Abstract
This article analyses the transimperial construction of political and cultural meanings related to the material legacies of the Fascist empire between Italy and Ethiopia. In doing so, it considers both the presence of a significant and active Italian community in the post-colonial context and the new relationships between the former invading and invaded countries. Starting from a reconstruction of the new diplomatic relations between Italy and Ethiopia with a specific focus on the connection between reparations, financial development aid and the restitution of certain spoils of war (such as the Axum obelisk and the Lion of Judah statue), this study seeks to reflect on the political and mnemonic significance of the empire’s material legacies. This significance was often mediated and shaped by liminal agents, in this case former settlers linked to the past but operating within the new post-colonial context. A representative example is provided by the life and work of the architect Arturo Mezzedimi. He arrived in Eritrea at the end of the Italian East Africa empire and in the decades that followed became a trusted collaborator of Emperor Haile Selassie, who commissioned from him major works including the municipal palace of Addis Ababa and the African Hall. The reconstruction of Mezzedimi’s activities, which also involved renovating old buildings and spaces related to the previous Fascist empire, will help us to understand not only the vicissitudes related to former colonizers remaining in the Horn of Africa but also the role of specific (post)colonial individuals in reinterpreting imperial spaces, objects, and infrastructure in the context of the new political relationships between Italy and Ethiopia.
Nel 1992, nella rivista „Studi Piacentini“ fondata da Angelo Del Boca, comparve un saggio intitolato „Hailé Selassié I: una testimonianza per la rivalutazione“. L’autore scriveva:
„[Haile Selassie] aveva per anni fatto intendere, per le normali vie diplomatiche, ai nostri governi, come un paese in via di sviluppo come l’Etiopia avesse la necessità di appoggiarsi, per organizzare il proprio sviluppo, ad uno Stato economicamente e tecnicamente solido, e che la sua scelta e il gradimento erano per l’Italia … ‚Je ne comprend pas vôtre gouvernement‘ andava intercalando con amarezza, sfumando il discorso anche su certe trattative per rivendicazioni non appagate, come quella che riguardava l’obelisco di Axum. In breve, mi invitava a vedere cosa avrei potuto fare personalmente in proposito, aggirando i normali canali, anche perché, lui, l’Imperatore, prima di morire, avrebbe voluto incontrare Giovanni XXIII, e non avrebbe potuto attuare questa aspirazione di andare a Roma, se non fosse stato invitato prima dal Governo italiano. Non potei, ovviamente, esimermi dal partire per l’Italia, per esporre e caldeggiare l’aspirazione di Hailé Selassié in vari incontri a livello adeguato.“[1]
Questo passaggio restituisce la complessità di alcune vicende legate alle eredità dell’impero fascista nel quadro delle nuove relazioni tra Italia ed Etiopia. Leggendo tra le righe, risulta chiaro che la risoluzione delle controversie legate all’occupazione fascista, basata sul trattato di Pace del 1947 ma di fatto concretizzata dopo un lungo percorso diplomatico conclusosi con l’accordo del 5 marzo 1956,[2] era lontana dall’essere ritenuta soddisfacente dalla parte africana. L’imperatore menziona l’inattuata restituzione dell’obelisco di Axum, il più famoso bottino di guerra trafugato dai fascisti nel 1937 e installato in piazza di Porta Capena a Roma, ma anche il fatto che egli si aspettasse un maggiore supporto, in termini di aiuti economico-tecnici, da parte dell’Italia. Secondo questo resoconto, Haile Selassie vedeva quindi nell’Italia – e negli italiani rimasti nel Corno d’Africa dopo la fine dell’impero – uno tra gli interlocutori privilegiati per i suoi progetti di modernizzazione.[3]
Haile Selassie si aspettava poi un invito ufficiale da parte del governo di Roma, e chiese un aiuto proprio all’autore dell’articolo, che prontamente partì per la capitale per intercedere affinché quell’aspirazione si realizzasse. Questo agente diplomatico informale, nonché autore della testimonianza che apparve su „Studi Piacentini“, è Arturo Mezzedimi, una figura per certi versi unica nel contesto post-coloniale italiano.[4] Mezzedimi, nato a Poggibonsi nel 1922, arrivò in Eritrea nel 1940 a seguito del padre; lo scoppio della guerra gli impedì di rientrare in Italia, e si diplomò architetto presso l’istituto tecnico Vittorio Bottego dell’Asmara. Una volta finito il conflitto, la sua prolifica attività professionale lo rese tra gli italiani più celebri nel Corno d’Africa. Haile Selassie gli commissionò alcuni lavori significativi, tra cui l’Africa Hall (sede dell’UNECA – United Nations Economic Commission for Africa e primo sito in cui si riunì l’Organizzazione dell’Unità Africana nel 1963) e il nuovo municipio di Addis Abeba; tra i due s’instaurò un legame di amicizia che trascendeva la relazione tra sovrano-committente ed esecutore.[5] Per questa ragione, Angelo Del Boca decise di affidare a Mezzedimi la stesura del ritratto di Haile Selassie sopra riportato, proprio nelle settimane successive al ritrovamento del corpo dell’imperatore.[6]
Il passaggio citato in apertura è significativo in quanto anticipa l’intreccio di tematiche trattate in questo contributo. L’intenzione è quella di triangolare alcune vicende legate alle eredità materiali dell’impero fascista tra Italia ed Etiopia, connettendole sia alla presenza di una comunità italiana attiva e significativa nel contesto post-coloniale, e sia ai nuovi rapporti politici ed economici tra ex paese invasore ed ex paese invaso. Partendo dalla ricostruzione delle nuove relazioni diplomatiche tra Italia ed Etiopia, e trattando in particolare i dibattiti che connetterono riparazioni, aiuti economici allo sviluppo e restituzione di alcuni bottini di guerra, si vorrà riflettere sulla costruzione di significati politici intorno alle memorie materiali dell’impero, costruzione spesso mediata da figure liminali legate al passato ma che operarono nel nuovo contesto post-coloniale. Lo studio dell’attività di Mezzedimi risulterà quindi utilissimo per comprendere non semplicemente le dinamiche legate agli ex coloni rimasti nel Corno d’Africa, ma anche il ruolo che alcuni soggetti giocarono nel risignificare spazi, oggetti e infrastrutture dell’impero nel contesto dei nuovi rapporti politici tra Italia ed Etiopia.
