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Legislazione e prassi italiane in materia di beni culturali tra protezionismo e universalismo

Questioni aperte in materia di restituzione di oggetti sottratti nel periodo coloniale
  • Arianna Visconti

    Arianna Visconti, PhD in Italian and Comparative Criminal Law (2008), is Associate Professor of Criminal Law in the Università Cattolica del Sacro Cuore of Milan, where she teaches Economic Criminal Law and Law & the Arts.

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Veröffentlicht/Copyright: 22. November 2024
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Abstract

The article opens with a summary of the historical evolution of Italian cultural heritage law to facilitate a better understanding of the reasons underlying its eminently protectionist attitude. It then briefly discusses the factors giving rise to a recent – albeit fairly moderate – shift towards a more solidaristic approach to regulating cultural property, together with the remaining, and significant, legal obstacles to the restitution of objects unlawfully, or at any rate unethically, appropriated during times of colonial occupation. To this effect, two particularly significant cases (the Aksum stele and the Venus of Cyrene) are also briefly analysed. The paper concludes with a discussion of the road still ahead in comparison with the approach taken by other countries.

1 Breve storia della legislazione italiana dei beni culturali

Un’adeguata comprensione dell’assetto della legislazione italiana dei beni culturali, ivi inclusi gli ostacoli che essa può porre alla restituzione di oggetti acquisiti con modalità che, secondo gli standard contemporanei, risulterebbero illecite, o quanto meno eticamente discutibili, in particolare in relazione a res entrate nelle collezioni delle nostre istituzioni culturali in epoca coloniale, richiede preliminarmente una breve ricognizione dell’evoluzione storico-giuridica che ha portato al quadro normativo attuale.

Nel clima di rivalutazione dei lasciti culturali del passato tipico dell’Umanesimo e del Rinascimento, un ruolo di apripista nell’introduzione di prime forme di protezione giuridica strutturata di quello che oggi si suole definire ‚patrimonio culturale‘ spettò allo Stato Pontificio (non a caso, vista la concentrazione, ivi, di ricchezze storico-artistiche).[1] Già nel 1462, infatti, Pio II, con la bolla Cum almam nostra Urbem, introdusse un divieto legale di demolire o danneggiare qualsiasi edificio pubblico antico in assenza di specifica autorizzazione. Proibizione poi reiterata da Sisto IV con la bolla Cum provida del 1474, con cui veniva altresì proibita la spoliazione fraudolenta e l’alienazione di marmi e altri elementi antichi presenti nelle chiese dei territori pontifici. Nel Diciassettesimo secolo misure legislative analoghe iniziarono a essere adottate anche da altri Paesi, dentro e fuori[2] i confini della penisola. Qui furono soprattutto alcuni episodi ‚traumatici‘ – come l’aggressiva politica di acquisti condotta da Francesco I di Francia nella Firenze nel Sedicesimo secolo o la vendita, da parte di un impoverito Duca di Mantova e del Monferrato, del corpus principale della collezione Gonzaga a re Carlo I d’Inghilterra, nel 1627 – uniti ai crescenti appetiti manifestati dai collezionisti stranieri, a stimolare l’adozione di varie misure legislative a protezione del patrimonio artistico (anche contemporaneo) e antiquariale locale.[3] Così, ad esempio, nel 1602 il Granduca di Toscana emanò un decreto che incaricava l’Accademia del Disegno di esercitare il proprio controllo su tutte le esportazioni di opere d’arte da Firenze, e nel 1686 Papa Innocenzo XI promulgò il c. d. ‚Editto Altieri‘, che introdusse un divieto di esportazione di antichità e opere d’arte dallo Stato Pontificio in assenza di preventiva autorizzazione delle autorità.

Il peggio per gli Stati preunitari, tuttavia, doveva ancora venire. Le campagne napoleoniche segnarono infatti uno dei più grandi saccheggi del patrimonio storico-artistico, con la sistematica spoliazione di monumenti, chiese e musei dei territori sottomessi.[4] Depredazioni, per altro, per lo più ‚legalizzate‘ a posteriori nei trattati conclusi tra la Francia e i Paesi sconfitti, come ad esempio quello di Tolentino del 19 febbraio 1797.

Fu, per altro, proprio a seguito della sconfitta di Napoleone che si cominciarono ad affermare alcuni principi di diritto fondamentali per la tutela del patrimonio culturale in contesto bellico e di occupazione militare, in particolare divieto di saccheggio e obbligo di restituzione in caso di sua violazione.[5] Anche se il Congresso di Vienna non si occupò direttamente di tali questioni, infatti, le potenze vincitrici si astennero dal razziare le ricchezze storico-artistiche della Francia e agevolarono per quanto possibile la restituzione ai Paesi di origine delle opere loro sottratte. Risultato ottenuto, per lo Stato Pontificio, dalla nota missione di Antonio Canova in Francia, nel 1815, che portò anche, per un’avvertita esigenza di coerenza, alla di poco successiva restituzione all’università di Heidelberg, da parte di Pio VII, di una serie di manoscritti sottratti nel 1622, contribuendo così a confermare tali principi di diritto.[6] Ma la missione di Canova risulta interessante, per quanto qui rileva, anche perché nello stesso periodo questi, richiesto dal governo britannico di un parere circa l’opportunità o meno di acquisire i fregi del Partenone,[7] si espresse in favore dell’acquisto,[8] malgrado le voci fortemente critiche già all’epoca levatesi nel panorama culturale europeo.[9]

