del giovane Lotoro per incontrare musicisti sopravvissuti sono precari e solitari, poi si svolgono con i suoi straordinari collaboratori tra cui fondamentale la moglie Grazia. Con non comuni energie fisiche ed etiche il talentuoso musicista recupera 8000 opere di musica concentrazionaria, diecimila documenti di produzione musicale nei campi, microfilm, diari, quaderni, documentazione fotografica, interviste ai sopravvissuti. I recuperi sono esito di innumerevoli viaggi nel mondo fino in Thailandia, Giappone, America Latina, Australia. Un grandissimo libro che racconta una ricerca e una storia di uomini e donne che si voleva privare anche della vita spirituale come ulteriore vessazione e per questo „Un canto salverà il mondo“ è soprattutto la testimonianza di chi ha salvato il genere umano dall’abisso facendo musica. La Germania del pensiero, delle arti e della musica conobbe un ampio e accelerato fenomeno di migrazione verso USA, Canada, Paesi centro-sudamericani, Oceania, Palestina Mandataria Britannica e Shanghai. Il Reich si privò di una generazione di geniali scopritori di nuovi sviluppi del linguaggio musicale; il cuore musicale dell’Europa, quando riuscì a sfuggire all’universo concentrazionario, si disseminò ovunque. Nel 1939 a Dresda il pianista, compositore d’operetta e musicista di intrattenimento Siegfried Sonnenschein, già leader di una Jüdische Tanzkapelle nel 1936 denominata Tanzkapelle Sonnenschein, fu informato da un confidente membro del NSDAP che rischiava di essere arrestato in quanto ebreo, pertanto si imbarcò per Shanghai; scrisse canzoni e operette; la sua celebre operetta „Sag, bist du mir gut“ fu allestita nell’aprile 1946 presso lo Eastern Theater di Hongkou. Il pianista austriaco Gino Smart lavorò presso il Wiener Kleinkunstbühne ABC di Vienna e a Opava. Emigrato a Shanghai, scrisse le canzoni per la commedia „It takes two to be happy“; tra le sue canzoni di successo „Ein Kleid aus dunkelgrüner Seide“ e „Barbara“ su testo del drammaturgo ebreo austriaco Hans Morgenstern detto Hans Schubert, trasferito nel 1938 a Dachau dopo la Kristallnacht e riparato nel 1939 a Shanghai. Negli anni immediatamente successivi alla Guerra lavorò presso il Senet Restaurant di Shanghai, mise in musica il poema „Three Little Girls“. La sua fama a Shanghai è tale che tuttora c’è un Hotel in Shangnan Road che porta il suo nome; emigrato negli USA, si trasferì a New York dove lavorò per la televisione e come arrangiatore presso il teatro di Broadway, fu altresì maestro del coro e direttore presso il New York City Opera, morì nel 1959. L’austriaco Erwin Marcus studiò musicologia presso l’Università di Vienna, sino al 1938 fu preparatore e direttore di cori e gruppi operistici e accompagnò al pianoforte le cantanti Leo Slezak e Vera Schwarz. Nel 1938 si imbarcò per Shanghai, dove diresse la Grand Opera e la International Choral Society; nel 1949 si trasferì a Montreal per guidare il Workmen’s Circle Choir, tra le sue opere l’oratorio „Die Brücke“ per coro di bambini e piccola orchestra, un quartetto d’archi e canzoni, Sonata e Suite per pianoforte. Morì nel 1956 a Montreal. Dal 1934 al 1936 il pianista e didatta tedesco Andreas Barban studiò presso il Conservatorio di Lipsia con Robert Teichmueller e Max Hochkofler, nel 1938 fu arrestato, trasferito a Sachsenhausen e rilasciato a condizione che lasciasse la Germania; si imbarcò per Shanghai, dal 1939 al 1947 insegnò pianoforte, nel 1947 si trasferì a St John’s (Terranova, Canada). Tante le testimonianze e gli incontri, in particolare di musicisti tedeschi. Scrive il Maestro: „La musica è un’arte atmosferica ossia vive e plasma le sue forme nell’aria, può essere agganciata alla terra tramite supporto cartaceo o registrazione fonografica e discografica e, nel caso della musica concentrazionaria, sopravvivere alla prova del tempo tramandandosi anche per via orale o nascondendosi tra le pieghe dei ricordi di deportazione per essere – mediante un ideale intervento di chirurgica artistica – estratta da cervello e cuore del testimone grazie al bisturi filologico del ricercatore; una delle più preziose fonti di documentazione è quella della musica trasmessa oralmente dai sopravvissuti come nel caso di Sinti e Roma – generalmente musicisti amatoriali … e non bisogna dimenticare che al compositore può essere mancato il tempo e l’energia psichica e intellettuale per rivedere i propri lavori (qualora fossero stati già fissati alla carta), che il materiale scritto poteva significare per l’autore un enorme canovaccio dal quale estrarre l’opera nella sua forma finale solo dopo la liberazione dal Campo semmai fosse accaduto, che erano in gioco elementi contingenti legati a qualità e scarsità di carta o penne o matite, al tempo da dedicare in maniera continuativa alla creazione, all’interazione con altri compagni di prigionia che potevano costituire fonte di stimoli e incoraggiamento psicologico ma altresì di limitazione o disturbo. … Infine, testi e melodie nati spontaneamente, frutto di fattori imprevedibili, collegati all’episodio banale o tragico che sia stato fonte di ispirazione di una canzoncina o un inno o una melodia senza testo da cantare, fischiettare o eseguire su strumenti musicali disponibili; in altre parole, tali materiali musicali fortemente volatili possono essersi evoluti negli anni della deportazione, trasformati, arricchiti di materia musicale o strofe o inserti apocrifi e sono arrivati a noi non necessariamente su supporti fissi ma mediante meccanismi di copiatura o dettatura che, come un gioco di passaparola possono storpiarsi o contaminarsi o deformarsi rispetto alla fonte“. „Un canto salverà il mondo. 1933–1953. La musica sopravvissuta alla deportazione“ impone con urgenza alla ricerca musicologica di acquisire piena consapevolezza della inarrivabile grandezza di opere scritte in prigionia, cattività e deportazione, per ridisegnare prospettive musicali, rileggere l’estetica musicale del Novecento con inediti termini di paragone.
Giovanna Grenga
Lorenzo Gardumi/Anselmo Vilardi (Hg.), Diktaturen an der Grenze. Trentino – Südtirol – Tirol 1935–1945. Die Geschichte in Bildern erzählt, Bozen (Athesia), 2022, 223 S., Abb., ISBN 978-88-6839-615-2, € 20,46.
Der Bd. ist in Anlehnung an die Ausstellung „1935–45. Guerre e totalitarismi in una regione di confine“ entstanden, die 2015 unter der Schirmherrschaft der Europaregion „Tirol Südtirol Trentino“ in Trient eröffnet wurde. Die Hg. wenden sich mit ihrer Geschichte in Bildern an ein breites Publikum. Der Bd. besticht durch eine große Zahl interessanter Abb. Er besteht aus sechs Teilen. Zunächst wird der Faschismus in Trentino und Südtirol in Ausweitung des im Titel genannten Zeitraums von 1922 bis 1939 behandelt (Andrea Di Michele). Dort hat sich der Faschismus mit der Reminiszenz an den Ersten Weltkrieg eine neue Symbolik geschaffen. Zu den wichtigsten dieser Symbolsetzungen gehören die Gefallenenglocke von Rovereto (1925), das Mausoleum des Cesare Battisti (1935), das Beinhaus von Castel Dante (1938) und die strada degli artiglieri in Rovereto (1942). Im zweiten Teil wird zunächst die Entwicklung vom „Austrofaschismus“ bis zum Nationalsozialismus in Tirol rekonstruiert, wobei sich die Autorin Maddalena Guiotto vom Begriff des „Austrofaschismus“ distanziert, der von den Hg. präferiert wird. Zu Recht weist Guiotto darauf hin, dass das Dollfuß-Schuschnigg-Regime zwar Berührungspunkte mit dem Faschismus aufgewiesen habe, wichtige Bestandteile des Faschismus seien jedoch in Österreich nicht übernommen worden. Dann befasst sich Eva Pfanzelter mit den Südtiroler Optanten für das Deutsche Reich, die in ihrer neuen Heimat oft als Fremde gesehen, um die zugeteilten „Luxuswohnungen“ beneidet und, da sie oft nicht hochdeutsch, sondern nur ihre Südtiroler Dialekte sprachen, nicht verstanden wurden. Der dritte Teil ist, vielleicht auch der Kürze der Darstellung geschuldet, allzu plakativ geraten. Er befasst sich mit den Kriegen des nationalsozialistischen und faschistischen Totalitarismus, ohne diesen Begriff zu differenzieren. Der italienische Stato totalitario liegt aber auf einer anderen Ebene als der Begriffsgebrauch der Totalitarismusdiskussion, deren Verlauf etwa bei Bruno Seidel/Siegfried Jenkner (Hg.), Wege der Totalitarismus-Forschung, nachgelesen werden kann. Die fragwürdige These der Hg. lautet, dass Faschismus und Nationalsozialismus in der totalitären Qualität ihrer Kriegsführung gleichzusetzen wären. Der italienische Angriff auf Äthiopien sei ein „Vernichtungskrieg, ein Rassenkrieg ohne Einschränkungen“ (S. 103) gewesen mit „Verfolgungsmaßnahmen, die einem Apartheidregime in nichts nachstanden“ (S. 103). Der Rezensent möchte hier nichts beschönigen, erlaubt sich aber den Hinweis, dass „Apartheid“ Rassentrennung und nicht Rassenvernichtung bedeutet. Begrifflich wird hier einfach nicht sauber genug gearbeitet. Der vierte Teil des Buches befasst sich mit dem „Kino im Dienst der nazifaschistischen Ideologie“. 