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Una ‚reliquia colonialeʻ

Le apparizioni degli occhiali di Omar al-Mukhtar tra Roma e Tripoli
  • Beatrice Falcucci

    Juan de la Cierva fellow in History at the Departamento de Humanidades, Universitat Pompeu Fabra, Barcelona (2024 and 2025) and visiting research fellow at the Centre for the Study of Cultural Memory, School of Advanced Study, London (2024).

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Published/Copyright: November 22, 2024

Abstract

This article addresses an instance of non-restitution within the Italian post-colonial context. In doing so, it aims to draw attention not only to totemic, highly symbolic objects within the context of imperialism, looting and appropriation, but also to the importance of hoaxes, forgeries and copies, which can be equally meaningful. Specifically, it will consider the glasses of Omar al-Mukhtar, leader of the resistance to the Italian occupation of Libya, as they appear in museums and shops and are evoked (on paper, in films) in different contexts. The biography of the glasses will be investigated as they multiply and appear in various places, like a modern-day colonial ‚relicʻ. Finally, the article reflects on the meaning of fakes and copies within the broader debate on restitution and reparations, seeing non-authenticity as a potential resource rather than simply a problematic issue, and examining the production of counterfeits as a way of reaffirming agency.

1 Indagare l’autenticità: un caso di studio per una riflessione oltre la restituzione

Nell’ultima decade il dibattito intorno al tema delle riparazioni, restituzioni e prestiti a lungo termine di patrimonio sottratto o acquisito all’interno di contesti coloniali o di „colonialità“[1] si è fatto assai intenso in seno agli studi storici, museali e antropologici. Gli studiosi hanno ricostruito e analizzato i complessi processi che hanno portato al ritorno di oggetti, reperti archeologici e resti umani nei luoghi in cui essi erano stati prelevati.[2] Tuttavia, oltre alle restituzioni andate a buon fine (anche se dopo decenni di trattative, come nel caso della stele di Axum restituita all’Etiopia)[3] vi sono anche quelle negate.

Questo articolo illustrerà infatti un caso rilevante di „mancata restituzione“ nel contesto post-coloniale italiano,[4] e delle vicende che si sono sviluppate intorno ad esso. In particolare, l’obiettivo del presente lavoro è quello di richiamare l’attenzione sul valore di oggetti ‚totemiciʻ e altamente simbolici nel contesto imperiale di estrazione e appropriazione, ma anche dei loro doppi, falsi e copie, che nell’odierna discussione riguardo riparazioni e restituzioni possono essere considerati, si vedrà, significativi quanto gli originali.

In questo studio si prenderà in considerazione la vicenda, a tratti misteriosa, degli occhiali di Omar al-Mukhtar, leader della resistenza anti-italiana in Libia, che nel corso dei decenni paiono essersi moltiplicati ed essere apparsi diversi spazi e tempi, come una reliquia moderna, tra le sponde del Mediterraneo.[5] Si vedrà infine come, con le loro apparizioni (in musei e presso antiquari) ed evocazioni (sulla carta, in fotografie, nei film) in diversi contesti e scenari, gli occhiali si siano fatti portatori di significati stratificati, differenti e mutabili.[6]

Al principio degli anni Trenta gli effetti personali del leader senussita libico, in particolare il suo portafoglio di pelle e i suoi occhiali, giunsero al Museo Coloniale di Roma, a testimonianza del fatto che la completa conquista e „pacificazione“ della Libia era avvenuta.[7] Gli occhiali e il portafoglio, oggetti quotidiani piuttosto banali appartenuti (o almeno così si volevano presentare) all’uomo un tempo simbolo della resistenza libica, furono esposti come trofei nel museo inaugurato da Mussolini per „risvegliare“ la coscienza coloniale degli italiani.[8] Gli occhiali, di cui verrà chiesta più volte la restituzione all’Italia repubblicana, non sono mai stati riconsegnati alla Libia e appartengono ancora oggi alle collezioni dell’ex Museo Coloniale, in deposito presso il Museo delle Civiltà (MuCiv) di Roma e parzialmente riallestite nell’esposizione temporanea „Museo delle Opacità“ (da giugno 2023). Tuttavia, un paio di occhiali da vista di simile fattura sono oggi presentati come gli originali di proprietà del ‚martireʻ libico al-Mukhtar anche al Museo di Tripoli, e persino in una bottega antiquaria di Aleppo.

Quali siano gli occhiali ‚autenticiʻ non è semplice da stabilire e non rientra tra gli obiettivi di questo lavoro. Ciò che ci si propone invece di considerare sono le strategie di riappropriazione culturale degli occhiali e l’agency del soggetto ‚spoliatoʻ in un contesto di mancata restituzione. Se infatti si accettano come ‚autenticiʻ gli occhiali conservati a Roma, si può forse ipotizzare che, non riuscendo ad ottenerne la restituzione da parte italiana, il museo libico abbia deciso di esporre a sua volta un paio di occhiali presentandoli come gli originali appartenuti al leader della resistenza, contrastando così la narrazione relativa a quelli conservati dagli ex colonizzatori.