Considerato che la posizione della Grecia, sottoposta al dominio dell’Impero Ottomano (che consentì la rimozione), non era troppo dissimile da quella dei territori d’oltremare occupati dalle potenze europee a partire dal Quindicesimo secolo, l’episodio contribuisce a illustrare il progressivo delinearsi di un ‚doppio standard‘ in materia di tutela del patrimonio culturale. Negli stessi decenni in cui venivano gettate le basi di un diritto internazionale umanitario che includesse la proibizione di distruggere e saccheggiare le ricchezze storico-artistiche del nemico, infatti, la nascita e lo sviluppo degli studi ‚scientifici‘ antropologici ed etnografici, a loro volta alimentati dall’espansione coloniale, portarono alla costituzione di grandi collezioni (pubbliche e private) di manufatti ‚esotici‘, per lo più (ri)concettualizzati come objets d’art o come ‚curiosità‘, contribuendo a confinare l’applicabilità delle nascenti regole di jus in bello ai soli rapporti tra popoli ‚civilizzati‘.[10]

Giunti all’inizio del Diciannovesimo secolo, quasi tutti gli Stati preunitari che non lo avevano fatto in precedenza si dotarono di normative per la conservazione delle proprie ricchezze storico-artistiche,[11] anche in ragione delle crescenti pressioni esercitate da un turismo d’élite che vedeva nell’Italia un luogo d’elezione non solo per la formazione culturale dei giovani (il c. d. grand tour), ma anche per la costituzione di prestigiose collezioni d’arte e antiquariato.[12] Nel conseguente sforzo di contrastare l’impoverimento dell’eredità culturale italiana, un ruolo centrale fu giocato, ancora una volta, dallo Stato Pontificio, in particolare con il c. d. ‚Editto Pacca‘ del 1820.[13] Questo provvedimento viene ritenuto a buon diritto la prima disciplina organica del patrimonio culturale adottata da uno Stato italiano, dal momento che includeva disposizioni relative alla catalogazione delle opere (in mani sia pubbliche sia private) presenti sul territorio e al loro vincolo, compreso un procedimento di notifica attraverso il quale il singolo bene diveniva oggetto di tutela, nonché previsioni specifiche a protezione del patrimonio librario e archivistico, una disciplina piuttosto dettagliata degli scavi archeologici e disposizioni a tutela delle arti minori, il tutto presidiato da un apparato sanzionatorio piuttosto severo.

Dopo la proclamazione del Regno d’Italia, nel 1861, il percorso di ‚fusione‘ e razionalizzazione delle legislazioni preunitarie fu piuttosto lungo e tormentato, conoscendo anche alcune inversioni di tendenza (di impronta liberale) rispetto alle politiche vincolistiche preunitarie.[14] Tuttavia, il più tradizionale approccio ‚protezionistico‘, connaturato, come si è visto, alle origini delle prime disposizioni in materia, alla fine prevalse, con l’adozione, all’inizio del Novecento, dapprima della c. d. ‚legge Nasi‘ (legge 12 giugno 1902, n. 185), istitutiva, tra l’altro, di un catalogo nazionale dei „monumenti e degli oggetti d’arte e d’antichità“, e quindi della più sistematica ‚legge Rosadi‘ (legge 20 giugno 1909, n. 364). Nel frattempo, con legge 27 giugno 1907, n. 386, erano stati istituiti, quali uffici del Ministero dell’Istruzione, le Soprintendenze ai monumenti, le Soprintendenze agli scavi e ai musei archeologici e le Soprintendenze alle gallerie, ai musei medievali e moderni e agli oggetti d’arte (art. 1), impostando così un sistema di controllo e di amministrazione centrale e locale del patrimonio culturale che costituisce tutt’oggi, sia pure con una serie di modifiche intervenute nel frattempo,[15] la spina dorsale del modello italiano di tutela.

Entro la prima decade del Ventesimo secolo furono dunque stabiliti tutti i principali capisaldi dell’ordinamento italiano dei ‚beni culturali‘,[16] i quali avrebbero continuato a segnare, come si vedrà, seppur con modifiche e attualizzazioni, il perimetro della legislazione successiva.[17] In estrema sintesi, la legge n. 364/1909 conteneva una serie di previsioni in materia, tra l’altro, di inalienabilità dei beni culturali in proprietà pubblica o assimilata (art. 2), di proprietà pubblica ex lege di tutti i reperti archeologici, a prescindere dalla titolarità del fondo in cui avvenisse il ritrovamento (art. 15), e di controllo su, e limitazioni all’esportazione di, oggetti d’arte e di antichità (art. 8–10).

L’ascesa del Fascismo portò a un ulteriore rafforzamento della legislazione italiana dei beni culturali, ideologicamente connessa all’importanza, per il governo, del controllo sulla vita culturale del Paese e, in stretta correlazione, dell’esaltazione delle glorie passate in vista della costruzione di un’identità nazionale ‚forteʻ e funzionale alle ambizioni autoritarie e imperiali del regime.[18] L’intervento più incisivo fu rappresentato dall’adozione, nel 1939, delle c. d. ‚leggi Bottai‘, dedicate, rispettivamente, alla „tutela delle cose di interesse artistico o storico“ (legge 1° giugno 1939, n. 1089) e alla „protezione delle bellezze naturali“ (legge 29 giugno 1939, n. 1497). La nuova normativa, che nei propositi dei suoi ideatori voleva emanciparsi dall’approccio puramente conservativo della legislazione precedente, per assumere una veste più dinamica, di fatto mantenne fermi i capisaldi della legge n. 364/1909 e irrobustì ulteriormente il sistema sanzionatorio, ricorrendo prevalentemente a disposizioni di natura penale, senza per altro lesinare misure amministrative e civili.[19]