Il periodo di riferimento sarà quello tra la metà degli anni Cinquanta e la metà degli anni Settanta, cioè dalle trattative che portarono all’accordo italo-etiopico del 1956 fino alla caduta di Haile Selassie nel 1974. Periodo questo in cui la comunità italiana riarticolò la sua presenza e attività tra Eritrea ed Etiopia,[7] con dinamiche che invitano a ripensare le coordinate storiografiche per interpretare la fine del colonialismo italiano oltre le cesure politico-diplomatiche che segnarono la fine di quell’esperienza.[8] Ciò per diverse ragioni: innanzitutto per la continuità politico-amministrativa col precedente periodo che la British Military Administration adottò in Eritrea e in Somalia, che permise agli italiani rimasti di riorganizzarsi e giocare un ruolo significativo specialmente nell’ex ‚colonia primigenia‘.[9] Inoltre, lo sforzo diplomatico posto in essere dall’Italia per mantenere un ruolo in Libia, Eritrea, e Somalia nel dopoguerra inibì una valutazione critica rispetto alla precedente stagione espansionistica.[10] Collegate a questi elementi sono la mancata discontinuità nel personale chiamato a gestire le questioni ancora aperte in merito alla fine dell’impero, nonché la persistenza di un generalizzato sentimento colonialista che ha marcato l’atteggiamento verso la presenza italiana (passata e futura) in Africa.[11] L’intreccio di queste dinamiche – insieme politiche, sociali e culturali – ci permette così di complicare le cronologie, i poli geografici e le categorie storiografiche per interpretare la fine del colonialismo italiano e la nascita di nuove relazioni con le ex colonie nel contesto della Guerra Fredda.[12]
In questa zona di contatto, sospesa tra passato e futuro, presero forma le nuove relazioni tra Italia ed Etiopia, in un confronto che riguardò anche il valore simbolico e politico delle eredità materiali dell’impero, che verranno analizzate attraverso una lente transimperiale. Nato in ambito modernista, e di recente usato anche da storiche e storici contemporaneisti per studiare le vicende coloniali oltre entità geografiche, politiche e culturali chiaramente delimitate e delimitabili, questo approccio focalizza le mutue connessioni tra entità e soggetti imperiali (istituzionali, commerciali, culturali) differenti.[13] Espandendo questo paradigma da una mera interpretazione „spaziale“ delle interconnessioni tra imperi coevi, e aggiungendo una dimensione temporale, questa prospettiva ci aiuterà a descrivere come i lasciti di un impero ormai terminato (quello fascista) influenzarono la relazione che il vecchio centro metropolitano (in questo caso l’Italia del dopoguerra) instaurò con un’altra entità imperiale, ovvero l’Etiopia di Haile Selassie, che in quegli anni stringeva una forma di controllo per certi versi para-coloniale sull’Eritrea.[14] Analizzeremo così le connessioni materiali transimperiali mediate da soggetti e comunità (post)coloniali, in questo caso i coloni arrivati durante il fascismo che operarono anche successivamente, in quella che è stata una zona liminale di contatto politico, culturale e sociale.[15] Da un punto di vista metodologico, si useranno fonti di diversa natura (documenti archivistici, corrispondenze, materiali privati, pubblicistica), la cui lettura combinata andrà ad articolare, e per certi versi superare, la dicotomia tra cesure e permanenze tra colonialismo e la fase successiva. Questo perché l’analisi riguarderà non semplicemente le eredità dell’impero, ma i processi di significazione/risignificazione rispetto a quelle eredità, e alle figure ad esse legate, che avvennero nello spazio post-coloniale.
