Abstract
The article proposes a new dating and interpretation of the episcopal crosier found in the tomb of a Milanese archbishop at San Nazaro in Brolo and hypothetically attributed to Archbishop Arderic (936–948), following the recognition of the relics by Carlo Borromeo and Carlo Bascapé in 1578 and their rediscovery in 1968. The correct reading of one of the two inscriptions on the crosier indicates that it was a gift to an individual named Henry from a donor named Anno. The giver refers to the recipient as his „beloved son“, applying to himself a formula of humility that appears only in the works of the Germanic clergy in the last third of the 11th century. This study identifies the recipient as Emperor Henry IV, the donor as his ‚tutorʻ Archbishop Anno of Cologne, and Anselm III of Rho (1086–1093) as the last owner of this symbolically and historically important object. Indeed, Anselm III was the last Archbishop of Milan to receive the symbols of his rank from the hands of Henry IV in the ritual of investiture per anulum et baculum. He chose as his burial place the Basilica of San Nazaro in Brolo, rebuilt after the fire of 1075 in the Romanesque form that still characterizes it today. This identification also provides new information about archiepiscopal burials in San Nazaro and resolves an old scholarly debate about the alleged saint Udalricus/Walricus/Enricus Higudstanno.
Il Museo della Basilica di San Nazaro in Brolo conserva i frammenti di un pastorale di età medievale che furono riportati alla luce nel 1968, durante la ricognizione delle reliquie di sant’Udalrico. I cinque frammenti lignei superstiti sono in buono stato di conservazione e due di essi sono dotati di fascette circolari metalliche adornate con iscrizioni, interpretabili come elementi decorativi del puntale e del supporto del riccio, che non si è conservato. I frammenti sono esposti nel Lapidarium del Museo insieme ai due anelli con cui furono rinvenuti, uno d’oro con zaffiro, l’altro d’argento. Pur in assenza di studi specifici, a partire dalla ricognizione del 1968 il pastorale è associato ad Arderico, arcivescovo di Milano dal 936 al 948, che fu sepolto in San Nazaro, nella cappella di San Lino che vi aveva fatto costruire. Sugli anelli gravano maggiori dubbi: benché siano stati associati al pastorale come reliquie in età moderna, non è certo che essi siano stati originariamente tratti dalla medesima sepoltura in cui furono trovati i frammenti del baculus.[1]
Le reliquie oggetto dell’indagine del 1968 erano state originariamente rinvenute quattro secoli prima, nel 1578, nel corso della grande campagna condotta da Carlo Borromeo nella basilica. L’arcivescovo, a partire dalla visita pastorale del 1567, aveva infatti predisposto la ricognizione sistematica delle reliquie presenti dell’antica Basilica Apostolorum eretta da Ambrogio, nel quadro della sua completa riorganizzazione architettonica e liturgica.[2] Il ritrovamento del baculus aveva attirato l’attenzione degli eruditi e dei fedeli, provocando un ampio dibattito, a tratti anche aspro, in merito all’identificazione del suo proprietario: esclusa l’inziale identificazione con sant’Udalrico di Augusta, oggetto di un forte culto popolare legato alla basilica, esso venne individuato solo dubitativamente nell’arcivescovo Arderico e si avanzò anche l’ipotesi che le reliquie appartenessero a un abate Enrico/Walrico Higudstanno, altrimenti ignoto.[3]
La loro riscoperta nel 1968, pur fornendo elementi decisivi per risolvere l’antica questione, non ha finora suscitato l’interesse degli studiosi. Scopo di questo studio è proporre una nuova datazione e interpretazione del pastorale: la lettura delle iscrizioni che lo adornano permette infatti, a parere di chi scrive, di identificare il suo proprietario e di riconoscere l’altissimo valore storico e simbolico del baculus, preziosa testimonianza materiale dei rapporti tra gli arcivescovi di Milano e l’impero nell’ultimo quarto del secolo XI. Insieme, la nuova identificazione consente di superare l’antica querelle su Arderico/Walrico/Enrico, chiarendone l’origine, e di raccogliere nuove informazioni in merito alle sepolture arciepiscopali in San Nazaro.
1 La riscoperta del baculus nel 1968 e la prima pubblicazione delle due iscrizioni
Nel luglio del 1968 don Giulio Giacometti, parroco della basilica di San Nazaro in Brolo, dispose di smontare quanto restava dell’altare settecentesco di Sant’Udalrico. L’intervento dipendeva sia dalle necessità di restauro, sia dalla volontà di rilanciare il tradizionale culto del santo: la cappella di Sant’Udalrico e il suo altare, posti a chiusura del transetto sinistro della basilica, avevano subito pesanti danneggiamenti nel corso dei bombardamenti del 1943 e non si era ancora provveduto al loro ripristino.[4]
A muovere l’interesse di Giacometti vi era anche la cassa lignea conservata nell’altare, visibile attraverso un’apertura nel paliotto centrale. Solo una volta riportata alla luce fu possibile leggere l’etichetta ottocentesca che ne dichiarava coerentemente il contenuto: „Ossa et cineres sancti Udalrici.“ Al suo interno furono ritrovate due antiche cassette di piombo. L’apertura e la ricognizione del loro contenuto furono condotte da monsignor Bonino Borgonovo, insieme con don Giacometti, e portarono a una scoperta inaspettata: le reliquie erano corredate da un cartiglio in argento e oro, della tipica fattura di quelli apposti da Carlo Borromeo nelle sue recognitiones, che contraddiceva l’etichetta esterna, recitando: „Ossa et cineres sancti Arderici Archiepiscopi Mediolanensis.“ Oltre alle ossa, la cassetta conteneva i frammenti del pastorale, un cilicio e gli anelli, uno dei quali conservato in una piccola borsa di stoffa.
Apparve evidente a Giacometti che gli oggetti contenuti non erano reliquie di sant’Udalrico, il cui corpo, d’altronde, è conservato ad Augusta – un dato ben noto già all’erudizione moderna, come vedremo. Essi erano stati invece riconosciuti da Carlo Borromeo come appartenenti all’arcivescovo milanese Arderico: le ossa furono riposte nell’altare in una cassetta, appositamente approntata e corredata dal cartiglio borromiano; il pastorale e gli altri oggetti furono esposti nell’antica sacrestia, riportando l’identificazione con Arderico del loro proprietario, sulla scorta dell’autorevole cartiglio: da ciò l’associazione del pastorale all’arcivescovo di secolo X, che perdura ancora oggi. In realtà, come già accennato, quell’identificazione era tutt’altro che certa al momento del primo ritrovamento delle reliquie e, in particolare, agli occhi di Carlo Bascapé, che prese parte in prima persona alla ricognizione del 1578. Bascapé affrontò infatti la questione nelle sue opere, che permettono di ricostruire nei particolari la vicenda cinquecentesca e il dibattito erudito che ne seguì.
Nel 1971, a seguito della riscoperta condotta da Giacometti, venne pubblicata la prima trascrizione integrale e corretta delle due iscrizioni del pastorale, all’interno dell’edizione delle epigrafi della basilica di San Nazaro a cura di Adele Bellù.[5] Si tratta di un contributo molto importante perché il loro testo non era stato compreso appieno nel Cinquecento ed erano perciò divenute fonte di fraintendimenti nell’erudizione successiva. Tuttavia, le due iscrizioni attendono ancora un’interpretazione, che proponiamo qui per la prima volta.
Le due fascette circolari hanno diametro significativamente diverso: la più grande, probabilmente in ottone, è dotata di smerli ornamentali in forma di triangolo nell’estremità inferiore. Il confronto con i pastorali di età pieno medievale dotati di iscrizioni che si sono conservati dimostra che questa fascetta doveva essere posizionata immediatamente al di sotto della sphaerula, l’elemento sferico, appunto, posto alla congiunzione tra la verga, in legno, e il riccio, in avorio o altro materiale.[6] Nei pastorali conservati è spesso presente una seconda fascetta con iscrizione al di sopra della stessa sphaerula; l’iscrizione incisa sull’altra fascetta, quella minore, suggerirebbe, in prima battuta, un suo posizionamento proprio in quel punto. Tuttavia, il suo diametro, assai inferiore a quello del bastone e dell’altra fascetta, mal si addice alla funzione di supporto del riccio; appare perciò più probabile che la fascetta minore fosse posta all’estremità inferiore del baculus come decorazione del puntale, come pensava anche don Giacometti.[7] In base alle informazioni in nostro possesso e allo stato dei frammenti non è possibile comunque escludere nessuna delle due ipotesi.