Questa legislazione sarebbe poi sopravvissuta per oltre cinquant’anni all’adozione della Costituzione Repubblicana che, all’art. 9, proclama il dovere dello Stato italiano di tutelare il „paesaggio“ e il „patrimonio storico e artistico“ della nazione (co. 2), collegato e funzionale a quello, positivo e dinamico, di „promuove[re] lo sviluppo della cultura“ (co. 1).[20] Le leggi Bottai rimasero infatti in vigore fino all’adozione, nel 1999, del Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali (D. lgs. 29 ottobre 1999, n. 490).[21] Per quel che concerne, specificamente, le disposizioni repressivo-penali, queste rimasero sostanzialmente inalterate (malgrado le molte critiche e reiterate richieste di riforma)[22] anche nel nuovo millennio, col passaggio al successivo Codice dei beni culturali e del paesaggio (D. lgs. 22 gennaio 2004, n. 42),[23] per altri aspetti certamente innovativo in confronto alla legislazione previgente.

Solo con gli interventi settoriali adottati nel 2009 e, ancor più, con la riforma del 2022 – la quale non è, per altro, intervenuta in alcun modo su impianto e disciplina amministrativa del Codice dei beni culturali – l’ordinamento italiano, principalmente sulla scorta di impulsi internazionali, ha finalmente conosciuto una svolta che, come si dirà, ne intacca l’impronta tradizionalmente ed esclusivamente ‚nazionalistica‘, per segnarne la (parziale) apertura a una disposizione maggiormente solidaristica e autenticamente ‚universalistica‘.[24]

2 L’ambivalente rapporto con le fonti internazionali e la lenta evoluzione dell’ordinamento italiano da un approccio nazionalistico a uno solidaristico

A confermare e consolidare l’approccio tradizionalmente protezionistico e nazionalistico dell’Italia alla tutela del patrimonio culturale intervennero del resto, nella prima metà del Novecento, non solo il crescente coinvolgimento del Paese nell’avventura coloniale (in cui la stessa archeologia giocò un ruolo importante nella creazione e nel consolidamento di una nuova identità ‚imperiale‘ italiana)[25] e il già richiamato avvento del regime fascista, ma anche ulteriori episodi e fenomeni di effettiva grave depauperazione delle ricchezze storico-artistiche del Paese.

Dal punto di vista storico, non si può sottovalutare l’impatto della Prima e, ancor più, della Seconda Guerra Mondiale. Già nel corso della Grande Guerra, infatti, si registrarono vaste e gravi perdite, legate sia alle operazioni militari, sia ai saccheggi operati tanto dalle truppe occupanti quanto, opportunisticamente, da criminali comuni.[26] Ma fu soprattutto il secondo conflitto mondiale a segnare una depredazione senza precedenti del patrimonio storico-artistico italiano, dopo l’8 settembre 1943, a opera dell’occupante tedesco. Centinaia di migliaia di opere d’arte, antichità, beni librari e altri beni di vario interesse culturale furono sistematicamente prelevati da musei e depositi, collezioni pubbliche e private, chiese e monumenti, ecc., e trasportati in Germania e in Austria.[27] Anche se molti furono restituiti alla fine delle ostilità, ricerca e recupero di ampie porzioni di questo immenso patrimonio trafugato rimangono in corso quasi ottant’anni dopo.[28]

È di tutta evidenza come tali drammatiche esperienze storiche non potessero che confermare e, anzi, rafforzare la percezione e autopercezione dell’Italia come ‚vittima eccellente‘ di depredazioni culturali. E analogo effetto non poteva e non può che avere il mai risolto problema del traffico illecito. Una stima accurata della sua portata è resa impossibile dalla tipica natura ‚sommersa‘ di questi reati, sempre difficili da scoprire,[29] ancor più in un Paese dal patrimonio culturale così enorme e così disseminato. Le statistiche criminali ufficiali pubblicate annualmente dal Comando dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale[30] documentano solo la proverbiale ‚punta dell’iceberg‘, ovvero quella frazione di reati di cui giunge notizia all’amministrazione della giustizia, e tuttavia rivelano una dimensione null’affatto trascurabile del fenomeno. Se poi si considerano le dimensioni quasi ‚industriali‘ di numerosi episodi venuti alla luce (tra i quali il più famoso rimane il c. d. ‚scandalo Medici‘),[31] in cui singoli intermediari internazionali sono stati colti in possesso di decine di migliaia di reperti illecitamente scavati ed esportati, risulta innegabile la perdurante vulnerabilità dell’Italia a gravissime forme di depauperamento ed ‚esportazione involontaria‘ del suo patrimonio culturale.

Il che ne spiega anche la storica propensione sia a partecipare attivamente alla negoziazione di, sia a ratificare con una certa sollecitudine, tutti i principali trattati internazionali finalizzati alla protezione del patrimonio culturale, dalla Convenzione dell’Aja del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato (ratificata con legge 7 febbraio 1958, n. 279),[32] fino alla recentissima Convenzione penale del Consiglio d’Europa (ratificata con legge 21 gennaio 2022, n. 6).[33]

