Abstract
This essay aims to shed light on the period spent by Catherine of Siena in Pisa during the year 1375. Catherine was not only a woman of faith and devotion, but also a leading political player in late 14th-century Tuscany, in direct contact with the Apostolic See through the members of her clique. Why did the lord of Pisa, Pietro Gambacorta, summon her to his city? What networks of relations did Catherine’s arrival fit into? What were the tangible consequences of her stay in Pisa?
Introduzione
Dall’inizio del 1375, santa Caterina da Siena si stabilì a Pisa, dov’era giunta su invito del signore cittadino, Pietro Gambacorta, e dove rimase sino agli ultimi giorni dell’anno. Quella pisana fu una tappa particolarmente significativa per la mantellata, che sanzionò il suo „ruolo sempre più importante nella vita religiosa, ma anche politica del tempo“: a Pisa, 1° di aprile (terza domenica prima di Pasqua), la virgo ricevette le stimmate nella chiesa di S. Cristina, nel quartiere di Chinzica.[1] La venuta di Caterina toccò nell’intimo una larga fetta della popolazione della città sull’Arno: come ha sottolineato Sylvie Duval, non solo l’influsso esercitato dalla mistica senese gettò le basi per l’esperienza monacale di Chiara Gambacorta (figlia di Pietro), ma, più in generale, la società pisana fu attraversata da una stagione di rinnovato slancio devozionale, tanto che da Pisa giunse uno stimolo decisivo alla costituzione dei movimenti dell’osservanza domenicana.[2]
In riva all’Arno v’era un terreno reso fertile, per usare le parole di Mauro Ronzani, dalla „perdurante consonanza“ tra i frati del convento di S. Caterina d’Alessandria, „il mondo del clero secolare e i palazzi del comune e del popolo“.[3] È un tema ben noto. Meno approfondite risultano, invece, le conseguenze dell’intreccio fra la sosta pisana di Caterina e l’esperienza signorile di Pietro Gambacorta. Gli studiosi che hanno indagato la scena politica pisana nel secondo Trecento, soprattutto Cecilia Iannella e Alma Poloni, non solo hanno messo in risalto la sagacia e l’abilità del Gambacorta, ma ne hanno anche sottolineato la costante „ricerca di peculiarità simbolica“: nel corso della sua parabola politica, Pietro si dimostrò particolarmente attento ai risvolti immateriali e figurativi della sua potestas, e basterà qui richiamare il ridimensionamento del ricorso alla rappresentazione dell’aquila imperiale negli stemmi civici, in favore della croce bianca in campo rosso, a significare il tramonto della pregiudiziale anti-fiorentina che aveva caratterizzato i precedenti regimi politici.[4] Cosa implicò, per un signore così interessato, come Pietro, agli aspetti simbolici del proprio potere, la venuta della virgo nella città che egli governava?
Quest’interrogativo nasce perché il filone di studi che ha lumeggiato la signoria gambacortiana non ha incrociato, per così dire, quello più propriamente ‚cateriniano‘: il soggiorno della santa a Pisa è stato analizzato solo attraverso il filtro delle scelte di natura religiosa e devozionale dei fedeli e non è stato posto in relazione con lo scacchiere cittadino, toscano e italiano. Che le azioni e le parole della mantellata assumessero un significato intrinsecamente politico lo ha puntualizzato Thomas Luongo, il quale, sulla scia dei lavori di Noële Denis-Boulet e di Franco Cardini, ha chiarito che il corpus delle lettere della mantellata è ricco di „political meanings“, al punto che „her assertion of spiritual goals can also be read as political rethoric“.[5] L’agire, il pensiero e la produzione epistolare della virgo (per quanto filtrata dai segretari di cui si serviva) appaiono tre aspetti quasi inscindibili: seguendo la messa a punto di Agostino Paravicini Bagliani, possiamo inquadrare le esortazioni di Caterina per convincere Gregorio XI a spostarsi a Roma in un preciso programma politico che, grazie al ritorno della Sede apostolica al di qua delle Alpi, si prefiggeva la pacificazione dell’Italia e l’allestimento di una spedizione super infideles.[6]
È del tutto evidente che la mantellata considerava Pisa una realtà urbana per tradizione votata alle imprese marittime, reputandola un luogo ideale dal quale promuovere la formazione di un fronte crociato. Dal punto di vista del Gambacorta, la presenza di Caterina in riva all’Arno garantiva al signore un enorme capitale evocativo, soprattutto se si considera che, poco prima di giungere presso di lui, la virgo era stata legittimata dal capitolo dei frati predicatori tenutosi a Firenze nel 1374, durante il quale, probabilmente per interessamento di Alfonso di Vadaterra (già confessore di Brigida di Svezia), ella era stata „esaminata su problemi teologici“.[7] I domenicani affiancarono a Caterina l’influente frate Raimondo da Capua in qualità di suo direttore spirituale e, soprattutto, ne riconobbero la bontà, nonostante le voci che la dipingevano come una donna degna di poco credito.[8] A Firenze, ella ebbe anche l’opportunità di legarsi ad alcuni esponenti di spicco della Parte guelfa, in primis i Soderini.[9] Infine, la solenne approvazione del capitolo domenicano rafforzò l’impressione dell’esistenza di un filo rosso tra la mantellata e Gregorio XI, garantito dall’autorevole Raimondo. Quali vantaggi sperava di conseguire il signore di Pisa dall’arrivo di Caterina nella sua città?
Dall’inizio degli anni Settanta, soprattutto dopo la (ri)presa di Perugia a opera dei contingenti papali, l’insediamento di un vicario pontificio nella città umbra e l’annuncio del ritorno di Gregorio XI in Italia, il clima di fiducia fra il comune di Firenze e il papa si era progressivamente degradato, proprio in concomitanza del rilancio della lotta anti-viscontea da parte della Sede apostolica: per dirla con le parole del prete pistoiese Sozomeno, la conquista di Perugia „summe displicuit Florentinis“ poiché „potentia Ecclesiae sic eis appropinquaret“.[10] Viziate dai timori per l’espansionismo pontificio, le relazioni tra Gregorio XI e la città gigliata scivolarono verso una reciproca diffidenza, fino al picco di minimo raggiunto in occasione della guerra degli Otto Santi (1375–1378).[11] Alla metà del decennio v’era in Toscana un’atmosfera che non si esagera a definire di forte agitazione: acuita dai sospetti di coinvolgimento degli agenti papali nella ribellione dei Salimbeni contro l’autorità del comune senese ed esacerbata dalle incursioni delle bande armate dai Visconti che, attraverso la Lunigiana e la Garfagnana, rischiavano di travolgere Lucca.[12] Come s’inquadrano i mesi che Caterina passò a Pisa all’interno di questo quadro frastagliato?