Nelle conclusioni rifletterò dunque sul valore dei doppi, dei falsi e delle copie nel più ampio dibattito sulla restituzione in contesti post-coloniali, identificando la non autenticità come una possibile risorsa, piuttosto che come una questione necessariamente problematica.

2 Reliquie e copie in movimento nel Mediterraneo

Negli ultimi decenni, gli oggetti hanno assunto sempre maggior importanza per la ricerca storica. Le cose e le loro biografie[9] sono oggi più che mai al centro dell’indagine storiografica, assumendo un ruolo cruciale nella discussione sulle spoliazioni sistematiche dei territori colonizzati e sulle dinamiche di restituzione e riparazione, in particolare nell’ambito della cosiddetta provenance research (sviluppatasi non soltanto in connessione con i fenomeni strettamente coloniali e imperialistici).[10]

Pur avendo origine in contesti politici e culturali storicamente situati e specifici, specialmente quando è la loro mobilità ad essere messa in primo piano, gli oggetti possono gettare luce su incontri e scambi interculturali all’interno di uno spazio „connesso“.[11] Gli oggetti, infatti, possono muoversi, essere comprati, regalati, barattati e venduti, presi in prestito o rubati, raccolti e dispersi, così come possono essere copiati, modificati e distrutti. Attraverso il loro movimento, gli oggetti possono trasferire conoscenze, accumulare strati di significato, sviluppare forme di agency e caricarsi di emozioni, sovente contrastanti e in evoluzione.[12] Essi, dunque, in qualsiasi contesto agiscano, si caratterizzano non soltanto come history-tellers bensì come history-makers.[13]

Nell’ambito del caso di studio che si analizzerà, gli occhiali del leader della resistenza libica al-Mukhtar collegano le sponde di quel „mare connesso“ che è il Mediterraneo, ben oltre il semplice rapporto coloniale intercorso tra le nazioni e le loro microecologie (musei, botteghe antiquarie) che vi si affacciano.[14] Del resto, proprio la „connettività“ è stata ritenuta, da alcuni studiosi, un tratto definente della „mediterraneità“ e del Mediterraneo come spazio di circolazione e scambio, tanto da essere, di quando in quando, data per scontata.[15]

Nell’ambito di un rinnovato interesse per gli oggetti, i loro movimenti e le connessioni che essi creano, è cresciuto anche l’interesse per una categoria speciale di questi, ovvero le reliquie, siano esse religiose o laiche,[16] e il loro intreccio con la fabbricazione di falsi e copie.[17] Si tratta di una pratica indagata soprattutto dagli studiosi di medioevo ed età moderna, che hanno analizzato non soltanto la contraffazione degli oggetti, ma anche la fabbricazione della documentazione di supporto volta a rafforzarne le pretese di autenticità.[18]

Nel contesto di un più ampio interrogarsi sul significato dei falsi, si è riflettuto anche sulle scorrette indicazioni di provenienza e sul complesso processo del far credere che qualcosa abbia un’origine diversa da quella reale. Se presumibilmente nella maggior parte dei casi è il falsario a essere coinvolto nel depistaggio dell’osservatore (del lettore, dell’acquirente ecc.), in alcuni casi l’intenzione di ingannare – di indurre in errore una o più persone sulla provenienza di un manufatto culturale – è incerta o si è perduta.[19] È proprio quest’ultimo, ritengo, il caso degli occhiali del resistente libico, a cui è forse applicabile la categoria di „reliquia laica“.[20]

Al-Mukhtar, si vedrà, venne considerato fin da subito dopo la morte un „martire“ tanto dell’Islam, cadendo per mano degli „infedeli“ cristiani, quanto un martire politico, sacrificatosi nel combattere l’imperialismo europeo.[21] Copie dei suoi occhiali ‚appaionoʻ, proprio come si moltiplicano le reliquie appartenenti ai santi e ai martiri, nei musei e nei negozi di antiquariato sulle sponde del Mediterraneo, vengono evocate in scenari diversi, si sdoppiano, si riproducono e sembrano moltiplicarsi attraverso il tempo.[22]

In tale contesto risulta evidente come le riproduzioni, le copie e i falsi possono essere interessanti per lo studioso tanto quanto gli originali stessi (sempre che si sia in grado di distinguerli).[23] Ernst Gombrich ha riflettuto sul concetto di „riproduzione“ nel suo celebre „Meditations on a Hobby Horse“, focalizzandosi sull’ambiguità dell’idea stessa di riproduzione, in bilico tra l’evocazione e la sostituzione.[24] Giorgio Riello, del resto, ha ben evidenziato quanto nel processo di costruzione di immaginario legato all’altro e all’altrove le riproduzioni siano state fondamentali, sin dai tempi della giraffa appartenuta alla dinastia dei Medici e alla sua riproduzione ad opera del Ghirlandaio: „It is the power of reproduction of representation – rather than the real animal – that allowed the giraffe to enter the European imaginary. One might say that it was not Lorenzo’s real animal but its representation in Ghirlandaio’s fresco that kept the visual imagination of giraffes alive in Europe.“[25] In ambito più strettamente coloniale, come sostiene Timothy Mitchell nella sua opera fondamentale „Colonising Egypt“, riproduzioni e copie si incontrano assai di frequente, giacché