Tuttavia, come ciascuno Stato implementi in concreto le Convenzioni di cui si rende parte può essere altrettanto indicativo della scelta di ratificare o meno. In particolare, le modalità di attuazione degli artt. 3 e 7(b)(i) della Convenzione UNESCO del 1970 sulla circolazione dei beni culturali[34] possono considerarsi una ‚cartina di tornasoleʻ dell’atteggiamento più o meno ‚solidaristico‘ o, al contrario, ‚nazionalistico‘ adottato dai vari Stati. Trascurando qui i problemi di adesione solo formale da parte di molti contraenti,[35] ci interessa soprattutto il confronto tra quei Paesi – come ad esempio Canada, Australia e, più recentemente, Francia e Germania – che hanno scelto, da subito o nel corso del tempo, di dotarsi di paralleli reati volti a prevenire e sanzionare, in egual misura, da un lato l’esportazione illecita (i. e., compiuta in violazione della normativa interna in materia di controlli e restrizioni all’uscita di beni culturali) e, dall’altro, l’importazione illecita (i. e. relativa a beni esportati in violazione della normativa vincolistica di altro Stato), e quelli che hanno invece introdotto o mantenuto solo disposizioni a contrasto dell’esportazione clandestina.[36] Tra questi rientra proprio l’Italia, malgrado abbia ratificato la convenzione in parola già nel 1975 (con la legge 30 ottobre, n. 873). Fino al 2022, infatti, il nostro Paese, da sempre attento a presidiare con sanzioni sia penali sia amministrative qualsiasi infrazione della disciplina dell’esportazione dei beni culturali,[37] è rimasto sostanzialmente sprovvisto di regole in materia di importazione (fuorché a tutela dell’importatore stesso).[38] Benché, all’atto pratico, le autorità italiane (a cominciare dai citati Carabinieri TPC) abbiano sempre garantito la massima collaborazione possibile alle richieste di indagine e recupero provenienti da altri Stati contraenti,[39] tale strutturazione formale dell’ordinamento interno segnala comunque, data la natura espressiva delle scelte normative (specie penali),[40] il lungo perdurare di un atteggiamento fortemente ‚autoreferenziale‘ da parte del nostro Paese.

Le prime, parziali incrinature si sono registrate all’inizio del nuovo millennio, a seguito della ratifica di ulteriori strumenti internazionali. Complice il più generale mutamento nell’atteggiamento della comunità degli Stati, sempre più preoccupata delle possibili interazioni tra traffico di beni culturali e forme di criminalità organizzata o terroristica, le pressioni per una più stringente e più uniforme regolamentazione, e per maggiori controlli non solo all’uscita, ma anche all’ingresso, di questi beni in ciascuno Stato hanno iniziato ad aumentare.[41]

Così, la legge 16 aprile 2009, n. 45, di ratifica e attuazione del Secondo Protocollo (adottato nel 1999) della citata convenzione dell’Aja,[42] ha non solo implicato l’introduzione di nuovi reati riferiti a offese al patrimonio culturale commesse nel corso di conflitti armati o missioni internazionali, ma ne ha previsto l’applicabilità ad aggressioni sia a beni (anche allogeni) presenti nel territorio dello Stato, sia a quelli situati in territorio estero (art. 6).[43] Nello stesso anno, la legge 23 ottobre, n. 157, di ratifica ed esecuzione della Convenzione UNESCO del 2001 sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo,[44] ha visto l’introduzione della prima fattispecie penale in materia di importazione mai conosciuta dall’ordinamento italiano, per quanto confinata a beni archeologici illecitamente recuperati in acque internazionali (art. 10, co. 7).[45]

Ma la vera svolta si è avuta con la legge 9 marzo 2022, n. 22 che, nel quadro di una complessiva riforma dei delitti contro il patrimonio culturale, mirante a rafforzare la tutela penale di quest’ultimo anche grazie alla valenza simbolica della loro ricollocazione all’interno del Codice penale,[46] ha introdotto un’inedita fattispecie di importazione illecita di beni culturali. Il nuovo art. 518 decies c. p., infatti, punisce l’introduzione nel territorio dello Stato di beni culturali provenienti da delitto (ovunque commesso), oppure frutto di ricerche archeologiche non autorizzate ai sensi della normativa del Paese di origine o anche semplicemente esportati in violazione della legislazione di tale Stato.[47] Nato dall’esigenza di dare attuazione agli impegni assunti con la ratifica della citata Convenzione CoE del 2017[48] e, contestualmente, agli obblighi derivanti dal recente Regolamento n. 880 del 2019 in materia di importazione nel territorio dell’Unione Europea di beni provenienti da Paesi terzi,[49] il nuovo reato, pur non parificando completamente, dal punto di vista del trattamento sanzionatorio, importazione ed esportazione illecite (la seconda delle quali risulta ancora punita, nel complesso, più severamente), segna indubbiamente un’importante svolta in senso ‚solidaristico‘ nel complessivo impianto della legislazione italiana dei beni culturali, estendendo l’ambito di tutela al patrimonio culturale di tutti i Paesi e segnando l’espresso e inequivoco riconoscimento del diritto di ciascuno Stato a disciplinare l’uscita di tali res dal proprio territorio e ottenere l’enforcement di tali regole dallo Stato italiano.

3 I beni culturali ‚acquisiti‘ nel periodo coloniale: i principali ostacoli giuridici (e non) alla loro restituzione

L’avventura coloniale italiana, benché più circoscritta e tardiva di quella degli altri Paesi europei, non fu meno sanguinosa,[50] e non ha mancato di lasciare un’eredità irrisolta nelle vie e nelle piazze delle nostre città, così come nelle collezioni delle nostre istituzioni culturali.[51] A differenza che in altri Paesi dalla lunga storia coloniale (in particolare Francia, Germania, Olanda e Belgio),[52] o comunque interessati fortemente dal commercio di beni coloniali (come la Svizzera),[53] tuttavia, il dibattito circa il se, quando e come „decolonizzare il patrimonio“[54] culturale italiano rimane per lo più ancora confinato a una cerchia di specialisti e non ha finora condotto a mettere in discussione quegli aspetti dell’attuale assetto normativo che pongono ostacoli all’eventuale volontà di restituire res acquisite in violazione di fondamentali principi giuridici o, quanto meno (considerato anche il principio di irretroattività che governa ogni ramo del diritto, incluso quello internazionale umanitario),[55] etici oggi comunemente riconosciuti.