1924 wurde in Italien das Istituto LUCE gegründet, um mit seinen Produktionen die Erfolge der Diktatur zu bewerben. Zu den bekanntesten Filmen zählte mit „Condottieri“ (1937) des Südtiroler Regisseurs Luis Trenker auch eine deutsch-italienische Koproduktion, in der Parallelen zwischen Giovanni de’ Medici, dem berühmten Condottiere der Renaissance, und Mussolinis Faschisten nahegelegt wurden. Als paradigmatisch für das antisemitische Kino im Dritten Reich wird Veit Harlans Film „Jud Süß“ (1940) hervorgehoben. Dann befassen sich die Hg. mit der Instrumentalisierung der Volkskultur in Tirol und Südtirol. Auf Betreiben des Gauleiters von Tirol-Vorarlberg, Franz Hofer, wurden die zahlreichen Schützenvereine, Chöre und Musikkapellen zum Standschützenverband zusammengeschlossen, wodurch die Verbindung von Tiroler Tradition und Nationalsozialismus zum Ausdruck kommen sollte. Der fünfte Teil des Buches ist der „inneren Front“ und der „Mobilisierung der Zivilbevölkerung“ gewidmet. Am 8. September 1943 wurde der Waffenstillstand zwischen dem Königreich Italien und der britischen und amerikanischen Regierung bekannt gegeben, worauf die Wehrmacht schlagartig Nord- und Mittelitalien besetzte. Die Provinzen Trient, Bozen und Belluno wurden auf Befehl Hitlers zur „Operationszone Alpenvorland“ zusammengeschlossen und Gauleiter Hofer unterstellt. Während sich Hofer in der Provinz Bozen, also in Südtirol, der Kooperationsbereitschaft der deutschsprachigen Bevölkerung einigermaßen sicher sein konnte, appellierte er im Trentino mit einem gewissen Erfolg an die Reminiszenz an das historische Tirol. Entsprechend unterschiedlich war die Anwendung von Gewalt: „Terrorisierten die Deutschen in Belluno Partisanen und Zivilisten mit Razzien und Massakern …, wählten sie im Trentino eine mildere Form der Besetzung. Hier behinderten Polizeieinsätze die Widerstandsbewegung …, ohne dass der Zivilbevölkerung Gewalt zugefügt wurde. In Südtirol wie in Tirol beschränkten sich die Nazis auf die Verfolgung oppositioneller Bewegungen, der Dableiber [also jener Südtiroler, die nicht für Deutschland optiert hatten] und der ‚Reichsfeinde‘.“ (S. 187) Der Brenner, dem sich Adina Guarnieri widmet, spaltete die italienischen und die Südtiroler Widerstandskämpfer. Während jene den Fortbestand der Brennergrenze forderten, trat der „Andreas-Hofer-Bund“ für die Selbstbestimmung Südtirols und die Abschaffung der Brennergrenze ein. Der Brenner war zudem ein Brennpunkt alliierter Luftangriffe mit dem Ziel, den Nachschub der Wehrmacht nach Italien zu unterbinden. Der sechste und letzte Teil befasst sich mit Antifaschismus, Widerstand und der jüdischen Gemeinde von Meran, die innerhalb von zwei Jahren ausgelöscht wurde (Federico Steinhaus und Peter Pirker). Insgesamt ist die Darstellung facettenreich, wenn auch vielleicht nicht immer konsistent.
Michael Thöndl
Ilaria Pavan, Le conseguenze economiche delle leggi razziali. Edizione ampliata e rivista di Beyond the Things Themselves. The Economic Aspects of the Italian Race Laws (1938–2018), Jerusalem (Yad Vashem Publications) 2019, Bologna (Il Mulino) 2022, 320 S., ISBN 978-88-15-29500-2, € 25.
Aufbauend auf ihrer 2019 bei Yad Vashem publizierten Studie befasst sich die an der Scuola Normale Superiore in Pisa lehrende Ilaria Pavan mit den ökonomischen Auswirkungen der antijüdischen Gesetzgebung in Italien. Sie nimmt dabei sowohl die Enteignungen und Berufsverbote als auch die komplexen Restitutionen und die Wiedergutmachung nach dem Krieg in den Blick. Ilaria Pavan beginnt die chronologisch konzipierte Studie mit einem sozioökonomischen Profil der jüdischen Minderheit im Vorfeld der antijüdischen Gesetzgebung. Dabei liegt der Schwerpunkt auf den 1938 anhand „rassischer“ Merkmale ins Blickfeld der Faschisten geratenen 58 000 Personen. Die weitgehend urbane, heterogene Minderheit war in die italienische Mehrheitsgesellschaft integriert. Über 40 Prozent waren im Handel beschäftigt; viele waren als Angestellte oder in freien Berufen tätig. Anders als im europäischen Kontext sieht Ilaria Pavan in Italien eine geringere Anzahl jüdischer Groß-Unternehmer und entwickelt daher die These eines „feudo immaginario“, nämlich die eines Mythos von einer massiven jüdischen Dominanz in der italienischen Wirtschaft. Das zweite Kapitel befasst sich mit dem Zeitraum 1938 bis 1943. Ilaria Pavan behandelt die in der Gesetzesverordnung vom 17. November 1938 vorgesehenen Entlassungen und die Verbote, große bzw. kriegswichtige Unternehmen zu besitzen oder zu leiten. Es folgt eine Analyse der Gesetzesverordnung vom 9. Februar 1939, die sich mit Immobilien und Industrie- und Handelsgütern befasste und zur Gründung der Anstalt zur Verwaltung und Liquidation von Immobilien (EGELI) führte, die die nicht mehr erlaubten Immobilien übernehmen sollte. Verbunden damit war die systematische Erfassung aller „jüdischen Besitztümer“. Anders als aufgrund der antisemitischen Stereotype zu vermuten war, erwies sich lediglich ein Unternehmen als kriegswichtig; 23 Unternehmen hatten mehr als 100 Beschäftigte, während die Mehrzahl kleine Unternehmen ohne Angestellte bzw. ambulante Händler waren. Weitere Berufsverbote, etwa der freien Berufe, folgten in den folgenden Jahren. Neben den Gesetzen und Verordnungen sieht Ilaria Pavan die hohe Zahl von etwa 200 ministeriellen Rundschreiben als ein Charakteristikum der antijüdischen Kampagnen. Das dritte Kapitel beleuchtet die Zeit der nationalsozialistischen Besatzung, die sowohl durch Deportationen und Morde als auch durch Enteignungen und Plünderungen gekennzeichnet war. Verwiesen wird hier auf Kontinuitäten in den Ministerien und kommunalen Behörden. Die faschistische Polizeiordnung vom 5. November 1943 betraf neben der Verhaftung der Juden auch die Beschlagnahme aller Besitztümer, wofür die Präfekturen und Quästuren verantwortlich waren. Die Autorin zeigt auf, dass die Beschlagnahme vergleichsweise zügig vonstattenging, während sich die Einziehung der Immobilien hinauszog. Von den ebenfalls konfiszierten Gebrauchsgegenständen profitierten derweil kriegsgeschädigte Bedürftige. Bis Mai 1945 wurden durch die EGELI Güter von 7920 Personen beschlagnahmt, darunter 231 Firmen. In den Operationszonen Alpenvorland und Adriatisches Küstenland bereicherten sich dagegen die deutschen Besatzer. Das vierte Kapitel befasst sich mit den Hürden und Ambiguitäten bei der Rückgabe der Besitztümer und der Re-Integration in die Arbeitswelt. Erste Bestimmungen zur Wiedererlangung der bürgerlichen und politischen Rechte sowie zu den Eigentumsrechten wurden bereits im Januar und Oktober 1944 im befreiten Teil Italiens verfasst. Die EGELI wurde zur Restitution neu eröffnet. Als problematisch erwies sich, dass die italienischen Regierungen nicht willens waren, die Rechte der neuen nichtjüdischen Besitztümer einzuschränken, wenn diesen nicht böse Absichten vorgeworfen werden konnten – das zeigte sich etwa auch in den Nachkriegsprozessen. Zu den von Ilaria Pavan genannten Ungerechtigkeiten gehörte u. a., dass die im Krieg von der EGELI verursachten Kosten von über 22 Millionen Lire von den geschädigten Juden selbst beglichen werden sollten. Der italienische Staat zog zudem Vermögenswerte ein, die nicht von den ehemaligen Besitzern bzw. deren Erben aktiv eingefordert wurden. Die Rückkehr an die Arbeitsstätten erwies sich ebenfalls als komplex. Von den Unternehmern und Händlern konnten viele nicht an ihre Erfolge vor 1938 anknüpfen. Erschwerend kam hinzu, dass die Behörden ihnen Steuern für die Kriegsjahre auferlegten. Dies deckte sich mit der fehlenden Anerkennung des begangenen Unrechts durch den italienischen Staat: Erst 1955 gab es mit der Legge Terracini eine spezifische Entschädigung auch für die Opfer der „rassischen“ Verfolgung. Nicht besser sah es mit der Entschädigung von deutscher Seite aus. Erst im Juni 1961 schloss der italienische Staat mit der BRD ein Globalabkommen über 40 Millionen Mark als Entschädigung für jüdische und andere Verfolgte. Im letzten Kapitel analysiert Ilaria Pavan das Wiederaufkommen der Restitutionsfragen in den 1990er Jahren im europäischen Kontext der sogenannten Holocaust Litigations. In deren Zuge wurde 1998 zum einen die Kommission Anselmi gebildet, zum anderen die Legge Terracini ausgeweitet. Mit der lesenswerten systematischen Gesamtdarstellung von Raub und Restitution widmet sich Ilaria Pavan einem Thema, das trotz seiner Bedeutung bisher nur unzureichend erforscht war. Es gelingt ihr, zahlreiche Einzelschicksale mit eindrucksvollen Zitaten u. a. aus Erinnerungsberichten anschaulich zu machen. Soweit es die Quellenlage zulässt, versucht sie zudem, entsprechend zu quantifizieren. Ihre These ist, dass Teile der Stadtverwaltungen und der Ministerien, der Polizeipräsidien, Angehörige von Banken oder Unternehmen sowie Privatpersonen bereitwillig und mit eigenem Profit bei der Verfolgung der jüdischen Minderheit mitmachten – ein in der italienischen Öffentlichkeit nach wie vor verdrängtes Kapitel. Sie unterstreicht – wie auch andere Studien der letzten Jahre – die Indifferenz großer Teile der italienischen Gesellschaft, die im Gegensatz zu dem lange geläufigen Stereotyp der „Italiani brava gente“ stand. Ilaria Pavan kann das von der jüdischen Minderheit erlittene Unrecht eindrücklich aufzeigen und hinterlässt beim Leser nicht selten Kopfschütteln über den teils zynischen Umgang mit den jüdischen Verfolgten auch noch nach dem Krieg.