Su questa fascetta minore, probabilmente in argento, si legge quanto segue, su tre righe sovrapposte: „CUM IRATUS FUERIS | MISERICORDIAE | RECORDAVERIS.“ Si tratta di una citazione da Abacuc 3, 2, parte della preghiera che il profeta rivolge al Signore: „Quando sarai adirato, ricordati di essere misericordioso.“ L’iscrizione riecheggia una delle formule liturgiche della consacrazione episcopale pronunciate alla consegna del pastorale – come, ad esempio, nella formulazione che si può leggere nel pontificale di Cahors (inizi del secolo X), che rielabora appunto Abacuc 3, 2, combinandolo con un passo di una lettera di Gregorio Magno:[8] „Cum datur ei baculus. Sequitur oratio: ‚Accipe baculum pastoralis officii, ut sis in corrigendis viciis saeviens. In ira iudicium sine ira tenens, cum iratus fueris misericordiae reminiscens‘“.[9] La citazione si riferisce alla responsabilità del vescovo nella correctio del gregge che gli viene affidato: il giudizio episcopale deve essere fermo, ma non immemore della misericordia. L’ultima parte della formula, con la citazione di Abacuc ripresa anche nella nostra iscrizione, è presente nel rituale di consacrazione dei vescovi solo in alcuni dei pontificali altomedievali, ma non nel pontificale romano: in esso è conservata solo per la liturgia della consegna del baculus agli abati, modellata appunto su quella episcopale[10] – ciò che forse indusse l’erudizione moderna a fare del proprietario del pastorale un abate piuttosto che un vescovo.
Tuttavia, non vi sono dubbi sull’impiego dell’iscrizione precisamente per i pastorali episcopali in età pieno-medievale: il suo significato e la frequenza con cui quella specifica iscrizione era impiegata sono confermati da un passo della „Gemma animae“ di Onorio „d’Autun“ (1080 ca. – post 1153),[11] composta dopo il 1133, ripreso poi alla lettera nel successivo „Mitralis de officiis“ del vescovo Sicardo di Cremona (1185–1215). Nella descrizione del baculus episcopale si specifica infatti: „Aliquando in curuatura scribitur: ‚Cum iratus fueris, misericordiȩ recordaberis‘, ne ob culpam gregis ira turbet in pastore oculum rationis, sed uerbo et exemplo reuocet peccantes ad misericordiam Redemptoris.“[12] La citazione di Abacuc è di norma posta in curvatura, cioè sul riccio o alla sua base, per via della funzione simbolica di quella parte del baculus, che rappresenta il gancio con cui il pastore afferra le pecore smarrite e allude quindi alla correctio episcopale. Essa è in effetti attestata almeno su un altro baculus episcopale conservato, datato alla seconda metà del secolo XI, il pastorale detto „di Saint-Lizier“ di Ariege, nella Francia sud-occidentale.[13] Anche in quel caso sono presenti due iscrizioni incise su fascette circolari in argento e apposte precisamente al di sopra e al di sotto della sphaerula che raccorda il riccio in avorio al bastone. Come detto, non è possibile escludere che la fascetta minore si trovasse, anche nel nostro, al di sopra della sphaerula, all’attaccatura del riccio, che in quel caso avrebbe avuto un diametro assai ridotto e una forma esile rispetto al bastone. Tuttavia, la funzione simbolica del puntale rimanda comunque al giudizio episcopale, severo ma misericordioso. Nelle parole di Sicardo di Cremona: „lignum inferius ferro acuitur, modice tamen retunditur … Ideoque ferrum obtunditur, quia iudicium clementia temperatur.“[14] Perciò la citazione di Abacuc potrebbe inserirsi bene anche in quella posizione.
Ma è l’iscrizione incisa sulla fascetta maggiore ad essere determinante per l’interpretazione e la datazione del nostro baculus. Anche in questo caso il testo è disposto su tre linee. La scrittura ha andamento continuo in ciascuna riga, senza divisione tra le parole; l’ultima linea occupa gli otto smerli triangolari, con una lettera per ciascuno. Eccone la corretta trascrizione: „ANNO DEI GR(ATI)A ID Q(UO)D EST | HEINRICO DILECTO | FILIO SUO.“ L’unica traduzione fornita dagli studi appare problematica e parziale rispetto al dettato; il testo è stato infatti interpretato come segue: „Nell’anno di grazia al diletto figlio Enrico.“[15] Anticipiamo qui la traduzione che proponiamo, l’unica possibile a parere di chi scrive, per tornarvi più diffusamente in seguito: „Annone, che è ciò che è per grazia di Dio, a Enrico, suo amato figlio.“ Prima di affrontare il testo e quindi l’identificazione dei personaggi in esso citati è necessario ricostruire le circostanze del ritrovamento del baculus e il dibattito che esso suscitò tra Cinque e Seicento.
2 L’invenzione delle reliquie del 1578: Udalrico, Arderico o Enrico Higudstanno?
Fu Carlo Bascapé a fornire una prima descrizione dell’invenzione delle reliquie del 1578, nella biografia di Carlo Borromeo, pubblicata nel 1592.[16] Nel sesto capitolo del libro quinto, intitolato „De translatione reliquiarum Basilicae Apostolorum“,[17] dopo il racconto del rinvenimento delle altre importanti reliquie conservate nell’antica basilica, a partire da quelle di san Nazaro stesso, si legge: „A latere dextro ecclesiae, fere sub loco Evangelii legendi, aliam arcam aperuimus; quae parvulo sacello, altarique munita sancti Ulrici, sive ut alii, Arderici vulgo appellata, a multis praecipuo cultu frequenter visebatur: cui loco eiusdem sancti viri statua etiam apposita erat. Omnia vero erant removenda, ut ecclesiae apta decensque forma constitui posset.“[18] Come vedremo, Bascapé fornì maggiori informazioni sulla precisa localizzazione e le caratteristiche di questo parvulus sacellus in uno scritto successivo. Esso si trovava nel lato sinistro della chiesa (destro nella descrizione data con le spalle al presbiterium, come appare evidente da quanto segue); l’arca su cui era costruito era già collegata al culto di un santo chiamato „dal volgo“ Udalrico o Arderico ed era munita di altare e di una statua, che dovevano essere rimosse per la trasformazione della basilica. Alla sua apertura apparve un corpo vestito con indumenti episcopali, che si dissolsero in breve tempo: „Invenimus in arca indumentis pontificalibus ornatum corpus, quamquam simul ac ea aperta est, eorum species tota propemodum evanuit. Quisnam episcopus ille fuerit, Mediolanensisne, an Augustanus, ut quidam putant, aut vero alius, adhuc equidem ignoro.“[19] Bascapé dichiara apertamente di ignorare, ancora nel momento in cui scrive, chi fosse quel vescovo, se il milanese Arderico, se Udalrico di Augusta, o se altri ancora. Le reliquie, che non sono qui descritte, furono raccolte personalmente da Carlo Borromeo. In occasione del concilio provinciale del maggio dell’anno successivo, 1579, furono portate in processione insieme alle altre ritrovate nella Basilica Apostolorum e poste infine nella cappella poi comunemente detta di Sant’Udalrico, mentre tutte le altre furono collocate sotto il nuovo altare maggiore nel presbiterio.