Le nuove relazioni Italia ed Etiopia tra riparazioni e restituzioni
Diverse dinamiche, solo in apparenza disconnesse, inficiarono la ristrutturazione delle relazioni tra Italia ed Etiopia. Da un punto di vista diplomatico, l’Italia post-bellica tentò di riaffermare una forma di rinnovata egemonia sulle colonie conquistate prima dell’occupazione fascista dell’Etiopia. Sforzo che mirava a preservare gli interessi economici soprattutto in Libia ed Eritrea – dove risiedevano significative comunità di italiani – ma che alla fine si rivelò vano, se si esclude la concessione dell’amministrazione fiduciaria della Somalia (1950–1960). Per uscire dallo stallo creatosi dopo la firma del trattato di pace del 1947 e dalla mancata approvazione del compromesso Bevin-Sforza,[16] nell’estate del 1949 l’Italia si dichiarò favorevole all’immediata indipendenza dell’Eritrea, foraggiando inoltre forme di associazionismo che peroravano questa causa anche nell’ex colonia.[17] Ciò provocò il risentimento dell’Etiopia, che mirava invece ad annettere l’Eritrea al suo territorio; l’intervento degli Stati Uniti fu decisivo nel prefigurare la soluzione federativa, varata nel 1952.[18] D’altra parte, le questioni aperte rimanevano tante: nella seconda metà degli anni Quaranta, mentre l’Italia era intenta a stipulare il trattato di pace, l’Etiopia di Haile Selassie poneva in campo uno sforzo diplomatico notevole al fine di avere giustizia per i crimini di guerra perpetrati dai vertici politici e militari fascisti durante gli anni dell’invasione italiana. Sforzo che alla fine fu infruttuoso per via della reticenza sia del governo nazionale, ma anche di Stati Uniti e soprattutto della Gran Bretagna, che operarono affinché i vertici fascisti coinvolti nelle violenze coloniali (citiamo, tra gli altri, Pietro Badoglio, Rodolfo Graziani, Alessandro Lessona) non subissero alcuna indagine dalla United Nations War Commission Crimes.[19]
Viste queste premesse, la ripresa delle relazioni diplomatiche fu lenta e difficoltosa. Questa iniziò sottotraccia attraverso l’azione di due figure come Giuliano Cora e Renato Piacentini, in passato funzionari coloniali e ora agenti di una possibile riconciliazione. L’avvicinamento venne sostanziato nei primi anni Cinquanta, dopo la visita del sottosegretario Giuseppe Brusasca (settembre 1951) che spianò la strada alle nuove relazioni diplomatiche (nel febbraio 1952).[20] Ciononostante, rimanevano da definire la concreta implementazione degli accordi sulle riparazioni, che includevano anche la restituzione di alcuni beni dal valore artistico e culturale significativo. Questa vertenza trovava la sua base giuridica nel trattato di Parigi, in cui si stabiliva che l’Italia avrebbe dovuto pagare 25 milioni di dollari in riparazioni,[21] imponendo poi la restituzione di „all works of art, religious objects, archives, and objects of historical value belonging to Ethiopia or its nationals and removed from Ethiopia to Italy since 3 October 1935“.[22]
Tra il 1951 e il 1952 ci furono diversi incontri, ma non si addivenì a una soluzione condivisa né sulle riparazioni di guerra, né sulle restituzioni. Questa arrivò diversi anni dopo, ovvero nel marzo del 1956, quando il governo italiano acconsentì a versare poco più di 16 milioni di dollari come „assistenza tecnica e finanziaria“ (e non come riparazioni di guerra); l’Etiopia contestualmente s’impegnò a usare quella cifra per appaltare a imprese italiane una grande diga sul fiume Awash e un cotonificio presso Bahar Dar. In questo modo, l’ammontare delle riparazioni per i danni causati dall’occupazione fascista veniva tramutato in una strategia di nuova espansione economica, che avrebbe dovuto favorire anche le imprese italiane ancora operanti nel Corno d’Africa.[23]
Steli (post)coloniali all’ombra della Guerra Fredda
Rimaneva aperta la questione legata alle restituzioni dei bottini di guerra e di alcuni oggetti significativi trafugati durante l’occupazione dell’Etiopia. Discorso questo complicato, in quanto andava a toccare la sensibilità della classe politica e anche di buona parte dell’opinione pubblica etiopica. Come osservato da Richard Pankhurst, le contingenze politiche ed economiche di fine anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta – ricordiamo l’inizio della guerra civile con l’Eritrea e la necessità di rafforzare la crescita economica e sociale – spinsero l’Etiopia a privilegiare gli aiuti economici allo sviluppo. Questa strategia era motivata dal pragmatismo politico, e non tanto dalla volontà di rinunciare a quei cimeli; la questione delle restituzioni fu posta in secondo piano, ma mai dimenticata. Anzi, essa fu usata strumentalmente in diversi incontri con delegazioni e rappresentanti diplomatici italiani.[24]

La stele di Axum a Roma (1960).