Proveremo a interrogarci sulle dinamiche del soggiorno pisano della virgo almeno fino alla primavera del 1375, quando la minaccia della stipula di una lega a trazione fiorentina tra i comuni della Tuscia costrinse la mantellata a spendersi per tenere Lucca e Pisa fuori dall’alleanza anti-papale.[13] Preliminarmente, però, è bene soffermarsi su un aspetto e che lascia lo storico „dans l’embarras“, per riprendere una sensazione esternata da Jacques Chiffoleau: quello della scarsità di ricadute documentarie dei viaggi della santa. Le „traces du passage de Catherine“ sono pochissime anche relativamente al suo soggiorno avignonese, ma in quel caso ve n’è ‚almeno‘ una, cioè uno stanziamento di 100 fiorini erogati dalla Camera apostolica per ospitare la brigata cateriniana.[14] A Pisa, invece, queste tracce mancano del tutto. Che la virgo sia ‚davvero‘ stata nella città tirrenica è indubitabile: non solo in virtù delle ricostruzioni agiografiche di Raimondo da Capua e Tommaso Caffarini, ma anche in grazia dei deposti resi davanti al vescovo di Castello – quando quest’ultimo, a inizio Quattrocento, volle indagare sull’uso di commemorare la data della morte di Caterina – e delle datationes topiche di alcune lettere ‚pisane‘, nonché delle rubriche ad esse apposte.[15] Come ha precisato Eugenio Duprè Theseider (il più fine conoscitore dell’epistolario cateriniano), „le lettere di Caterina sono fonti storiche esse stesse, e di un valore non piccolo“: „dove non troviamo la riprova documentaria ai fatti che in esse sono rammentati ci converrà sempre accettarli come autentici“.[16]
Tuttavia, anche se si presta fede alle testimonianze ‚cateriniane‘ e ci si allinea alle indicazioni di Duprè Theseider, resta da precisare la ragione per la quale i principali cronisti pisani del secondo Trecento (Ranieri Sardo e l’Anonimo) non menzionano mai la mantellata.[17] La risposta che si può fornire giunge dalla constatazione che alla santa non allude neppure la cronachistica senese del secondo Trecento.[18] Caterina non interessava ai cronisti perché questi ultimi non l’avvertivano – secondo i loro canoni, e a differenza di quanto non si farebbe al giorno d’oggi – come una figura che aveva a che fare con la vita politica cittadina e municipale (cui essi erano primariamente interessati).[19] A riprova del ragionamento v’è il fatto che l’unico cronista che abbozza un ritratto della virgo senese, il fiorentino Marchionne di Coppo Stefani, lo fa nel momento in cui ella assunse i contorni di un fattore perturbatore e divisivo entro l’agone urbano: nel momento, cioè, in cui Caterina, nella fase clou del confronto fra Firenze e il papa, fu nettamente percepita come un attore della scena politica fiorentina.[20]
La signoria gambacortiana: simboli, legami, provenienze
Rientrato a Pisa nel febbraio 1369 dopo un esilio di alcuni anni, Pietro Gambacorta si trovò a fronteggiare una situazione assai complicata: all’inimicizia dei sostenitori del precedente signore urbano (il doge Giovanni dell’Agnello) si aggiungeva infatti l’ostilità dimostratagli dall’imperatore Carlo IV.[21] La situazione si normalizzò solo all’inizio del maggio 1369, quando il sovrano, che aveva tolto Lucca ai Pisani (affidandola al cardinale di Boulogne), accettò, mediante un trattato, di riconoscere il predominio della pars bergolina guidata dal Gambacorta.[22] Gli oppositori di Pietro, comunque, non si diedero per vinti: nel maggio 1370, Bernabò Visconti siglò un’intesa con Giovanni dell’Agnello, attraverso la quale il primo doveva fornire al secondo gli aiuti militari necessari a rimpadronirsi di Pisa e di Lucca.[23] S’ingenerò, così, un vero e proprio clima da accerchiamento, durato sino al 1375 e acuito dalla sottrazione di Sarzana ai Pisani da parte delle forze viscontee: quell’atmosfera era il combinato disposto tra la pressione esercitata dalle bande mercenarie al soldo dei Visconti, che periodicamente irrompevano in Tuscia, e la minaccia rappresentata dai partigiani del Dell’Agnello.[24]
Nonostante gli ostacoli il potere del Gambacorta resse, sostenuto – anche – da una serie di atti evocativi e simbolici che dovette imprimersi nell’immaginario collettivo cittadino. Ad esempio, il suo rientro a Pisa, nel febbraio 1369, si svolse entro una cornice altamente scenografica: dopo aver accolto dei fanciulli andatigli incontro con l’ulivo in mano, Pietro pose un fiorino d’oro sull’altar maggiore di S. Michele e prestò un solenne giuramento sul messale, che palesò la sua alleanza con la compagnia di S. Michele (un’importante e influente associazione di artigiani).[25] Nella primavera 1370, invece, un fallito assalto alle mura a opera dei sostenitori del Dell’Agnello diede al Gambacorta l’occasione per istituire una nuova festa civica: ogni 21 maggio (giorno in cui l’aggressione era stata respinta, nonché festa di S. Restituta), una delegazione degli Anziani si sarebbe recata con 4 torci presso la chiesa di S. Clemente, dove si sarebbe perpetuato il ricordo dello scampato pericolo.[26] Ne emerge una vera e propria ri-funzionalizzazione dello spazio sacro in chiave politica, a fini propagandistici: una strategia che Pietro seppe impiegare in modo più oculato e discreto rispetto al suo predecessore, che invece giunse a realizzare un trono di marmo dentro la cattedrale, a manifestare la sua concezione personale e autoreferenziale del potere.[27]
Si situa qui un’altra peculiarità dell’esperienza politica del Gambacorta: egli mantenne quasi intatta – almeno formalmente – l’architettura istituzionale del comune, arrogandosi ‚soltanto‘ le qualifiche di capitaneus di guerra, capitano delle masnade e difensore del Popolo, e lasciando gli Anziani al vertice della cosa pubblica. Benché si trattasse di una diarchia in cui uno dei componenti sovrastava l’altro in termini di potere effettivo, visto che gli Anziani erano giocoforza selezionati fra le famiglie sostenitrici del regime gambacortiano, Pietro non assunse mai la guida esclusiva del comune. Lo si vede nitidamente da uno stanziamento di spesa deliberato dal comune di Siena per pagare l’ambasciatore che, l’11 marzo 1371, si recò „al comune e al signore di Pisa“.[28] E anche da una relazione inviata al Concistoro di Siena, l’11 novembre 1374, da un paio di ambasciatori. Arrivati a Pisa, essi furono accolti dagli Anziani, che dunque restavano il supremo organo in fatto di politica estera; solo in un secondo momento furono ricevuti dal Gambacorta. L’indomani mattina, prima di recarsi nel palazzo degli Anziani e di esporre la loro ambasciata davanti al Consiglio, gli emissari senesi stettero „per grande spacio di tempo aspittando co’ messer Piero ne la loro capella“: quest’ultimo provò a convincerli della natura plurale e policentrica del reggimento politico pisano, spiegando loro che l’idea che ciò che „per lui si vole per gli anziani si mette“ era, appunto, nient’altro che un’idea.[29]