Dal punto di vista dell’attuale ordinamento dei beni culturali, la restituzione di oggetti di provenienza ‚discutibile‘ entrati a far parte di collezioni pubbliche, o comunque in proprietà dello Stato, è resa problematica da alcune disposizioni di diritto pubblico interno,[56] che proveremo a illustrare qui brevemente anche attraverso gli emblematici casi relativi alla stele di Aksum[57] e alla c. d. ‚Venere di Cirene‘.[58] Va fin d’ora premesso, tuttavia, che questi stessi casi dimostrano come quelli legali non siano affatto gli unici (né i principali) ostacoli alla riparazione dei torti coloniali, e siano anzi a loro volta legati a problematiche più ampie, cui non si potrà in questa sede che limitarsi ad accennare.

Dal punto di vista degli ostacoli giuridici alla restituzione, quello principale è posto dalle regole in materia di inalienabilità dei beni culturali in proprietà pubblica.[59] Beni culturali immobili e raccolte di musei, pinacoteche, archivi e biblioteche appartenenti allo Stato, alle Regioni e agli altri enti pubblici territoriali, nonché singoli beni rientranti in dette raccolte, costituiscono il c. d. demanio culturale. Come tali non possono essere venduti, ceduti o altrimenti fatti oggetto di diritti reali a favore di terzi (art. 822 c.c.; artt. 53 e 54, co. 1 e co. 2, lett. c c.b.c.). Sono del pari, cautelativamente, inalienabili (art. 54, co. 2, lett. a c.b.c.) i singoli beni appartenenti allo Stato, alle Regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché a ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro (inclusi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti), purché opera di autore non più vivente e non risalenti a oltre settant’anni (cioè non qualificabili come ‚arte contemporanea‘), il cui interesse culturale non sia mai stato negativamente verificato ai sensi dell’art. 12 c.b.c. (essendo in tal caso l’interesse legislativamente presunto, e protetto, fino, appunto, a verifica negativa), e così pure gli archivi e i singoli documenti di altri enti e istituti pubblici (art. 54, co. 2, lett. c c.b.c.). Infine, va precisato che le cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo, sono ex lege proprietà dello Stato, rientrando, se immobili, nel demanio culturale, e se mobili, nel patrimonio indisponibile (art. 91 c.b.c.; artt. 822 e 826 c.c.).

Restituzioni puramente ‚funzionaliʻ, nella forma di prestiti e permessi di esportazione temporanei, sono, naturalmente, possibili,[60] ma, come è noto, raramente sono considerate ‚giuste‘ e soddisfacenti, in particolare dalla parte richiedente. Esistono, tuttavia, alcuni spiragli che già oggi possono consentire, seppur in specifiche e molto ristrette circostanze, la restituzione ‚piena‘ di un bene culturale – operazione che per definizione ne implica l’alienazione.

In primo luogo, anche laddove il bene sia in proprietà pubblica (o assimilata: enti senza fine di lucro), questo potrà essere ceduto ove una verifica amministrativa del suo rilievo culturale, ai sensi dell’art. 12 c.b.c., dia esito negativo. Nell’esercizio della discrezionalità tecnica che caratterizza la pubblica amministrazione in relazione ai provvedimenti di vincolo[61] è dunque possibile – per quanto, va detto, alquanto improbabile – che un oggetto coloniale, di valore culturale per la comunità d’origine, non sia inquadrato quale significativa „testimonianza avente valore di civiltà“ (art. 2, co. 2 c.b.c.) in relazione al patrimonio culturale nazionale. Poiché la res cesserebbe, a questo punto, di essere ‚bene culturale‘ in senso giuridico, la sua estromissione da tutte le disposizioni di tutela ne implicherebbe la piena alienabilità ai sensi dell’art. 54, co. 2, lett. a c.b.c.[62]

Inoltre, in relazione (ai beni immobili diversi da quelli elencati nell’art. 54 c.b.c. e) ai beni mobili in proprietà pubblica o assimilata il cui interesse culturale sia stato positivamente verificato (il che ne comporta il definitivo assoggettamento alle disposizioni legislative di tutela), è comunque possibile un’alienazione – e dunque, in ipotesi di beni coloniali, una restituzione alla comunità di origine – purché questa sia preventivamente autorizzata dal Ministero (il quale, nel caso, darà anche prescrizioni per l’adeguata conservazione della res). Tale autorizzazione è tuttavia concedibile solo a condizione che dall’alienazione non derivi danno alla conservazione e alla pubblica fruizione della res e che, ove il bene appartenga allo Stato, a una Regione o a un altro ente pubblico territoriale, questo non presenti interesse per le raccolte pubbliche (art. 56 c.b.c.).[63] Si tratta, all’evidenza, di un cumulo di condizioni alquanto stringente, che rende comunque difficoltosa – e quindi poco probabile – una restituzione per questa via.

Più agevole si presenta – almeno nel dettato normativo – la restituzione di oggetti coloniali ove l’Italia vi sia obbligata dal diritto internazionale, vuoi consuetudinario, vuoi in forza di accordi bilaterali o multilaterali. Secondo il disposto della Costituzione – che prevale, nella gerarchia delle fonti, su qualsiasi disposizione di legge ordinaria – „l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute“ (art. 10 Cost.) e la potestà legislativa dello Stato è subordinata agli „obblighi internazionali“ (art. 117, co. 1 Cost.). Ed è, in effetti, sugli obblighi assunti col Trattato di Pace del 1947[64] che si è fondata la restituzione all’Etiopia della stele di Aksum,[65] prelevata nel 1937, a seguito dell’occupazione di quel Paese nel corso della seconda guerra italo-etiopica, per essere collocata di fronte all’appena costituito Ministero per le Colonie.