Da parte italiana permaneva invece una certa ritrosia a rinunciare a quei reperti, in particolare a quelli che facevano parte del panorama urbano di Roma, prima fra tutti la stele axumita posizionata davanti al Circo Massimo (vedi fig. 1), e il Leone di Giuda collocato in Piazza dei Cinquecento. Si temeva che „la scomparsa da Roma dell’obelisco di Axum [avrebbe potuto] far scattare in piedi i nazionalisti di mezza Italia come di fronte ad uno scandalo … Tutto sommato, la restituzione dell’obelisco si risolverebbe a tutto vantaggio di quella parte estremista degli italiani che già si dimostrarono i più spietati nemici dell’Abissinia e del suo imperatore“.[25]
La questione era potenzialmente divisiva all’interno del governo,[26] in quanto la restituzione della stele avrebbe significato ammettere la precedente usurpazione coloniale, discorso questo ancora ben lontano dall’essere accettato da buona parte della classe dirigente.[27] In maniera collegata, il timore che una possibile restituzione avrebbe indebolito la posizione dell’Italia nelle trattative per le riparazioni – ancora in corso nella seconda metà degli anni Cinquanta – era concreto. Ciò emerge chiaramente nelle parole di Gregorio Consiglio, direttore della rivista „Africa“ dell’Istituto Italo-Africano (l’ex Istituto Coloniale Italiano, ora posto sotto il controllo del ministero degli Esteri), che dalle pagine della sua testata si rivolse agli etiopici invitandoli a discutere dei cimeli di guerra con un atteggiamento „sgombro da passioni e [con] la mente rivolta a costruire un domani migliore più giusto e degno“. Consiglio chiedeva alla controparte africana di rinunciare in particolare alle richieste sull’obelisco, che secondo lui era „monumento di devozione ai defunti di un lontano paese cristiano, ora alta verso il cielo nella zona archeologica della cristianissima Roma“, aggiungendo
„che cosa, dunque, ha fatto sì che il Governo etiopico richieda all’Italia la restituzione della stele di Aksum, fra gli atti reciproci di buona volontà intesi a chiudere veramente il passato e ad aprire l’era nuova di pace, fiducia ed intima collaborazione? Riesce difficile comprenderlo; a meno che voi, amici etiopici, abbiate ingiustamente pensato che fu un atto inteso ad umiliarvi, e sia in voi l’intento d’infliggerci a vostra volta un’umiliazione riparatrice.“
Emerge con chiarezza un ragionamento pretestuoso e paternalista, che evita di prendere in considerazione il fatto che la stele fu trafugata dall’Italia durante una violenta occupazione militare, e che ora una sua possibile restituzione avrebbe inficiato l’inizio di un’era di „pace, fiducia ed intima collaborazione“.[28]
Se, da un lato, l’Italia mostrava evidente reticenza nell’accettare la restituzione della stele per non smuovere la coscienza critica rispetto al passato africano, l’Etiopia voleva invece riportare quel simbolo in patria per riarticolare la propria identità post-bellica intorno alla resistenza alla violenta occupazione fascista:[29] insieme alla vittoria di Adua (1896), la lotta contro l’occupazione italiana degli anni Trenta divenne un momento catartico e mitopoietico, da ricordare ed esaltare. In quest’ottica possiamo interpretare l’innalzamento di un imponente obelisco (alto circa 28 metri) commissionato nei primi anni Cinquanta dall’imperatore agli scultori jugoslavi Antun Augustinčić e Frano Kršinić. Posizionato al centro della piazza Yekatit 12 di Addis Abeba (vedi fig. 5),[30] il monumento fu inaugurato nel dicembre 1955 durante la visita di Josip Broz Tito.[31] Il fatto che i bassorilievi alla base della stele mostrassero „soldati italiani nell’atto di infierire su inermi abissini“ suscitò una certa attenzione e nervosismo negli ambienti governativi italiani, con la presidenza del Consiglio che a più riprese chiese notizie al ministero degli Esteri e a quello dell’Interno,[32] probabilmente per via del fatto che proprio in quelle settimane si stavano definendo i termini che avrebbero portato all’accordo tra Italia ed Etiopia del 1956.