Sara Berger
Alex J. Kay, L’Impero della distruzione. Una storia dell’uccisione di massa nazista, traduzione di Alessandro Manna, Torino (Einaudi) 2022 (La Biblioteca), XVIII, 446 pp., ISBN 978-88-06-25377-6, € 33.
Al centro del volume vi è una dettagliata ricostruzione dei processi sistematici di sterminio di massa programmati e attuati dalla Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale. Anche a voler considerare solo i civili e i non combattenti, essi portarono all’annientamento di almeno 13 milioni di persone nell’area compresa tra il Grande Reich e i territori occupati tra il 1939 e il 1945. Sono qui prese in considerazione le principali categorie delle vittime non connotate politicamente del nazismo: i disabili fisici e mentali, le élite e le classi dirigenti polacche, gli ebrei di gran parte dell’Europa, i soldati e i prigionieri dell’Armata rossa e le popolazioni urbane dell’URSS, i civili uccisi a seguito delle azioni e delle „rappresaglie“ antipartigiane, e non ultimi i Sinti e i Rom di vaste aree dell’Europa. Tutte queste persone, senza distinzioni di età e di genere, furono oggetto di una deliberata politica di uccisioni di massa da parte dei vertici del Terzo Reich, e proprio questo dato di fatto, sottolinea l’autore, rende la prima inassimilabile alla realtà dei Gulag e ai pesantissimi costi umani della „collettivizzazione forzata“ dell’epoca staliniana: in ciò egli prende le distanze da un luogo comune che, sotto l’insegna normativa e ideologizzata del totalitarismo, è stato al centro dopo la caduta del Muro di Berlino della comunicazione politica e mediatica e della vulgata revisionistica. Il termine uccisione di massa è stato deliberatamente scelto dall’autore in quanto più ampio e comprensivo del concetto troppo ristretto e spesso abusato di genocidio, senza tuttavia espungere quest’ultima categoria laddove essa corrispose alla deliberata azione di distruzione totale di un intero gruppo sociale o religioso: cosicché di volta in volta entrambi i termini vengono utilizzati per qualificare fenomeni che, lungi dall’escludersi, interagirono tra loro in quei contesti storicamente determinati. La scelta di riunire i diversi filoni dello sterminio nazista in un’unica analisi, anziché „considerarli ciascuno in maniera isolata“, costituisce una scelta controcorrente rispetto a un intero filone di studi sulla Shoah che ha negato la possibilità stessa di inserire il genocidio degli ebrei nel quadro più generale delle persecuzioni naziste e anche di fenomeni caratterizzanti dell’epoca come la realtà complessiva del regime nazista, del fascismo e del Nuovo ordine europeo. Come nota giustamente l’autore, un „approccio integrativo all’uccisione di massa nazista“ non contraddice in alcun modo la specificità dell’Olocausto, ma lo sottrae a una dimensione metastorica inquadrandolo „come parte integrante di un più ampio processo di ricostruzione demografica e purificazione razziale perseguito dal regime, prima in Germania, e poi, man mano che la guerra andava avanti e l’impero nazista crebbe, in ciascuno dei territori occupati dalle forze tedesche“ (pp. 4 sg.). Un ulteriore campo analitico del volume riguarda la questione degli esecutori dell’uccisione di massa nazista e qui l’accento è opportunamente focalizzato sulla pluralità dei soggetti che parteciparono ai diversi piani di sterminio, dalla catena gerarchica dei responsabili nazisti, agli organi delle SS e della polizia, mentre un particolare rilievo viene attribuito alla Wehrmacht, ricollegandosi qui a un filone ormai consolidato e irreversibile degli studi che ha demistificato un mito troppo a lungo protrattosi nel tempo. Un discorso a parte avrebbe qui forse meritato il ruolo determinante svolto dagli apparati burocratici e amministrativi, al centro della grande opera di Hilberg, che non è invece dall’autore preso in esame. Il volume è basato su una ricostruzione essenzialmente cronologica degli eventi considerati. Esso prende le mosse con la tarda estate del 1939 e la prima azione di sterminio di un intero gruppo sociale, e cioè quello dei disabili nel Reich e nei territori occupati e annessi, e poi con l’eliminazione dell’intellighencia e delle élites dirigenti polacche, ma sottolinea anche il „salto di qualità“ segnato dall’aggressione all’URSS del 1941 con gli eccidi di massa degli ebrei lì residenti, nei paesi baltici e nella Polonia orientale. Segue una seconda parte, con capitoli specifici dedicati allo sterminio totale degli ebrei sovietici, l’affamamento deliberato di parti sostanziali della popolazione urbana, la programmata morte di massa dei prigionieri dell’Armata rossa, le fucilazioni, il terrore preventivo e le stragi delle popolazioni civili nelle aree rurali. L’analisi si estende anche alla svolta intervenuta negli stessi mesi nella lotta antipartigiana in Serbia, che portò in breve tempo all’annientamento degli ebrei e dei Rom in quei territori. La terza parte affronta infine il tema del genocidio degli ebrei europei e dei campi di sterminio, da Chelmno all’operazione Reinhardt e ad Auschwitz, con l’aggiunta di tre capitoli finali sulle fucilazioni di massa e la deportazione dei Sinti e dei Rom, sulle micidiali azioni decentrate dell’operazione T4 e sui massacri di civili perpetrati durante l’insurrezione di Varsavia dell’estate 1944. Ciò che ne emerge è un quadro impressionante della vastità e pervasività dell’azione omicida dispiegata nel Grande Reich e nell’Europa occupata dal dominio nazista e dai suoi collaboratori durante la Seconda guerra mondiale: esso è fondato su uno spoglio accurato dell’imponente letteratura storica accumulatasi soprattutto nell’ultimo trentennio con il contributo di assoluto rilievo fornito in tal senso dalle ricerche degli storici tedeschi. L’autore non manca di interrogarsi sulla storia pregressa e sulle circostanze specifiche che contribuirono all’abnorme carico di violenza impersonato dal nazionalsocialismo, una componente sin dal principio „integrale ed essenziale della teoria e della pratica nazista“ già nella fase precedente e successiva alla presa del potere e ben prima dello scatenamento della guerra mondiale. Tuttavia individua nella sconfitta del 1918 il principale punto di riferimento della dirigenza nazista, nella duplice prospettiva dell’eliminazione di tutti i potenziali nemici interni, della „prova suprema“ e della vittoria in una prossima guerra generale e nella costruzione di una nuova Europa dominata dalla Germania nel segno della „purificazione razziale“ e della più spietata gerarchia tra le popolazioni. Al di fuori o ai margini del quadro rimangono invece i tratti caratterizzanti del sistema di dominio nazista, i meccanismi di inclusione-esclusione alla base della cosiddetta „comunità popolare“ e il processo di eliminazione di tutti i „diversi“ che, radicalizzandosi ed estendendosi a livello europeo, avrebbe portato all’annientamento di milioni e milioni di persone, l’universo parallelo dei campi di concentramento e del lavoro coatto con il loro immenso corredo di vittime e di vite spezzate, i caratteri del Nuovo ordine europeo realizzato durante la guerra e di quello progettato per il futuro. In questa luce, la „guerra di sterminio“ scatenata dalla Germania nazista nell’est europeo avrebbe potuto assumere un senso ancora più definito alla luce del Piano generale dell’est e dei progetti di snazionalizzazione, di schiavizzazione e di sterminio di massa dei popoli slavi al fine di una futura „pulizia etnica“ e „germanizzazione“ di quei territori sotto il segno della „razza superiore“ tedesca. Allo stesso modo, una maggiore attenzione al nesso esistente tra politiche a breve termine e progetti di più lungo periodo avrebbe permesso di meglio comprendere il nesso tra „utopia negativa“ e „razionalità strumentale“ nell’ordine del terrore nazista.