Il fatto, tuttavia, che tale trattato prevedesse la restituzione „entro diciotto mesi“ dalla sua entrata in vigore di „tutte le opere d’arte, gli archivi e oggetti di valore religioso o storico appartenenti all’Etiopia od ai cittadini etiopici e portati dall’Etiopia in Italia dopo il 3 ottobre 1935“ (art. 37), e che siano invece occorsi sessant’anni e altri tre accordi[66] tra i due governi per arrivare all’effettiva ri-erezione dell’obelisco nel suo sito originario, nel 2008 (per non parlare della mancata restituzione di molti altri beni culturali sottratti all’Etiopia e oggetto del Trattato),[67] ben illustra i molteplici ostacoli extragiuridici – politici, culturali, sociali[68] – che possono porsi anche a fronte di una situazione legale semplice e lineare.

Ancor più emblematica è la vicenda della restituzione della statua di Venere (copia romana di un originale greco) rinvenuta da truppe italiane il Libia nel 1913, nel corso dell’occupazione militare della Cirenaica, e portata in Italia nel 1915, per essere poi esposta al Museo Nazionale Romano.[69] In questo caso la prima richiesta di restituzione fu presentata nel 1989, parecchi decenni dopo la perdita della colonia nordafricana. I negoziati culminarono, il 4 luglio 1998, in una dichiarazione congiunta con la quale l’Italia si impegnava alla restituzione di tutti i manoscritti, manufatti e reperti archeologici acquisiti durante e dopo la colonizzazione della Libia (previsione analoga sarebbe poi stata inserita nel Trattato di cooperazione siglato nel 2008 tra i due Paesi).[70] La statua fu individuata come bene da restituire dalla Commissione italo-libica nel dicembre 2000; il Ministero per i Beni e le Attività Culturali procedette quindi, con Decreto del 1° agosto 2002, a trasferire la Venere dal demanio al patrimonio (disponibile) dello Stato, „in vista del trasferimento della scultura presso gli istituti museali della Repubblica della Libia, ritenuta l’opportunità sotto il profilo scientifico e culturale di procedere ad una collocazione del reperto presso il contesto originario di appartenenza“. La scultura sarebbe però stata effettivamente restituita solo nell’agosto 2008, poiché il provvedimento fu impugnato presso gli organi di giustizia amministrativa da Italia Nostra, una delle principali associazioni di cittadini statutariamente dedicate alla tutela del patrimonio culturale nazionale. A risultare di interesse in questa sede sono sia le argomentazioni proposte dal ricorrente per contestare la legittimità della decisione di restituzione, sia quelle in base alle quali prima il Tribunale Amministrativo,[71] poi il Consiglio di Stato,[72] rigettando il ricorso, confermarono la validità del decreto.

Iniziando dalle obiezioni più squisitamente legali,[73] il ricorrente sosteneva che, essendo stata la Venere ritrovata in quello che all’epoca era territorio italiano, in base all’art. 15, co. 3 della legge 364/1909 (corrispondente all’attuale art. 91 c.b.c.)[74] essa era ex lege proprietà dello Stato, come tale inalienabile; inalienabilità, inoltre, in ogni caso derivante dal suo inserimento in una collezione museale pubblica. Per questo motivo, un semplice decreto ministeriale non sarebbe stato sufficiente per la sua sdemanializzazione, occorrendo, piuttosto, una fonte di rango equivalente a quella che ne sanciva l’inalienabilità, ossia un atto legislativo del Parlamento. Il Ministero, inoltre, non avrebbe in alcun caso potuto alienare la scultura sulla base di considerazioni diverse da un’assenza di interesse culturale, nel caso di specie non sostenuta, né sostenibile. Infine, il tipo di accordo siglato nel 1998 con la Libia non sarebbe stato idoneo a costituire fonte di obblighi di diritto internazionale, così risultando inadeguato a prevalere sulle disposizioni della legislazione nazionale che impedivano la restituzione del bene.