„Has igitur reliquias Carolus inventas pie manibus suis collegit, nobis sancto officio inservientibus, quos iubebat eiusmodi semper actionibus adesse. Absoluto autem, ut dicebamus, anno insequenti, episcoporum concilio, haec corpora religiosa admodum, celebrique pompa extulit et congruo viarum ambitu, portans ipse cum episcopis sancta feretra, populo frequentissimo ad venerationem proposuit. Commemoratas reliquias omnes collocavit sub novo magno altari: praeter episcopales illas ab ecclesiae latere dextro ablatas. Quas ab eadem partem in extremo ecclesiae brachio posuit, et altare super eas construxit. Nam aptus ad id erat locus, quoniam in opposita ecclesiae parte aliud e regione simile respondebat; sub quo itidem sancti Matroniani corpus alio loco antea positum, tunc retulit; at efficiebatur quoque ut dextri lateris eiusdem ianuam, quam nuper, ut in ceteriis ecclesiis, claudi iusserat; nemo posthac, appositi corporis saltem gratia, esset patefacturus.“[20]
Le reliquie episcopali, che erano state rinvenute nel lato sinistro (sempre destro nella descrizione) della chiesa, furono spostate nel capo estremo dello stesso transetto sinistro, a chiusura del quale fu posta la nuova cappella, proprio là dove Borromeo aveva appena fatto murare il portale romanico che si apriva nell’abside romanica sul fondo del transetto, ancora oggi ben visibile dall’esterno della basilica su Largo Francesco Richini; in questo modo il varco non sarebbe stato più aperto e l’altare sarebbe stato speculare a quello già presente in fondo al transetto destro.[21] La cappella e le reliquie si trovano ancora oggi nella stessa posizione, come già ricordato, ma l’altare oggi visibile, cioè quello fatto restaurare da Giacometti nel 1968, fu realizzato successivamente, a opera dell’architetto Carlo Giuseppe Merlo entro il 1751.[22]
Bascapé non era dunque certo dell’identificazione delle spoglie derivata dalla devozione tradizionale, con incertezza sui due nomi assonanti di Udalrico/Ulrico (d’Augusta) e di Arderico (di Milano). Egli tornò in seguito con ancor maggior precisione sulla vicenda, anche perché nel frattempo, forse anche per via della solenne processione nel 1579, il culto popolare del santo si era accresciuto, provocando anche la pubblicazione di notizie errate.
Dal „Santuario della città e Diocesi di Milano“, pubblicato da Paolo Morigia nel 1603 sappiamo infatti che nell’anno 1598 l’immagine di sant’Ulderico che era stata dipinta all’esterno della basilica, in corrispondenza della porta murata dietro la quale si trovavano l’altare e le reliquie, „cominciò a far miracoli“. Così nella descrizione della basilica di San Nazaro: „Ancora vi giace il Corpo di s. Ulderico vescovo d’Agosta. E la sua immagine pinta sul muro fuori della Chiesa cominciò a far miracoli l’anno 1598, il giorno dei SS. Gervasio e Protasio, alli 19 di giugno, con grande concorso de popolo e con gran voti, e tuttavia va perseverando.“[23] L’anno successivo, con notevole tempismo, Giovanni Francesco Besozzi pubblicò a Milano, per lo stampatore Francesco Paganello, una „Vita del confessore di Christo santo Arderico vescovo dʼAugusta“, che assecondava la devozione popolare e fondeva disinvoltamente le figure dei due vescovi, traendo il nome dall’uno e la sede dall’altro. Altrettanto disinvoltamente Besozzi fornì per primo informazioni sul pastorale del santo ai suoi lettori: „Nella summità di esso era una laminetta di argento, che cingeva detto bastone, con queste lettere intagliate in esso: DILECTO FILIO, ARDERICO, EPISCOPO AUGUSTENSI“.[24] La divulgazione di questa informazione falsa spinse Bascapé a tornare sull’argomento, con una nuova ipotesi sull’identificazione, per mezzo di una breve notizia intitolata „De corpore sancti Enrici Basilicae Apostolorum“, inserita poi nei „Fragmenta historiae Mediolanensis“, pubblicati postumi nel 1628. Essa ci fornisce anche maggiori indicazioni sul posizionamento dell’arca: „A dextra parte Ecclesiae Sancti Nazarii apud ipsum angulum, seu parostatam, quae Cappellam maiorem a brachio ecclesiae dextro distinguit, erat fornix, seu parva camera, et sub illam arca lapidea, in qua corpus erat pontificali habitu, et ibidem eius statua lignea, et altarem ad eiusdem honorem erectum.“[25] Il piccolo fornice sotto cui era posta l’arca si trovava precisamente all’incrocio tra il transetto sinistro e la cappella maior, cioè il presbiterio, addossata all’angolo formato dal pilastro: la posizione corrisponde a quanto Bascapé aveva scritto già nella „Vita“ del Borromeo, indicando che essa si trovava „fere sub loco Evangelii legendi“. In effetti, quel pilastro mostra ancora oggi alcuni segni che potrebbero essere interpretati come tracce del fornix smantellato.[26] Il nucleo del pilastro composito è parte della struttura paleocristiana dell’edificio, mentre gli altri elementi che lo articolano e contribuiscono così a sorreggere la struttura del tiburio (in particolare le colonne che fungono da contropilastri) sono da ascrivere alla fase romanica.[27] Il dato potrebbe essere utile per circoscrivere cronologicamente il posizionamento dell’arca e la sua valorizzazione, che dovrebbero essere successivi, rispettivamente, alla riorganizzazione dello spazio della crociera centrale dopo l’incendio che colpì anche la Basilica degli Apostoli nel 1075[28] e alla ricostruzione in forme romaniche con l’edificazione del tiburio.
Bascapé introduce quindi il tema dell’identificazione, anche per suggerire subito la sua nuova ipotesi, a partire dalla denominazione popolare del santo: „Ardericum alii dixere, alii Udalricum, sed vulgo ARRIGO, quod vulgo item pro Henrico a Mediolanensibus dicitur. Qui Ardericum appellarunt, nomen archiepiscopi Mediol. videntur secuti; qui Udalricum, Sancti episcopi Augustani memoriam adducti sunt.“[29] Il popolo chiama il santo „Arrigo“, che può stare anche per Enrico, mentre le due identificazioni tradizionali sono appunto quelle di Arderico di Milano o di Udalrico di Augusta. Tuttavia, prosegue, l’arcivescovo Arderico non è annoverato tra i santi, mentre Udalrico è sepolto ad Augusta e non vi sono notizie di una sua traslazione successiva; la sua „Vita“, scritta dall’abate Bernone, e altre testimonianze autorevoli, insieme al culto ininterrotto del santo e delle sue reliquie ad Augusta, provano anzi che il suo corpo non fu mai spostato da lì. „Desta perciò lo stupore“ il contenuto di una recente pubblicazione a opera di un illitteratus, che non è nominato apertamente: „… ut mirandum sit hominem illiteratum nullo argumento ausum fuisse hunc episcopum Augustanum, eius vita vulgari sermone edita, facere; quem tamen in Ardericum vertit …“[30] Si tratta naturalmente di Besozzi, e Bascapé fornisce quindi maggiori informazioni sul baculus, rese necessarie dalle falsità divulgate:
„Cum ad arcam inspiciendam iussu Beati Caroli eo venissemus, anno MDLXXVIII, invenimus corpus cum episcopalibus indumentis, quae tamen fere evanuerunt. Circulis aeneis, quibus baculus pastoralis ligneus cingebatur, hae litterae insculptae erant: HENRICO HIGUDSTANNO DILECTO FILIO, quas tunc in libellis nostris notavimus, quos ad S. Caroli vitam conscribendam parabamus, cum tamen idem homo alias litteras falso ponat, falso item affirmans ita in Actis Archiepiscopalibus haberi.“[31]
La trascrizione che Besozzi sostiene di aver tratto dagli „Acta Archiepiscopales“ è falsa e Bascapé riporta quella corretta, recuperata dai suoi appunti per la scrittura della vita del Borromeo. L’iscrizione non parla di nessun Arderico, ma semmai di un certo Enrico, con la misteriosa denominazione di Higudstanno – su cui torneremo tra poco. Dopo aver nuovamente raccontato la traslazione delle reliquie nel nuovo altare, Bascapé si esprime francamente sull’identità di questo Enrico:
„Quisnam hic episcopus fuerit, neque scio, neque habeo coniecturas quas proferam. Omnino Transalpinum fuisse et sanctum virum, immo miraculis clarum affirmare possumus, cui et statua et altare erectum sit et sanctitatis laus, veneratioque non mediocris a populo Mediolanensis tributa. Quae veneratio, pene extincta, proximis annis renovata est, nonnullis praedicantibus se aegrotos, eius ope invocata, sanatos esse.“[32]
Il culto di questo santo era quasi scomparso, dunque, e solo il recente ritrovamento delle reliquie lo aveva riacceso. Bascapé chiude con due ipotesi: la terminazione in -stannum, si trova in molti nomi anglosassoni, come Dunstannum, e potrebbe indicare la provenienza dell’ignoto santo, forse pellegrino di ritorno da Roma. Le parole „dilecto filio“ potrebbero suggerire che si trattasse di un abate, perché sarebbero quelle a lui rivolte dal papa alla consegna del bastone pastorale. Benché Bascapé non ne faccia menzione, si può sospettare che a indurlo a questa ipotesi vi fosse anche il contenuto dell’altra iscrizione presente sul baculus, perché, come abbiamo visto, la citazione di Abacuc era ormai associata esclusivamente alla traditio del baculus agli abati nel Pontificale romano.