Il dialogo metaforico tra le vicende di queste due steli (post)coloniali, ovvero la stele di Axum e il monumento ai caduti di Addis Abeba, esemplifica il ruolo complesso giocato dalle contingenze politiche globali nella definizione dei percorsi di memorializzazione del colonialismo e del fascismo attraverso i monumenti, e quindi della loro risignificazione post-coloniale. Dinamiche queste che trascendevano il rapporto dialettico tra ex colonia ed ex madrepatria, e che facevano invece riferimento a una nuova geografia transnazionale e trans-imperiale nel contesto della Global Cold War.[33] Questo perché l’installazione ad Addis Abeba della stele commissionata alla Jugoslavia testimoniava la volontà di costruire un monumento per commemorare le vittime del colonialismo fascista, martiri della nuova Etiopia che si rivolgeva a Tito per consolidare nuovi equilibri diplomatici.[34] È noto, infatti, che i due paesi furono tra i capofila del gruppo di Bandung e del terzomondismo. Inoltre, già nell’immediatezza della fine del conflitto mondiale, Tito appoggiò le rivendicazioni etiopiche sull’Eritrea, mentre Haile Selassie si schierò a favore della Jugoslavia nella vertenza su Trieste: entrambi i paesi erano creditori di riparazioni da parte dell’Italia, prefigurando così una sorta di alleanza transnazionale e terzomondista contro le eredità del fascismo.[35]
Com’è noto, la vertenza sull’obelisco di Axum fu sanata solo nei primi anni duemila, quando l’Italia acconsentì alla restituzione dopo il pubblico riconoscimento dei crimini italiani operata dal presidente Scalfaro nel 1997.[36] Tuttavia, già negli anni successivi all’accordo del 1956 ci furono diverse azioni intraprese dall’Etiopia per riottenere la stele e la statua del Leone di Giuda. Azioni queste sempre inserite in una trama politico-diplomatica complessa, in cui il passato rapporto coloniale veniva a volte rievocato, a volte dimenticato, a seconda delle contingenze e delle agende politiche delle parti. Esempio di questa dinamica variabile si ebbe nella seconda metà degli anni Sessanta quando, una volta partiti i primi progetti di cooperazione finanziati dall’accordo del 1956, Etiopia e Italia si trovarono a discutere di ulteriori aiuti allo sviluppo, riaprendo il tavolo sulle vertenze ancora aperte, ovvero la concreta restituzione dei citati bottini di guerra. Tema questo che venne menzionato prima nel 1963, quando il ministro del Commercio Estero Luigi Preti si recò ad Addis Abeba per siglare un secondo accordo di cooperazione economica e tecnica tra i due paesi.[37] Viaggio significativo questo, sia perché fu il primo di un ministro italiano in Etiopia dopo la fine dell’impero, e sia per l’importante somma versata dall’Italia come prestiti (14 milioni di dollari), superiore alle cifre versate all’Etiopia da altri paesi (USA, URSS, Jugoslavia).[38]
In quell’occasione si discusse di un tema particolarmente caro ad Haile Selassie, ovvero il suo viaggio ufficiale in Italia. Nei primi mesi del 1964 si giunse ad un accordo per realizzare la visita nel successivo settembre. Tuttavia, a causa della malattia del presidente italiano Antonio Segni, il soggiorno del sovrano saltò. L’invito fu formalmente riproposto nell’aprile del 1965; anche in questo caso si risolse con un nulla di fatto. Nella tarda estate del 1966, invece, si definirono ulteriori date per il soggiorno (tra il 21 e il 23 novembre 1966). Tuttavia, da parte etiopica, la visita rimaneva vincolata alla definizione del destino dell’obelisco di Axum; pure in questo caso, il viaggio saltò.[39] Le parti rimanevano distanti: il ministero degli Esteri italiano Amintore Fanfani, già nell’estate del 1965, auspicò „un compromesso in base al quale gli Etiopici rinuncerebbero all’Obelisco, in cambio della costruzione da parte nostra di una opera pubblica di rilievo“ del valore di trecento milioni di lire.[40]
Se, da un lato, la ritrosia italiana alla restituzione comprometteva la piena ripresa dei rapporti diplomatici rallentando l’organizzazione della visita dell’imperatore nella penisola, dall’altro è innegabile che le relazioni politiche e commerciali erano ripartite, e veniva riconosciuta da entrambe le parti l’importanza delle aziende gestite da italiani nello sviluppo dell’Etiopia. Controprova di ciò fu la positiva missione dell’Istituto per il Commercio Estero guidata dall’onorevole DC Mario Pedini nelle prime settimane del 1966.[41] A seguito di questa delegazione c’erano anche alcuni funzionari del ministero degli Esteri, che avevano il mandato di discutere, in maniera riservata, la questione di una possibile compensazione economica in cambio della restituzione dell’obelisco.[42] Il delegato della Farnesina, Cesare Pasquinelli, scrisse che il primo incontro con la controparte etiopica – formata dai ministri delle Finanze e degli Affari Esteri, dal governatore della Banca Nazionale d’Etiopia e dal viceministro dell’Industria e Commercio – fu abbastanza positivo, con le parti che illustrarono le loro posizioni in un clima di cordialità. Pasquinelli presentò la posizione di partenza italiana, consistente in un versamento da trecento milioni di lire da impiegare per la realizzazione di una „statua di Sua Maestà Imperiale a opera di uno dei migliori scultori italiani“, per l’edificazione di una scuola e della biblioteca nazionale ad Addis Abeba, nonché per contribuire alla realizzazione dell’aeroporto di Bahar Dar.[43] Dagli ambienti italiani filtrava la convinzione che si sarebbe potuti addivenire a una soluzione che avrebbe evitato la restituzione. Nell’incontro successivo, avvenuto due giorni dopo, Pasquinelli riscontrò invece un forte arroccamento, con gli etiopici che decisero di non volere più parlare della questione. Secondo il delegato italiano, ciò poteva imputarsi all’offerta (trecento milioni) ritenuta insufficiente, oppure più probabilmente al fatto che „gli etiopici hanno riscontrato recentemente un’inaspettata forte reattività dell’opinione pubblica sulla questione e preferiscono perciò rinviarla sine die, forse anche a dopo un’eventuale visita dell’imperatore“.[44]