Nonostante che gli ambasciatori senesi fossero ben informati su chi teneva davvero le redini del potere a Pisa, la loro relazione al Concistoro getta luce sul tentativo del Gambacorta di preservare accuratamente il cerimoniale istituzionale: benché Pietro fosse il signore della città, il compito di accogliere per primi le delegazioni dei comuni vicini spettava agli Anziani (il Gambacorta fece persino anticamera nella cappella del loro palatium!).[30] Quello dell’impressione che si voleva veicolare circa l’assetto della scena politica pisana è un tema che ben si lega agli afflati ‚corali‘ con cui sono narrati, da parte del cronista Ranieri Sardo, l’assunzione della qualifica capitaneale da parte del Gambacorta e il riconoscimento del ruolo vicariale per suo figlio Benedetto (avvenuti rispettivamente il 22 settembre e il 13 ottobre 1370).[31] Di entrambi questi avvenimenti cruciali, il primum movens è individuato nei membri delle principali casate solidali coi Gambacorta (come i Bonconti, i Lanfranchi e i Gualandi): furono loro che – in una sorta di gioco degli specchi abilmente inscenato dal signore pisano – condussero Pietro e il figlio dagli Anziani, e che ottennero dai supremi magistrati cittadini il conferimento dei poteri capitaneali per Pietro e quelli vicariali per Benedetto.[32]
La rete dei sostenitori dei Gambacorta comprendeva taluni componenti dell’ecclesia pisana e del clero regolare, in quanto parenti del signore o membri delle famiglie a lui legate.[33] Vediamo alcuni esempi ‚emblematici‘. Innanzitutto, almeno dal 2 maggio 1375, Lotto di Andrea Gambacorta (nipote ex fratre di Pietro) era canonico del duomo.[34] Insieme a Lotto, dal 1370 dimorava nella canonica pisana anche Pietro, consobrinus del cancelliere del signore di Pisa.[35] Il 26 ottobre 1376, toccò a Francesco Bonconti essere designato per ricevere uno stallo in cattedrale (ancorché effettivamente ottenuto alcuni anni dopo); almeno dall’aprile 1377, inoltre, Andrea di Ugolino Bonconti era priore del convento domenicano di S. Caterina.[36] Andrea di Gianni Bonconti, che nell’estate 1376 era fra i savi del quartiere di Chinzica, nel giugno 1375 fu emissario del comune di Pisa a Firenze, nel maggio 1378 fu ambasciatore al papa e, nello stesso anno, fu autorizzato a comprare alcune terre dell’Opera del duomo in Valdiserchio.[37]
I rapporti fra il Gambacorta e l’arcivescovo Francesco Moricotti (pastore della città tirrenica dal 1362 al 1378) erano ottimi: nel settembre 1374, il procedimento intentato dal capitano di Calci contro Giordano di Parente „familiaris et castaldius“ del Moricotti fu sospeso „usque ad aventum et redditum“ del prelato, che si era recato in pellegrinaggio in Terrasanta.[38] Nel marzo 1375, invece, Stefano priore di S. Pietro in Vincoli, che in quel momento agiva in qualità di procuratore arcivescovile, ottenne dalle autorità comunali il permesso di far murare una casa disabitata „apta ad agendum in ea turpia“.[39] L’ingranaggio della collaborazione fu, per così dire, oliato dall’infeudazione al Gambacorta dei beni imolesi che appartenevano alla Chiesa di Pisa.[40] Inoltre, alcuni membri delle famiglie di spicco della scena politica pisana, come i Gualandi, furono nominati dal presule castellani del suo fortilizio di Lorenzana; e uno degli scribae del prelato, ser Pietro da Cevoli, fu ambasciatore del comune pisano al condottiero Giovanni Acuto (luglio 1375) e ai reggitori di Firenze (dicembre 1375).[41] Infine, il vicario generale del Moricotti, il doctor decretorum Paolo da Peccioli, era fratello del ser Giovanni giurisperito che, nella primavera 1369, prestò servizio come „notarius et scriba publicus cancellerie Pisani comunis“, e che nell’autunno 1374 era cancellarius „ad licteras“ del comune (Paolo e Giovanni, infatti, erano figli di Iacopo iudex).[42]
Dal castello di Peccioli giunge un’altra tessera per il mosaico che stiamo provando a comporre: un elemento che, fuor di metafora, permette d’indovinare perché Caterina alloggiò proprio in casa di Gherardo di Niccolò Bonconti. Anche la schiatta di uno dei più autorevoli esponenti del convento domenicano di Pisa, fra Domenico „solempnis magister et egregius predicator“, nonché „familiaris“ della santa, veniva dal castello della Valdera.[43] Qui i domenicani pisani gestivano un ospedale e, si badi, qui andò ad abitare lo stesso Gherardo dopo aver ospitato la virgo senese nella propria dimora cittadina.[44] Da alcuni decenni, la casata di Gherardo nutriva alcuni interessi in quella parte di comitato pisano, e si serviva dello stesso notaio, ser Andrea di Pupo da Peccioli, cui ricorrevano anche molti pecciolesi inurbati (e, almeno prima della peste, anche alcuni Gambacorta): non di rado ser Andrea rogava sotto il campanile di S. Cristina, la chiesa urbana – nella quale la mantellata senese ricevette le stimmate – nel cui territorio risiedevano sia i Bonconti sia i Gambacorta.[45] Ma la dizione „da Peccioli“ era usata anche per identificare prete Iacopo, rettore della chiesa di Camugliano, vicario generale del capitolo in sede vacante nel 1350, cappellano in duomo e vicario in spiritualibus dell’arcivescovo Moricotti nel 1373.[46] Da Peccioli proveniva, infine, anche la famiglia di Bartolomeo del fu Cecco, notaio degli Anziani di Pisa nel 1369.[47] In attesa di studi ulteriori, da quanto si è detto si può supporre che fra Domenico e il Bonconti si conoscessero grazie al canale ‚pecciolese‘, che Gherardo mettesse a disposizione di Caterina la sua dimora pisana su sollecitazione del religioso domenicano, e che ciò avvenisse col beneplacito del Gambacorta (del quale i Bonconti erano partigiani) e del vicario generale del Moricotti, a sua volta legato a fra Domenico da una comune ascendenza pecciolese.
Un invito declinato
Se non è dunque da escludere che la rete che univa gli esponenti del milieu laico ed ecclesiastico pisano in qualche modo legati a Peccioli fungesse da prima cinghia di trasmissione della fama di Caterina in città, resta da precisare il legame tra frate Domenico e la santa senese. Esso doveva esser passato da due domenicani che si trovavano in S. Caterina d’Alessandria, cioè Bartolomeo Dominici e Tommaso Caffarini, e che facevano parte della brigata cateriniana.[48] Così, inizialmente grazie al canale ‚pecciolese‘, sempre più cives pisani rivolsero la loro attenzione alla mantellata. Fu su consiglio di una cerchia di pie donne, ossia le penitenti rintracciate da Sylvie Duval, che il Gambacorta pregò la santa di raggiungere Pisa. La vicenda è nota grazie alla risposta di Caterina, che declinò l’invito sia per motivi di salute, sia per ragioni di opportunità („anco veggo che per ora io sarei materia di scandolo“): se il soggiorno di costei nella città tirrenica cominciò agli inizi del 1375, si può ragionevolmente ascrivere agli ultimi mesi del 1374 la sua risposta al primo invito di Pietro.