Claudio Natoli
Costantino Burla, Finalmente liberi. Episodi di vita valsesiana. 9 settembre 1943–25 aprile 1945, Varallo (Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia) 2021, 318 S., Abb., ISBN 978-88-946228-5-0, € 20.
Erinnerungszeugnisse von Zivilisten zu dem von deutscher Besatzung, Resistenza und Bürgerkrieg geprägten Biennium 1943–1945 in Italien sind nicht allzu zahlreich. Als besonders selten erweisen sich zeitgleich zu den Ereignissen verfasste Tagebücher, für die etwa die Aufzeichnungen Carlo Trabuccos zu Rom und Carlo Chevellards zu Turin herausragende Beispiele darstellen. Mit Costantino Burlas „Finalmente liberi“, erstmals 2005 publiziert, werden die umfangreichen Memoiren eines Grundschullehrers in einem ländlichen Raum, dem piemontesischen Alpental Valsesia in der Provinz Vercelli, neu aufgelegt. Die 1964 vollendeten Aufzeichnungen stützen sich auf ein Tagebuch mit dem Titel „Calvario ignoto“, das – ebenso wie die Entwürfe der Memoiren – im Archiv des Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia aufbewahrt wird (Fondo „Memorie e testimonianze, scrittura popolare, diari“; b. 78, f. 3). Burla war von 1942 bis 1947 als Direktor des Grundschulbezirks von Varallo für den Lehrbetrieb in insgesamt 88 Grundschulen verantwortlich – eine schwierige Aufgabe zu Zeiten des Bürgerkriegs, die er in seinen Memoiren einmal treffend als Arbeit auf Messers Schneide charakterisiert. Die Aufgabe des Direktors, die Burla übrigens kein höheres Gehalt erbrachte, bedeutete vielfach Ärger und Gefahr. Wiederholt besetzten faschistische Einheiten das Schulgebäude in Varallo. Als ein Feldwebel in dem Heft eines Schülers antifaschistische Slogans entdeckte, musste sich Burla gegen den Vorwurf verteidigen, dass in seinen Schulen Propaganda gegen die Repubblica Sociale Italiana betrieben werde. Die Sympathien Burlas, der seine Rolle im Vorwort selbst als „Zuschauer wie Akteur“ (S. 18) beschreibt, gehörten indessen eindeutig den Partisanen: Viele von ihnen kannte er persönlich und Renato Moscatello, dem Bruder des Partisanenkommandanten Cino, verhalf er zu einer Pistole; als die Partisanen im Frühsommer 1944 das ganze Tal kontrollierten, verzichtete Burla darauf, wie gewöhnlich deren Besetzung der Schulen den faschistischen Behörden zu melden; die Faschisten informierte er nie über die Vorgänge in der oberen Talgegend. Dennoch gelang es Burla nach Kriegsende nur, der „epurazione“ zu entgehen, indem er zu seiner Verteidigung einen Bericht einreichte. Jenseits der persönlichen Lebensgeschichte Burlas und der spannenden Schilderungen von haarsträubenden Fluchten in die Schweiz sowie von Kämpfen zwischen Partisanen und Faschisten, welche die vorliegende Literatur zur Geschichte der Resistenza in der Valsesia ergänzen, erweisen sich seine Memoiren vor allem als aufschlussreich für die Haltung und das Verhalten der lokalen Bevölkerung während des Bürgerkriegs. Hier bieten sie auch Spielraum für Interpretationen, deren Bedeutung über die bloße Lokalgeschichte hinausgeht. Denn Burlas Aufzeichnungen bieten eine Nahaufnahme dessen, was Renzo De Felice im letzten Bd. seiner Mussolini-Biographie als das „Drama des italienischen Volkes zwischen Faschisten und Partisanen“ bezeichnet hat. Anders als De Felice und im Einklang mit der antifaschistischen Historiographie kommt Burla jedoch zu dem klaren Urteil, dass die Mehrheit der Bevölkerung, nach einem anfänglichen Moment der Rat- und Orientierungslosigkeit, sich dezidiert auf die Seite der Partisanen schlug. Ursächlich für diese Entscheidung sei auch die Nachricht von den grausamen Massakern gewesen, welche die Deutschen Ende September am Lago Maggiore an Juden begangen hatten. Insbesondere markierte die Erschießung von zehn Geiseln durch Angehörige der Legion „Tagliamento“ am 22. Dezember 1943 in Varallo einen entscheidenden Wendepunkt für das Verhalten der Bevölkerung. Insgesamt vermitteln die Memoiren den Eindruck, dass angesichts widersprechender öffentlicher Bekanntmachungen der Partisanen und der Faschisten, die jeweils strikte Sanktionen für die Zusammenarbeit mit ihrem jeweiligen Gegner ankündigten, und des von den Faschisten und Nationalsozialisten ausgeübten Drucks, der sich in Geiselnahmen und -erschießungen, im wiederholten Anzünden von Häusern, in der Androhung von oder in tatsächlich durchgeführten Bombardierungen, in den Aufrufen zum Wehrdienst, in der Versammlung aller Dorfbewohner auf der Piazza oder in der indirekten Aufforderung zum römischen Gruß äußerte, kaum ein Zivilist in der Valsesia während der rund 600 Tage der Republik von Salò passiv bleiben konnte. Vor dem Hintergrund der von den Deutschen und Faschisten durchgeführten Durchkämmungsaktionen war Angst das vorherrschende Gefühl der Talbewohner, die sich oft in ihren Häusern verbarrikadierten. Obwohl sie das „Damoklesschwert der Repressalien“ (S. 204) über sich hängen sahen, unterstützten sie jedoch mehrheitlich die Partisanenbewegung. Die in diesem Sinne lesenswerte, reich bebilderte und mit kenntnisreichen Anmerkungen versehene Edition hat den einzigen Makel, eine Reihe zum Teil auch sinnentstellender Schreibfehler zu enthalten, die ein aufmerksameres Lektorat hätte vermeiden können.
Pascal Oswald
Cesare Furbatto, Diario di guerra, 1944–1945. Pagine di memorie ritrovate, a cura di Massimiliano Judica Cordiglia, Torino (Libreria Savej) 2022, 69 S., ISBN 978-88-99048-09-9, € 5.
Anders als der Untertitel suggeriert, handelt es sich um ein zeitgleich zu den Ereignissen verfasstes Tagebuch. In der Einführung rekonstruiert der Enkel des Autors, der dieses Tagebuch im Februar 2022 wiederentdeckt hat, auf Basis schriftlicher und mündlicher Zeugnisse die Biographie seines in Pinerolo geborenen Großvaters: Cesare Furbatto nahm als Soldat am Ersten Weltkrieg teil, arbeitete später in einer Bank, bevor er 1929 im Zuge der Weltwirtschaftskrise die erste Immobiliengesellschaft in Turin und 1935 eine Familie gründete. Die Aufzeichnungen in einem Notizbuch der Firma Olivetti, die Furbatto seiner jüngsten Tochter Laura widmete, reichen von deren erstem Geburtstag am 4. Januar 1944 bis zum Datum der Kapitulation des Deutschen Reichs am 8. Mai 1945. Aufgrund der schwierigen Lebensumstände hatte Furbatto seine Tochter „Sfollatina“ nennen wollen – tatsächlich war die Familie, wohl wegen der Bombardierungen Turins, nach Pinerolo geflüchtet. Erst am 7. November 1944, als die Unterbrechung der Zugverbindung Pinerolo-Turin Furbatto das Pendeln unmöglich machte, kehrte sie in die piemontesische Hauptstadt zurück. In fast allen Ausführungen, die politische Themen zum Gegenstand haben, beschränkt sich Furbatto auf eine chronikartige Schilderung ohne jeglichen Kommentar, der Aufschluss über die eigene Position oder die „öffentliche Meinung“ geben könnte. Dennoch spricht aus diesen Seiten das Klima jener Jahre, und sie vermitteln einen Eindruck von der Lebenswelt „gewöhnlicher“ piemontesischer Zivilisten. Dabei erweist sich in den Tagebucheinträgen Angst als das vorherrschende Gefühl. Geiselnahmen, Attentate, Alarme (bisweilen sechs Mal am Tag) und Bombardierungen waren an der Tagesordnung. Vor dem Tod durch Maschinengewehrfeuer aus der Luft war niemand sicher. Mit Blick auf die Razzien und Deportationen spricht Furbatto von einer regelrechten „caccia all’uomo“ (S. 30). Darüber hinaus wird die Schwierigkeit des einfachen Alltagslebens während der beiden letzten Kriegsjahre unmittelbar greifbar, wenn von der Spirale steigender Preise, den unzureichenden Lebensmittelrationen, der Nichtverfügbarkeit notwendiger Gebrauchsmittel, dem Ausfall des Schulunterrichts, von Stromausfällen und der Unterbrechung der Gasversorgung als Folgen der Bombardierungen, wenn von Hunger und Kälte (minus 16 Grad in Turin im Januar 1945) und der Zunahme der gewöhnlichen Kriminalität die Rede ist. Auf diese Weise bekräftigt dieses Tagebuch die These vom Zweiten Weltkrieg als einem totalen Krieg, dessen Auswirkungen sich auch die Zivilbevölkerung kaum entziehen konnte. Es zeigt jedoch zugleich, dass es durchaus Zivilisten gab, die nicht entschieden politisch Partei ergriffen – ein Indiz dafür, dass es auch während des turbulenten Bürgerkriegs 1943–1945 nicht zu einer vollständigen Polarisierung der italienischen Gesellschaft in einem strikt politischen Sinne kam. Furbetto lässt sich in jener „grauen Zone“ zwischen bzw. jenseits von Widerstand und Kollaboration verorten, deren Mitglieder die Ereignisse weitgehend passiv erlitten. Er versuchte, so weit möglich, seiner beruflichen Tätigkeit nachzugehen und sich um seine Familie zu kümmern, wenngleich dieses Alltagsleben durch die Kriegshandlungen erheblich eingeschränkt wurde. Besonders aufschlussreich für seine politische Haltung, die in vielerlei Hinsicht dem ähnelt, was Gabriele Ranzato bezüglich des Verhaltens römischer Zivilisten gegenüber den Angloamerikanern konstatiert hat, sind die Tagebucheinträge zur Befreiung im April 1945: Furbatto hieß die Alliierten deshalb willkommen, weil sie das Ende des Krieges und der damit verbundenen Leiden bedeuteten, nicht jedoch, weil sie für die Demokratie und die Freiheit gekämpft hatten. Dies offenbart der widersprüchliche Eintrag vom 28. April, in dem er einerseits schreibt: „Brutta giornata oggi per quanto intercalata dalla notizia della resa della Germania“, und es andererseits heißt: „Attendiamo i liberatori“ (S. 65). Den im Raum Turin besonders heftigen „wilden Säuberungen“ schien Furbatto mit Ablehnung beizuwohnen. Insbesondere im Eintrag vom 8. Mai kommen die Ambivalenzen der „lunga liberazione“ (Mirco Dondi) zum Ausdruck: Während Furbatto Befreiung und Kriegsende begrüßte, geht aus den letzten Worten des Tagebuchs eine große Ungewissheit über die Zukunft im Nachkriegsitalien hervor. Weder hinsichtlich des Umfangs noch der Informationsfülle wie Analyseschärfe kann es dieses Tagebuch mit den herausragenden Beispielen der italienischen diaristica der deutschen Besatzungszeit aufnehmen: An die Qualität des Tagebuchs eines Carlo Chevellard für Turin, eines Umberto Paviotti für Udine oder eines Carlo Trabucco für Rom kommt es nicht heran. Gleichwohl handelt es sich um ein aus erfahrungsgeschichtlicher Perspektive interessantes Zeitdokument. Für dessen Publikation sei dem Hg. und dem Verlag gedankt, auch wenn eine allgemeinere historische Einordnung des Tagebuchs und seines Inhalts – etwa in Form eines Anmerkungsapparats – in dieser reich bebilderten Edition ausbleibt.