La delicatezza della questione e l’irrigidimento della parte etiopica spinsero, nei mesi successivi, il ministro degli Esteri Fanfani a chiedere al Tesoro altri duecento milioni (da sommarsi agli originari trecento) da versare all’Etiopia per la costruzione di opere pubbliche in cambio della rinuncia alla riconsegna della stele.[45] La situazione appariva bloccata, e dalla Farnesina si decise di affidare la questione all’anziano Giuliano Cora,[46] che poteva far valere il suo rapporto privilegiato con l’imperatore. Anche lui si scontrò con l’intransigenza di alcuni ministri etiopici, che richiedevano fermamente la restituzione dei cimeli. La visita dell’imperatore fu riprogrammata – e infine avvenne – nel novembre 1970. Come gesto distensivo preparatorio a quell’evento, da Roma si acconsentì alla costituzione di una commissione tecnica per studiare gli aspetti legati alla rimozione, trasporto e re-installazione dell’obelisco nella valle delle steli di Axum. Inoltre, fu approvata la restituzione immediata della statua del Leone di Giuda (vedi fig. 2), che fu installato nella piazza antistante la stazione ferroviaria di Addis Abeba il 4 aprile 1969.[47] Simbolo questo che fu risparmiato dalla furia iconoclasta anti-imperiale del Derg, che nel 1974 spodestò Haile Selassie instaurando una violenta dittatura marxista, proprio in quanto la sua restituzione e reinstallazione richiamava il periodo dell’occupazione fascista e la resistenza vittoriosa dell’Etiopia.[48]

Il Leone di Giuda a Roma (1960).
Costruire l’utopia (post)coloniale: Haile Selassie e Arturo Mezzedimi alla fine dell’impero
Curiosamente, il basamento sul quale fu riposizionata la statua del Leone di Giuda, simbolo della dinastia imperiale ma anche della vittoriosa rivendicazione dell’Etiopia nei confronti del paese che trent’anni prima l’aveva invasa, fu progettato da un architetto italiano, ovvero Arturo Mezzedimi. Come accennato, nel dopoguerra egli riuscì ad affermarsi come tra i più prolifici architetti in attività nel Corno d’Africa.[49] Per questa ragione egli rappresentò una tra le figure più in vista della comunità italiana, o quantomeno di quella sezione della comunità che riarticolò una certa posizione privilegiata basata proprio sul precedente rapporto coloniale. Sebbene allo scoppio della guerra gran parte dei coloni italiani lasciò il Corno d’Africa, negli anni successivi chi rimase (tra le 20 000 e 30 000 persone nella sola Eritrea) beneficiò di una situazione tutto sommato favorevole: prima la British Military Administration che governava l’Eritrea si orientò verso il mantenimento di una continuità con la precedente amministrazione italiana.[50] Successivamente, Haile Selassie e i vertici dello stato etiopico protessero più o meno manifestamente alcune figure cardine dello sviluppo economico o dei servizi pubblici (acquedotti, viabilità, ospedali, edilizia), al fine di mantenere operative queste infrastrutture ma anche nell’ottica di non concedere agli inglesi eccessivo controllo sulla fragile economia postbellica del paese.[51]
La posizione dell’architetto italiano s’innestò così in un tessuto socio-economico legato al precedente periodo coloniale, soprattutto per quanto concerne l’Eritrea, ma che comunque andò ad assecondare le spinte modernizzatrici dell’imperatore. Seguendo la traiettoria della comunità italiana, che dalla seconda metà degli anni Cinquanta si spostò verso Addis Abeba anche a seguito delle tensioni legate alla guerra civile tra Etiopia ed Eritrea,[52] Mezzedimi spostò il baricentro della sua azione nella capitale imperiale, dove corroborò il rapporto stretto e confidenziale con l’imperatore, nato negli anni precedenti per alcune commissioni effettuate ad Asmara, Massaua e Assab.[53] In generale, imprenditori e famiglie che si spostarono verso Addis Abeba diedero un nuovo impulso all’economia, certamente incentivati dall’erogazione di crediti a tassi agevolati alle aziende straniere da parte del governo etiopico.[54] In questo contesto, l’architetto si affermò come principale figura imprenditoriale, attraverso la progettazione o ristrutturazione di edifici privati ma soprattutto grazie alle via via crescenti commissioni del Governo imperiale.[55] Attraverso questa prolifica attività, come accennato all’inizio, egli divenne anche una sorta di agente transimperiale di raccordo tra Italia ed Etiopia, sovente rappresentando gli interessi di gruppo sociale (gli ex coloni residenti nel Corno d’Africa) la cui omogeneità non era data per scontata ma forgiata dalla precedente esperienza di mobilità e colonizzazione.[56]
Nell’arco della sua prolifica carriera, Mezzedimi ristrutturò o progettò ex novo numerosissimi edifici sia su commissione privata che pubblica. Tra le ristrutturazioni, significative sono quelle di Piazza Italia all’Asmara (1949) e del cimitero militare degli „Eroi di Cheren“ (1966), istituito nei primissimi anni Cinquanta su iniziativa dei residenti italiani per onorare i caduti nell’omonima battaglia dell’inverno 1941.[57] Questi esempi, insieme ai numerosissimi interventi su abitazioni o edifici commerciali degli italiani, hanno una diretta connessione con il passato coloniale, che venne „ristrutturato“ materialmente ma anche metaforicamente per adattarsi al nuovo contesto,[58] riarticolando il suo ricordo e il suo portato emotivo: strategia questa che quindi agiva a livello transnazionale, sia nella ex madrepatria – con le numerose politiche di memoria legate a spazi pubblici, monumenti e sacrari dedicati al colonialismo – ma anche nello spazio post-coloniale (vedi fig. 3).[59]

Articolo apparso su „Il Giornale dell’Eritrea“ (1961) sulla nuova sede della Società Elettrica dell’Africa Orientale (istituita nel 1936).