La querelle sull’identificazione del santo venne poi raccontata nei particolari da Giovanni Pietro Puricelli, nel primo volume degli „Ambrosianae Mediolani basilicae, ac monasterii, hodie cistertiensis, monumenta“,[33] pubblicato nel 1645 e, più sinteticamente, nella dissertazione „De SS. martyribus Nazario et Celso, ac Protasio et Gervasio“,[34] data alle stampe nel 1656. È Puricelli a confermare che l’illiteratus homo contro cui si scagliava Bascapé era Besozzi, definito bibliopola, libraio. Nelle sue opere Puricelli si diffonde sui miracoli attribuiti alle reliquie del santo, e precisamente al suo anello d’oro, il cui tocco avrebbe curato i febbricitanti e altri malati, in particolare di vaiolo; ricorda anche i miracoli del 1598 descritti già dal Morigia, di cui corregge però l’identificazione con Udalrico, ormai inaccettabile, benché assai diffusa. Ricorda infatti che l’errore di identificazione era stato riprodotto da diversi autori nella prima metà del Seicento[35] e, peggio ancora, compariva anche sulla tabula appesa nella basilica per informare i fedeli in merito alle reliquie e alle indulgenze.
Puricelli, come già Bascapé, argomentò che i miracoli avvenuti grazie alle reliquie indicavano solo che quelle spoglie appartenevano a un santo e nient’altro. Questa stessa posizione fu poi ripresa, con ampio e preciso resoconto delle vicende e degli studi, negli „Acta Sanctorum“, in cui nella voce su sant’Udalrico di Augusta fu inserita una „Dissertatio critica de corpore S. Udalrici“,[36] nel secondo volume dedicato a luglio, pubblicato ad Anversa nel 1721.
Benché l’identificazione con Uldarico fosse definitivamente esclusa già alla metà del Seicento, la devozione e la denominazione popolare di „Udalrico“ non furono affatto scalfite da questo dibattito erudito, anche perché la sua festività veniva celebrata regolarmente in San Nazaro ogni anno il 4 luglio, cioè appunto nel giorno della festività di Udalrico di Augusta.[37] Da tutte le opere appena menzionate si coglie d’altronde la grande crescita della devozione popolare messa in moto dal ritrovamento delle reliquie.
Puricelli fornì per primo anche elementi interessanti in merito al culto di sant’Udalrico in San Nazaro prima dell’invenzione delle reliquie: riportò infatti una notizia contenuta in un calendario ambrosiano datato al 1381, in cui al 4 luglio si legge: „Sancti Olderici episcopi et confessoris. Iacet ad Sanctum Nazarium.“[38] Alla fine del Trecento, dunque, l’arca era già collegata al culto di Odalrico. Puricelli addusse anche un altro testo manoscritto, che attribuiva a Galvano Fiamma, intitolato „De corporibus sanctorum in civitate, comitatu ac districtu Mediolani iacentium.“ Esso riportava la medesima indicazione, ma in questa forma: „Sancti Olderici confessoris. Die quarto Iulii. Iacet ad Sanctum Nazarium.“[39] Poiché nel testo mancava la qualifica di vescovo, Puricelli dedusse che si trattava, non di Ulderico di Augusta, ma del fantomatico abate Enrico, solo in seguito confuso col vescovo e celebrato lo stesso giorno, vuoi per un caso, vuoi per ignoranza della data di morte del secondo.
Questa ipotesi del Puricelli fu ripresa e ampliata da Serviliano Latuada nella „Descrizione di Milano“, pubblicata nel 1737–1738.[40] Se nella descrizione della Basilica degli apostoli pubblicata nel secondo volume Latuada ripercorse nuovamente tutta la vicenda, nel quarto aggiunse un nuovo dato, di grande interesse, nelle pagine dedicate al monastero femminile di Sant’Udalrico al Bocchetto. Nel pervetustum Calendario milanese pubblicato da Ludovico Antonio Muratori una decina di anni prima col nome di „Kalendarium Sitonianum“[41] si poteva leggere al mese di luglio: „Iulii IV nonas S. Olderici Confessoris ad Monasterium Boketi.“ Il culto del santo, celebrato il 4 luglio, era più antico e originariamente legato al monastero fondato nel secolo IX dall’arciprete Dateo, sotto il titolo di San Salvatore che in seguito, dall’XI secolo appunto, assunse la denominazione di Sant’Ulderico, poi „al Bocchetto“.[42] Secondo Latuada si poteva congetturare che l’Udalrico „confessore“ (e non vescovo) venerato al Bocchetto altri non fosse che „quel santo abate Enrico o Walrico Igudstano, il di cui corpo, chiaro per antichi e moderni miracoli riposa nella Basilica degli Apostoli“.[43]
Grazie alla lettura del Calendario Sitoniano anche Giorgio Giulini giunse alla medesima conclusione (pur senza citare Latuada) nel primo volume delle „Memorie“,[44] pubblicato nel 1760: il monastero del Bocchetto era originariamente intitolato „al nostro sant’Enrico“, confuso nei secoli con Udalrico di Augusta, forse perché gli era stata assegnata la celebrazione nello stesso giorno, il 4 luglio.
Come anticipato, grazie alla corretta lettura della dedica sulla fascetta maggiore è possibile comprendere l’origine della fantomatica figura di Enrico „Igudstanno“: essa deriva semplicemente dall’errata trascrizione della prima riga dell’iscrizione. Le lettere della prima riga, se riportate senza lo scioglimento delle abbreviazioni, recitano: „ANNODEIGRAIDQDEST“. Poiché sono incise in un’unica sequenza continua e senza divisione tra le parole, esse potrebbero essere lette anche a partire da „DEI GRA(tia)“ in questo modo: „DEIGRA IDQDESTANNO“. Tale lettura, seguita da quella della riga successiva fu fraintesa come: „DEI GRA HIGUDSTANNO | HEINRICO DILECTO | FILIO SUO“. Bascapé, per altro, tralasciò sia il „DEI GRA(tia)“ iniziale, sia il „SUO“ finale (forse perché problematico?) e riordinò le parole secondo una sequenza più piana, se si intende Higudstanno come determinazione di luogo, sul modello di Augustano. Forse il fraintendimento può tradire proprio il tentativo iniziale di leggere Augustano nell’iscrizione, per il suo ritrovamento nella presunta tomba di Udalrico.
Sgombrato il campo dalla figura di Enrico „Igudstanno“ è possibile tirare le fila e riordinare le informazioni raccolte. Forse già nell’XI secolo, a pochi decenni dalla canonizzazione, e certamente nella prima metà del secolo XII era presente a Milano il culto di sant’Udalrico di Augusta ed era collegato al monastero del Bocchetto, come attesta l’indicazione del „Calendario Sitoniano“, ovvero del Kalendarium detto anche „di Beroldo“, edito da Marco Magistretti nel 1894, presente nei folia 7v–15v del manoscritto Ambrosiano I 152 inf.; oggi, grazie agli studi di Giovanna Forzatti Golia e di Mirella Ferrari, sappiamo che esso fu scritto entro il 1140 e probabilmente a Santa Tecla.[45] Il collegamento (esclusivo) tra sant’Ulderico e il monastero fondato da Dateo è ancora presente nella „Memoria Sancti Odelrici episcopi“ contenuta nel „Liber Notitiae sanctorum Mediolani“, composto tra gli ultimi anni del Duecento e il 1311, che non ricorda invece alcun culto del santo in San Nazaro in Brolo.[46]
Nel corso del Trecento il nome e il culto del medesimo Udalrico si collegarono, per motivi ignoti, anche a un’arca presente in San Nazaro, identificata come sepolcro di sant’Udalrico di Augusta, tanto che se ne celebrò anche lì la festività il 4 luglio, come mostra il calendario del 1381.[47] Sappiamo inoltre che tale arca era posizionata nell’angolo nord-orientale della crociera centrale e che probabilmente era successiva al 1075 (o almeno lo era la sua collocazione in quel punto); la sua valorizzazione, infine, fu probabilmente posteriore al cantiere romanico o a esso connessa.