Secondo Duprè Theseider, la santa intendeva evitare d’incorrere in maldicenze simili a quelle sollevate dai detrattori intervenuti nel capitolo fiorentino del 1374; la sensazione, però, è che il quadro sia più sfrangiato di quello che il testo della missiva presenta a una prima lettura. Caterina era in prima battuta una mistica, e non possiamo escludere che l’invito del signore pisano scaturisse da una sua inquietudine individuale. Nel luglio 1374, infatti, egli perse Matteo „dulcissimus filius“, benché non vi sia alcun accenno a quest’avvenimento nella lettera della mantellata.[49] In essa c’è, invece, un riferimento chiaro alla vera „signoria“, intesa come il dominio su di sé e sulle proprie pulsioni: quel tipo di potestas, l’unico duraturo e destinato a dar frutto, era il preambolo necessario alla capacità di governare tanto l’individualità dell’io, quanto la molteplicità della civitas pisana.[50]
Nessuno più di Pietro doveva essere in grado di recepire le parole della virgo, considerati i rivolgimenti politici di cui egli era stato il protagonista, e che l’avevano condotto al vertice del comune, dopo l’esilio di Giovanni dell’Agnello. L’opposizione dei partigiani del doge incombeva sul Gambacorta, ingenerando un clima di costante pericolo. Il 20 febbraio 1374, ad esempio, gli Anziani di Lucca avvertirono i Fiorentini che „gentes domini Bernabovis velle intrare territorium nostrum versus partes Garfagnane“.[51] Né la minaccia incalzava solo da fuori, poiché anche all’interno del comitato pisano v’era una forte opposizione alla politica gambacortiana, da molti considerata troppo filo-fiorentina a causa del regime di favore di cui godevano gli operatori economici della città gigliata sin dal 1369. Benché queste franchigie si spieghino col fatto che Porto Pisano giocava un ruolo strategico per l’economia toscana, al punto che i sistemi economici delle due città sull’Arno, secondo una felice interpretazione di Alma Poloni, erano ormai integrati, la percezione dell’eccessiva arrendevolezza di Pietro nei confronti dei Fiorentini doveva essere diffusa.[52] Il 24 maggio 1372, parlando in rappresentanza dell’ufficio del gonfaloniere di giustizia di Firenze, Tommaso di Marco propose di agire riguardo alle „questiones orte inter quosdam Pisanos et Florentinos in civitate Pisana“ inviando ser Francesco Mazzei a informarsi „de omnibus novitatibus que inter Florentiam et Pisa sorte sunt“.[53]
Il risentimento nei confronti dei mercatores fiorentini coinvolgeva persino esponenti di spicco dell’élite filo-gambacortiana, come Andrea Bonconti, il quale, all’inizio del 1374, rimase coinvolto in un „litigium“; intervenendo in una consulta del comune di Firenze tenutasi il 12 gennaio di quell’anno, Leonardo Beccanugi suggerì che i Fiorentini inviassero ser Francesco di Vanni a informarsi „de quibusdam noviter ibidem factis nostris civibus mercatoribus“.[54] Si trattava, con tutta evidenza, di fiammate d’odio che divampavano trasversalmente alle due fazioni pisane dei bergolini e dei raspanti, e che traevano origine dall’orgoglio civico così ben espresso dai cronisti pisani (i quali infatti rimproveravano il Gambacorta „di essere spropositamente compiacente nei confronti di Firenze e delle città guelfe“).[55] La venuta di Caterina a Pisa in qualità di voce autorevole e legittima dell’ecclesia dopo il capitolo fiorentino del maggio 1374, poteva rappresentare un potente strumento di „‚propaganda‘ signorile“ e aiutare a stemperare il clima di opposizione interna alla politica gambacortiana.[56]
Quel risentimento era tanto più pericoloso quanto più minacciava di collegarsi al dissenso espresso dai partigiani del doge: il 2 luglio 1372, il fiorentino Giovanni del Bene sostenne che i reggitori della città gigliata avrebbero dovuto render noto al signore pisano „de hiis que sentiuntur hic contra eum“.[57] Analogamente, il 2 aprile 1373, il senese Marco di Meo si recò a Pisa, per conto del Concistoro di Siena, ad approfondire le „novelle di certo trattato“, certamente una congiura ai danni di Pietro.[58] Lo stesso avvenne nel giugno 1375, quando il gonfaloniere di giustizia del comune di Firenze rivelò a un emissario pisano „alcuno tractato el quale esso sentiva che era in Pisa“.[59] A un governante attento ai simboli come Pietro non sfuggiva che la presenza della virgo in città avrebbe conferito lustro alla sua signoria e, soprattutto, l’avrebbe potenziata in termini di legittimità e di prestigio, grazie al carisma della mantellata e all’ascendente di costei nelle reti devozionali che attraversavano la società pisana.
Ai fattori d’instabilità appena citati si aggiungeva la situazione critica della parte meridionale del comitato di Pisa (la cosiddetta Maritima), raggiunta con più difficoltà dalla potestas urbana.[60] Narrando le vicende dell’assalto di S. Restituta nel maggio 1370, l’Anonimo pisano racconta che, dopo essere stati scoperti, „li nimici si partitteno“ in direzione della „Maremma di Pisa“.[61] È, questo, un dato che va letto contestualmente agli eventi del marzo 1374, quando Benedetto Gambacorta (figlio di Pietro) fu inviato a Piombino – il principale castello della Maritima – per sedare una rivolta cui presero parte i membri „della parte delli Raspanti che prima reggeano Pisa“.[62] Non è da escludere che le forze del doge si coordinassero con Bernabò Visconti (al quale il Dell’Agnello era legato, come sappiamo, da un patto d’alleanza), ma il sostegno agli avversari del Gambacorta veniva forse da più vicino.[63] Giunge in soccorso la relazione degli ambasciatori senesi a Pisa di cui abbiamo parlato sopra, risalente al novembre 1374 e incentrata sui movimenti di truppe nella Maremma pisana.[64] Soffermiamoci un istante sul documento.
I due emissari arrivati da Siena erano venuti a conoscenza dei nomi di coloro che, plausibilmente per conto dei Salimbeni, si erano recati ad arruolare uomini nelle aree boscose della Maritima (circa 200 fanti e 25 cavalieri). Era, quella, una fase delicatissima per i destini della città della Balzana, giacché i Salimbeni si erano da poco impadroniti di Montemassi, sbaragliando l’esercito dei Senesi.[65] Ma l’ostilità della schiatta era ben percepibile sin dal 1372, quando i pareri espressi nelle consulte fiorentine rivelano che a Firenze si temeva che alcuni pezzi del comitato sfuggissero al controllo della civitas e che non vi fosse più modo di farvi rispettare la iustitia: intervenendo in una consulta tenutasi il 24 ottobre, Tommaso Strozzi propose che si dovesse in ogni modo favorire lo „status Senensium“, inviando a Siena alcuni cives della città gigliata „ad confortandum eos de iustitia facienda, de conservatione eorum status“.[66]
L’assoluta gravità della situazione aveva consigliato ai reggitori di Siena, durante la seconda metà del 1374, di fare pressione sui vicini per impedire che i Salimbeni ricevessero rinforzi, e a rivolgersi „in più parti di Toscana per aiuto e consiglio“.[67] Come trapela dalla relazione dei due ambasciatori senesi a Pisa, il signore pisano reagì alle richieste tentando di nascondersi dietro l’autonomia decisionale degli Anziani, così che le sue „parole asai miste“ (cioè fraudolente e artificiali) non fecero che acuire l’impressione della sua malafede. Il Gambacorta provò a convincere i due nunzi senesi che le loro informazioni erano errate, perché gli uomini assoldati nella Maritima non avrebbero potuto essere così tanti: in quella terra di porto, coperta da foreste „rie“, i reclutati all’insaputa degli Anziani (i quali, altrimenti, avrebbero preso gli opportuni provvedimenti) avrebbero potuto essere al massimo una cinquantina. I due ambasciatori non credettero neppure per un istante alla buona fede del Gambacorta, e anzi proposero al Concistoro di considerare che quelle „schuse sono magre e male verifichate“, invitando contestualmente i reggitori di Siena a informare i priori di Firenze di tutta la faccenda.