A sostegno della legittimità del provvedimento di restituzione, i giudici amministrativi hanno rilevato, tuttavia, che la statua non poteva essere entrata a far parte del demanio culturale in ragione del suo ritrovamento in ‚territorio italiano‘, dal momento che né la dichiarazione unilaterale italiana di annessione della cirenaica (Regio Decreto 5 novembre 1911, n. 1247), né il successivo Trattato di pace con l’Impero Ottomano del 18 ottobre 1912, segnarono l’effettivo conseguimento della sovranità italiana sulla Cirenaica, riconosciuta dalla comunità internazionale solo col Trattato di Losanna del 24 luglio 1923.[75] Si fa, anzi, rilevare come il trasferimento in Italia della Venere, che contravveniva alla tradizionale politica culturale di non decontestualizzazione, che privilegiava e privilegia il mantenimento dei reperti archeologici nel luogo di provenienza, fu un’eccezione motivata dalla necessità di preservarla dal rischio di distruzione nel periodo bellico.[76] In ogni caso, la dismissione di un bene culturale (indifferentemente dal demanio o dal patrimonio indisponibile dello Stato) è una possibilità prevista dalla legge, previa autorizzazione ministeriale, e l’art. 55 TU 1999 (oggi art. 56 c.b.c.)[77] va interpretato nel senso di consentire anche „destinazioni (pubbliche) diverse“ del bene culturale, „ove giustificate da esigenze di interesse generale e previste da adeguata fonte normativa“, tra cui „gli accordi internazionali di restituzione di cose di interesse culturale“.[78] Ad avviso del Tribunale Amministrativo, l’accordo siglato con la Libia nel 1998 avrebbe avuto carattere vincolante e sarebbe stato idoneo a fondare obblighi cogenti per l’Italia,[79] ma, in ogni caso, la restituzione sarebbe stata dovuta (anche) sulla base delle norme di diritto internazionale consuetudinario (sulla cui generale vigenza all’epoca dei fatti, per altro, i giudicanti non sembrano porsi domande)[80] che sanciscono un „principio di ricostituzione dei singoli patrimoni culturali (nazionali) prelevati in occasione di guerre terrestri“.[81] Principio che, evidenzia il Consiglio di Stato, discenderebbe direttamente „dalla combinazione di due principi di diritto internazionale generale“, ossia „il divieto di uso della forza nei rapporti di diritto internazionale“ e „il principio di autodeterminazione dei popoli“, dal momento che l’autodeterminazione include anche l’„identità culturale-territoriale“ di ciascun popolo e comporta „un obbligo di restituzione dei beni culturali in cui si materializza il contenuto ideale identitario violato“.[82]

Altrettanto significative, tuttavia, sono le argomentazioni meno giuridiche, e più ‚politico-culturali‘, sollevate dal ricorrente, le quali testimoniano della forte resistenza ancora diffusa nella società italiana ad affrontare in modo equilibrato e obiettivo le conseguenze del passato coloniale del Paese. Tra le obiezioni sollevate, infatti, vi è quella che „l’atto impugnato possa costituire un precedente che rischierebbe di depauperare il patrimonio artistico-archeologico nazionale“ e che non vi sarebbe stata, in realtà, alcuna esigenza di (ri)collocare la statua „presso il contesto culturale di appartenenza“, dal momento che tale contesto, per una copia romana di originale ellenistico, sarebbe „quello dell’arte europea piuttosto che dell’arte islamica“.[83] Obiezioni la cui superficialità è facile da evidenziare per i giudicanti – i quali, da un lato, evidenziano come l’eredità ellenistica e quella romana siano altrettanto parte della storia e della cultura libiche quanto quella islamica e, dall’altro, come la stessa Italia, proprio in quanto vittima di ripetute spoliazioni in periodo bellico, abbia tutto l’interesse ad adottare politiche coerenti in materia di recupero e restituzione di beni culturali illegittimamente sottratti[84] – ma che sono emblematiche, tra l’altro, dell’approccio ancora prevalentemente autoreferenziale e nazionalistico della società italiana al tema del patrimonio culturale.

4 Quali prospettive per il futuro?

Fattori sia culturali – la persistenza del mito degli „Italiani brava gente“[85] e la prevalente minimizzazione dell’impatto del colonialismo italiano sui popoli assoggettati, considerati anzi per lo più ‚beneficiari‘ dello sviluppo portato dalla breve e (asseritamente) benevola occupazione a opera del nostro Paese[86] – sia contingenti – la grave situazione di instabilità politica, quando non di aperto coinvolgimento in conflitti armati, in cui versano attualmente le ex colonie italiane – fanno mancare, nel nostro Paese, quelle pressioni esterne ed interne che hanno portato, a partire almeno dal 2018,[87] a un più rapido avanzamento del dibattito sulle restituzioni di beni culturali coloniali in altri Stati europei.

Benché qualche spiraglio di interesse da parte dell’opinione pubblica si sia manifestato negli ultimi anni,[88] i passi avanti sul fronte giuridico sono stati minimi. A seguito della ricostituzione, nel 2019, del Comitato per il recupero e la restituzione di beni culturali,[89] sono stati istituiti dapprima un Gruppo di lavoro per lo studio e la ricerca sui beni culturali sottratti in Italia agli ebrei tra il 1938 e il 1945,[90] e quindi, con un certo ritardo, un ulteriore Gruppo di lavoro per lo studio delle tematiche relative alle collezioni coloniali.[91] Si tratta, per altro, di organismi privi di fondi,[92] incaricati prevalentemente di attività di ricerca, e dotati di un ruolo consultivo non vincolante (e indiretto) nei confronti del Ministero della Cultura. Compito precipuo del Gruppo di lavoro sulle collezioni coloniali è infatti quello di proporre al Comitato per il recupero e la restituzione dei beni culturali „risposte scientifiche alle richieste di restituzione che giungono all’Italia“ con riguardo alle „collezioni coloniali“ (D. M. 365/2021, Preambolo), e più specificamente di „svolgere attività di ricognizione, ricerca, individuazione e studio delle collezioni coloniali“ (art. 1, co. 2), anche con il contributo di esperti esterni (art. 2, co. 1).

Malgrado ragioni di opportunità politica (non aliene alla stessa restituzione alla Libia della ‚Venere di Cirene‘)[93] abbiano anche in tempi recentissimi condotto a episodiche restituzioni di beni culturali a Paesi un tempo soggetti al dominio coloniale italiano – così nel caso del biposto Tsehay, primo aereo costruito in Etiopia, nel 1935, requisito dalle truppe italiane l’anno seguente, musealizzato dal 1941, e restituito nel gennaio 2024 in occasione del meeting conclusivo della conferenza italo-africana relativa al c. d. ‚Piano Mattei‘[94] – è un approccio sistematico e coerente al tema a mancare. Così, a oggi, in Italia non si è ancora neppure lontanamente ipotizzato di introdurre disposizioni legislative ad hoc per facilitare la restituzione di beni sottratti in epoca di dominazione coloniale, come invece sta avvenendo in Francia, il cui ordinamento pone problemi giuridici per molti aspetti affini.[95] Né appare all’orizzonte alcuna proposta di istituzione di commissioni o comitati dotati di risorse e poteri di indagine ben più adeguati e di un ruolo consultivo ‚forte‘ e pubblico, come è il caso, ad esempio, della recentemente costituita Commissione olandese per le collezioni coloniali.[96] Del resto, l’attuale clima politico, che vede un ritorno in auge di atteggiamenti più ampiamente protezionistici e nazionalistici, non pare particolarmente propizio allo sviluppo di proposte di legge in questo senso.