Comunque, già prima della ricognizione delle reliquie del Borromeo, la sepoltura di sant’Udalrico in Milano apparve problematica, perché contraddiceva informazioni note sulle reliquie presenti nella sua sede episcopale di Augusta. Come attesta Bascapé, già prima della ricognizione si era dunque pensato a una confusione con l’arcivescovo milanese Arderico, di cui si conosceva invece la sepoltura in San Nazaro in Brolo, confusione che sarebbe stata motivata dall’assonanza tra i nomi.[48] Questa razionalizzazione fu anche sposata, evidentemente, al momento della deposizione delle reliquie nel nuovo altare nel 1579, come attesta il cartiglio borromiano, che riporta appunto „Ossa et cineres sancti Arderici Archiepiscopi Mediolanensis“.
Pochi anni dopo lo stesso Bascapé rimaneva tuttavia dubbioso su tale identificazione, perché non vi era memoria della santità di Arderico (mentre le reliquie operavano miracoli e dovevano appartenere a un santo), ma soprattutto perché l’iscrizione sul baculus suggeriva che esso fosse appartenuto a un Enrico, forse abate anglosassone. La creazione di questa terza figura permetteva di risolvere le incongruenze che le altre due identificazioni ponevano (l’una per il luogo di sepoltura noto, l’altro per la mancanza di santità): fu sposata da Puricelli, dagli „Acta sanctorum“ e riprodotta nell’erudizione successiva fino al Giulini. Tutto ciò non scalfì comunque la devozione popolare e la generica designazione di „Uldarico“ per il santo, effigiato anche nella statua barocca che ancora oggi si trova in piazza San Nazaro in Brolo, che assunse appunto il nome di sant’Uldarico quando vi fu traslata nel 1776.[49] La forza di questa tradizione e della festività del santo, una volta dimenticato il dibattito erudito, dovette motivare anche la designazione presente sull’etichetta ottocentesca apposta alla cassa lignea rinvenuta da Giacometti nel 1968: „Ossa et cineres sancti Udalrici“.
3 Annone ed Enrico
Chiarita la vicenda della sua triplice designazione nella tradizione erudita, resta da rispondere al quesito principale: chi è il vescovo che fu sepolto in San Nazaro in Brolo con il nostro pastorale? Può essere ancora identificato nell’arcivescovo Arderico? Rispondeva al nome di Enrico, come suggerisce l’iscrizione, benché certo non „Igudstanno“ (e certo non fosse un abate)? La corretta interpretazione del testo dell’iscrizione fornisce la chiave per giungere a una risposta. Ripetiamone qui il dettato: „ANNO DEI GR(ATI)A ID Q(UO)D EST | HEINRICO DILECTO | FILIO SUO“. La parola iniziale, „ANNO“, nel contesto in cui è inserita non può che essere intesa come il nominativo del nome proprio Anno, -nis. La struttura dell’iscrizione, di fatto una dedica, rispecchia infatti quella canonica delle formule di saluto nell’epistolografia alto e pieno medievale, che consta di tre parti: l’intitulatio, che indica il mittente (qui donatore) con i suoi eventuali attributi, al nominativo; l’inscriptio che indica il destinatario al dativo, e la salutatio, in cui si augura qualcosa (ad es. salutem) oppure si offre qualcosa (ad es. fidele servitium, devotum obsequium) al destinatario; ciò che è augurato od offerto è sempre all’accusativo e il verbo è sempre omesso.[50] Nel nostro caso non si omette solo il verbo, ma anche ciò che è offerto, trattandosi del pastorale stesso, ovviamente.
Il modello dell’epistolografia è utile anche per riconoscere la peculiare formula di umiltà con cui si presenta il donatore Annone: „Dei gratia id quod est“, letteralmente „(che è) ciò che è per grazia di Dio“. Si tratta di una variante del paolino „gratia Dei sum id quod sum“ (I Cor. 15,10) che è attestata solo a partire dall’ultimo terzo del secolo XI nelle intitulationes delle epistole di vescovi e abati imperiali di area germanica. Le prime tre attestazioni compaiono in altrettante lettere dell’arcivescovo Sigfrido di Magonza (1060–1084), che furono poi inserite nel „Codex Udalrici“.[51] La prima in ordine cronologico è rivolta al futuro Gregorio VII ed è databile tra la fine del 1066 e gli inizi del 1067: „S. Moguntinus id quod est Dei gratia, H. sanctae apostolicae sedis archidiacono et archicancellario, salutem et fraternae dilectionis integram veritatem.“[52] „A H[ildebrando] arcidiacono e arcicancelliere della santa sede apostolica, S[igefredo] di Magonza, che è ciò che è per grazia di Dio, [augura] la salute e [offre] la piena verità di un amore fraterno.“ Il testo, in questa come nelle altre due attestazioni,[53] rispecchia perfettamente le tre parti canoniche di inscriptio, intitulatio e salutatio con l’omissione del verbo. La lettera, insieme con altre coeve indirizzate ad Alessandro II, si colloca in un frangente critico per gli equilibri interni del regno di Germania, in cui l’arcivescovo di Magonza cercava una sponda romana per il consolidamento del potere di Enrico IV.[54]
La peculiare formula di umiltà ritorna poi in una lettera del successore di Sigfrido a Magonza, l’arcivescovo Wezilo (1084–1088), che era stato investito della cattedra episcopale dallo stesso Enrico IV, di cui fu uno dei grandi sostenitori. La lettera è indirizzata al papa imperiale Clemente III, Guiberto di Ravenna, ed è databile al 1086: „Domno venerabili C. ac vere sanctissimo primae sedis antistiti, W. id quod est gratia Dei, debitam ut summo sacerdoti subiectionem et sedulam ut tanto patri devotionem.“[55] „Al venerabile signore e in verità santissimo antistite della prima sede C[lemente], W[ezilo] che è ciò che è per grazia di Dio, [porge] l’ubbidienza dovuta al sommo sacerdote e la devozione solerte per un così grande padre.“
Ancora dallo stesso ambiente proviene anche la successiva attestazione, databile al 1090. Si tratta della lettera che il canonico di Bamberga Walram († 1111) inviò al conte di Turingia Ludovico per spronarlo alla fedeltà a Enrico IV; Walram sarebbe stato investito vescovo di Naumburg dall’imperatore l’anno successivo: „Waltramus Dei gratia id quod est, Ludewico serenissimo principi, cum instantia orationum semet ipsum ad omnia devotissimum.“[56] „Walram che è ciò che è per grazia di Dio, [offre] sé stesso, in ogni cosa devotissimo, con assiduità di preghiere, al serenissimo principe Ludovico.“ È poi rivolta direttamente all’imperatore Enrico IV la lettera che contiene la successiva attestazione, inviata dall’abate di Echternach Thiofrid nel 1101: „Gloriosissimo domino suo imperatori augusto Heinrico, gratia Dei id quod est Tiofridus, et deuotissimum orationis obsequium et quidquid in coelo et in terra est optimum.“[57] „Al suo gloriosissimo signore Enrico, imperatore augusto, Thiofrid, che è ciò che è per grazia di Dio, [offre] sia l’ossequio devotissimo della preghiera, sia [augura] tutto ciò che di meglio c’è in cielo ed in terra.“
Nella prima metà del secolo XII le attestazioni si moltiplicano, con una particolare concentrazione nell’area dell’arcidiocesi di Colonia. La formula di umiltà è infatti contenuta in una lettera del 1115 dell’arcivescovo di Colonia Federico[58] ed è poi usata quasi sistematicamente da tre autori formatisi a Liegi: l’abate Rodolfo di St. Trond (1070–1138), il canonico di Liegi Reimbaldo († 1149) e l’abate Wibaldo di Stavelot († 1158); i primi due, formatisi entrambi nella scuola capitolare, la impiegano in tre lettere ciascuno.[59] Completamente fuori scala il numero di attestazioni per il terzo, formatosi sotto la guida di Ruperto di Deutz: essa è presente con ben 108 occorrenze nelle 451 lettere che compongono l’enorme raccolta epistolare conservata dell’abate.[60] Nel corso del secolo XII la formula appare poi in diverse altre lettere, tutte della medesima area, tre delle quali provengono dalla raccolta epistolare di Tegernsee.[61] Nel secolo XIII sembra scomparire completamente.[62]
La traduzione corretta e del tutto coerente con il dettato dell’iscrizione non può che essere quella anticipata, che ripetiamo: „Anno, Dei gr(ati)a id q(uo)d est, | Heinrico dilecto | filio suo.“ „Annone, che è ciò che è per grazia di Dio, a Enrico, suo amato figlio.“ La prima riga corrisponde dunque all’intitulatio, la seconda e la terza all’inscriptio, mentre la parte che equivarrebbe alla salutatio è completamente sottointesa, per ovvi motivi.