„There is no hierarchical order of the imitator and the imitated, as in an exhibition or any other system of representation. Everything both imitates and is imitated. There is no simple division into an order of copies and an order of originals, of pictures and what they represent, of exhibits and reality, of the text and the real world, of signifiers and signifieds.“[26]

Se però „Things separate from their story have no meaning. They are only shapes“,[27] autentici o falsi che siano, gli oggetti portano con sé una storia, e dunque ci interessano.[28]

3 La costruzione di un martire: Omar al-Mukhtar tra resistenza e opportunismi

La vicenda degli occhiali di al-Mukhtar, molto più che semplici history-tellers, intreccia una storia di violenza e sopraffazione: l’invasione e la colonizzazione italiana della Libia.

L’imam Omar al-Mukhtar (1858–1931) è conosciuto nella Libia moderna, e ben oltre, come uno dei ‚martiriʻ che hanno sacrificato la propria vita per liberare il paese dal colonialismo italiano, trasformandosi in una figura simbolica, panarabista e anticoloniale. Il percorso spirituale e politico di al-Mukhtar iniziò in giovane età, quando entra a far parte della confraternita musulmana della Senussia, studiando per diventare guida spirituale islamica e impegnandosi nella lotta per contrastare la colonizzazione francese in Ciad. Il 3 ottobre 1911, quando gli italiani bombardarono Tripoli nel primo atto di quella che sarebbe passata alla storia come la guerra italo-turca, il comando militare ottomano decise di ritirarsi e lanciò la resistenza dall’entroterra. I libici, organizzati in piccole unità, pur inferiori per numero di uomini e mezzi, si rivelarono incredibilmente abili nelle strategie e nelle tattiche della guerriglia nel difficile territorio nordafricano, tra montagna e deserto. Il controllo italiano su gran parte dell’interno del paese rimase infatti parziale e inefficace fino alla seconda metà degli anni Venti, quando le forze italiane fasciste sotto il comando di Pietro Badoglio e Rodolfo Graziani risposero alle azioni dei partigiani libici con livelli crescenti di brutalità, procedendo ad eliminare il sostegno della popolazione ai ‚ribelliʻ. Come hanno sottolineato Giorgio Rochat ed Eric Salerno già dagli anni Settanta,[29] i più importanti capi religiosi delle zavie senussite vennero deportati in Italia, mentre l’esercito italiano fu impiegato in Cirenaica in tutta la sua brutalità. Furono effettuati pesanti e continui bombardamenti di civili e di bestiame, vennero avvelenati pozzi e sorgenti d’acqua, furono effettuate migliaia di impiccagioni pubbliche, venne avallato l’uso di gas tossici, la deportazione di civili e l’istituzione di vasti campi di concentramento, tanto che Angelo Del Boca ha paragonato il campo di Suluq ad Auschwitz per la sua brutalità.[30]

La lotta anti-coloniale di al-Mukhtar terminò il 16 settembre 1931, quando fu impiccato davanti agli occhi dei suoi compatrioti (oltre 20 000 internati[31]) proprio nel campo di Suluq, all’età di 73 anni.[32] I suoi effetti personali, in particolare il portafoglio in pelle e gli occhiali da vista (fig. 1), furono (apparentemente) inviati al Museo Coloniale di Roma a testimonianza che, finalmente, era avvenuta la completa conquista della Libia (fig. 2 e 3).

Fig. 1: Gli occhiali di Al-Mukhtar oggi conservati in deposito al Museo delle Civiltà di Roma.
Fig. 1:

Gli occhiali di Al-Mukhtar oggi conservati in deposito al Museo delle Civiltà di Roma.

Gli occhiali e il portafoglio, oggetti di uso quotidiano piuttosto poveri e ‚banaliʻ appartenuti all’uomo un tempo simbolo della resistenza libica, venivano così esibiti come ‚trofeiʻ vicino alle armi sottratte al nemico ed animali feroci impagliati, come trofei anch’essi di ‚caccia grossaʻ. Ecco dunque il primo, presunto, attraversamento del Mediterraneo per gli occhiali del resistente libico, che giungono in Italia carichi di significati di vittoria, dominio, potere.

Sebbene Omar al-Mukhtar non sia di certo l’unico ‚martireʻ tra i leader della resistenza in Libia,[33] la sua vicenda di guida spirituale senussa e al contempo di celebre capo e combattente per la liberazione della sua terra ben si presta a incarnare l’idea di martirio (shahada) comune, pur con le dovute differenze confessionali, a tutto il mondo islamico. Il termine è solitamente usato come titolo postumo per coloro che si ritiene abbiano accettato o addirittura cercato consapevolmente la propria morte per testimoniare il proprio credo. Come la parola „martire“ in ambito cristiano, col passare del tempo il termine shahid ha assunto connotazioni non religiose ed è stato spesso usato per descrivere coloro che sono morti per cause ideologiche non religiose.[34] Ad esempio, nel corso delle lotte di indipendenza nei territori coloniali a maggioranza musulmana del XIX e XX secolo, molti dei caduti ricevettero il titolo di shahid al momento della loro sepoltura.[35] Del resto, e per contrapposizione, anche i soldati italiani caduti nelle colonie vennero presentati come ‚martiriʻ, soprattutto quelli che incontrarono la morte in Libia, per mano di soldati e resistenti musulmani, tanto da dar vita ad una retorica legata al sacrificio dei „nuovi crociati“.[36] Gli oggetti appartenuti ai „martiri per le colonie“ venivano poi soventemente esposti nei musei italiani, come „reliquie“ laiche mostrate in un commuovente monito per i visitatori.[37]