Pascal Oswald
Piero Ignazi/Enzo Risso/Spencer Wellhofer (a cura di), Elezioni e partiti nell’Italia repubblicana, Bologna (Il Mulino) 2022 (Saggi), 392 S., ISBN 978-88-15-29939-0, € 35.
Die politik- und geschichtswissenschaftliche Erforschung der italienischen Parteienlandschaft erfreut sich seit jeher einer nicht abreißen wollenden Beliebtheit. Dazu trägt auch das hier zu besprechende Werk von Piero Ignazi, Enzo Risso und Spencer Wellhofer bei, das der Geschichte der italienischen Parteien von 1943 bis 2018 gewidmet ist. Die übersichtliche Studie ist in neun Kapitel untergliedert: die ersten sieben von Piero Ignazi, Kap. 8 von Spencer Wellhofer und Kap. 9 von Enzo Risso verfasst. Ignazi bietet auf rund 240 Seiten einen Streifzug durch die politische Geschichte der Republik Italien, von ihren Anfängen bis 2022. Der Autor konturiert souverän die Profile der mitunter sehr heterogenen politischen Kräfte, die nach Ende des Zweiten Weltkriegs die Weichen für die Entstehung der sogenannten „Prima Repubblica“ um die hegemoniale Democrazia Cristiana (DC) und unter Ausschluss der beiden extremen Pole – verkörpert durch den Partito Comunista Italiano (PCI) auf dem linken und das Movimento Sociale Italiano (MSI) auf dem rechtsextremen Spektrum – stellten. Ignazi arbeitet die Gründe heraus, welche die allmähliche Entwicklung der DC zu einer „Staatspartei“ begünstigten. Vor allem aber war Amintore Fanfani für eine Öffnung der DC zu neuen Einflüssen verantwortlich (S. 47–70). Die unmittelbare Konsequenz dieser strategischen Öffnung der Christdemokraten war die Gründung der ersten Mitte-links-Regierung 1963, die sich aus der DC, den beiden sozialdemokratischen Parteien und dem Partito Radicale (PRI) zusammensetzte. Der Eintritt sozialdemokratischer Parteien in die Regierung (des traditionsreichen PSI und des von internen Flügelkämpfen gebeutelten Partito Socialista Democratico Italiano, PSDI) spielte dem PCI schließlich in die Hände. Letzterer konnte in den 1960er Jahren gegenüber diesen an Profil gewinnen und einen stetigen Machtzuwachs verbuchen (S. 78–92). Dies hatte wohl auch mit dem allmählichen Prozess der politischen Verselbstständigung der italienischen Kommunisten gegenüber Moskau ab Mitte der 1960er Jahre zu tun, welche die Etablierung eines „dritten Weges“ – später auch „Eurokommunismus“ genannt – zwischen der Sozialdemokratie und dem real existierenden Sozialismus anstrebten. Es erstaunt daher, dass Ignazi dem PCI keine Innovationskraft zuerkennt (S. 100 f.). Überzeugend zeichnet der Autor die allgemeine Krise der italienischen Politik ab Mitte der 1970er Jahre nach, die wohl alle politischen Kräfte, die DC, den PCI und den PSI ebenso wie die kleineren Parteien hart traf (S. 103–117). Der rasche politisch-kulturelle Wandel während der 1980er Jahre unterzog die italienische Gesellschaft einer tiefgreifenden Umwandlung, im Laufe derer die Eigeninteressen der jeweiligen sozialen Milieus differenzierter und vielgestaltiger wurden. Vor allem aber ließ die Erosion dieser einst zusammenhängenden Milieus, etwa der Arbeiterschaft oder der katholischen Mittelschichten, auch die traditionellen politischen Anhängerschaften schnell schwinden (S. 119–149). Es waren die Vorzeichen der „großen Transformation“ (S. 151–200), die Anfang der 1990er Jahre die Prima Repubblica hinwegfegte. „Unumstrittener Protagonist“ („protagonista incontestabile“, S. 201) dieser Phase war Silvio Berlusconi und seine neue Partei Forza Italia, welche die Geschicke der somit neu geborenen Seconda Repubblica (S. 201–215) erheblich beeinflusste. Die Zweite Republik, so Ignazi weiter, lief trotz aller Schwierigkeiten auf ein relativ stabiles bipolares Parteiensystem hinaus, das seinen Gipfel zwischen 2007 und 2013 erreichte, als das einst überstarke Zentrum zwischen einer Mitte-links- (Margherita/Ulivo) und einer Mitte-rechts-Koalition (PdL – Popolo della Libertà) zerrieben wurde. Das wahre politische „Erdbeben“ (S. 218) habe dennoch die Gründung und der beachtliche Aufstieg des Movimento 5 Stelle (M5S) in den 2010er Jahren verursacht, in deren Folge das bipolare System einem noch nie erprobten tripolaren gewichen sei. Ob sich der „Tripolarismus“ zur neuen Normalität in der italienischen Parteienlandschaft etabliert, könne noch nicht abschließend beurteilt werden (S. 218–256). Die letzten beiden Kapitel der Studie (S. 259–357), jeweils von Wellhofer und Russo signiert, konturieren mit einer Fülle an statistischen Erhebungen die Entwicklung des Wahlverhaltens in Italien von 1948 bis 2018. Das wenig überraschende Fazit lautet, dass trotz einschneidender Zäsuren – Übergang von der Ersten zur Zweiten Republik bzw. Aufstieg des M5S etc. – die geographische und soziokulturelle Wahlgewohnheit der Italienerinnen und Italiener relativ konstant geblieben sei. Weit verwunderlicher ist der etwas intransparente Umgang mit den herangezogenen Metadaten und den dazugehörigen Auswertungsmethoden, die, so die Autoren, in einem separaten „Online-Anhang“ erläutert würden (S. 260). Alles in allem liegt hier ein knappes aber wertvolles Überblickswerk vor, dessen größtes Verdienst es ist, den Forschungsblick auf systemische Entwicklungstendenzen der jüngsten italienischen Politik zu lenken.
Francesco Di Palma
Lene Faust, Neofaschismus in Italien. Politik, Familie und Religion in Rom. Eine Ethnographie, Bielefeld (Transcript-Verlag) 2021, 366 S., ISBN 978-3-8376-5470-7, € 40.
