Allgemein, Mittelalter, Frühe Neuzeit, 19.–21. Jahrhundert
Adriana Valerio, Eretiche. Donne che riflettono, osano, resistono, Bologna (Il Mulino) 2022 (Intersezioni 576), 154 S., ISBN 978-88-15-29573-6, € 14.
Studiosa prolifica e sempre attenta a rivolgersi a un pubblico più ampio di lettori e lettrici, Valerio ha dedicato saggi molto importanti a esaminare il rapporto tra donne e fede. Con „Eretiche“ entra in un ambito ancora poco frequentato se non per casi singoli, quello delle donne che si allontanarono dall’ortodossia o che tali furono percepite a causa o per merito dei loro appelli e delle critiche che rivolsero alla Chiesa più o meno esplicitamente. Nonostante la storia delle donne e i Gender studies siano in voga da diversi decenni, ancora poco spazio è stato riservato a una sintesi sul tema. In sei capitoli, Valerio dipana il filo di due millenni di storia del cristianesimo, facendo delle scelte oculate e senza perdere di rigore. Come chiarisce sin dall’inizio, preliminare all’analisi è la definizione di eresia, per cui torna a ribadirne l’etimologia neutra (scelta) e a porre in evidenza la sua progressiva trasformazione in termine con forte valenza negativa. Particolarmente apprezzabile è l’attenzione scrupolosa a indicare, nell’apparato erudito, pregevoli contributi di studiose autorevoli per dare voce e visibilità a una rilevante parte del mondo accademico che sembra ancora silenzioso o quantomeno non centrale. Si tratta di una scelta non ostentata o fanatica, che persegue il fine di rendere più evidenti studi di solito meno citati e letti. Senza forzare l’indagine, Valerio illumina zone d’ombra in cui la presenza femminile ha conquistato spazio e molti dei nomi di donne cui dedica spazio riaffiorano alla memoria perché non sono affatto ignoti, ma solamente relegati al margine. Una delle cause di questa marginalità dipende dalle fonti, molte delle quali sono inquisitoriali o giudiziarie, e come tali manipolate. Il caso di Guglielma di Milano si basa sul processo inquisitoriale che si svolse più di venti anni dopo la sua morte, nel 1300. Donna di elevata estrazione sociale, Guglielma radunò intorno a sé una comunità dei figli dello Spirito Santo che reclamava una profonda rigenerazione della Chiesa. Venerata come santa in vita, fu poi processata come eretica post mortem con la sentenza di rogo del suo corpo per evitare che fosse poi venerato. Eppure, la memoria di Guglielma non fu cancellata, e la sua esperienza e il suo caso resero evidente la possibilità che lo Spirito santo albergasse persino in un corpo femminile. Così Domenica da Paradiso, seguace di Savonarola, rappresenta un altro caso interessante per il seguito che ebbe. In età moderna „nessuna donna inquisita fu considerata iniziatrice di un movimento ereticale“ (p. 85): l’inquisizione spagnola si occupò di alcune alumbradas dal 1524 e la capacità del movimento alumbrado di conquistare le donne risultò evidente nel cenacolo di Juan de Valdés a Napoli, a cui parteciparono Giulia Gonzaga, Costanza d’Avalos e altre. Valerio segue diverse figure di donne che non si limitarono a raccogliere il messaggio di altri, ma che si impegnarono attivamente nella diffusione e nel proselitismo, e altre che furono loro stesse messaggere e profetesse. Nel frattempo la sorveglianza inquisitoriale si estese e coinvolse ogni aspetto della vita e così donne accusate di santità simulata, di stregoneria, di misticismo, ingrossarono le fila del sospetto e talvolta diventarono vittima della persecuzione giudiziaria. Nonostante questa pressione, la resistenza e la consapevolezza di non essere nell’errore incoraggiarono molte a cambiare le cose, senza però rompere con l’istituzione nel tentativo di modificarla. Così nel 1869 nell’anticoncilio di Giuseppe Ricciardi, temi di riforma religiosa accompagnarono l’istanza di emancipazione femminile e molte furono le prese di posizione in favore di una lettura alternativa delle Scritture in grado di rompere la legittimazione della subordinazione delle donne. Valerio segue il percorso fino agli anni più recenti con il caso delle ordinazioni di donne e l’appello a Giovanni Paolo II contro le decisioni del cardinale Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, dal 1965 erede dell’inquisizione. La studiosa conclude con una perentoria constatazione: „queste donne non accettano più di essere oggetto di riflessioni o di decisioni da parte del magistero, unico garante di verità e di ortodossia, ma, in opposizione, affermano di essere soggetti della propria vita di fede, di voler cambiare i canoni interpretativi aprendo le dottrine codificate a nuove prospettive“ (p. 142). Pur con un taglio divulgativo e uno sguardo di sintesi, la studiosa offre un quadro chiaro e suggestivo con interessanti spunti di ricerca.+TABRE+Michaela Valente
Vinni Lucherini/Tanja Michalsky/Diego Carnevale (Eds.), Writing on Tombs in Medieval and Early Modern Times, Roma (Viella) 2023 (Quaderni napoletani di storia dell’arte medievale 7) 352 pp., fig., ISBN 978-88-3313-864-0, € 52,25.