Fig. 2: Il Museo Coloniale negli anni Trenta in Via Aldrovandi.
Fig. 2:

Il Museo Coloniale negli anni Trenta in Via Aldrovandi.

Fig. 3: Le armi del nemico esposte come trofei al Museo Coloniale.
Fig. 3:

Le armi del nemico esposte come trofei al Museo Coloniale.

Dopo la sua morte Omar al-Mukhtar divenne una vera e propria icona transnazionale e panislamica: in Palestina, Iraq ed Egitto, ma anche in Pakistan e Indonesia, dove il governo coloniale olandese era ben consapevole della sensibilità della questione, e proibì ai giornali anche solo di menzionare la storia del partigiano libico.[38] La morte dell’imam ebbe così ampia risonanza che dette impulso a un movimento anti-italiano nel mondo arabo e musulmano, e i prodotti italiani furono boicottati in molti paesi.[39] In esilio nacquero movimenti nazionalisti che sostenevano la causa dell’indipendenza libica, portando nomi che si rifacevano in modo esplicito all’imam, come ad esempio il Club al-Mukhtar nato al Cairo nel 1942.[40] Successivamente, quando Muammar Gheddafi e il Consiglio del Comando Rivoluzionario salirono al potere nel 1969 ne rivendicarono l’eredità, proponendosi come ideali continuatori della sua opera di liberazione della Libia. Da quel momento il nome e l’immagine di Omar al-Mukhtar divennero improvvisamente onnipresenti: numerose strade in tutto il paese gli vennero intestate, il suo profilo apparve sulla valuta libica (dal 1971 l’imam è presente sulla banconota da dieci dinari libici) e il governo finanziò il film del 1981 „Il leone del deserto“: un vero e proprio kolossal con un budget di 35 milioni di dollari diretto dal regista siro-americano Moustapha Akkad, con Anthony Quinn nel ruolo di un anziano al-Mukhtar.

Il film, proiettato con regolarità alla televisione di stato libica, non è stato distribuito in Italia (sebbene si siano avute delle proiezioni in contesti di festival cinematografici e incontri politici)[41] fino alla sua prima trasmissione alla TV privata Sky nel 2009.[42] Del resto, proprio nell’estate 2009 Muammar Gheddafi ha incontrato a Roma il presidente italiano Silvio Berlusconi con una foto di al-Mukhtar arrestato dagli italiani appuntata al petto, portando con sé nella visita ufficiale l’anziano figlio del leader della resistenza libica.[43] Si trattava della prima visita di un capo di stato libico in Italia, la prima di un discendente dell’imam e, per la maggioranza degli italiani, la prima occasione di incontrare un’immagine che raffigurasse il resistente libico e venire a conoscenza della sua storia.

Omar al-Mukhtar è tutt’ora ‚contesoʻ in Libia da differenti forze politiche allo scopo di auto-legittimarsi: con l’inizio della guerra civile libica il 17 febbraio 2011, l’immagine di al-Mukhtar è stata raffigurata su bandiere e manifesti del movimento che si opponeva a Gheddafi e le forze ribelli hanno chiamato una delle loro formazioni „Brigata Omar al-Mukhtar“.[44] Il combattente libico è stato spesso ricordato con grandi onori anche da al-Qaeda nel Maghreb islamico (AQIM). Sia Gheddafi che i gruppi che lo hanno rovesciato nel 2011 avevano e hanno adottato Omar al-Mukhtar come un eroe: il 16 settembre 2019 la Libia ha commemorato l’88° anniversario di quello che è noto come „il martirio di Omar al-Mukhtar“. Secondo la legge numero 5 dell’ex Consiglio nazionale di transizione dell’8 gennaio 2012, il 16 settembre è da considerarsi festa nazionale, ed essa è stata riconosciuta sia dal governo di accordo nazionale di Tripoli guidato da Fayez al-Sarraj che dal suo rivale, il governo ad interim di al-Beida guidato di Abdullah al-Thani.[45]. L’imam libico oggi è indubbiamente un’icona globale, quasi un personaggio ‚popʻ, tanto da essere ritratto su adesivi e magliette; al contempo la sua immagine di ‚martireʻ è anche impiegata per servire i bisogni politici di molteplici fazioni.