Auf die Ergebnisse der Parlamentswahl vom 25. September 2022 reagierten auswärtige Beobachter entsetzt. Zum ersten Mal seit dem Ende des Zweiten Weltkriegs wurde eine Partei stärkste Kraft, für die das ventennio fascista sowie die Repubblica Sociale Italiana kein Anathema darstellt. Nicht zuletzt die im Parteiwappen aufflackernde fiamma tricolore verortet die Fratelli d’Italia in der Nähe des Neofaschismus, dem Lene Faust eine empathische, eindrückliche und preisgekrönte Studie gewidmet hat. Als Anthropologin tauchte sie dazu eineinhalb Jahre in das römische Ambiente ein, führte Interviews mit Mitgliedern aller drei von ihr identifizierten Generationen – Veteranen der RSI, Extremisten der anni di piombo und jüngeren Aktivistinnen und Aktivisten –, besuchte Gedenkveranstaltungen und nahm an privaten Zusammenkünften wie beispielsweise Beerdigungen oder Familienfeiern teil. Sie drang damit tief in Räume ein, die gewöhnlich sich der historischen und sozialwissenschaftlichen Forschung verschließen. Dies ist umso wichtiger, da die Fragen, die sie nicht allein ans Material herantrug, sondern ihm eben direkt stellte, keineswegs allein politischer Natur sind. Viel mehr interessiert sich Faust für Familienbande, den Umgang mit (persönlicher) Schuld in ihr, Traumata, Erinnerungskultur, Totenkult, Rituale, Wallfahrten und damit schlussendlich für die soziale und religiöse Reproduktion des Neofaschismus in Italien. Ihrem nüchternen Ansatz wurde dabei auf HSozKult seiner „empirischen Stärke“ zum Trotz nicht nur eine „Bedenklichkeit seiner normativen Implikationen“ vorgehalten, sondern gar konstatiert, die Autorin habe „‚zuviel‘“ verstanden, ergo den arco costituzionale der Geistes- und Sozialwissenschaften verlassen. Solche Vorwürfe sind nach Auffassung des Rezensenten nicht sachdienlich und gehen am Argument des Buches vorbei. Denn obwohl sich Faust explizit als Antifaschistin positioniert und laut eigener Aussage ihren Gesprächspartnerinnen und -partnern auch nichts Gegenteiliges suggerierte, will sie gerade nicht aburteilen – das wäre angesichts ihres Gegenstands und den brutalen Erzählungen, mit denen sie die Leserschaft konfrontiert, ein leichtes und intellektuell enttäuschendes Unterfangen –, sondern, wie im Untertitel des Buches vermerkt, der intrinsischen Verbindung von „Politik, Familie und Religion in Rom“ nachgehen. Hierzu scheint es nach der Lektüre des Buches unabdingbar, sich von der Vorstellung zu lösen, der Neofaschismus sei vor allem ein ideologisches Phänomen. Alternativ dazu bietet uns die Autorin an, ihn als ein geschlossenes soziales Beziehungsgeflecht zu begreifen, das auf die beständige Erneuerung durch Gewalt(-erzählungen), rituelle Zusammenkünfte und religiöse Praktiken angewiesen ist. Denn brechen diese Interaktionen etwa durch Regierungsbeteiligung ab, dann scheint, so der Eindruck der Lektüre, unweigerlich die Kohäsion des Beziehungsgeflechts selbst bedroht. Faust widmet sich diesen, für die historische Forschung zur italienischen Rechten seit 1945 in empirischer wie theoretischer Hinsicht anschlussfähigen Fragestellungen in vier Kapiteln, die Prolog, Einleitung und Fazit rahmen. In ihrem ersten, umfassendsten Kapitel „Der italienische Nachkriegsfaschismus“ (S. 33–146) historisiert sie den Forschungsgegenstand und zeichnet die Kontexte nach, in denen der Neofaschismus entstand und sich fortan behauptete. Darüber hinaus erläutert sie die Rituale, u. a. den presente, dessen er sich dazu unablässig bedient. Für Kennerinnen und Kenner der Materie findet sich hier viel Bekanntes und manch hölzerne Formulierung, was aber angesichts des breiteren Publikums, auf das Fausts Buch zielt, wohl unvermeidlich ist. Das nächste Kapitel „Der Zweite Weltkrieg im Spiegel der Generationen“ (S. 147–250) umgeht wiederum diese Fallstricke, indem es mit quer durch Familien verlaufenden Interviews und Beobachtungen die zentralen Themen des Buches ausbreitet: Von stolzen Schilderungen des Tötens im italienischen Bürgerkrieg, Schweigsamkeit gegenüber Familie und Freunden bis hin zu Einblicken in die späten Gewissensbisse von Tätern, die auch angesichts ihres hohen Alters existentielle religiöse Fragen plagen, legt Faust offen, wie „politische Zugehörigkeit häufig aus familiären Dynamiken erwächst“. Logiken der Identifikation mit einem für die RSI kämpfenden (Groß-)Vater reichen demnach, um nur ein Beispiel herauszugreifen, mitunter bis in die dritte Generation. Sie stachelten ebenso die politische Gewalt des Sohnes in den 1970er Jahren an – „mio padre ha detto una volta: è come avere un figlio drogato“ (S. 198) – wie sie den postfaschistischen Aktivismus der 17-jährigen Enkelin motivierten, der er immer noch als Vorbild erscheint: „E so, che lui abbia ucciso partigiani“ (S. 202). Das ungleich kürzere dritte Kapitel „Die Toten des Faschismus“ (S. 251–294) widmet sich sodann den Ritualen und Orten, in und an denen das neofaschistische Beziehungsgeflecht das Reich der Lebenden transzendiert. Fausts These dabei lautet, dass die Toten dessen „kulturelle Reserve“ (S. 251) bilden. Sie stärken sonst bröckelnde Beziehungen und erneuern die „Wut“ (S. 332), mit der stetig die Grenze zwischen Mehrheitsgesellschaft und ambiente gezogen wird. Faust untersucht dazu Gedenkstätten wie den Monte Grappa, Soldatenfriedhöfe, neofaschistische Krypten aus der Nachkriegszeit und Familiengräber sowie die rituellen Praktiken, welche die Toten dort vergegenwärtigen. An das hier bereits aufscheinende Religiöse schließt das schmalste, vierte Kapitel an. Unter dem Titel „Elemente des Religiösen im Nachkriegsfaschismus“ (S. 292–322) analysiert Faust in ihm, erstens, Mussolinis postmortale Rolle als oberster Märtyrer des Faschismus, zweitens, die von dieser Vorstellung angeleiteten Wallfahrten nach Predappio mitsamt dort gesprochener Gebete und damit einhergehender Wundergläubigkeit, sowie schließlich, drittens, den Kult der Madonna del Manganello. Mit dieser Auswahl legt Faust eindrücklich die „sakrale Dimension im Nachkriegsfaschismus“ (S. 320) offen. Ihrer gerade für die Geschichtswissenschaft anschlussfähigen These, dass der Neofaschismus die „politische Religion“ des Faschismus nicht nur weiterführt, sondern essenziell auf sie angewiesen bleibt, hätte Faust vielleicht etwas mehr Raum schenken können. Jedoch bereitet die Autorin ihre abschließende und wohl interessanteste These minutiös in den vorangehenden Kapiteln vor, indem sie etwa im Ambiente verwurzelte Familienmitglieder bei ihren religiösen Praktiken begleitet, sodass ihre Schlussfolgerungen am Ende des Buches geradezu zwingend anmuten. Faust hat somit ein ebenso überzeugendes wie nachdenklich stimmendes Buch vorgelegt, dem man auch jenseits kulturanthropologischer Kreise eine breite Leserschaft wünscht.
Lars Döpking
Marco Santoro, Mafia Politics, Cambridge (Polity Press) 2022, 336 pp., ISBN 978-0-7456-7068-3, GBP 21,50.