The title of this collection of essays is somewhat misleading: writing about tombs would have been more accurate, since the aspect of actually writing on tombs is hardly discussed. That is unfortunate, as it would be an asset to learn more about the artists or specialists who carved the actual inscriptions on tombs, their ways of working and the interaction with the authors of the texts to be carved. It would also have been interesting to explore other things written on tombs, such as graffiti, as can be seen on Gerard Houckgeest’s 1651 painting (The Hague, Mauritshuis) of William the Silent’s tomb in Delft. Most of the essays discuss historical texts that have been written about or relating to tomb monuments, such as descriptions, wills, testaments, liturgical documents, etc. They cover tombs in a wide range of places and time periods, from Britain to Central Europe and North Germany to Naples, from Carolingian times into the 18th century. The papers have been written in four different languages (Italian, German, English and French), some supplying Latin texts with but others without translation. Although all articles are worth reading, they are quite different in scope and character. Some focus on one tomb or text and are more descriptive than analytic (Carlo Ebanista, „Il sepolcro di Tommaso del Giudice nella basilica di San Felice a Cimitile“; Valerio Sanzotta, „Da Mantova a Roma. Il Capitulum epythaphiorum di Ramo Ramedelli“; Fulvio Delle Donne, „Narrazioni sulla sepoltura di Federico II di Svevia“), others offer broad views without many details (Pál Lövei, „Verses and Fragments. Some Inscriptions on Medieval Funerary Monuments in Hungary“). Altogether, it is hard to see a connecting thread. Unfortunately, the „Introduction“ does not offer much help. It ‚explains‘ that the title of the volume refers to „all kind (sic) of texts involved in the making of a tomb“ (p. 9) and proceeds to summarize the contributions in the order they have been included in the volume, suggesting some interrelationship or development. However, it discusses (p. 13) the contribution by Ondřej Jakubec on „Textual Communication on Sepulchral Monuments in 16th and 17th Century Central Europe“ as belonging to text section 4 („Epigraphical Practices of Writing on Tombs“), while it has ended up in text section 5 („Customs about Death in Modern Europe“, pp. 293–316), obscuring the connecting thread even more. The volume opens with a contribution by Ingo Herklotz („Warum es Grabmonumente nicht geben sollte. Eine Denkfigur der Moralität“) that thoroughly discusses the arguments of church fathers and later Christian writers to reject the ongoing practice of erecting expensive tomb monuments. According to them, what really matters is not earthly pomposity, but eternal heavenly bliss, which only a devoted Christian life can secure. The author might have pointed out more explicitly that not everyone honored with a (pompous) tomb monument had left wishes or instructions for it and that some may even have been buried in it against their will, as for instance Pope Adrian VI (died in 1523 and buried in St Peter’s, Rome; re-buried in 1533 in a large tomb monument in S. Maria dell’Anima, Rome) or Pope Nicholas IV, buried under a modest floor slab in S. Maria Maggiore, Rome, in 1292, and reburied in the 1570s in the same church under a big tomb monument, which makes one wonder if it is not rather a cenotaph. In other words: the pomposity of a tomb monument says more about the bereaved than about the deceased, unless, of course, the deceased had it erected while he or she was still alive. Vanessa Harding’s „Politics, Confession, and Monumental Inscriptions in Early Modern London“ discusses how after the conversion to Protestantism, when belief in Purgatory was subsiding, epitaphs in England no longer urged readers to pray for the soul of the deceased, leading to the question of what to write on a tomb when it only serves for commemoration. She suggests that this may have led to increasing attention to the descent, titles and accomplishments of the departed. However, contemporary epitaphs in Roman Catholic countries do not show any less restraint when it comes to listing similar items, so (fading) belief in Purgatory may not have been much of a relevant factor. In fact, Manuela Gianandrea, in her contribution „Changes of Pace in the Narrative on ‚Medievalʻ Tombs in Rome“, notices already in Medieval papal epitaphs a tendency to increasingly celebrate the deeds and achievements of the deceased pontiffs. Manuela Studer-Karlen („Mittelalterliche und neuzeitliche Grabinschriften auf frühchristlichen Sarkophagen“) and Elisabetta Scirocco („Riscrivere sulla tomba. Il ruolo dell’epigrafia nel riuso sepolcrale a Napoli“, a very well documented contribution), although writing about different time periods, both explore the interesting issue of the re-use of sarcophagi and tomb monuments, involving the replacement (and supplementation) of their original inscriptions. In conclusion, the individual contributions offer a wide range of interesting material, often on little studied texts or tomb monuments. Unfortunately, there is not all that much coherence, which may result in scholars hardly reading this volume in its entirety, using it only for the specific paper they are looking for. I use the word ‚scholars‘ on purpose, as the content of the volume is clearly meant for specialists in the field. This and the use of four different languages (five if one adds the untranslated texts in Latin) will regrettably make that the volume is at best only partly accessible for a wider public of students and generally interested readers.+TABRE+Jan L. de Jong
Jacopo De Santis, Santa Maria in Traspontina. La vita di una comunità carmelitana attraverso le carte d’archivio. Inventario del fondo, Roma (Edizioni Carmelitane) 2023 (Subsidia Archivi Carmelitanum 1), 289 S., ISBN 978-88-7288-217-7, € 28.