Mentre il suo ritratto e il suo nome si moltiplicano nei contesti più disparati sulle sponde del Mediterraneo, cosa è successo alle sue ‚reliquieʻ, agli effetti personali del ‚martireʻ al-Mukhtar, tra cui i celebri occhiali, che lo caratterizzano nelle numerose immagini che lo ritraggono, oltre che nello stesso film di Akkad?

4 Gli occhiali al Museo Coloniale di Roma

Dopo l’uccisione dell’anziano partigiano libico i suoi oggetti personali, vennero inviati come ‚trofeiʻ al Museo Coloniale. Parrebbe anzi che, prima ancora di catturare lo stesso al-Mukhtar, gli italiani entrarono in possesso proprio dei suoi occhiali, perduti dall’imam in uno scontro precedente con le autorità italiane:[46] Nel corso dell’interrogatorio presso il tribunale speciale di Bengasi il Pubblico ministero, notando le difficoltà del prigioniero a leggere i documenti che lo accusavano, gli si rivolgeva chiedendo: „è forse scritto il documento in italiano invece che in arabo, oppure ti mancano quegli occhiali che hai perduto in un recente combattimento fuggendo, e che hai avuto l’ardire di chiedere al governatore?“[47]. Una prima richiesta di restituzione, dunque, pare che venne avanzata dallo stesso al-Mukhtar durante la sua breve cattività in attesa del processo e della condanna a morte.

Il Museo Coloniale di Roma, istituito formalmente già nel 1914, fu inaugurato soltanto nel 1923 per operare come strumento di propaganda coloniale sia in Italia che all’estero attraverso la partecipazione a mostre e fiere, anche durante e ben oltre il crollo dell’impero e del regime fascista.[48] Nel decennio successivo alla caduta del fascismo e alla perdita delle colonie il Museo Coloniale e il suo personale furono infatti mobilitati nel quadro di uno sforzo politico attraverso il quale i primi governi italiani democratici cercarono di mantenere una qualche forma di amministrazione fiduciaria nei territori coloniali occupati prima del fascismo (Eritrea, Somalia e Libia).[49] Il museo ospitava numerose tipologie di oggetti: campioni di materie prime per convincere gli imprenditori italiani a investire nelle colonie, reperti archeologici a testimoniare la continuità del „lavoro di civilizzazione“ fascista rispetto a quello dell’antica Roma, cimeli appartenenti ai celebri esploratori italiani in Africa, definiti „pionieri“, diorami di animali „selvaggi“ e feroci, fotografie antropometriche, calchi realistici in gesso e maschere facciali dei soggetti coloniali, classificati per „etnie“ e „razze“.

Le prime richieste di restituzione all’Italia, e in particolare al Museo Coloniale (dal 1937 rinominato Museo dell’Africa Italiana) giunsero già a partire dal marzo 1946, prima ancora della firma del trattato di Parigi. L’Etiopia presentò infatti una lista di oggetti e reperti archeologici sottratti dall’Italia al paese africano che includeva, tra gli altri, la stele di Axum, il Leone di Giuda, i gioielli della corona e il trono imperiale e antichi volumi copti.[50] Allo scopo di scoraggiare questo tipo di richieste la „stanza del Trono del Negus“ all’interno del Museo venne disallestita su richiesta di Giuseppe Brusasca (all’epoca sottosegretario agli Esteri in quota Democrazia Cristiana) e i suoi oggetti, di cui si riconosceva il portato simbolico ed emotivo, vennero „convenientemente collocati in magazzino“ al riparo da ulteriori richieste di restituzione.[51]

La documentazione del Ministero dell’Africa Italiana, che verrà disciolto solo nel 1953, mostra come nel 1947 fu la Commissione Alleata a chiedere all’Italia la restituzione di tutti gli oggetti prelevati dall’ex colonia libica.[52] Il ministero aveva tuttavia già espresso la volontà di non restituire tali manufatti, riprendendo quanto aveva dichiarato il sottosegretario di Stato pochi mesi prima, sottolineando cioè come i preziosi manufatti sarebbero stati „più sicuri“ in Italia piuttosto che in Libia „per eventi imprevedibili le raccolte potrebbero essere sottoposte a manipolazioni o distruzioni che comprometterebbero l’integrità delle preziose collezioni“.[53] Si tratta, del resto, di un argomento di lungo corso, ancora recentemente utilizzato da chi si oppone al ritorno di oggetti e manufatti dall’Europa ai paesi africani ex-colonizzati, come nel celebre caso della restituzione della Venere di Cirene.[54]