Ma perché Pietro assunse un atteggiamento che ai due ambasciatori parve a dir poco ambiguo, non si diede da fare per soddisfare le loro richieste e non s’impegnò a fare in modo che dal territorio pisano non giungessero aiuti ai Salimbeni? La risposta più convincente viene se si pone mente a quanto accadde nel ventennio successivo, quando nel 1396 i conti di Montescudaio – titolari di una solida e robusta placca signorile in Maremma, chiamata Gherardesca, intersecata con i domini dei conti di Castagneto e di Donoratico (tutti discendenti dai conti Gherardeschi) – si ribellarono al coordinamento politico esercitato da Pisa e fecero guerra al comune tirrenico, riuscendo a impadronirsi dei castelli di Bibbona e Rosignano.[68] Gli avvenimenti degli anni Novanta mostrano chiaramente che i conti, qualora fossero entrati in conflitto coi reggitori cittadini, sarebbero stati in grado di sottrarre alla civitas la sezione meridionale del suo distretto. Anche se si tratta, al momento, di una serie d’indizi, essa basta comunque a suggerire che il Gambacorta intendesse evitare al comitato di Pisa un collasso simile a quello che, all’inizio degli anni Settanta, si verificò nel territorio di Siena a opera dei Salimbeni.
Proprio a questi ultimi, i conti di Montescudaio erano legati per via parentale attraverso i Belforti di Volterra; molti membri della schiatta volterrana, a loro volta, si erano spostati nel Senese, da dove compivano, forse con l’appoggio degli stessi Salimbeni, delle scorrerie nel Volterrano.[69] Benché fosse a conoscenza del fatto che i conti Gherardeschi aiutavano i Salimbeni e che dai loro castelli giungevano aiuti ai partigiani del doge, il Gambacorta preferì un approccio, pour ainsi dire, piuttosto morbido alla questione: al fine di non mettere a repentaglio la tenuta della sua signoria, evitando di rompere con la schiatta comitale e cercando, piuttosto, d’integrarla nella rete del suo governo. Non è certamente un caso che, nel febbraio 1371, il conte Gualando di Castagneto ricoprisse la mansione di vicario del comune pisano nella Maritima.[70] E che, nell’ottobre 1372, gli Anziani di Pisa fossero indotti a rassicurare i Senesi di aver ordinato ad alcuni castelli della parte meridionale del distretto, fra cui Montescudaio, di non accogliere i ribelli del comune di Siena.[71] Due dati da collocare nella medesima cornice, insieme all’atteggiamento equivoco ed evasivo dimostrato dal Gambacorta nei confronti gli emissari di Siena alla fine del 1374.
Sotto questa luce, assumono una forma più nitida sia la missione svolta, nell’agosto 1371, dal senese Guglielmo di Conte, il quale si recò „a Pisa e per lo contado a spiare se ragunata si faceva di gente“,[72] sia il diniego espresso da Caterina al primo invito del Gambacorta alla fine del 1374: l’imbarazzo che le impediva di recarsi a Pisa aveva a che fare con gli attriti tra quest’ultima città e il comune di Siena, i cui reggitori non avrebbero accettato il soggiorno pisano della mantellata in un’atmosfera di forte sospetto e ostilità latente. Per converso, Pietro doveva sperare che l’arrivo della santa rappresentasse un’occasione di pacificazione con i vicini, e che costituisse il mezzo più appropriato – in virtù dei solidi legami fra la virgo e la Sede apostolica – per convincere il papa a lasciare a Pisa il possesso di Sarzana, dei cui destini si discuteva proprio alla fine del novembre 1374.[73]
Caterina a Pisa
Nelle pagine precedenti si è ipotizzato che l’invito alla mantellata da parte del Gambacorta e il successivo diniego di lei possano essere inquadrati nello specchio delle tensioni che caratterizzavano i rapporti tra Siena e Pisa alla fine del 1374, e che erano esacerbate dagli aiuti che giungevano ai Salimbeni dalla Maritima pisana. Ma che cosa, allora, indusse Caterina a superare l’iniziale rifiuto? E quando giunse, di preciso, nella città tirrenica? Il primo elemento su cui porre l’attenzione è il ritorno dall’oriente, proprio all’inizio del 1375, dell’arcivescovo Francesco Moricotti, partito per la Terrasanta nell’agosto 1373 e ancora „in itinere sepulcri Domini“ il 18 giugno 1374.[74] Il presule sbarcò a Venezia il 2 dicembre 1374, come indica lo stanziamento per rimborsare i corrieri che avevano portato in Toscana le lettere „de adventu domini archiepiscopi Venetiis existentis missas per ipsum dominum archiepiscopum“.[75]
Se si segue il filo che abbiamo addipanato sopra, non è illogico ritenere che il Moricotti sentisse parlare della virgo dal suo vicario generale (dominus Paolo), pecciolese come frate Domenico. Tanto più, che l’arcivescovo era particolarmente legato a Siena, non solo perché Massa, sottoposta al controllo politico della città della Balzana, ricadeva entro i confini della metropoli pisana, ma anche perché Giovanni dei Panicci, vicario generale del vescovo massetano Antonio da Ripaia (1361–1380), era anche camerario arcivescovile.[76] Il ritorno del Moricotti presso la sua cattedra può essere considerato il terminus ad quem per l’inizio del soggiorno di Caterina a Pisa: all’arcivescovo – forse su impulso dell’influente e autorevole Vadaterra, come riteneva il Denis-Boulet – spettava il compito di fare da alleato per la promozione del santo passaggio da parte di Caterina, in vista della bolla con cui Gregorio XI proclamò la crociata il 1° luglio 1375.[77]
In quella temperie, Pietro diede avvio al ciclo delle „Storie di San Ranieri“ in Camposanto, incentrato sulla vita del santo pisano fattosi eremita in Terrasanta, e cominciato dal pittore fiorentino Andrea di Bonaiuto.[78] A muovere quella grandiosa operazione non fu soltanto l’intenzione di „richiamare il glorioso passato cittadino, proponendo un’immagine di Pisa più vicina alla potente e industriosa civitas pieno-medievale che non a quella trecentesca“, ma anche, e forse soprattutto, la volontà di rendere manifesta l’adesione del signore pisano ai disegni di crociata espressi dalla virgo e dalla Sede apostolica, cui mostrò pieno appoggio, fra gli altri, anche Ugone III giudice d’Arborea.[79] Né è da escludere che il Gambacorta si fosse recato in prima persona al Santo Sepolcro, dove forse ebbe modo di conoscere il Vadaterra e Brigida di Svezia nel corso del loro pellegrinaggio in oriente durante il 1372: se così fosse, l’idea di una solida unità d’intenti fra l’ex confessore di Brigida, il signore di Pisa e la virgo senese ne uscirebbe ulteriormente rafforzata, perché si troverebbe fondata su un consolidato rapporto di fiducia personale tra il Vadaterra e Pietro.[80]