Lange Zeit im engen Gassengewirr des Borgo versteckt, kam die römische Titelkirche Santa Maria in Traspontina erst mit dem Bau der Via della Conciliazione in den 30er Jahren des 20. Jh. zur Geltung. Das, was einst hinter und zwischen anderen Gebäuden verborgen gewesen war, säumte nun plötzlich den Rand der repräsentativen Straße, die von der Engelsburg zur Peterskirche führte. Der Grundstein wurde 1566 gelegt. Geweiht 1587, vollendet 1668, gilt Santa Maria in Traspontina als Musterbeispiel eines gelungenen Renaissancebaus. Er ersetzte eine ältere, aus dem 12. Jh. stammende und sehr viel näher an der Engelsburg gelegene Kirche, die, den Karmelitern von Innozenz VIII. 1484 übertragen, ein Opfer der Stadtplanungen Piusʼ IV. und Piusʼ V. wurde. Der Papst entschädigte die in bzw. an der Kirche ansässigen Karmeliter mit einem Neubau an der heutigen Stelle. In der Stadt Rom waren Karmeliter seit der Mitte des 13. Jh. präsent, zunächst in San Giuliano ai Trofei di Mario und ab 1299 auch in der Basilika Santi Silvestro e Martino ai Monti. Man befand sich damit in vergleichsweise peripherer Lage, weitab vom kirchlichen Entscheidungszentrum. Die Vorzüge des idealen Standorts der Traspontina mit den kurzen Wegen hin zum Vatikan lagen auf der Hand. Der erste Generalprior, der im dortigen Konvent seinen Sitz nahm, war Pierre Terrasse (1503–1511). Vor allem im 16. und 17. Jh. war der Karmeliterkonvent als „importante centro di predicazione, in particolar modo durante la Quaresima“ (S. 30) bekannt. Zu keinem Zeitpunkt war der Konvent größer als im Jahr 1750, als sich 62 Brüder in den Chorstallen drängten. Stark war stets das Bruderschaftselement vertreten – von einer 1509 gegründeten Sakramentsbruderschaft über eine Compagnia dei Bombardieri, zu der die in der Engelsburg stationierten Soldaten gehörten (1594), bis hin zu Bruderschaften, die sich der Kultpromotion herausragender karmelitischer Heiliger wie Albert von Trapani widmeten. An der Spitze des kirchlichen Lebens stand freilich der Marienkult, verdichtet in der Ikone der Madonna del Carmine, die von Karmelitern aus dem Hl. Land selbst mitgebracht und ursprünglich vom Evangelisten Lukas gemalt worden sein soll. 1873 wurde der Konvent Eigentum der Republik und in eine Kaserne umgewandelt. Lediglich einige wenige Räume wurden dem Pfarrer und dem Generalprior zugewiesen. Letzterer konnte 1903 den Neubau des heutigen Collegio Sant’Alberto beziehen. Vorliegender Bd. ist der erste einer neu gegründeten Reihe, „Subsidia Archivi Carmelitarum“, die es sich zur Aufgabe macht, das in reicher Fülle vorhandene Archiv- und Bibliotheksmaterial der Karmeliter zum Sprechen zu bringen, sei es in Form von Inventaren oder (ganz klassisch) in monographischer Form mit spezifisch historischer Fragestellung. Jacopo De Santis, der Vf. des Bd., verschränkt beide Aspekte miteinander, wenn er zunächst das, was über Kirche, Konvent und Archiv insbesondere hinsichtlich des Hineinwirkens in die Stadt bekannt ist, knapp zusammenfasst, um danach ein Inventar des Fondo „Santa Maria in Traspontina“ vorzulegen. Dieser Bestand, der sich auf die Kommunität und die Pfarrei bezieht, befindet sich heute im Generalarchiv des Ordens. Nicht immer lässt sich dabei klar zwischen dem trennen, was Angelegenheit des Konvents bzw. der Pfarrei und Angelegenheit des Generalpriors war: Zu Recht wird so immer wieder auf die „vischiosità archivistica“ verwiesen. Ausgesprochen lesenswert ist der kurze Abriss über die Geschichte der Archivpraxis bei den Karmelitern. Das Archiv besteht heute aus rund 100 Registern, 76 buste (mit 254 Stücken), zwei Hss., zwei Chartularen, zwei Druckwerken, summa summarum: 182 Archiveinheiten. De Santis hat das Material mit neuen Signaturen versehen, aus denen fünf Serien und 13 Unterserien hervorgegangen sind (Serie I: „Amministrazione – Registri“ [S. 67–86]; Serie II: „Amministrazione – Carte non rilegate“ [S. 87–154]; Serie III: „Persone“ [S. 155–211]; Serie IV: „Archivio e memoria storica“ [S. 212–219]; Serie V: „Parrocchia e convento“ [S. 220–229]). Die einzelnen Einträge beginnen mit dem Titel und der Nummer der jeweiligen Serie. Es folgen Angaben zur alten Signatur, der Titel der archivalischen Einheit, die neue Signatur, die Datierung, die jeweilige Zusammensetzung der Einheit samt Kurzbeschreibung der Inhalte, des Zustands und der Lesbarkeit. Ausgesprochen hilfreich sind die Verweise auf verwandte Materialien, die sich in weiteren römischen Archiven, wie dem Archivio storico del Vicariato di Roma oder dem Archivio di stato, finden lassen. Das skizzenhafte Erfassen der konkreten Inhalte ermöglicht einen ersten Einblick in die Aussagekraft einzelner Bestandsgruppen. Ausgehend von den administrativen Quellen lässt sich ein Eindruck davon gewinnen, „… di quanto costasse mantenere un religioso a Roma …“ (S. 68) (so etwa I.3.13: „Vestiari dei Religiosi [Registro delle spese sostenute per l’acquisto del vestiario dei religiosi e per il pagamento del medico, barbiere, cerusico, organista e altre voci di spesa“]). Mit Blick auf einzelne Karmeliterpersönlichkeiten wie etwa Padre Serafino Maria Potenza existieren „fascicoli personali“ (S. 156), die so viel an Informationen bieten, dass daraus sehr viel mehr als bloße Eckdaten einer Vita zu gewinnen sind. Jede einzelne Serie gewährt Einblick in das Leben einer karmelitischen Kommunität mit ihren täglichen Abläufen, der Geschichte von Personen, ihren Problemen, ihren Hoffnungen, ihrem Glauben – und ihren Freuden. Unter den inventarisierten Quellen finden sich etwa mehrere Briefe, die belegen, dass im 18. Jh. in Santa Maria in Traspontina Schokolade hergestellt wurde. Immer wieder wurde (von Brüdern und Laien) mit einigem Nachdruck um die Zusendung dieser Köstlichkeit nachgesucht. Eine Fülle von Appendizes (1. „Tabella di raffronto delle segnature“; 2. „Cronologia dei priori“; 3. „Cronologia dei cardinali presbiteri titolari“; 4. „Cronologia dei parroci“) und ein zuverlässiger Index der Namen und Orte leisten gute Dienste bei der Erschließung des Materials. Möge der Wunsch des Vf., mit seinem Inventar zur „valorizzazione e fruizione delle carte“ (S. 65) beizutragen, in Erfüllung gehen.+TABRE+Ralf Lützelschwab
Mariano Dell’Omo, Montecassino tra Due e Settecento da Federico II a Carlo di Borbone. Saggi sull’abbazia, la sua città, i suoi paesi tra sede apostolica e regno meridionale, Montecassino (Abbazia Montecassino) 2023 (Miscellanea Cassinese 90), 351 S., ISBN 978-88-8256-090-4, € 50.