La stragrande maggioranza dei lavori compiuti da Mezzedimi fu però su commissione pubblica, in particolare del governo etiopico, il cui fervore architettonico era parte integrante del più ampio disegno identitario, modernizzatore e panafricano di Haile Selassie.[60] Possiamo citare la progettazione o ristrutturazione di numerosissimi luoghi di culto (la moschea di Massaua del 1953, la significativa chiesa dell’Arca Santa ad Axum sempre del 1953, e la cappella della famiglia imperiale all’Asmara nel 1962), ma anche di numerose scuole e più in generale di edifici istituzionali, tra cui il palazzo della municipalità di Addis Abeba (1964) (fig. 4), quello del monopolio tabacchi (1968) e quello della Commercial Bank of Ethiopia (1968) sempre della capitale etiopica.[61]

Arturo Mezzedimi davanti a un modello della City Hall (1964).
Sia le citate ristrutturazioni, ma in particolare gli edifici e gli spazi progettati su commissioni statali, ebbero una rilevante risonanza mediatica. La stampa italiana raccontò l’attività di Mezzedimi in maniera coerente e strumentale alla più ampia esaltazione dell’operosità italiana all’estero, discorso questo che – nel caso delle ex colonie – andava ad omettere ogni revisione critica del passato coloniale e delle posizioni acquisite in virtù di quel rapporto sbilanciato. Franz Marino, tra le pagine di „Momento Sera“ scrisse che l’architetto
„a soli 37 anni ha già dato la paternità a 750 opere … Anche l’impresa di costruzioni è italiana. Il suo titolare è il più vecchio costruttore italiano dell’Eritrea. … il che dimostra da una parte che le capacità economiche dei nostri connazionali di Addis Abeba sono soddisfacenti, e dall’altra che la nostra comunità è animata da uno spirito di coesione, nel bisogno di stare insieme, di costruirsi in Etiopia un piccolo angolo d’Italia“.[62]
In un lungo reportage da Addis Abeba apparso nel „Corriere della Sera“ nel luglio 1964, il giornalista Gian Gaspare Napolitano (che fu inviato durante la guerra d’Etiopia, e che collaborò alla propaganda foto-cinematografica dell’Istituto Luce),[63] liquidò l’occupazione fascista con un riferimento al fatto che il primo piano regolatore della città fu „tracciato comunque sotto il Duca d’Aosta alla vigilia della guerra“,[64] rettificato da un architetto inglese e ora riadattato da Mezzedimi. Sempre per Napolitano, „in Etiopia siamo di casa. I sudditi di Haile Selassie non nutrono alcun rancore verso gli italiani. A conti fatti ci sono grati di essere stati i primi a spingerli sulla via del progresso“.[65] Narrazione questa simile a quella offerta da Max David, sempre dalle pagine del „Corriere“, qualche anno prima. Da un lato, egli parlò della nuova Addis Abeba e del ruolo di Mezzedimi, posto in continuità con il periodo precedente al fascismo, quando „noi che stavamo in Africa … eravamo sempre andati al caffè a braccetto con gli africani“. David, pur accusando le violenze e il razzismo fascista, interpretava queste ultime come una parentesi rispetto ai benefici che l’Italia avrebbe portato in Africa, benefici che ora riverberavano nell’opera modernizzatrice materializzata nelle opere di Mezzedimi. Anche per Carlo Schreiner in Africa il progresso oramai si avvertiva „nelle sue città che hanno tutte il segno del lavoro degli europei … e in questo nuovo mondo un posto onorevole hanno e continueranno ad averlo gli italiani“.[66] Da questi esempi deduciamo che la stampa italiana tratteggiò una sorta di utopia (post)coloniale, in cui l’operosità e il talento degli (ex) coloni erano posti a servizio dell’Etiopia indipendente. In altri termini, Mezzedimi e gli altri italiani progettavano ed erigevano spazi e infrastrutture per una modernità africana basata sul, e riconoscente per, il precedente rapporto coloniale.