Ciò assodato, rimane da proporre un’ipotesi di identificazione dei personaggi citati e quindi dell’identità del vescovo sepolto con il baculus in San Nazaro. L’attestazione della formula dall’ultimo terzo del secolo XI si accorda bene con il confronto formale dei resti del baculus con gli altri pastorali conservati, oltre che con una pur difficile valutazione paleografica dell’iscrizione in capitale. Se, come detto, il pastorale di San Nazaro è comparabile con quello detto di Saint-Lizier di Ariege (seconda metà del secolo XI) che riporta la medesima citazione di Abacuc, vi sono altri due pastorali di secolo XI che mostrano un’affinità stringente con il nostro.[63] In particolare, il pastorale noto come Annostab, perché donato dall’arcivescovo Annone di Colonia al primo abate del monastero di Michaelsberg da lui fondato nel 1064, presenta una fascetta con iscrizione dotata di smerli triangolari nella parte inferiore, con lettere incise anche sugli smerli, quasi identica alla nostra.[64] Lo stesso tipo di fascetta incisa con smerlature triangolari (ma con iscrizione solo nella parte più alta) si trova anche sul pastorale dell’arcivescovo di Colonia Eriberto († 1021).[65] Un terzo pastorale, databile alla prima metà del secolo XII, mostra un’evidente affinità formale: si tratta proprio del baculus di Wibaldo di Stavelot, che abbiamo visto usare sistematicamente la formula di umiltà, rinvenuto nella sua sepoltura nel 1998.[66] Si tratta dei tre pastorali più vicini al nostro per l’aspetto formale delle fasce con incisioni, tra quelli conservati.[67]
L’aspetto materiale del baculus è dunque coerente con la datazione della formula di umiltà. Quest’ultima, mai attestata prima degli anni Sessanta del secolo XI, permette d’altronde di escludere la tradizionale identificazione con l’arcivescovo di Milano Arderico (936–948). Quell’identificazione, come abbiamo visto, era del resto stata avanzata solo per sanare l’incongrua presenza delle spoglie di sant’Udalrico a Milano; essa si basava esclusivamente sull’assonanza dei due nomi e sull’informazione circa la sepoltura di Arderico in San Nazaro.
Quest’ultimo dato avrebbe potuto in realtà lasciare aperta la possibilità di identificare comunque la nostra arca con quella di Arderico. L’arcivescovo fu sepolto nella cosiddetta Basilichetta di San Lino, la cappella funeraria fatta erigere da lui stesso[68] all’esterno dell’angolo formato dall’incontro del presbiterium con il braccio destro – e quindi sul lato opposto rispetto alla zona del ritrovamento della nostra arca. Quando la pavimentazione della basilichetta fu scavata nel 1947–1948 vi apparve l’ampia fossa che doveva aver accolto il sarcofago di Arderico, che non si trovava più lì: non è noto quando sia stato traslato, né dove.[69] In linea di principio, quindi, non si potrebbe escludere che l’arca aperta da Borromeo e Bascapé fosse proprio quella di Arderico, riposizionata in un momento ignoto, ma con ogni probabilità successivo alla stesura del „Liber notitiae“, che riporta ancora l’informazione della sepoltura di Arderico davanti all’altare di San Lino. Tuttavia, la lettura corretta dell’iscrizione sul baculus e quindi la sua datazione ci permettono di scartare questa ipotesi.[70]
La datazione convergente all’XI secolo della formula di umiltà e delle caratteristiche formali delle fascette, il nome del donatore, Annone, da cercare nell’alto clero di area germanica di quell’età, e in particolare tra vescovi ed abati legati a Enrico IV, la stringente somiglianza con i pastorali di Colonia (e in particolare con l’Annostab) non possono che far pensare a una figura di grande rilevanza storica: l’arcivescovo Annone di Colonia stesso (1056–1075). Formatosi a Bamberga, fu cappellano dell’imperatore Enrico III, da cui ottenne la cattedra di Colonia nel 1056; nel 1062, con il cosiddetto colpo di stato di Kaiserswerth, Annone riuscì a impadronirsi del giovane Enrico IV, sottratto all’imperatrice vedova Agnese: divenne così tutore del re dodicenne e, di fatto, reggente dell’impero.[71] Il testo dell’iscrizione, in cui il ricevente Enrico è definito dal donatore Annone „amato figlio“, ben si attaglierebbe a questo speciale rapporto con Enrico IV, evidentemente; il baculus sarebbe dunque donato non a un vescovo, ma al re, e futuro imperatore, cioè a colui che dispensa i pastorali ai vescovi imperiali attraverso il rituale dell’investitura: un dato di per sé di grande interesse, se confermato.[72] La doppia identificazione, a prima vista del tutto ipotetica – e certo eclatante – trova una conferma da un’altra sepoltura arcivescovile documentata in San Nazaro, che consente di collegare tutti i dati in nostro possesso in una ricostruzione coerente: si tratta della sepoltura di Anselmo III da Rho, che fu arcivescovo di Milano dal 1086 al 1093.
4 La sepoltura di Anselmo III da Rho in San Nazaro
La domanda a cui è necessario rispondere è infatti: perché un pastorale donato da un Annone a un Enrico, databile alla seconda metà del secolo XI e di origine germanica, si trova nella sepoltura di un vescovo o arcivescovo in San Nazaro in Brolo a Milano, posta in una posizione distintiva e probabilmente allestita in collegamento con la riorganizzazione seguita all’incendio del 1075? Chi potrebbe essere stato il detentore di un simile oggetto? L’ipotesi che qui si propone non solo concorda con tutti i dati in nostro possesso, ma sembra anche l’unica possibile in base a quanto è noto in merito alle sepolture in San Nazaro e più in generale rispetto alle vicende della chiesa milanese e dei suoi rapporti con l’impero tra secolo XI e XII.
Dopo la sepoltura di Arderico nel 948, fu infatti Anselmo III da Rho a riprendere, per ultimo, l’antica tradizione dei primi arcivescovi milanesi, designando la Basilica di San Nazaro come luogo della propria sepoltura – ciò che avvenne solennemente nel 1093.[73] Dopo gli arcivescovi di V secolo, infatti, furono quattro i presuli milanesi a essere sepolti in San Nazaro: Arifredo († 742), Angilberto II (868–881), Arderico e, appunto, Anselmo III. Come già ricordato, la basilica era stata colpita dal grande incendio del 1075, che coinvolse anche la cattedrale doppia e Santo Stefano, i cui esiti sono raccontati in un noto passo del „Liber gestorum recentium“ di Arnolfo: „Hoc tamen crudelior, quod multo plures ac maiores combussit ecclesias, illam scilicet estivam ac mirabilem sancte virginis Tegle, beati quoque Nazarii, necnon protomartyris Stephani, ceteras quamplures, quarum parietine annis apparebunt ut reor plus mille.“[74] Arnolfo immaginava che le rovine sarebbero rimaste visibili per centinaia d’anni, ma la ricostruzione fu invece intrapresa nei decenni successivi, tra la fine del secolo XI e il XII, come testimonia la donazione effettuata dall’aristocratica Gisla, che nel 1112 destinava una parte dei suoi beni alla basilica, „donec restaurata fuerit“.[75] Le forme romaniche che la chiesa conserva ancora oggi si devono infatti a quella ricostruzione, cui forse proprio la sepoltura di Anselmo III diede avvio, simbolicamente o concretamente.