Auf die Frage, welches Kloster einem beim Stichwort „abendländisches Mönchtum“ am ehesten einfällt, wird wohl ein Großteil der Befragten mit „Montecassino“ antworten. Dies gilt umso mehr nach den Ereignissen des Zweiten Weltkriegs. Mit dem vorliegenden Sammelwerk, das sechs Beiträge des Vf. nachdruckt und einen weiteren neu veröffentlicht, liegt in gewisser Hinsicht eine „neue“ Geschichte des Klosters vor, die bewusst nach der hochmittelalterlichen Blütezeit (10. bis 12. Jh.) einsetzt und die wechselvollen Phasen des Spätmittelalters und der Frühen Neuzeit abdeckt. Mariano Dell’Omo, aktuell Archivar des Klosters und Autor der umfassenden Geschichte des Klosters („Montecassino. Un’abbazia nella storia“, Cinisello Balsamo 1999), ist zweifelsohne der ausgewiesene Experte des umfangreichen Hss.- und Archivbestands der Abtei, in bester Tradition seiner Vorgänger in diesem Amt Mauro Inguanez, Tommaso Leccisotti oder Faustino Avagliano. Die sieben Beiträge des Bd. sind chronologisch (von der Zeit Friedrichs II. bis zur Mitte des 18. Jh.) angeordnet und liefern mit der Edition zahlreicher Quellen aus den Beständen des Klosters Momentaufnahmen sowohl der politischen und institutionellen als auch der Kulturgeschichte. In politischer und besitzrechtlicher Hinsicht befand sich die Abtei im Spannungsfeld zwischen Papsttum und weltlichen Herrschern (den Königen des Regnum Sicilie bzw. des Regno di Napoli), was zusätzlich durch die Tatsache verstärkt wurde, dass das Kloster selbst in der Terra S. Benedicti die temporale Gewalt ausübte. Wie problematisch sich diese (im Übrigen auch geographische) „Zwischenstellung“ auswirken konnte, wird exemplarisch bei der Auseinandersetzung zwischen dem Papsttum und Friedrich II. deutlich („Federico II e Montecassino“, S. 17–27). Dass das Kloster seine jurisdiktionellen Rechte in Südlatium bzw. im Norden der Terra di Lavoro bis zum Ende der Frühen Neuzeit wahren konnte, illustriert der Beitrag „Lo stato di S. Germano con Montecassino, la città, le terre e i centri abitati nella descrizione dell‘,assenso realeʻ di Carlo di Borbone (1743)“, S. 249–320 (bisher unveröffentlicht). Die umfangreiche Edition des assenso reale (Montecassino, Archivio dell’Abbazia, caps. XXI, nr. 13) liefert detaillreiche Einblicke in die Lokalgeschichte dieses Gebiets (von Angaben zur Geographie und Bevölkerung über die Beschreibung der einzelnen Pfarreien bis hin zur exakten Auflistung der geleisteten Abgaben). Sowohl besitzrechtliche als auch institutionelle Aspekte behandelt der Aufsatz „Montecassino nel Trecento tra crisi e continuità“, S. 31–69. Die veränderte gesellschaftliche Situation, die Konkurrenz mit den Mendikantenorden und die wachsende Bedeutung der Städte führten im Spätmittelalter und in der beginnenden Frühen Neuzeit in vielen benediktinischen Klöstern zu einem Niedergang, der vielerorts die Vergabe der Klöster in commendam und die Einbindung in Reformbewegungen zur Folge hatte. Davon blieb auch Montecassino nicht verschont. Dass es sich dabei aber um eine besonders prestigeträchtige und lukrative commenda handelte, wird dadurch ersichtlich, dass mit Paul II. der Papst selbst als kommendatarischer Abt fungierte („Papa Paolo II abate commendatario di Montecassino. Note e documenti sull’abbazia cassinese e la Terra S. Benedicti fra il 1465 e il 1471“, S. 73–141; mit reichem Quellenanhang). Mit dem Eintritt in die Reformkongregation von S. Giustina (1504) endete die Phase der kommendatarischen Äbte. Das reformierte Kloster setzte in der Folgezeit die Bestimmungen des Konzils von Trient umfänglich um, insbesondere die Auflage regelmäßiger Visitationen („Montecassino nella congregazione De unitate: eredità di una tradizione e mutamenti di un’istituzione tra Chiesa e società nel corso del 500“, S. 199–225; mit umfangreichem Quellenanhang zu den Visitationen). Die beiden weiteren Aufsätze liefern Überblicksdarstellungen zur kulturellen Situation in der Abtei im 16. und 17. Jh. („Montecassino nella Chiesa e nella cultura del Cinquecento“, S. 145–197, und „Montecassino e la Congregazione Cassinese in età barocca tra missione ed erudizione“, S. 229–245). Sehr hilfreich für die Leserinnen und Leser des Sammelbd. ist das umfangreiche Personen- und Ortsregister (S. 321–350), das gegenüber den Originalveröffentlichungen zusätzliche Einstiege ermöglicht. Natürlich sind die nachgedruckten Artikel, die fast ausnahmslos in den Reihen „Miscellanea Cassinese“ und „Italia benedictina“ erschienen sind, Forscherinnen und Forschern, die sich auf die Geschichte Montecassinos und des benediktinischen Mönchtums spezialisiert haben, gut bekannt. Dennoch ist die Zusammenführung sehr sinnvoll, die Konsultation wird durch das Gesamtregister bedeutend erleichtert. Besonders hervorzuheben ist der Versuch, mit dieser Sammlung von einschlägigen Aufsätzen eine gewissermaßen „alternative“ Klostergeschichte zu liefern, die gerade durch wichtige Momentaufnahmen die Phase nach der Blütezeit ins Auge fasst und durch umfangreiche Quellenanhänge veranschaulicht. Für nicht mit der Geschichte der Abtei intensiv vertraute Leserinnen und Leser ist allerdings die parallele Lektüre von Überblicksdarstellungen, idealerweise der oben erwähnten Klostergeschichte des Vf., zwingend notwendig. Dies kann aber ein Gewinn sein, da so zwei historiographische Darstellungsformen kombiniert werden. Wer die Möglichkeit eines Zugriffs auf die „Miscellanea Cassinese“ hat, sollte diesen unbedingt nutzen.+TABRE+Thomas Hofmann