Non soltanto, dunque, il Museo non restituì gli oggetti richiesti, ma, al contrario, in quegli anni utilizzò le proprie collezioni per mettere in mostra il buon operato degli italiani in Africa, ad esempio con la partecipazione, insieme alla Società Geografica Italiana, la Società Africana d’Italia di Napoli, il Centro Studi Coloniali di Firenze e l’Istituto Agronomico per l’Oltremare di Firenze, alla Mostra delle Terre Italiane d’Africa presso la Fiera di Bari nel settembre 1947.[55] Nelle intenzioni degli organizzatori, la presenza di tali istituzioni culturali attestava la buona opera civilizzatrice svolta nelle colonie dagli italiani, industriosi e pacifici, nella speranza di potervi ottenere un mandato di amministrazione fiduciaria. La stessa „Piccola Guida del Museo dell’Africa Italiana“ edita in quegli anni, sottolineava proprio che l’„opera, compiuta attraverso sacrifici eroici di sangue e fatiche, luminosamente afferma il diritto ed il dovere dell’Italia di continuare nel cammino africano che la sua missione civilizzatrice le impone“.[56] Dopo la Fiera di Bari, il Museo partecipò ad un gran numero di manifestazioni, di cui qui si ricordano solo le più importanti: numerose edizioni della Mostra d’Oltremare di Napoli e quella del Mediterraneo di Palermo, più volte alla Fiera di Milano, la mostra del Middle East Institute a Washington nel 1949, la Fiera di Chicago nel 1950, la Mostra del libro italiano al Cairo nel 1951, ecc. Inoltre, nel 1948, il Museo ospitò eventi per „La Settimana INCOM“, ottenendo il plauso dello stesso Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi per il richiamo del „ricordo del nostro glorioso passato africanista“.[57] Il 28 giugno 1949 anche il Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, visitò il Museo. Come racconta il girato „Il Problema coloniale. Testimonianze della nostra civiltà in Africa“, parte del cinegiornale „La Settimana INCOM“ del 24 settembre 1948,[58] il risultato dei colloqui di Parigi

„non è per ora quello da noi sperato. Se i quattro [i rappresentanti di Unione Sovietica, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti] volessero venire a Roma, Brusasca potrebbe condurli al Museo Coloniale. Parlerebbero per noi i nostri pionieri d’Africa … Constaterebbero i quattro come in Africa lasciammo monumenti come quest’arco di Marco Aurelio, fondammo città illustri e fiorenti come Leptis Magna, erigemmo teatri come quello di Sabratha. E in tempi più vicini creammo aziende agricole e moschee aperte alla libertà di culto degli indigeni e aprimmo strade come fiumi nel deserto e lanciammo ponti per le ferrovie … L’Italia spera che il sacrificio dei suoi eroi e dei suoi pionieri non sia annullato da decisioni di compromesso.“

La scelta del Museo Coloniale come luogo nel quale si tentava di slegare il colonialismo dal fascismo e dove perorare la causa del mantenimento delle colonie e/o l’amministrazione fiduciaria è estremamente significativa.[59] Nel cinegiornale Giuseppe Brusasca si muove nel Museo: la cinepresa lo segue mentre ammira i cimeli degli esploratori italiani, documenti e mappe antiche che attestano la legittimità delle pretese ‚italianeʻ, quadri, plastici, armi. Si assiste a un continuo mescolarsi dei piani del discorso in favore della colonizzazione italiana: l’antica Roma viene evocata (attraverso plastici e modellini di antiche rovine) insieme agli esploratori italiani ottocenteschi e alle più recenti opere ingegneristiche (fotografie di ponti, strade, moschee, aziende e villaggi agricoli costruiti dal fascismo).

Se, come si è visto, la richiesta di restituzione del 1947 venne ignorata, il problema riemerse con più forza qualche anno dopo, nel 1955. In una documentazione declassificata solo nel 2015, Massimo Adolfo Vitale, direttore del Museo ed ex prefetto di Derna (prima del suo decadimento dalla mansione nel 1938 a causa delle leggi razziali),[60] attesta che nel 1955 il Museo ricevette dal governo libico una richiesta formale per la restituzione degli oggetti appartenuti ai „capi arabi della ribellione“, allegandone una lista di oggetti in cui comparivano anche gli occhiali e il portafoglio di Omar al-Mukhtar.[61] Il governo libico chiedeva così la restituzione delle „reliquie“ dei suoi „martiri“ anti-coloniali, si può forse immaginare con l’intenzione di esporle a sua volta. Nel documento Vitale segnala che il Ministro dell’Africa Italiana aveva informalmente accettato di restituire alcuni oggetti appartenenti a leader della resistenza alla Libia, ma che si attendevano disposizioni ufficiali.[62] A questo punto della vicenda la documentazione ministeriale si interrompe, e non vi è più menzione di tali oggetti nei seguenti fascicoli dell’ex Ministero dell’Africa Italiana.

Gli occhiali e il portafoglio di al-Mukhtar, del resto, risultano ancora oggi in possesso dello stato italiano, conservati presso il Museo delle Civiltà, nei cui depositi si conservano le collezioni dell’ex Museo Coloniale.