E tuttavia, per evitare le asperità e incertezze giuridiche di casi come quello della ‚Venere di Cirene‘, una riforma settoriale del Codice dei beni culturali, atta a predisporre più celeri e certi percorsi di valutazione e (ove fondate) soddisfacimento di eventuali, future richieste di restituzione da parte non solo dei Paesi già oggetto di dominazione coloniale italiana, ma di tutti quelli le cui vicende storiche abbiano portato al saccheggio di componenti della propria identità culturale poi ‚approdate‘ nelle nostre collezioni pubbliche,[97] appare necessaria tanto sul piano del rispetto, in senso ampio, dei diritti umani,[98] quanto del perseguimento, da parte dell’Italia, di una politica autenticamente coerente in materia di tutela del patrimonio culturale, che riconosca pari dignità alle richieste di restituzione avanzate dal nostro Paese e a quelle proposte da ogni altra comunità che sia stata vittima in passato di ingiuste spoliazioni.

About the author

Arianna Visconti PhD

Arianna Visconti, PhD in Italian and Comparative Criminal Law (2008), is Associate Professor of Criminal Law in the Università Cattolica del Sacro Cuore of Milan, where she teaches Economic Criminal Law and Law & the Arts.

Published Online: 2024-11-22
Published in Print: 2024-11-18

© 2024 bei den Autorinnen und den Autoren, publiziert von De Gruyter.

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Artikel in diesem Heft

  1. Titelseiten
  2. Jahresbericht des DHI Rom 2023
  3. Themenschwerpunkt The Material Legacies of Italian Colonialism/I lasciti materiali del colonialismo italiano herausgegeben von Bianca Gaudenzi
  4. Cultura materiale e memorie del colonialismo italiano dal secondo dopoguerra a oggi
  5. Memorie di pietra del colonialismo italiano
  6. Legislazione e prassi italiane in materia di beni culturali tra protezionismo e universalismo
  7. Monumental Artworks as Difficult Heritage
  8. „Italia si, Italia no“. Materialità transimperiali e soggetti (post)coloniali tra Italia ed Etiopia (1956–1974)
  9. Una ‚reliquia colonialeʻ
  10. Artikel
  11. „Actus Beneventus in filicissimus palatio“?
  12. Annone di Colonia, Enrico IV e Anselmo III da Rho
  13. Motivazioni politiche e contesto sociale
  14. Signori e signorie nella Sicilia normanna
  15. Processi pontifici in partibus. La giurisdizione papale delegata nel XIII secolo: alcuni casi in Puglia
  16. Wofür und auf welche Weise Herzog Magnus II. von Mecklenburg 1487 von Papst Innozenz VIII. die Goldene Rose erhielt
  17. Una spia portoghese e la crociata all’indomani di Lepanto
  18. Die Korrespondenz des Kardinalnepoten Francesco Barberini mit P. Alessandro d’Ales, seinem Agenten am Kaiserhof (1634–1635)
  19. Konkurrenz um das kulturelle Gedächtnis?
  20. Il fascismo recensito
  21. Il rischio dei ‚Giusti‘
  22. „Die Steine zum Sprechen bringen“
  23. L’espansione del quadrante occidentale della Capitale negli anni Cinquanta e il complesso architettonico della Congregazione di Santa Croce oggi Istituto Storico Germanico di Roma
  24. Fantasma totalitario e democrazia blindata
  25. Per un catalogo delle opere di Luigi Nono, con „pochi dati e alcune idee vagabonde sulla diversa natura della ‚tradizione‘ delle opere di Nono in quanto ‚testo‘“ e una cronologia
  26. Forschungsberichte
  27. L’identità dello Stato beneventano
  28. Dall’edizione cartacea alla pubblicazione su piattaforma
  29. Tagungen des Instituts
  30. Administration in Times of Crisis. The Roman Papacy in the Great Western Schism
  31. Apparati, tecniche, oggetti dell’agire diplomatico (secc. XIV–XIX)
  32. Nuove prospettive di ricerca su stato di eccezione e di emergenza. Un dialogo italo-tedesco
  33. (De)Constructing Europe. Tensions of Europeanization
  34. Circolo Medievistico Romano
  35. Circolo Medievistico Romano 2023
  36. Rezensionen
  37. Verzeichnis der Rezensionen
  38. Leitrezensionen
  39. Ist das „Mittelalter“ am Ende?
  40. L’Italia dal Settecento a oggi: un Sonderweg?
  41. 1820 – Eine Weltkrise der politischen Souveränität?
  42. Allgemein, Mittelalter, Frühe Neuzeit, 19.–21. Jahrhundert
  43. Erratum to: Antonio Mursia, Signori e signorie nella Sicilia normanna. Due pergamene inedite sui Perollo di Gagliano (1142–1176)
  44. Verzeichnis der Rezensentinnen und Rezensenten
  45. Register der in den Rezensionen genannten Autorinnen und Autoren
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