Pasquale Natella, Capaccio nella Valle del Sele, Nocera Superiore (Sa) (Printart Edizioni) 2022, 394 pp., ISBN 979-12-80390-19-6, € 30.
La piana di Capaccio è stata interessata sin dalla Preistoria dalla presenza dell’uomo che, senza soluzione di continuità, ne ha plasmato l’aspetto originario rendendola una tra le zone più ricche di storia nel Meridione. Numerosi studiosi si sono interessati a Capaccio in decenni di ricerche storico-archeologiche ed hanno prodotto altrettanti contributi a stampa, restituendo però un’immagine di questo territorio spesso frammentata. Il vol. di Pasquale Natella – poliedrico storico del Mezzogiorno ed autore di tantissimi scritti – si pone in questa lunga tradizione di studi proprio con l’intento di offrire al lettore un quadro sintetico delle conoscenze fino ad oggi in nostro possesso. Il vol. piuttosto corposo, dopo una breve premessa, si articola in tre capitoli. Nel Capitolo Primo, che forse pecca di un’eccessiva sintesi del testo, l’autore ripercorre la storia della città tra antichità ed alto medioevo, soffermandosi sull’origine del toponimo „Capaccio“, analizzando alcune fonti documentarie, aiutando il pubblico con validi esempi di cartografia storica e proponendo anche alcune riflessioni critiche sulla bibliografia di riferimento. Segue il Capitolo Secondo in cui viene proposta una breve disamina sui vescovi di Capaccio. È con il Capitolo Terzo, però, che l’autore entra nel vivo del tema. Viene, infatti, analizzata l’occupazione della valle del Sele in maniera diacronica e ponendo l’accento soprattutto su alcuni fenomeni sociali, come il movimento agrario fra medioevo ed età contemporanea. Accennando anche alle strutture produttive, molte delle quali legate all’allevamento delle bufale, lo studioso giunge a coniare un termine più che appropriato per questa branca di studio, definendola „archeologia agricolo-industriale“! Anche l’archeologia medioevale riceve un particolare contributo nel vol. La piana del Sele e Capaccio in modo particolare, infatti, sono stati protagonisti della ricerca medievistica – negli anni in cui si creò quella particolare simbiosi fra l’Accademia Polacca e l’Università di Salerno – che formò figure professionali cui si devono contributi scientifici fondamentali, tanto sul piano nazionale quanto su quello internazionale. La narrazione in queste pagine si arricchisce, quindi, di aneddoti ed immagini di repertorio che mostrano ai lettori alcuni tra i più grandi archeologi attivi a partire dagli anni ’60, come Gabriella Maetzke, Paolo Delogu, Nicola Cilento, Paolo Peduto ed Eleonora Tabaczyńska con i quali l’autore stesso ebbe la fortuna di collaborare in diverse occasioni. L’excursus sull’archeologia medioevale consente di presentare brevemente anche alcuni dei principali monumenti del territorio quali, ad esempio, le fortificazioni di Capaccio vecchia, la Cattedrale e il castello. Ma il viaggio non si ferma qui. I lettori vengono accompagnati fino agli inizi del ʼ900, quando non mancano resoconti relativi alle due Grandi Guerre, durante le quali fu alto il tributo della popolazione di Capaccio: una comunità di contadini che dovette sottostare a dure regole di vita e di sopravvivenza. A compendio del testo ritroviamo, infine, un’appendice che raccoglie gli articoli – citati nel volume – che l’autore ha pubblicato in questi lunghi anni di ricerca sul territorio e che possono aiutare i lettori desiderosi di approfondire taluni aspetti della storia locale. Il vol. di Pasquale Natella ha il pregio di raccogliere la quasi totalità dei dati noti e meno noti sul comprensorio di Capaccio, proponendo aggiornamenti sull’edito con un linguaggio leggero, a tratti ironico e famigliare. Probabilmente chi conosce poco il territorio può incontrare qualche difficoltà nel seguirne le vicende nella loro altalenante esposizione diacronica, tuttavia, la lettura è resa più piacevole dall’ampio corredo fotografico e dagli aneddoti di vita anche personale che alleggeriscono il flusso del testo. Particolarmente esaustiva appare anche la bibliografia che lo studioso presenta in maniera tematica all’interno di ogni capitolo, aiutando il pubblico ad attingere tra le fonti e i dati presentati; così come è apprezzabile la presenza di un nutrito indice analitico in calce al vol. che consente di orientarsi in queste belle pagine di storia.+TABRE+Alessia Frisetti
Marita Liebermann/Michael Matheus/Helen Geyer (Hg.), Deutsches Studienzentrum in Venedig. 50 Jahre Wissenschaft und Kunst. Brücken am Canal Grande, Regensburg (Schnell & Steiner) 2023, 448 S., ISBN 978-3-7954-3774-9, € 69.