Oltre alla volontà espressa da quest’ultimo di supportare, almeno sul piano delle immagini, i propositi crociati di Caterina, un altro elemento che conviene prendere in considerazione per meglio caratterizzare l’arrivo della mantellata a Pisa riguarda la missione di Berengario abate di Lézat: „unus abbas ordinis Sancti Benedicti habitus nigri“ – come lo descrissero, il 5 febbraio 1375, gli ambasciatori senesi a Perugia – che Gregorio XI delegò per fugare i sospetti circa la condotta dei rettori pontifici e per aiutare a sciogliere i nodi politici ancora insoluti in Toscana (primo fra tutti, la contesa fra i Senesi e i Salimbeni).[81] L’abate fu incaricato insieme al letterato fiorentino Francesco Bruni, secretarius del papa e „conseiller pour les affaires de Toscane“ di quest’ultimo.[82] Le lettere di credenza per il religioso furono trasmesse alle città toscane il 15 febbraio 1375; il suo arrivo, invece, si può collocare all’inizio del maggio, quando Giovanni di Piero Bandini, intervenendo in una consulta del comune di Firenze, suggerì che „eius adventus“ fosse annunciato „communibus circumstantibus“.[83] Il 13 maggio, come si apprende da un’informativa ai Lucchesi, l’inviato pontificio aveva già avuto colloqui coi reggitori della città gigliata; successivamente, il 18 maggio, l’abate raggiunse Siena.[84]
La missione pacificatrice di Berengario fungeva da puntello per il disegno politico che, come si è detto sopra, teneva insieme la ricomposizione delle principali discordie nello scacchiere italiano, il ritorno del pontefice presso la tomba di Pietro e l’allestimento della spedizione super infideles. A tale riguardo, il soggiorno pisano di Caterina e la legazione toscana dell’abate di Lézat sembrano due valve della stessa conchiglia: due eventi la cui realizzazione fu orchestrata dalla Sede apostolica, in un momento in cui le attività della virgo „as a public figure were connected directly to her role as an agent of the church party“.[85] Non è un caso che, proprio a Pisa, nella primavera 1375, la mantellata incontrasse l’abate benedettino, al quale ebbe poi modo di riferire, in risposta a una lettera di lui, i suoi auspici di riforma della Chiesa.[86] La complementarietà del soggiorno pisano della terziaria con la missione del religioso di Lézat spiega anche perché la promozione della crociata da parte di costei avvenne a Pisa e non, ad esempio, a Genova: Pisa rappresentava, infatti, non solo la bocca della Toscana, ma soprattutto il passaggio obbligato che chiunque, arrivando da Avignone, avesse dovuto attraversare per raggiungere la Tuscia. In altri termini, Berengario e Caterina costituivano due (decisive) maglie della rete politica tessuta dal pontefice, in una fase in cui, a causa del montare della tensione fra Firenze e Gregorio XI, le attenzioni di quest’ultimo erano concentrate sui comuni toscani.
Verso la fine di aprile, s’intravidero i frutti del lavorio diplomatico del religioso d’Oltralpe, il quale, per appianare il contenzioso fra Siena e i Salimbeni, agiva di concerto con i Fiorentini: il 26 aprile 1375, i reggitori del comune di Firenze potevano annunciare che „hodie declaravimus atque pronuntiavimus pacem inter partes predictas“.[87] Il Gambacorta, da parte sua, si adoperò per assecondare i desideri di pace espressi dalla mantellata. Se l’armonia in Tuscia era il corollario dell’allestimento della crociata, il passadium avrebbe contribuito a smorzare il clima di tensione che permeava l’agone politico italiano, allontanando anche la minaccia costituita dai mercenari smobilitati in seguito alla pace fra i Visconti e la Chiesa.[88] La lettera che Caterina inviò a Giovanni Acuto tramite Raimondo da Capua pare intrisa di questa logica: il mercenario inglese avrebbe dovuto promettere „d’andare sopra gl’infedeli“, smettendo di combattere contro i fratres cristiani.[89] Né è inverosimile che Raimondo fosse stato incaricato da Caterina anche di agevolare la stipula di un accordo (3 luglio) fra il Gambacorta e lo stesso Acuto, con il quale quest’ultimo s’impegnò – dietro la corresponsione di una grossa somma di denaro – a non attaccare Pisa.[90]
All’inizio del 1375, il comune di Lucca accettò di affidarsi al Gambacorta per trovare un’intesa con i marchesi Azzolino e Niccolò dei Malaspina del ramo di Fosdinovo, entrati in urto con la città del Volto Santo per alcuni possedimenti situati in Lunigiana.[91] Il signore pisano rappresentava un mediatore ideale anche in grazia dei legami fra la sua casata, la città di Pisa e la schiatta marchionale, che affiorano sia dal matrimonio fra Francesco Gambacorta (figlio di Pietro) e Lagia del fu Opizzino Malaspina, sia, soprattutto, dalla promozione di Bernabò di Azzolino Malaspina ad arcivescovo di Pisa (Bernabò fu pastore della città tirrenica dal 1378 al 1380), avvenuta quando il papa elevò Francesco Moricotti al rango di cardinale.[92]
Non conosciamo l’esito della vertenza fra i marchesi e il comune di Lucca; è comunque certo che la presenza di Caterina a Pisa agevolò la ricomposizione dei dissidi fra i Senesi e i Pisani, nella stessa temperie in cui il comune di Firenze stava componendo una pace fra i Senesi e i Salimbeni.[93] Il 13 gennaio 1375 gli Anziani di Pisa, intendendo rimuovere tutti gli „scandala“, annunciarono al Concistoro di aver inviato a Castiglion della Pescaia (castello pisano) il miles Ranieri da Ripafratta „cum expedienti mandato“: esso riguardava la facoltà di siglare un’intesa con i Senesi sia relativamente ad alcune controversie fra privati, sia, soprattutto, in relazione alla „palata“ di Castiglione, forse un’opera idraulica realizzata dai Pisani al confine del territorio controllato da Siena.[94]
Non è questa la sede per ripercorrere puntualmente i colloqui e le iniziative intrapresi per appianare i dissidi costieri fra Pisa e Siena. Basterà segnalare che, dopo l’ambasciata di ser Angelo da Montefoscoli nella città della Balzana nel marzo 1375, disposta dal Gambacorta, il 12 aprile gli Anziani pisani annunciarono al Concistoro il ritorno in Maremma di Ranieri da Ripafratta.[95] Poi, le fibrillazioni seguite alla stipula della tregua (siglata all’inizio di giugno) fra i Visconti e la Sede apostolica, la minaccia delle incursioni delle bande mercenarie rese disoccupate dalla pacificazione e il progetto dei Fiorentini di dar vita a una lega anti-papale nella seconda metà dell’anno resero le trattative per la definizione delle questioni ancora aperte in Maremma sempre più impervie.[96]
Qualche conclusione
Arrivati a questo punto, è giunto il momento di tirare le fila del discorso, mettendone in luce i punti salienti. Appurata la stretta collaborazione tra la mantellata e il pontefice per il tramite di Alfonso Vadaterra e di Raimondo da Capua, abbiamo ipotizzato che Caterina si sia recata a Pisa non solo perché, grazie al suo passato crociato, essa rappresentava un luogo ideale dal quale promuovere il santo passaggio, ma soprattutto perché la città tirrenica era il porto al quale avrebbe attraccato chiunque avesse voluto arrivare in Tuscia da Avignone. Ciò si lega al fatto che il soggiorno di Caterina va letto contestualmente all’attenzione che Gregorio XI tributò alla Toscana all’inizio degli anni Settanta, e che si sostanziò, come si è visto, nella missione pacificatrice all’abate di Lézat. Il ristabilimento della concordia in questa regione e la spedizione super infideles erano, per così dire, voci di uno stesso coro di cui faceva parte anche il rientro del pontefice a Roma. Una così forte interrelazione spiega la necessità che la virgo si trovasse a Pisa al momento in cui il religioso inviato dal papa raggiungeva le coste italiane.