„Mafia Politics“ di Marco Santoro rappresenta un tentativo di instaurare una nuova concettualizzazione della mafia. Prima di leggere il libro, gli storici interessati dovrebbero tener presente che Santoro, professore di sociologia presso l’Università di Bologna, non trae le sue tesi dalla scoperta di fonti nuove. E nemmeno si tratta di una presentazione di una „Nuova storia della mafia“. Piuttosto, l’autore prende in esame i pilastri centrali della ricerca sulla mafia e presenta la propria lettura del fenomeno mafioso. Contrariamente alle interpretazioni comuni, per Santoro la mafia non è né un’industria, né una semplice forma di criminalità organizzata, né tanto meno uno „Stato nello Stato“ (p. 13): Per Santoro, la mafia è un’istituzione chiaramente politica e può essere collocata – come lo Stato, ma non „dentro“ lo Stato – nel campo dei „politics“ (p. 1). L’autore propone nel suo libro una „anatomia politica della mafia“ (p. 83). Il libro rappresenta un progetto molto impegnativo. Infatti, Santoro sostiene che finora la mafia sia stata quasi sempre compresa partendo da falsi punti di riferimento: concetti occidentali, liberali o moderni. „Mafia Politics“, invece, propone di creare un concetto alternativo, una teoria non occidentale, globalmente radicata, addirittura una concettualizzazione „meridionale“ (p. 14) e, così facendo, mira a liberarsi soprattutto della fuorviante concezione della mafia come „industria di protezione privata“ – elemento centrale della celebre „teoria economica della mafia“ associata a Diego Gambetta. Santoro si concentra sulla mafia siciliana, ma arricchisce la sua argomentazione con riferimenti a fenomeni su scala globale, in particolare la Yakuza in Giappone, la mafia russa o le triadi cinesi (p. 7). Il libro presenta una struttura chiara e coerente. Dopo un’introduzione teorica e una breve sintesi della ricerca sulla mafia nei primi due capitoli, Santoro sottopone la „teoria economica della mafia“ a un esame critico nel terzo capitolo e ne evidenzia i punti deboli in modo molto convincente. L’autore non solo dimostra che la mafia, vista in particolare l’importanza delle sue dimensioni culturali, non può essere ridotta al „nucleo centrale della protezione privata“ di Gambetta. Per di più, critica la teoria economica della mafia che colloca il fenomeno e le sue attività nella „sfera privata“ piuttosto che nella „sfera pubblica“ (p. 98). Santoro sottolinea giustamente che la costruzione del potere mafioso come realtà pubblicamente percepibile non può essere negata, soprattutto a livello locale in Sicilia, e come tale, deve essere tenuta presente in ogni considerazione riguardo alla mafia. Nei capitoli 4, 5 e 6, l’autore sviluppa poi le caratteristiche principali della mafia come istituzione politica e realizza le promesse fatte nell’introduzione del libro: Santoro riesce infatti ad interpretare il fenomeno mafioso al di là delle categorie convenzionali. Analizza le caratteristiche non moderne della realtà mafiosa e spiega l’importanza di questi elementi nell’universo di Cosa Nostra. Particolarmente degne di lettura sono l’interpretazione dell’organizzazione mafiosa come „bund“ (pp. 172–177) (che richiamano Herman Schmalenbach), il ricorso alla „’asabiyya“ di Ibn Khaldun (pp. 179–182) e l’analisi del „sistema del dono“ mafioso (l’autore utilizza qui le riflessioni di Maurice Mauss sulle società arcaiche, pp. 149–160). Con questi argomenti Santoro dimostra le sue capacità di costruire dei concetti che vanno al di là delle gabbie del pensiero moderno o capitalistico, riuscendo così ad aprire le porte ad una migliore comprensione del fenomeno mafioso. Nel capitolo conclusivo, l’autore riassume i suoi risultati e suggerisce punti di partenza per ulteriori ricerche. Questi spunti di partenza sollevano molti aspetti interessanti con esempi che vanno dalla polis greca alle triadi cinesi fino alle „Mafia-Raj“ in India. Tuttavia, gli esempi presentati sono piuttosto rapidi e non catturano appieno il potenziale del concetto dell’autore. Concludendo, la questione decisiva rimane se Santoro sia davvero riuscito a sviluppare una nuova concettualizzazione della mafia con lo stesso impatto che ebbe la „teoria economica della mafia“ di Gambetta e dei suoi seguaci. „Mafia Politics“ va letto, perché è finalmente uno studio che espone in modo conciso i punti deboli del concetto economico che domina da 30 anni la ricerca sulla mafia e sviluppa un approccio alternativo con un grande potenziale per nuovi studi sul tema. Santoro ha infatti proposto una concettualizzazione che ci incoraggia a vedere la mafia sotto nuove prospettive, non eurocentriche e non moderne o capitalistiche. Così facendo, rende tangibili aspetti essenziali per la comprensione del fenomeno che finora sono stati ai margini della ricerca. Si tratta innanzitutto della tradizione del dono, ma anche di nuovi sguardi sull’omertà e su altri riti e simboli della mafia. È proprio qui che anche gli storici possono trovare ispirazione per tornare alle fonti e interpretandole sotto una nuova luce. Certo, il tentativo di una concettualizzazione al di là degli approcci moderni può nascondere delle insidie. Infatti, il libro di Santoro talvolta dà l’impressione che la mafia sia un oggetto di ricerca che può essere discusso completamente al di là delle categorie occidentali. Tuttavia, dalla sua „scoperta“ nel XIX secolo, la cosiddetta Cosa Nostra ha subito un profondo processo di trasformazione. La mafia, un fenomeno che infatti è caratterizzata da molti elementi non-moderni è oggi – qui vengono in mente le riflessioni di Shmuel Eisenstadt sui movimenti non-moderni – un fenomeno anche molto moderno. Questo è un aspetto centrale che anche in futuro deve essere tenuto ben presente. Le grandi promesse di Santoro, fatte all’inizio del libro, vengono ampiamente mantenute. Si auspica che il libro riscontri un’adeguata diffusione e che le proposte di una ri-concettualizzazione della mafia possano promuovere ricerche proficue anche al di là dei confini italiani.
Tobias Renghart
Annabella Gioia, L’università delle donne. Esperienze di femminismo a Roma (1979–1996), Roma (Donzelli) 2021 (Saggine 359), XXVIII, 140 pp., ISBN 978-88-552-2271-6, € 19.
Il libro di Annabella Gioia racconta un tratto mai indagato della storia del femminismo romano ovvero l’esperienza del Centro culturale Virginia Woolf e la sua università delle donne creata alla fine degli anni Settanta da un gruppo di femministe romane con l’obiettivo di „riattraversare la cultura“ a partire dallo sguardo femminile. Negli ultimi anni la ricerca storica sul femminismo ha conosciuto senz’altro notevoli avanzamenti, anche riguardanti il contesto romano. Basterà qui ricordare il significativo volume di Paola Stelliferi sul „femminismo a Roma negli anni Settanta“ (Bologna 2015), che al volume di Gioia fornisce molti dettagli di contesto. Unanime è oggi il giudizio delle storiche sulla trasformazione del femminismo alla fine degli anni Settanta da movimento politico in un sistema articolato di iniziative culturali, sopravvissute alla crisi dei collettivi e delle manifestazioni di piazza e composte da riviste, teatri, case editrici, librerie e centri di documentazione, sino alla nascita della Società delle Storiche nel 1989 e alla creazione di Archivia, il fondo documentario creato presso la Casa delle Donne di Roma nel 2003 da undici associazioni presenti nel movimento romano e al quale l’autrice ha attinto in gran parte per raccontare questa storia. Per descrivere tale passaggio è stato usato il termine di „femminismo diffuso“, un movimento cioè diventato meno visibile ma più esteso nella società, che quindi non si è esaurito ma si è trasformato. Per il caso specifico in esame due delle protagoniste, Michi Staderini e Pia Candinas, hanno preferito sottolineare la capacità delle donne in questa fase di istituzionalizzare il proprio patrimonio di conoscenze e di „farsi istituzione da sé“, di proporre cioè con un’università „autonoma, separatista e indipendente“ un approccio critico al sapere istituzionale, che non cercava di porsi in sostituzione o in alternativa a quello, ma semmai in un atteggiamento di dialogo. Con questo spirito era maturato un progetto che secondo Gioia, e le testimonianze da lei raccolte, aveva cominciato ad essere concepito alla fine degli anni Settanta nella casa di Michi Staderini di Porto Santo Stefano nei giorni trascorsi a discutere dell’opera di Virginia Woolf. Proprio da un interrogativo lasciato dalla scrittrice inglese nel romanzo „Una stanza tutta per sé“ si era chiarito l’obiettivo di fondo del nuovo progetto: „Fino a che punto il sesso influisce sulla capacità conoscitiva?“. Da qui era partita l’idea di creare un’università delle donne, formalmente riconosciuta come associazione da un notaio il 24 maggio 1979. Nei primi due anni di attività erano stati proposti corsi di insegnamento, alcuni anche riconosciuti dall’università tradizionale, gruppi di studio, di ricerca e di lettura, dibattiti, conferenze e presentazioni di libri. Il successo iniziale era stato tale che nel giro di due anni i corsi erano passati da 21 a 42 e le iscrizioni da 400 a 800. Nei propositi del gruppo fondatore c’era stato quello di dare luogo a un’università popolare, un luogo cioè che offrisse a donne di diversa origine ed estrazione un approccio nuovo alla cultura tramite percorsi tematici differenziati. Tra le prime iscritte si incontravano, infatti, donne dai 15 ai 69 anni, e studentesse, impiegate, lavoratrici indipendenti e in numero esiguo operaie. A partire dal terzo anno il centro aveva deciso di cambiare l’impostazione dei lavori, scegliendo un tema unico per tutti i corsi, in questo forse ispirata dall’esperienza della „Sommeruni“ della Freie Universität di Berlino Ovest promossa dal movimento femminista. Nel 1982 era stata fondata anche una casa editrice che in tutto avrebbe pubblicato tre „Quaderni“. L’inaugurazione del nuovo ciclo a tema unico di fatto doveva portare prima ad alcune dimissioni, poi nel 1988 a una divaricazione degli obiettivi del gruppo promotore. Prendeva avvio la stagione dei corsi del „gruppo A“, fedele all’idea di „riattraversare la cultura“ attraverso il punto di vista femminile, e dei corsi del „gruppo B“, che intendeva mettere al centro l’impegno politico-culturale delle donne attraverso il principio della „differenza“. Nel corso degli anni, complice anche la scissione, gli entusiasmi iniziali dovevano attenuarsi. Calavano infatti il numero dei corsi, delle iscritte e del materiale prodotto – per l’ultimo anno esistono perlopiù solo delle registrazioni –, mentre doveva aumentare il costo delle iscrizioni. L’autrice attribuisce questo declino anche all’incertezza del momento storico, legata alla crisi della „repubblica dei partiti“ e della politica in cui il progetto del Centro era nato. Forse, proprio per questa ragione, avrebbe giovato alla comprensione un’analisi più articolata del contesto in cui il Centro si dissolse. Il volume ridona senz’altro luce a una storia che mancava e che, anche per l’impostazione narrativa scelta, pare indissolubilmente legata alla storia e all’eredità degli anni Settanta.
Fiammetta Balestracci
Massimo Bucarelli/Silvio Pons (a cura di), Andreotti e Gorbačëv. Lettere e documenti 1985–1991, Roma (Edizioni di Storia e Letteratura) 2021 (Politica e storia 88. Le Carte di Giulio Andreotti), XXX, 386 S., ISBN 978-88-9359-606-0, € 36,10.