Anselmo III fu anche l’ultimo arcivescovo milanese a ricevere dalle mani di Enrico IV i simboli della propria dignità attraverso il rituale dell’investitura per anulum et baculum, nel 1086. Il dato è ben noto non solo per la testimonianza di Landolfo di San Paolo (il cosiddetto Landolfo iuniore), che ricorda come l’arcivescovo Grossolano depose il primicerio e altri sacerdoti nel 1103, perché ordinati da „Anselmus de Rode, Mediolanensis archiepiscopus, et a rege Henricho investitus“;[76] ma anche perché essa è l’oggetto di una serie di testi provenienti dal Registro di Urbano II e conservati nella „Collectio Britannica“.[77] Il passo più importante ai nostri fini si trova nella notizia storica che serve a contestualizzare le lettere di Urbano (passo poi confluito nella „Vita di Urbano II“ nel „Liber Pontificalis“ di Pandolfo): „Hoc tempore Anselmus Mediolanensis Archiepiscopus, quia ab uno tantum catholico fuerat episcopo consecratus, assentientibus quidem aliis episcopis sed manum non imponentibus, quod quidem scismatici essent et a Romano antistite excommunicati, et quia post electionem canonicam a rege baculum sumpserat, per legatum sediis apostolicae depositus est.“[78] Nella „Collectio Britannica“ sono diversi i brani delle lettere rivolte da Urbano ad Anselmo, in merito alla sua reintegrazione, possibile per il riavvicinamento di Anselmo e perché la sua elezione venne ritenuta canonica da Roma, a differenza della successiva investitura da parte di un imperatore scomunicato. Così in una delle lettere che gli rivolse il papa: „Post electionem siquidem canonice celebratam regem, ab sede apostolica excommunicatum et beati P[etri] gratia penitus alienum, adisti, sacramento te ipsius astrixisti, investituram ab eo accepisti, quod omnino in Romana ecclesia prohibitum ipse non nescis.“[79] La consegna del baculus da parte di Enrico IV nella contestata investitura del 1086 spiegherebbe perché l’oggetto, donato da Annone a Enrico, sia passato poi, letteralmente, dalle mani dell’imperatore a quelle dell’arcivescovo Anselmo. Il baculus sarebbe poi stato deposto con il suo possessore quando Anselmo fu sepolto nella basilica nel 1093. L’arca posta all’angolo nord-orientale della crociera centrale sarebbe dunque la sua. La posizione è congrua per una sepoltura arcivescovile e di grande interesse: ai quattro angoli del ciborio che sorgeva al centro della crociera centrale a copertura dell’altare maggiore dedicato agli apostoli si trovavano infatti quattro arche vuote, che segnalavano il punto in cui erano sepolti gli arcivescovi di V secolo, Venerio, Marolo, Glicerio e Lazaro; esse furono lì posizionate con ogni probabilità proprio per rimpiazzare le antiche iscrizioni, danneggiate nell’incendio del 1075.[80] L’arca di Anselmo ne avrebbe rispecchiato il posizionamento, riproducendolo sul perimetro esterno della crociera centrale. Il posizionamento di questa ulteriore tomba arciepiscopale, collocata come le precedenti a raggiera intorno all’altare centrale e quindi alle reliquie degli apostoli, appare assai significativa nella prospettiva dell’apostolicità della chiesa milanese, consolidata nell’XI secolo con la leggenda della fondazione da parte di san Barnaba: il suo posizionamento avrebbe fatto parte di un progetto compiuto di riorganizzazione delle sepolture arciepiscopali in San Nazaro intorno alle reliquie degli apostoli.[81]
5 Per anulum et baculum
La ricostruzione fin qui esposta, benché ipotetica, appare la più probabile spiegazione per la presenza del nostro baculus in San Nazaro, se non l’unica possibile, almeno allo stato delle nostre conoscenze. A questa proposta è possibile aggiungere alcune considerazioni.
Annone di Colonia morì nel 1075, Anselmo III fu investito da Enrico nel 1086: l’oggetto donato dall’arcivescovo di Colonia sarebbe dunque rimasto nella disponibilità regia per più di dieci anni, prima di essere impiegato per l’investitura dell’arcivescovo – un tempo piuttosto lungo.
Philippe Depreux, nei suoi importanti studi sull’investitura cum anulo et baculo, ha ricostruito una pratica che divenne regolare solo nella seconda metà del secolo XI: quella della restituzione del pastorale e dell’anello episcopale all’imperatore dopo la morte di un presule.[82] Espressione pratica e simbolica del riconoscimento dell’autorità imperiale e garanzia contro l’intrusione di candidati non voluti, essa prevedeva che l’imperatore li reimpiegasse per investire il successore del vescovo defunto. La narrazione più completa di questa pratica è contenuta, curiosamente, proprio nella descrizione dell’investitura di Annone di Colonia, raccontata da un monaco del monastero di Siegburg agli inizi del secolo XII.[83] Ancor più curiosamente, la prima menzione in assoluto della riconsegna del pastorale al re si può leggere proprio nella „Vita“ di sant’Udalrico di Augusta: alla sua morte nel 973 il suo pastorale fu riconsegnato a Ottone II.[84] Al di là di questa coincidenza (che conferma, se ce ne fosse ancora bisogno, l’impossibilità che il vescovo sepolto in San Nazaro fosse proprio lui …), ciò che conta è che la pratica si stabilizzò appunto nel corso del secolo XI e giunse a divenire regolare, caricandosi di un preciso significato, con Enrico IV.[85] Essa fu usata anche nelle investiture degli arcivescovi ‚imperialiʻ milanesi e ne abbiamo almeno una testimonianza nelle fonti: il nostro pastorale potrebbe dunque essere stato usato per l’investitura dei predecessori di Anselmo III, prima ancora che per la sua. Considerato il terminus post-quem dato dalla donazione di Annone a Enrico, che esclude l’investitura di Guido da Velate nel 1045, è necessario considerare le investiture degli arcivescovi Goffredo, nel 1068–1070, e Tedaldo, nel 1075.
Anche la prima di queste due è da scartare, per la testimonianza del „Liber gestorum recentium“ di Arnolfo, che racconta espressamente che Guido da Velate, deciso a lasciare la cattedra episcopale a favore di Goffredo, nel 1068 inviò il proprio pastorale e il proprio anello a Enrico IV: „Secreta igitur facta conventione cum eo [cioè con Goffredo] praesul, datis communis pacti ex alterutro sacramentis, dignitatem deponit ad praesens, virga cum anulo caesari per legatos directa.“[86] Si tratta appunto della precisa attestazione della pratica della restituzione delle insegne episcopali al re nel caso milanese – Guido era d’altronde il primo arcivescovo ambrosiano scelto dall’imperatore, e non espressione dei candidati interni alla chiesa milanese, dopo molti decenni. Essa esclude però l’uso del nostro pastorale per l’investitura di Goffredo, che dovrebbe essere stata effettuata impiegando le stesse insegne restituite da Guido.[87]
Il passaggio della cattedra al successore Tedaldo non fu altrettanto lineare. Nel 1075, infatti, dopo la sconfitta della Pataria e l’uccisione di Erlembaldo, Enrico IV tolse il proprio appoggio a Goffredo, che era stato consacrato solo nel 1073 a Novara e non era riuscito a entrare in città, e investì il chierico milanese Tedaldo, membro della sua cappella: la sede milanese aveva a quel punto tre titolari, perché Gregorio VII continuava a riconoscere e sostenere l’arcivescovo Attone.[88] Tedaldo fu dunque investito „posthabita Gotefredi illius adhuc viventis investitura et unctione“, nelle parole di Arnolfo.[89] L’investitura di Tedaldo effettuata con Goffredo ancora vivente, ricordata con biasimo anche da Bonizone,[90] avrebbe interrotto quindi la pratica di riconsegna del pastorale e dell’anello al re, che quando investì Tedaldo e lo inviò ai milanesi „anulo et virga sublimatum“[91] si sarebbe dovuto servire di un nuovo baculus.