Stefan Laffin, Deutsche Wissenschaftspolitik im Ausland und gelebtes Patriarchat. Gründung und Aufbau des Deutschen Studienzentrums in Venedig, 1965–1985, Regensburg (Schnell & Steiner) 2023 (Studi. Schriftenreihe des Deutschen Studienzentrums in Venedig. Neue Folge 22), 352 S., ISBN 978-3-7954-3846-3, € 45.
Das Deutsche Studienzentrum Venedig (DSZV) gehört zu den bedeutendsten interdisziplinären deutschen Forschungseinrichtungen im europäischen Ausland und stellt eine einzigartige Symbiose aus Wissenschaft und Kunst sowie einen Ort interkulturellen und interdisziplinären Austausches dar. Im weiteren Kontext der Jahrhundertflut (1966) im Jahr 1972 (wieder-)gegründet, fördert es wissenschaftliche Projekte und künstlerische Arbeiten mit Bezug zur Geschichte und Kultur Venedigs und des ehemaligen venezianischen Einflussgebietes. 2022 feierte das DSZV sein 50jähriges Bestehen. Zu diesem Anlass erschien unter der Ägide von Helen Geyer, Marita Liebermann und Michael Matheus ein reich bebilderter Bd., der sich chronologisch der Geschichte des Hauses und den Forschungsprofilen widmet sowie zugleich die Herausforderungen der letzten Jahre, das Hochwasser von 2019 und die SARS-CoV-2-Pandemie, in den Blick nimmt. Die 27 Beiträge, verfasst von Mitgliedern des Vorstandes, des wissenschaftlichen Beirats, den Mitarbeitenden des DSZV sowie ehemaligen Stipendiatinnen und Stipendiaten, werden stets durch eine italienische Zusammenfassung ergänzt. Begrüßenswert ist zudem ein umfassender Anhang, der u. a. über die Organe des DSZV, Stipendien („Wissenschaftsstipendien 1970–2023“; „Kunststipendien 1979–2023“) und Archivalien Auskunft gibt. Ehrengäste wie Mario Adorf, Martin Mosebach oder Barbara Klemm berichten in einem abschließenden Kapitel über Inspirationen, Erfahrungen, Erlebnisse und Begegnungen (S. 363–389). Der umfangreichste Schwerpunkt des Bd. widmet sich der wechselvollen Geschichte des Deutschen Studienzentrums von der Idee bis zur Realisierung (S. 43–178). Martin Gaier und Giulio Salvati zeichnen anhand der Biographien einzelner Akteure wie Gustav Ludwig und Netzwerken die Idee einer Einrichtung vor dem Hintergrund der Institutsgründungen in Florenz (KHI) und Rom (DHI) und den damit verbundenen Konkurrenzen sowie die Realisierung einer, letztendlich zu Propagandazwecken gegründeten, deutschen Forschungseinrichtung in den Räumlichkeiten der Abbazia di San Gregorio unter dem Nationalsozialismus am 17. Februar 1944 nach (S. 43–68). Rolf Petri widmet sich vor dem Kontext der durch die Acqua grande vom 4. November 1966 entstandenen Debatten und wiederbelebten Narrative um die Zukunft der Stadt der Antithese zwischen Industrialisierung und Bewahrung traditioneller (urbanistischer) Strukturen (S. 69–75). Daran schließt sich unmittelbar der Beitrag Stefan Laffins zur Anfangsphase nach der Gründung des Studienzentrums an, die durch eine enge Interaktion und Kooperation individueller und institutioneller Akteure im Mai 1972 endlich realisiert werden konnte (S. 76–104). Marita Liebermann macht in ihrem Beitrag zu den Forschungsprofilen deutlich, wie die Ausrichtung des DSZV nicht zuletzt durch die geistigen Strömungen dieser Gründungsphase beeinflusst wurde (S. 213–221). Verschiedene Phasen und Herausforderungen, aber auch die Direktoren und Direktorinnen, prägten in den folgenden Jahren das Profil des Studienzentrums mit ihren jeweiligen Forschungsschwerpunkten und Projekten (Klaus Bergdolt, Michael Matheus, S. 105–155). Getragen wird die Forschungsarbeit am DSZV nicht zuletzt von den Stipendiatinnen und Stipendiaten, dem „Herzstück der Disziplinenvielfalt unter einem Dach“ (Michael Matheus, S. 222–228). Das historische Ambiente des am Canal Grande gelegenen Palazzo Barbarigo della Terrazza aus dem 16. Jh. wurde daher im Hinblick auf die Ansprüche moderner Wohn- und Arbeitsstätten transformiert, was eine harmonische Symbiose zwischen ‚altʻ und ‚neuʻ möglich macht (Andrea Gottdang; Clemens F. Kusch und Anabel Gelhaar, S. 179–212). Einen Überblick über die Vielfalt der am DSZV bisher realisierten Projekte vermitteln insgesamt zehn Beiträge, die der jeweiligen Fachrichtung (darunter auch den „Kleinen Fächern“; vgl. Albrecht Cordes, S. 325–332) gewidmet sind. Neben den historischen Disziplinen vertreten seit 1979 die Kunststipendiatinnen und -stipendiaten die Auseinandersetzung mit dem zeitgenössischen Venedig, ein Dialog, von dem auch die historischen Disziplinen profitieren (Petra Schaefer, S. 333–362). Das DSZV versteht sich als Ort der Begegnung und des Austausches, weshalb öffentliche Vorträge und wissenschaftliche Tagungen zum festen Bestandteil gehören. Künstlerische Projekte werden durch