Non da ultimo, se a Caterina si riconosce il ruolo d’interprete di primo piano dell’azione politica papale in Italia e in Toscana (almeno a partire dal capitolo domenicano del 1374), la venuta di costei a Pisa dovette sanzionare, una volta per tutte, la fine della fase in cui la città tirrenica fu soggetta, per usare un’espressione coniata da Roland Pauler, alla signoria dell’imperatore. Ossia a quella tutela (financo ipoteca) esercitata da Carlo IV e dai suoi dignitari sul comune pisano sin dal 1355, e che si era, per così dire, rinnovata grazie al riconoscimento che il reggimento bergolino aveva ottenuto dal sovrano (ancorché ex post) all’inizio del maggio 1369.[97] La sosta della mantellata in riva all’Arno schiudeva a Pietro la possibilità di un filo diretto con Gregorio XI, e – per così dire – di un vero e proprio patronato papale sulla città. La sosta pisana di Caterina servì, insomma, a riposizionare il regime gambacortiano nel gioco degli equilibri politici internazionali. A tale riguardo, non fu probabilmente un caso che la santa ricevette le stimmate nella stessa chiesa in cui Giovanni dell’Agnello, predecessore e tenace oppositore di Pietro Gambacorta, fu „fatto Dogio di Pisa“ nell’agosto 1364.[98] Alla stregua della fine del ricorso all’iconografia dell’aquila che abbiamo richiamato, quell’evento favorì il processo dell’obliterazione dei simboli e dei rituali che avevano caratterizzato il precedente regime politico, in quanto le stimmate della santa senese in S. Cristina contribuirono a rimuovere dalla memoria collettiva la cerimonia di cui il Dell’Agnello era stato protagonista nel 1364.
Delineate le ragioni ‚alte‘ dell’arrivo della santa, si è cercato di ricostruire le dinamiche della formazione di un addentellato con la città. Si è individuato un fascio di personaggi, collocati ai massimi livelli delle istituzioni urbane (il vicario generale dell’arcivescovo Moricotti, fra Domenico del convento di S. Caterina d’Alessandria, il notaio degli Anziani nel 1369, ecc.), accumunati dal discendere da avi pecciolesi. A costoro era collegato Gherardo Bonconti, esponente di primo piano del regime gambacortiano, che ospitò Caterina nella sua dimora pisana, e che proprio a Peccioli doveva nutrire alcuni interessi patrimoniali; a Peccioli v’era anche, come si è visto, un ospedale controllato e gestito dai religiosi del convento pisano. Abbiamo supposto che fosse fra Domenico a diffondere in città – una volta che l’apprese dai confratelli Caffarini e Dominici – la fama della virgo di Siena, e che essa abbia inizialmente circolato attraverso la trama delle sue relazioni ‚pecciolesi‘, prima di raggiungere il resto della società pisana. Si potrebbe, quindi, arrivare a ipotizzare che sia stato proprio fra Domenico a gestire e organizzare l’insediamento di Caterina a Pisa.
L’attenzione rivolta dai cives pisani alla santa fu senz’altro accresciuta dall’ascendente che, da decenni, i fratres di S. Caterina d’Alessandria esercitavano sulla società urbana: si pensi agli affreschi di Buffalmacco al Camposanto, ispirati proprio dai motivi della predicazione domenicana.[99] Pietro Gambacorta fu, così, ‚naturalmente‘ indotto a chiamare Caterina nella sua città. Ma i motivi che lo spinsero, come sappiamo, erano anche ben più ‚profani‘: la mantellata disponeva di contatti di alto livello presso la Sede apostolica, che il Gambacorta intendeva presumibilmente sfruttare per riacquistare a Pisa il dominio sulla cittadina di Sarzana. Inoltre, la mantellata era una figura dotata di un ascendente fuori dal comune, che poteva rinforzare la legittimità del suo governo, tanto più preziosa sia per parare i colpi di mano dei sostenitori del doge, sia per stemperare il clima di opposizione alla politica gambacortiana, da molti giudicata eccessivamente filo-fiorentina.
Abbiamo anche riflettuto sulla cronologia dell’invito a Caterina, e sulle motivazioni dell’iniziale diniego di lei: alla fine del 1374, infatti, i Senesi recriminarono sugli aiuti militari che, dalla Maritima pisana, giungevano ai ribelli Salimbeni. Abbiamo supposto che il coordinamento di quei movimenti ostili a Siena avvenisse dai castelli che, posti formalmente sotto il coordinamento politico di Pisa, erano controllati dai discendenti dei conti Gherardeschi, i quali, attuando una politica a dir poco spregiudicata, potrebbero aver aiutato anche i partigiani del Dell’Agnello. Il Gambacorta, nonostante le rimostranze dei vicini senesi, non volle mettere a repentaglio la tenuta del comitato della città tirrenica, né costringere i Gherardeschi a giocare, nel Pisano, la stessa parte dei Salimbeni nel Senese: ossia, di ostilità aperta alla civitas.
Le frizioni tra i Senesi e i Pisani spiegano il primo rifiuto posto da Caterina all’invito del Gambacorta, forse indotto dagli stessi reggitori del comune di Siena. Poi, quando la Sede apostolica ritenne d’inviare in Italia l’abate di Lézat per appianare i contrasti tra le potestates della Tuscia, le cose mutarono, e Pietro s’impegnò a rispondere alle istanze di pace avanzate dalla santa, cercando il dialogo con Siena e ponendosi in qualità di mediatore nelle contese fra il comune di Lucca e i Malaspina di Fosdinovo. D’altro canto Pisa, grazie al santo passaggio e alla collaborazione offerta dal suo arcivescovo, poteva ritrovare la proiezione mediterranea che aveva avuto al tempo di san Ranieri: era questo il messaggio profondo espresso nelle „Storie di San Ranieri“ affrescate da Andrea di Bonaiuto, che stavano a simboleggiare anche l’adesione della città agli intenti crociati di Gregorio XI.
Se si fosse realizzata la spedizione super infideles, gran parte delle bande mercenarie che incombevano sulla Toscana si sarebbe diretta verso oriente, allentando la pressione sulla signoria gambacortiana. La fine della primavera 1375 portò con sé il naufragio di tutti quei propositi, così che le possibilità di pacificare la Tuscia e di approntare una crociata tramontarono. Contestualmente Pisa – cui la tregua fra i Visconti e il papa fece scivolare di mano il possesso della cittadina di Sarzana – perse la primazia nella griglia degli interessi cateriniani: essa non era più la città da mettere alla testa della crociata verso la Terrasanta, ma un comune da tenere fuori (insieme a Lucca) dalla lega antipapale promossa da Firenze.[100]
L’impronta di Caterina a Pisa rimane visibile nell’impulso dato, durante e appena dopo il suo soggiorno pisano, ai lavori di completamento della certosa di Calci, beneficiata da un vero e proprio ciclo di donazioni da parte degli esponenti della famiglia Gambacorta: il primo passo fu, nel 1375, la conclusione della cella del priore e del relativo porticato; poi, nel 1377, Giovanna di Pietro realizzò una cella monastica, e un’altra ne fece fare Benedetto di Pietro nel 1378. Era, quello, il portato della predilezione accordata ai certosini dalla virgo senese, recepita e messa a frutto dai Gambacorta.[101] Ulteriori ricerche potranno meglio delineare il contributo dato dai mesi che la mantellata passò a Pisa alla vis pastorale dell’arcivescovo Lotto Gambacorta (1381–1394), che per vicario generale scelse proprio un confratello di frate Domenico, come lui proveniente dal convento di S. Caterina d’Alessandria: Simone da Cascina.[102]
Appendice
ASSi, Concistoro 1785, nr. 21.