Dal canto suo, la stampa etiopica menzionò sovente Mezzedimi quale professionista che dava forma alla carica modernizzatrice dell’imperatore.[67] Quest’ultimo, dimostrandosi benevolo verso gli stranieri, li includeva nella sua utopia panafricana che trovò il suo momento fondativo ad Addis Abeba, nell’African Hall progettata proprio dall’architetto di origini toscane. Fu questa la prima sede in cui si riunì l’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA, maggio 1963), nonché la sede permanente della UNECA (United Nations Economic Commission for Africa). Nel suo discorso inaugurale, l’imperatore descrisse il suo paese come
„long devoted to the cause of the progress and independence of the African peoples … proud of the role which she has played on this great continent during the centuries of her independence in furthering the cause of all African peoples. Africa Hall, which has been built at Our command to serve as headquarters of the ECA, stands as a permanent and inspiring symbol of the noble aspirations of the African people“.[68]

Ritaglio di giornale anonimo.
Per l’imperatore, l’Etiopia era la sede naturale per l’Organizzazione dell’Unione Africana; ciò per via dei secoli d’indipendenza, per la resistenza contro il colonialismo europeo, e per la multietnicità e multireligiosità della sua società.[69] In questa sorta di utopia pan-africana c’erano tuttavia delle zone d’ombra, legate al despotismo con cui l’imperatore governava il suo paese e reprimeva sia le richieste di maggiore partecipazione da parte dell’élite progressista al governo, sia quelle d’indipendenza dell’Eritrea, quest’ultima in parte basata sulla definizione territoriale e identitaria costruita durante il colonialismo italiano.[70] Inoltre, a un livello più generale, era innegabile che i detriti (politici, economici, materiali, culturali) dell’imperialismo fossero ancora presenti e influenzassero la configurazione delle società post-coloniali.[71] In questo senso, l’azione degli italiani rimasti in Africa come Mezzedimi avveniva in una zona grigia, uno spazio liminale in cui rimanevano ancora aperte questioni politiche, strutture economiche e controversie legate al colonialismo e alla sua memoria tra ex centro metropolitano ed ex colonia.
Italia si, Italia no. Materialità (post)coloniali e memorie dell’impero fascista tra Italia ed Etiopia
Questo ritaglio di giornale (vedi fig. 5), conservato nell’archivio familiare Mezzedimi senza ulteriori indicazioni, riassume in maniera dicotomica un giudizio sulla presenza italiana in Etiopia. Da un lato, si esalta l’azione di Mezzedimi e il suo progetto per il palazzo municipale di Addis Abeba; edificio questo costruito intorno all’imponente torre centrale, che richiamava „le torri civiche delle città toscane ma anche le torri littorie dell’architettura razionalista e gli obelischi della tradizione etiope“ visto che l’architetto – dopo aver visitato qualche anno prima la valle delle steli – decise di riprendere alcuni elementi axumiti „come motivo costruttivo“.[72] Se questa sapiente commistione di tradizioni e abilità architettoniche è stata ricondotta all’operosità e al genio italiano, nella foto accanto un’altra stele, quella commissionata alla Jugoslavia per ricordare le „‚atrocità‘ commesse in Etiopia dagli italiani“, rimanda al periodo più nefasto della presenza italiana nel Corno d’Africa, ovvero quello dell’invasione dell’Etiopia e del tracotante progetto imperiale fascista.
Da questo discorso iconografico abbastanza manicheo manca metaforicamente il terzo (obelisco) incomodo, ovvero la stele di Axum, che rimase ben salda a Roma fino al 2005. Le vicende legate a questo cimelio ricostruite in questo contributo hanno fatto riferimento non semplicemente alla complicata, e per certi versi contradditoria, fine dell’impero italiano, ma anche al riallacciarsi di relazioni politiche, economiche e culturali tra Italia e le ex colonie, all’interno di memorie e nostalgie mai del tutto sopite, e mai apertamente criticate. In questa zona d’ombra, la decolonizzazione è rimasta incompiuta, in quanto il precedente periodo coloniale non venne totalmente obliterato, ma usato selettivamente: da parte italiana, per legittimare una certa ritrosia a restituire i bottini di guerra, ma soprattutto per costruire la narrativa dell’operosità e del genio italiano operante in Africa; da parte etiopica, per fare leva su nuove narrazioni identitarie, ma anche per ottenere risorse estere per la modernizzazione. Emerge così la complessità di processi – e anche di ambiti analitici – non lineari, che vanno ben oltre la visione binaria che oppone oppressi e oppressori durante la fine degli imperi.[73] Questo poiché il passato imperiale è stato incessantemente riarticolato e ristrutturato a seconda delle contingenze storico-politiche, e ciò risulta ancora più evidente nel momento in cui si sono poste in connessione transnazionale le discussioni e le pratiche di riparazione/restituzione di cimeli – che avrebbero dovuto segnare il riconoscimento e la fine, quantomeno metaforica, dell’usurpazione coloniale – alle traiettorie (post)coloniali di soggetti operanti nelle ex colonie, di fatto eredi dell’impero e sovente agenti informali della nuova proiezione europea in Africa.
Fonte delle illustrazioni
Fig. 1–2: © Wikimediacommons.
Fig. 3–5: © Archivio Mezzedimi.
© 2024 bei den Autorinnen und den Autoren, publiziert von De Gruyter.
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