regelmäßige Artist Talks und durch Ausstellungen in der Stadt der Öffentlichkeit präsentiert. Kommuniziert werden die Ergebnisse von Vorträgen, Tagungen und Forschungsprojekten u. a. in den eigenen Publikationsreihen, etwa den „Quaderni“ und „Studi“ (Michaela Böhringer, S. 229–238). „50 Jahre Wissenschaft und Kunst. Brücken am Canal Grande“ vermittelt einen einzigartigen Überblick über die bewegte Geschichte des DSZV, das dank des unermüdlichen Einsatzes privater Akteurinnen und Akteure und Institutionen zahlreiche Schwierigkeiten erfolgreich gemeistert hat. Der Bd. leistet durch das reichhaltige, erstmals publizierte Archiv- und Bildmaterial einen wertvollen Beitrag zur Entstehung und Geschichte einer bedeutenden deutschen Forschungsinstitution im Ausland und macht neugierig auf die nächsten 50 Jahre des DSZV.
In der vom DSZV hg. Reihe „Studi. Neue Folge“ (Bd. 22) erschien ergänzend zum Jubiläumsbd. die im Forschungskontext der Wissenschaftspolitik des 20. Jh. situierte Studie Stefan Laffins (Hannover), die sich der Gründung und dem Aufbau des DSZV in Venedig zwischen 1965 und 1985 widmet. Die Untersuchung umfasst sieben Kapitel und eine resümierende Schlussbetrachtung. Beleuchtet werden Pläne und Projekte, die Suche nach einer Finanzierung und die Antragstellung bei der Fritz Thyssen Stiftung sowie die Eröffnung und konzeptionelle Ausrichtung des Studienzentrums. Das Hauptaugenmerk liegt jedoch nicht auf der Institutionsgeschichte des DSZV, sondern vielmehr auf den Akteuren (individuell und kollektiv), deren Handeln der Autor vor dem Hintergrund bundespolitischer Konzepte, der politischen Rahmensituation (Kulturpolitik und politische Strömungen der 1960er und 1970er Jahre) und dem Verhältnis zum Bund situiert. Die Studie möchte demnach kritisch „die formative Phase aus verschiedenen Blickwinkeln analysieren“ (S. 12), wobei – so die These – die Gründung des DSZV durch ein dynamisches Zusammenspiel aus (strategischen) Kompromissen, Konkurrenzverhalten und Abgrenzung auf Seiten aller Akteure gekennzeichnet war. In Kap. 2 (S. 29–60) macht Laffin deutlich, dass es keinen konkreten Anlass für die Gründung des DSZV gab, jedoch begünstigten das Argument der Jahrhundertflut, Europa-Diskurse, aktive Venedighilfe und die Aktivitäten der UNESCO nach 1966 die Entstehung kleinerer Forschungseinrichtungen in einer Zeit, als man „groß“ dachte (S. 35). Aufgrund dieser günstigen Konstellation und durch das intensive deutsch-italienische Zusammenwirken wurde das DSZV schließlich als Außenstelle des KHI in Florenz konzipiert, nicht zuletzt auch dank gut vernetzter Wissenschaftsmanager (vgl. die Übersicht S. 19) wie den Schatzmeister des KHI, Alexander Kreuter (1886–1977). Kap. 3 (S. 61–100) thematisiert die Bemühungen von wissenschaftspolitischen Größen und vernetzten Kunsthistorikern wie Wolfgang Wolters um einen geeigneten Institutssitz, der schließlich im Palazzo Barbarigo della Terrazza gefunden wurde. Hinsichtlich der Lage und des Kaufpreises von 500 000 Mark eine einmalige Gelegenheit. Der Antrag bei der Fritz Thyssen Stiftung über insgesamt 920 000 Mark (Kaufpreis, Umbaukosten, Stipendien etc.) wurde gewährt, jedoch zeigen die vorausschauenden Einwände bezüglich der weiteren Finanzierung der Forschungseinrichtung durch den Juristen Robert Ellscheid, dass durchaus Diskussionsbedarf bestand. Durch die Gründung des Vereins Deutsches Studienzentrum in Venedig E. V. wurde schließlich die Trennung von Florenz vollzogen und die weitere Finanzierung vorerst durch das Wissenschaftsministeriums gewährt (S. 101–115). Der Schwerpunkt der Studie, nämlich das wissenschaftspolitische Handeln der Akteure nachzuvollziehen, wird auch in den Kap. 4 und 5 deutlich, die sich mit der Eröffnung des Studienzentrums 1972 und der symbolischen Darstellung der Machtverhältnisse (S. 169–178), der Stipendienvergabe und dem Wirken des ersten Direktors des DSZV, Wolfgang Wolters, auseinandersetzen (S. 101–200). Das mächtigste Organ blieb in dieser frühen Phase das „auf Prestige und Habitus“ (S. 331) bedachte wissenschaftliche Kuratorium, das den Handlungsspielraum des Direktors stark eingrenzte. Dies wird auch am Netzwerkcharakter der Vergabepraxis der anfangs nicht öffentlich ausgeschriebenen Stipendien deutlich, die oft dazu dienten, Projekte weiterzuentwickeln, die von Vereinsmitgliedern konzipiert wurden (S. 147 f.). Dieses patriarchale Wissenschaftsverständnis zeigt sich nicht nur in der Praxis der Stipendienvergabe, der Publikationspraxis, der starken Hierarchisierung, sondern auch in den Meinungsverschiedenheiten mit dem jungen, an innovativen Ideen interessierten Direktor des DSZV, von denen viele (z. B. Studienkurse) erst