Zur sprichwörtlichen Ironie der Geschichte gehört die Tatsache, dass nur wenige Monate nach der Veröffentlichung dieser Quellenedition im Dezember 2021 die darin behandelten Themen auf einmal ganz hochaktuell und in der politischen Debatte weltweit relevant geworden sind. Nicht nur wegen des Todes eines der Protagonisten, Gorbatschow, im darauffolgenden August, sondern vor allem aufgrund der russischen Invasion der Ukraine, die nur wenige Wochen nach Erscheinen des Buches die europäische Ordnung und die Beziehungen zwischen West und Ost, die im Mittelpunkt dieses Bd. stehen, ins Wanken brachte. Silvio Pons, einer der beiden Hg. dieser Quellenedition, scheint in diesem Sinne vorausschauend gewesen zu sein, als er schrieb: „Das rasche Ende der bipolaren Option nach ’89 entsprach auch dem Ende jeglicher konstruktiver und interdependenter Gestaltung der Beziehungen zwischen Europa und Russland, die von der entstehenden Europäischen Union an den Rand gedrängt wurde, wodurch eine Distanz geschaffen wurde, die sich langfristig als ernsthafte Quelle der Instabilität und Unsicherheit erweisen sollte.“ (S. 24, Übersetzung des Rezensenten). Der Bd. gliedert sich in zwei Teile. In der ersten Hälfte geht es um die Jahre 1985–1989, in denen Andreotti als Außenminister vier verschiedener Regierungen amtierte und der Zerfall der UdSSR noch nicht zu erwarten war. Der zweite Teil bezieht sich auf die Zeitspanne zwischen dem Mauerfall und dem Ende der Sowjetunion (in der Andreotti zum letzten Mal Ministerpräsident war). Publiziert sind nicht nur der höchst interessante Briefverkehr zwischen dem sowjetischen Oberhaupt und Andreotti, sondern auch diplomatische Dokumente und Briefe Andreottis mit italienischen Diplomaten, sowie Berichte über Treffen zwischen den Vertretern der beiden Regierungen. Die Beziehung zwischen den zwei Staatsmännern war, auch auf persönlicher Ebene, vor allem durch großes Vertrauen gekennzeichnet. Andreotti besuchte mehrmals die Sowjetunion als Außenminister und bemühte sich, die bilateralen Beziehungen zwischen Italien und der Sowjetunion zu verbessern. Es ging jedoch nicht nur um diese, sondern vor allem um zwei weitere Themenkomplexe. Erstens: Andreotti war von der Bedeutung der neuen sowjetischen Schlagwörter Perestroika & Glasnost überzeugt (siehe z. B. S. 141). Besonders im Vergleich zu anderen Regierungen im Westen (und zu vielen Teilen der italienischen Diplomatie, wie etwa dem italienischen Botschafter in Moskau Sergio Romano) maß er diesen große Wichtigkeit bei. Zweitens: Andreotti und Gorbatschow waren über die Struktur des Systems der internationalen Beziehungen einer Meinung. Darüber hinaus waren beide überzeugt, dass die Projekte Gorbatschows, also der innenpolitische Reformprozess und der Plan einer progressiven und nicht radikalen Neugestaltung der internationalen Beziehungen, sowie die Inklusion des reformierten sowjetischen Staates in einem gesamteuropäischen Sicherheitssystem eng miteinander verbunden waren und parallel liefen. Jene Übereinstimmung diente als Basis der Zusammenarbeit. Obwohl die Regierung in Rom nie ihre Loyalität gegenüber den westeuropäischen Verbündeten in Frage stellte, geht aus den herausgegebenen Dokumenten hervor, dass zwischen den zwei Regierungen Einklang zu mehreren spezifischen Themen herrschte, wie etwa zum Zweiten Golfkrieg, zur deutschen Frage, zur Rolle der NATO und zur Neugestaltung der Ost-West Beziehungen. Im Namen jener Übereinstimmung versuchte der pragmatische Andreotti in verschiedenen Momenten zwischen den Westmächten und der Sowjetunion zu vermitteln und profilierte sich dabei als zuverlässiger Partner. Kein Zufall also, dass im Januar 1991 Gorbatschow gerade Andreotti schrieb, um ihm „einige Gedanken über den abrupten Wandel in der Haltung des Westens und insbesondere Europas gegenüber meinem Land anzuvertrauen.“ (S. 288, Übersetzung des Rezensenten). Obwohl mehrere im Bd. vorhandene Aspekte zum Teil bereits bekannt waren – z. B. die Haltung Andreottis zur deutschen Frage (siehe z. B. Deborah Cuccia, There are Two German States and Two Must Remain? Italy and the Long Path from the German Question to the Re-unification, 2019) oder die persönliche Wertschätzung zwischen Andreotti und Gorbatschow, zu der sich der erste mehrmals öffentlich geäußert hatte, ist die Edition von großer Bedeutung für die Forschung. Insbesondere die Einblicke in die persönlichen Beziehungen zwischen führenden Politikern und deren Haltungen zu wichtigen internationalen Fragen können dazu beitragen, das Verhalten von Regierungen und politischen Akteuren besser zu verstehen und zu analysieren. Die Edition kann somit als eine wichtige Quelle für zukünftige Forschungsarbeiten dienen und das Verständnis der jüngsten internationalen politischen Geschichte Europas vertiefen.
Francesco Leone
© 2023 bei den Autorinnen und den Autoren, publiziert von De Gruyter.
Dieses Werk ist lizensiert unter einer Creative Commons Namensnennung - Nicht-kommerziell - Keine Bearbeitung 4.0 International Lizenz.
Articles in the same Issue
- Titelseiten
- Jahresbericht des DHI Rom 2022
- Themenschwerpunkt ‚Italien‘: Image und Klischees in der internationalen Musik- und Mediengeschichte der Nachkriegszeit
- Fakturen eines Faszinosums: ‚Italien‘ als multimedialer Assoziationsgegenstand
- „Was willst du in Milano?“
- In stile italiano
- Ikonen und Klischees
- Napoli fürs Sofa
- Rote Rosen, rote Lippen, roter Wein revisited
- Artikel
- Benevento and Salerno
- Dei monasteri e di altre chiese
- Signorie e monasteri nella Sicilia normanna
- Frieden um jeden Preis?
- Il soggiorno di Caterina da Siena a Pisa nel 1375
- Blood Libels between Trento and the Bodensee
- Eine Quellengattung im Spektrum der römischen Überlieferung
- Francesco Barberini als Politiker
- Beyond Protest
- Frieden vermitteln auf neuem Terrain
- Il destino delle opere d’arte di proprietà ebraica sotto la Repubblica Sociale Italiana
- Riconversione e Ricostruzione
- „Rote“ Städtepartnerschaften als die besseren kommunistischen Beziehungen im geteilten Europa?
- Forschungsberichte
- Recent German Research on Good and Bad Deaths in Medieval Narrative Sources
- Neue Forschungen zu Leonardo da Vinci als Ingenieur
- Sul ritrovamento di alcuni documenti del processo dell’Inquisizione agli ebrei portoghesi di Ancona (1556)
- ‚Rossini renaissance(s)‘ e discorsi identitari italiani
- Strukturbrüche
- Forum
- Dante 2021
- Circolo Medievistico Romano
- Circolo Medievistico Romano 2022
- Rezensionen
- Verzeichnis der Rezensionen
- Leitrezensionen
- Die zwei Dekretalenzeitalter im Vergleich
- Ehrenvolles Scheitern und ruhmreiches Nachleben
- Maritime Verflechtungsgeschichte(n)
- Allgemein, Mittelalter, Frühe Neuzeit, 19.–20. Jahrhundert
- Verzeichnis der Rezensentinnen und Rezensenten
- Register der in den Rezensionen genannten Autorinnen und Autoren
Articles in the same Issue
- Titelseiten
- Jahresbericht des DHI Rom 2022
- Themenschwerpunkt ‚Italien‘: Image und Klischees in der internationalen Musik- und Mediengeschichte der Nachkriegszeit
- Fakturen eines Faszinosums: ‚Italien‘ als multimedialer Assoziationsgegenstand
- „Was willst du in Milano?“
- In stile italiano
- Ikonen und Klischees
- Napoli fürs Sofa
- Rote Rosen, rote Lippen, roter Wein revisited
- Artikel
- Benevento and Salerno
- Dei monasteri e di altre chiese
- Signorie e monasteri nella Sicilia normanna
- Frieden um jeden Preis?
- Il soggiorno di Caterina da Siena a Pisa nel 1375
- Blood Libels between Trento and the Bodensee
- Eine Quellengattung im Spektrum der römischen Überlieferung
- Francesco Barberini als Politiker
- Beyond Protest
- Frieden vermitteln auf neuem Terrain
- Il destino delle opere d’arte di proprietà ebraica sotto la Repubblica Sociale Italiana
- Riconversione e Ricostruzione
- „Rote“ Städtepartnerschaften als die besseren kommunistischen Beziehungen im geteilten Europa?
- Forschungsberichte
- Recent German Research on Good and Bad Deaths in Medieval Narrative Sources
- Neue Forschungen zu Leonardo da Vinci als Ingenieur
- Sul ritrovamento di alcuni documenti del processo dell’Inquisizione agli ebrei portoghesi di Ancona (1556)
- ‚Rossini renaissance(s)‘ e discorsi identitari italiani
- Strukturbrüche
- Forum
- Dante 2021
- Circolo Medievistico Romano
- Circolo Medievistico Romano 2022
- Rezensionen
- Verzeichnis der Rezensionen
- Leitrezensionen
- Die zwei Dekretalenzeitalter im Vergleich
- Ehrenvolles Scheitern und ruhmreiches Nachleben
- Maritime Verflechtungsgeschichte(n)
- Allgemein, Mittelalter, Frühe Neuzeit, 19.–20. Jahrhundert
- Verzeichnis der Rezensentinnen und Rezensenten
- Register der in den Rezensionen genannten Autorinnen und Autoren