5 Copie e co-autorship nel contesto delle restituzioni post-coloniali

La vicenda degli occhiali di al-Mukhtar potrebbe terminare qui, come l’ennesimo caso di richiesta di restituzione ignorata da parte di un paese colonizzatore nei confronti dell’ex colonia, non fosse che un paio di occhiali, esibiti come gli occhiali autentici del leader libico, sono oggi esposti a Tripoli presso l’Assaraya Alhamra Museum. Il museo, situato nel „Castello Rosso“ sulla baia di Tripoli, ha il suo ingresso sulla celebre Piazza dei Martiri (ex Piazza Italia), ed ha anch’esso un legame profondo con il colonialismo italiano. Il Museo del Castello è stato infatti fondato nel 1919 dagli italiani,[63] che convertirono l’antico edificio nel primo grande museo di stampo europeo della Libia, con lo scopo di ospitarne alcuni degli innumerevoli reperti archeologici. Dopo il colpo di stato di Gheddafi nel 1969, venne aggiunta una nuova ala, chiamata della Jamāhīriyya, per documentare la lotta per l’indipendenza libica. La nuova sezione commemora infatti alcune tra le figure principali della resistenza libica, esponendo effetti personali, foto e scritti, tra gli altri, dei combattenti contro l’occupazione italiana Suleiman al-Barouni e Omar al-Mukhtar. Proprio qui sono esposti un paio di vecchi occhiali rotondi, presentati come appartenenti al condottiero dei Senussi. Gli occhiali sono esposti vicino a una fotografia dell’imam presentati, come una reliquia appartenuta al celebre combattente.

Tradizionalmente l’islam ha una ricca storia di venerazione delle reliquie, soprattutto di quelle attribuite al profeta Maometto;[64] del resto, a partire dal diciottesimo secolo l’esposizione di „oggetti biografici“ divenne parte fondamentale di molte esibizioni museali: Madame Tussaud, per esempio, fece pratica comune dell’esporre oggetti appartenuti a personaggi famosi, che riteneva utili per „autenticare“ le cere e dar loro credibilità.[65] Come risultato diretto del culte des grands hommes sviluppatosi proprio nel diciottesimo secolo oggetti, resti umani, capelli e ceneri appartenuti a importanti personalità della politica apparvero nei primi musei pubblici di Parigi durante la Rivoluzione.[66] Allo stesso modo il Museo di Tripoli espone gli oggetti (le reliquie) appartenuti ai capi (ai martiri) della rivolta anti-coloniale a supporto del progetto rivoluzionario di Gheddafi (e oggi della nuova Libia).[67]

La presenza degli occhiali nel Museo tripolino sembra dunque suggerire una „disconnessione“, più che una connessione:[68] gli occhiali del „martire“ non avrebbero mai abbandonato la Libia, non sarebbero mai stati sottratti e portati a Roma „in trionfo“, ma sarebbero conservati come una preziosa „reliquia“ nel „tempio laico“ della nazione libica.[69]

In un contesto di restituzione negata, l’ex paese colonizzato sembra voler riasserire la propria agency rivendicando l’autenticità degli occhiali in esposizione a Tripoli, di fatto non reiterando (almeno sino ad oggi) ulteriori richieste al governo italiano per il riottenimento degli oggetti appartenuti al combattente libico, e dunque confermando che gli occhiali originali sono quelli che si trovano in Libia, e non a Roma.

Gli occhiali, del resto, hanno un ruolo fondamentale anche nel già citato film del 1981 „Il leone del deserto“, diretto da Mustafa Akkad. Nel film, prima di riuscire a catturare l’imam, Rodolfo Graziani riesce a recuperare i suoi occhiali perduti durante uno degli ultimi scontri con gli italiani, pronunciando l’efficace battuta „Today we took Mukhtar’s glasses; tomorrow we will take his head.“ Nel finale, un bambino, che rappresenterebbe il giovane Gheddafi, raccoglie gli occhiali dell’imam dal patibolo,[70] venendo dunque presentato come l’erede politico di Omar al-Mukhtar: si tratta di un evidente anacronismo, poiché Gheddafi nacque soltanto dieci anni dopo l’esecuzione di al-Mukhtar. Tuttavia, Gheddafi ha affermato in più occasioni che l’imam era il suo eroe d’infanzia e che suo padre, Abu Minyar, aveva combattuto proprio sotto il comando di al-Mukhtar contro gli italiani. La scena dell’impiccagione, per come è rappresentata nel film, è particolarmente rilevante rispetto alla questione dell’autenticità degli occhiali: nel 2015, a sorpresa, un paio di occhiali presentati come appartenuti ad al-Mukhtar sono apparsi infatti sul mercato dell’antiquariato di Aleppo, in Siria. Secondo Mohamed Mohideen Enis Abu Omar, il proprietario e venditore, essi sono stati raccolti proprio dal patibolo di Suluq, dove il leader della resistenza libica è stato giustiziato, da un giovane studente poi rifugiatosi in Siria per sfuggire alla repressione italiana in Libia.[71] Ecco, dunque, la comparsa di un terzo paio di occhiali, in una serie di ‚apparizioniʻ che connette Aleppo a Roma e a Tripoli. Del resto, sostiene Stephen Greenblatt, gli oggetti con il loro movimento svelano „cultural connections between unexpected times and places“ in modo spesso sorprendente:[72] le connessioni, invece che venir meno, si moltiplicano.