Tedaldo fu probabilmente nominato nel settembre del 1075, ma fu consacrato solamente nel febbraio del 1076.[92] Tra queste due date, il 4 dicembre 1075, morì a Colonia l’arcivescovo Annone: è possibile che il dono del pastorale all’„amato figlio Enrico“ sia stato effettuato dall’anziano presule in punto di morte? Non possiamo saperlo, benché l’ipotesi sia certo invitante per il preciso incastro delle date. In realtà non sembra possibile precisare il momento della donazione del baculus da Annone a Enrico, che potrebbe essere avvenuta in qualunque data tra il 1063 e il 1075. Considerata tuttavia la pratica della restituzione, da un lato, e la discontinuità rappresentata dall’elezione di Tedaldo, dall’altro, appare comunque assai probabile che il baculus con cui fu investito Anselmo III fosse lo stesso già impiegato per Tedaldo. Esso sarebbe stato restituito a Enrico IV quando l’arcivescovo morì ad Arona il 25 maggio del 1085, benché non sussistano testimonianze positive al riguardo.
Il tema della pratica di restituzione del baculus, con tutto il suo portato simbolico e politico, si pone naturalmente non solo per il predecessore diretto di Anselmo III, ma anche per il suo successore, Arnolfo III: se il baculus di San Nazaro fu impiegato per l’investitura di Tedaldo e di Anselmo III, certo non poté svolgere la stessa funzione per Arnolfo III, perché era stato sepolto col suo predecessore. Perché in quel caso il pastorale non fu restituito a Enrico IV?
Arnolfo III fu eletto il 6 dicembre 1093, a soli due giorni dalla morte di Anselmo III e in una situazione del tutto mutata. Negli anni precedenti, infatti, Urbano II era riuscito a portare l’arcivescovo di Milano a un progressivo avvicinamento alla causa romana, a partire dalla stessa reintegrazione di Anselmo sulla cattedra milanese, di cui il papa si fece artefice nel 1088, come accennato. Si trattò di una svolta di grande importanza nella storia dei rapporti della chiesa milanese con Roma: il progressivo avvicinamento divenne piena adesione, conducendo Anselmo III fino „a una completa abiura delle scelte compiute all’inizio dell’episcopato“,[93] tanto che Bernoldo di Costanza poté definirlo „in causa Sancti Petri studiosissimus“.[94] La scelta stessa di Anselmo III della Basilica degli Apostoli per la propria sepoltura può essere letta proprio in questo senso, non solo per la sua intitolazione (e per la presenza di reliquie per contatto di Pietro e Paolo), ma per la sua posizione: la basilica Romana di Ambrogio era posta infatti sulla strada che conduce a Roma – l’antica via porticata, oggi Corso di Porta Romana.[95]
Questo percorso aveva condotto l’arcivescovo di Milano anche all’aperta ribellione nei confronti di Enrico IV: fu infatti lo stesso Anselmo III da Rho a incoronare a Milano re Corrado, il figlio ribelle dell’imperatore, sostenuto da Matilde di Canossa e Guelfo V, e che sarebbe divenuto una sorta di ‚referente regioʻ della causa romana.[96] L’incoronazione, che era stata preceduta dalla coniuratio ventennale delle città di Milano, Lodi, Piacenza e Cremona contro Enrico IV, ebbe luogo in Sant’Ambrogio verso la fine del 1093, poco prima della morte dello stesso Anselmo.[97]
Appare del tutto evidente che, alla morte del presule, l’invio delle insegne arciepiscopali a Enrico IV fosse fuori discussione, così come l’uso dello stesso baculus di Anselmo, al centro della condanna papale, per un’eventuale investitura del suo successore, Arnolfo III. Grazie agli studi di Zerbi è ormai da tempo superata l’errata convinzione che Arnolfo III fosse stato investito da re Corrado e perciò dichiarato deposto: essa era basata solamente su quegli stessi testi contenuti nella „Collectio Britannica“ che oggi sappiamo essere riferiti ad Anselmo da Rho ed Enrico IV e non ad Arnolfo e Corrado come ritenuto un tempo. Non possiamo comunque escludere che Corrado abbia investito effettivamente Arnolfo III per baculum, una pratica ancora possibile a quell’altezza cronologica.[98] Se anche fu così, questo insieme di circostanze spiega bene perché in quell’occasione si preferì deporre il pastorale nella tomba, a fianco del suo ultimo detentore: insieme con il baculus di Annone, Enrico e Anselmo fu sepolta definitivamente anche una fase dei rapporti tra la chiesa milanese e l’impero.[99]
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- Ist das „Mittelalter“ am Ende?
- L’Italia dal Settecento a oggi: un Sonderweg?
- 1820 – Eine Weltkrise der politischen Souveränität?
- Allgemein, Mittelalter, Frühe Neuzeit, 19.–21. Jahrhundert
- Erratum to: Antonio Mursia, Signori e signorie nella Sicilia normanna. Due pergamene inedite sui Perollo di Gagliano (1142–1176)
- Verzeichnis der Rezensentinnen und Rezensenten
- Register der in den Rezensionen genannten Autorinnen und Autoren
Artikel in diesem Heft
- Titelseiten
- Jahresbericht des DHI Rom 2023
- Themenschwerpunkt The Material Legacies of Italian Colonialism/I lasciti materiali del colonialismo italiano herausgegeben von Bianca Gaudenzi
- Cultura materiale e memorie del colonialismo italiano dal secondo dopoguerra a oggi
- Memorie di pietra del colonialismo italiano
- Legislazione e prassi italiane in materia di beni culturali tra protezionismo e universalismo
- Monumental Artworks as Difficult Heritage
- „Italia si, Italia no“. Materialità transimperiali e soggetti (post)coloniali tra Italia ed Etiopia (1956–1974)
- Una ‚reliquia colonialeʻ
- Artikel
- „Actus Beneventus in filicissimus palatio“?
- Annone di Colonia, Enrico IV e Anselmo III da Rho
- Motivazioni politiche e contesto sociale
- Signori e signorie nella Sicilia normanna
- Processi pontifici in partibus. La giurisdizione papale delegata nel XIII secolo: alcuni casi in Puglia
- Wofür und auf welche Weise Herzog Magnus II. von Mecklenburg 1487 von Papst Innozenz VIII. die Goldene Rose erhielt
- Una spia portoghese e la crociata all’indomani di Lepanto
- Die Korrespondenz des Kardinalnepoten Francesco Barberini mit P. Alessandro d’Ales, seinem Agenten am Kaiserhof (1634–1635)
- Konkurrenz um das kulturelle Gedächtnis?
- Il fascismo recensito
- Il rischio dei ‚Giusti‘
- „Die Steine zum Sprechen bringen“
- L’espansione del quadrante occidentale della Capitale negli anni Cinquanta e il complesso architettonico della Congregazione di Santa Croce oggi Istituto Storico Germanico di Roma
- Fantasma totalitario e democrazia blindata
- Per un catalogo delle opere di Luigi Nono, con „pochi dati e alcune idee vagabonde sulla diversa natura della ‚tradizione‘ delle opere di Nono in quanto ‚testo‘“ e una cronologia
- Forschungsberichte
- L’identità dello Stato beneventano
- Dall’edizione cartacea alla pubblicazione su piattaforma
- Tagungen des Instituts
- Administration in Times of Crisis. The Roman Papacy in the Great Western Schism
- Apparati, tecniche, oggetti dell’agire diplomatico (secc. XIV–XIX)
- Nuove prospettive di ricerca su stato di eccezione e di emergenza. Un dialogo italo-tedesco
- (De)Constructing Europe. Tensions of Europeanization
- Circolo Medievistico Romano
- Circolo Medievistico Romano 2023
- Rezensionen
- Verzeichnis der Rezensionen
- Leitrezensionen
- Ist das „Mittelalter“ am Ende?
- L’Italia dal Settecento a oggi: un Sonderweg?
- 1820 – Eine Weltkrise der politischen Souveränität?
- Allgemein, Mittelalter, Frühe Neuzeit, 19.–21. Jahrhundert
- Erratum to: Antonio Mursia, Signori e signorie nella Sicilia normanna. Due pergamene inedite sui Perollo di Gagliano (1142–1176)
- Verzeichnis der Rezensentinnen und Rezensenten
- Register der in den Rezensionen genannten Autorinnen und Autoren