Relazione degli ambasciatori senesi sui colloqui avuti con gli Anziani pisani e con Pietro Gambacorta.
Sul verso: „mangnifici e potenti singniori[a] | difensori e capitano di popolo de|la città di Siena singniori loro“.
1374 novembre 11
Singniori nostri. Chome per altra da Fiorenza vi scrivemo, partimo di là martedì passato e per lo maltempo che ave|mo <non> giongniemmo qui mezedì ma a sera al tardi. El giovedì a mane fumo agli anziani; esponemo l’anbasciata la qua|le c’inponeste. Risposono ale solite diciendo che a l’altre parti ne sarebono insieme e l’altra volta | ne farebono risposta. Poi di presente fumo a misser Piero e similemente gli naramo questo che per voi | ci fu inposto. Esso mostrò di vederci volontieri e ale solite rispose graziosamente, usando molte paro|le dimostrative, non esere abile a questo chomune potervi al presente servire: è perché a voi pare (ed è | chosì la verità)[b] ch’esso sia in questa tera el tutto, e ciò che[c] per lui si vole per | gli anziani si mette. A seghizione e con ogn’istanza che sapemo reprichamo le ragioni già dette | e, ronpendo ogn’ischusa ch’esso ne facieva, diliberamo più oltre non seghire per infino a tanto che | l’anbasciadore da Firenze non venisse; el quale gionse qua venardì su le XX ore. E solito | fomo cho’ lui, avisandolo quello che per noi s’era fatto e operato. Esso ci fecie grande schuse del tanto | essare penato a venire, aleghando el tenpo che l’aveva stropiato; e di presente chon grande amore | e solicitudine si mosse, e fo agli anziani trovando ine misser Piero; e ne la presenza di tutti chon grande | efichacia spose sua inbasciata sichondo che noi sentimo. E chosì fatto solito fomo agli anziani, ricorda|ndolo el vostro spacio. Seghitò poi che questa matina, tra la terza e la nona, mandaro per noi, e per grande | spazio di tenpo aspettando cho’ misser Piero ne la loro capella; ci feciono poi chiamare e insieme chon | misser Piero andamo in conciestoro eine, aleghando le schuse che per loro vi furo scritte, cho’ molte | altre chonforme a quelle ne risposono non essare a loro abile a potervi di niente servirvi, | dolendosi molto che tale risposta lo chonveniva dare. E nel prendere da loro chonmiato, usa|ndo quelle parole a vostr’onore da parte ci chiamò misser Piero usando molte parole asai | miste e prendendo in afetto ischusa di tale risposta, diciendo che né per lui né per loro altra[d] risposta | non si poteva fare. È vero che nel prendere chomiato da loro e da misser Piero lo richordamo, sì chome altre | volte l’avamo detto, che a loro piacesse che cone afetto dessono operazioni che[e] de la tera e distretto | loro none uscisse né giente d’arme né vetovaglia la quale andasse in servigio de’ vostri | nemici; e narandolo che noi avavamo sentito, poi che noi fumo in questa tera, chome da molti den|gni di fede avevamo sentito che di qui s’erano partiti intorno di CC fanti e di XXV cavagli e’ quagli | erano andati nel servigio de’ vostri nemici; ale quagli parole risposono che queste chose erano a lo|ro nuove e che forte se ne dolevano, diciendo che per innanzi provedarebeno per forma che neuno | pensarebe né andarebe a tagli servigi chon bandi e altri modi che in tagli servigi sono tenuti di fare[f] | e diciendo misser Piero che tanta giente non poteva essare, però che tanto numero non | si potrebe fare che non si sentisse, aleghando che questa è tera di porto dove usa molta foresta | ria e che potrebono bene esare stati da quaranta fanti e quagli si potriebono[g] esare partiti a IIII° | o VI: che se né gli anziani non arebono sentito niente[h] ma che se di veuno avesono sentito arebero | a ciò riparato. E tutte loro parole e schuse sono magre e male verifichate e per tanto crediamo ricor|dando chon ongni riverenzia che sia bene che voi vi ridoliate cho’ singniori priori di Firenze de’ modi che qua | si tenghono. |
Ora vi faciamo manifesto[i] chome[j] abiamo sentito da più persone dengni di fede chome già più | dì, cioè pocho innanzi che Montemassi si perdesse, fu qua el Fonda e Nanni di ser Vanni, quello ch’essi | fecieno e adoperaro non potiamo sapere; poi che voi perdeste Montemassi è stato qua Neri da | Bigozo, el quale chondusse e menò una grande parte di questi fanti, fra’ quagli fu Ciecho padellaio; e di | giovedì ci fu Lonto da Sticiano, el quale chondusse e menò parte di questa gente a cavallo, la qual | giente è ita per la spesa di loro e de’ chavagli, perché qua non avevano soldo e stavano a grande disagio | faciendolo veduta che sul vostro tereno farebono grande ghuadagino. Non v’abiamo più tosto scritto per|ché non vedevamo di potervi scrivere neuna chosa sustanziale.
Domatina di buona ora partiremo | di qui insieme cho’ l’anbasciadore fiorentino e andarene a Lucha a traere a fine quello che per voi | ci fu inposto. Idio vi chonservi in grande e pacificho stato.
| E’ vostri servidori misser Ghino di Nicho Forteguerri e Nicholaio Verini per voi inbasciadori in Pisa | a dì xi di novenbre 1374 | vi si racomandano.
Nota
Lista delle abbreviazioni impiegate di seguito: Archivio Storico Diocesano di Pisa, Fondo arcivescovile (= AAPi); Archivio Storico Comunale di Volterra (= ASCV); Archivio Storico Diocesano di Volterra, Fondo vescovile (= ASDV-Vesc); Archivio di Stato di Firenze (= ASFi); Archivio di Stato di Lucca (= ASLu); Archivio di Stato di Pisa, Comune, Divisione A (= ASPi-A); Archivio di Stato di Siena (= ASSi); ISIME = Istituto Storico Italiano per il Medioevo, Archivio storico, Fondo Eugenio Dupré Theseider. Questo studio nasce dalle riflessioni condotte nell’ambito del progetto di riedizione dell’epistolario di santa Caterina da Siena, promosso dall’Istituto Storico Italiano per il Medioevo e coordinato da Antonella Dejure. Ringraziamo Alma Poloni e Mauro Ronzani per i preziosi consigli forniti. Dove non altrimenti specificato, il riferimento per i toponimi citati nel testo è costituito da Emanuele Repetti, Dizionario geografico, fisico, storico della Toscana (URL: http://stats-1.archeogr.unisi.it/repetti/database.php; 9.2.2023).
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