Proprio come le reliquie sacre, anche le reliquie secolari contemporanee appaiono in luoghi inaspettati. Esse non vengono esposte soltanto per ciò che sono realmente: il reale valore di questi oggetti risiede nel loro potere di stabilire un legame con qualcosa di più grande (la nazione, la comunità dei fedeli, ecc.). La loro autenticità, dunque, passa in secondo piano nel momento in cui essi mantengono il loro significato agli occhi dei ‚credentiʻ. Del resto, la costruzione sociale del valore delle reliquie contempla il loro commercio, il loro movimento e politicizzazione:[73] si pensi, ad esempio, alle reliquie della „vera croce“ di Gesù possedute, esposte e rivendicate come autentiche da molte chiese e musei in tutto il mondo.[74]

Si è dunque notato come i (tanti) occhiali da vista di al-Mukhtar abbiano assunto un valore diverso e molteplice – sentimentale, economico, politico – a seconda di dove e come sono stati esposti, venendo ipersignificati. Nel Museo di Roma gli oggetti di al-Mukhtar erano esposti come trofei, insieme a teste di animali, tra i premi delle grandi battute di caccia alla selvaggina africana. Le stesse immagini della prigionia del condottiero libico suggeriscono questo tipo di riflessione: è ritratto in catene, in mezzo a ufficiali italiani che posano con lui, come si fa abitualmente con le prede di caccia.[75] Al contrario, il Museo di Tripoli è un santuario della storia libica, dove l’esposizione di ‚reliquieʻ incoraggia la devozione e la venerazione ‚religiosaʻ verso la storia del paese.

Se da un lato l’idea di autenticità degli occhiali non è un fattore secondario, e non soltanto relativamente alla loro eventuale vendita, ma perché associati all’idea di potere politico e di esserli riusciti a portare via ‚alla predaʻ come un trofeo, è anche vero che il loro potere simbolico trascende la loro stessa ‚biografiaʻ, tanto più quando essa risulta poco chiara.

Fig. 4 e 5: I portafogli di Al-Mukhtar.
Fig. 4 e 5: I portafogli di Al-Mukhtar.
Fig. 4 e 5:

I portafogli di Al-Mukhtar.

Nel corso della trattazione ci si è concentrati fin qui sugli occhiali, citando solo brevemente il portafoglio dell’imam libico. In realtà, persino all’interno delle stesse collezioni coloniali conservate a Roma, la questione dell’autenticità degli oggetti è messa in forte discussione: nei depositi sono infatti presenti due portafogli di al-Mukhtar. Non si conserva alcuna documentazione che spieghi come essi siano arrivati nelle collezioni del Museo Coloniale di Roma e perché siano due: i portafogli sono catalogati e numerati in sequenza (numero di inventario 9221 e 9222), quindi tutto fa pensare che siano arrivati al museo insieme (fig. 4 e 5); nient’altro, tuttavia, si conosce a riguardo. Lo stesso Museo Coloniale si presenta, dunque, come un luogo in cui la provenienza di oggetti dal grande valore simbolico (e, in alcuni casi, non soltanto) è tutt’altro che certa. Come gli occhiali, i portafogli assumono un significato solo nel momento in cui si attribuisce ad essi valore in quanto realmente appartenuti al resistente libico: se così non fosse sarebbero soltanto due portafogli malandati in pelle marrone conservati con grande attenzione (e correndo il rischio di tensioni diplomatiche) per quasi cento anni, per nessun motivo.

Nell’attuale panorama di riflessione e discussione circa l’esposizione di oggetti provenienti da contesti coloniali nei musei europei e sulle restituzioni e riparazioni ad essi connesse, la presente vicenda pone a studiosi e curatori numerose questioni: circa i problemi legati ‚all’autenticitàʻ nell’ambito dell’indagine sulla provenienza, della legittimità di disposizione dell’eventuale originale, della possibilità di impiegare restituzioni digitali e copie e della riflessione sulla co-autorship, riconoscendo che in ogni caso ciascuna copia o falso implica comunque una co-creazione.[76]

Se in alcuni contesti si è scelto di mostrare intere stanze vuote, sottolineando la mancanza degli oggetti non restituiti (si pensi al museo allestito nel 2009 ai piedi dell’Acropoli di Atene e lasciato simbolicamente vuoto o al Musée des civilisations noires di Dakar in attesa di oggetti che dovrebbero essere restituiti), la Libia ha rifiutato di „esporre l’assenza“ degli occhiali dell’imam-resistente, riaffermando i propri diritti sull’oggetto. In questo senso la vicenda degli occhiali di al-Mukhtar può aiutare, forse, a guardare con occhi nuovi (e meno paternalistici) alle relazioni post-coloniali e alle possibili azioni decoloniali legate al patrimonio materiale.[77]

Fonte delle illustrazioni

Fig. 1, 4 e 5: © Museo delle Civiltà, per gentile concessione.

Fig. 2 e 3: © Archivio Storico Istituto Luce, per gentile concessione.

About the author

Beatrice Falcucci

Juan de la Cierva fellow in History at the Departamento de Humanidades, Universitat Pompeu Fabra, Barcelona (2024 and 2025) and visiting research fellow at the Centre for the Study of Cultural Memory, School of Advanced Study, London (2024).

Published Online: 2024-11-22
Published in Print: 2024-11-18

© 2024 bei den Autorinnen und den Autoren, publiziert von De Gruyter.

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