wesentlich später nach dem Ausscheiden Wolters realisiert wurden. Während die 1970er Jahre durch Finanzierungsprobleme und interne Konflikte gekennzeichnet waren (S. 201–251), konnte dank des Bundesministeriums des Inneren (BMI) als neuem Fördergeber im folgenden Jahrzehnt eine Konsolidierung und Erweiterung des Forschungsprofils erreicht werden (S. 251–284). Laffins Untersuchung zeichnet anhand größtenteils unpublizierter Quellen nicht nur penibel die Entstehung eines wichtigen deutschen Forschungsinstituts im Ausland nach, sondern macht deutlich, dass die Existenz und konzeptionelle Ausgestaltung des DSZV letztendlich auf der Kooperation privater und institutioneller Akteurinnen und Akteure beruht, die durch wissenschaftspolitische, aber auch persönliche Interessen geleitet wurden.+TABRE+Sabine Herrmann
Mittelalter
Eduard Mühle, Slavs in the Middle Ages Between Idea and Reality, Leiden-Boston (Brill) 2023 (East Central and Eastern Europe in the Middle Ages, 450–1450 89), 610 pp., ISBN 978-90-04-45025-7, € 183,38.
Il lavoro di Eduard Mühle rappresenta una pregevole novità scientifica degli ultimi decenni: dagli anni ’60 non era stata pubblicata una trattazione completa sull’origine e i primi secoli degli Slavi, motivo per cui si è sentita la necessità di riproporre in lingua inglese il testo originale tedesco („Die Slawen zwischen Idee und Wirklichkeit“, Böhlau 2020), uscito dopo le precedenti pubblicazioni „Die Slaven im Mittelalter“ (De Gruyter 2016) e „Die Slawen“ (C. H. Beck 2017). Un quesito che molti studiose e studiosi si pongono riguarda l’etnogenesi delle popolazioni slave e se queste abbiano ulteriori punti in comune oltre alla lingua. A queste domande l’autore cerca di rispondere esplorando due filoni. Il primo riguarda la formazione e lo sviluppo dei primi regni slavi nell’Europa orientale, dal VI al XIII secolo. Nel secondo approfondisce l’autopercezione, il senso di appartenenza e consapevolezza comune delle popolazioni slave, proprio nel periodo nel quale queste si sono organizzate costituendo diversi regni. Nel capitolo introduttivo (cap. 1), l’autore offre un’ampia panoramica sulla genesi dell’idea moderna degli Slavi dal XVI al XX secolo, concludendo che l’ipotesi di una comune discendenza, di una medesima cultura o coscienza slava, sia il risultato di una generalizzazione culturale e di una strumentalizzazione politica. Pertanto, ben prima del Romanticismo, l’interesse politico e scientifico si concentrava sulle caratteristiche comuni transnazionali dei gruppi linguistici slavi, aprendo la strada al panslavismo e all’anti-slavismo. La lingua e la cultura sono state interpretate come elementi suppostamente unificanti degli Slavi: troviamo così idee panslaviche sotto l’egida o in difesa della Russia, richieste di partecipazione panslavica nell’Impero Asburgico e idee panslaviche in contrasto con le ambizioni di dominio tedesche. Dopo aver illustrato il metodo di indagine (cap. 2), l’autore analizza le prime occorrenze del termine Slavi nelle fonti altomedievali bizantine, latine ed arabe (cap. 3). Utilizzato nelle cronache bizantine del VI secolo per identificare ad est dell’Impero le popolazioni pagane, selvagge e propense a compiere scorrerie entro i territori imperiali, venne esteso ad altri gruppi di persone straniere, con un connotato eminentemente dispregiativo. Invece, nelle fonti latine questo nome veniva associato alla somiglianza linguistica di alcuni gruppi di popolazioni straniere. Tuttavia, il termine Slavi si è trasformato in uno stereotipo negativo, diventando sinonimo di barbaro. L’autore sostiene così che l’unica somiglianza tra le popolazioni slave altomedievali è data dall’affinità linguistica e dalla percezione esterna di popolo straniero e rozzo. Anche le prove archeologiche (cap. 4) non permettono di trarre conclusioni sulla presenza nelle prime fasi medievali di una cultura o identità slava comune, in quanto offrono pochi indizi sulla loro autocomprensione come comunità unita. In seguito, tra il IX e il XIII secolo i popoli di lingua slava hanno sviluppato la propria cultura e identità nazionale anche grazie al ruolo svolto dalle missioni di Cirillo e Metodio, dando così vita alle prime formazioni statali (cap. 5, 6 e 7): l’Impero proto-bulgaro, i piccoli principati dei Balcani occidentali, la Carinzia e il regno di Moravia (in seguito Bulgaria, Boemia, Croazia, Rus’ di Kiev, Polonia e Serbia). Non vengono dimenticate nemmeno quelle realtà che non sono giunte a costituire un regno come i Pomerani, gli Slavi dell’Elba e del Baltico. Tuttavia, nessuna di queste aggregazioni ha associato la propria identità al nome Slavi. Per Mühle ad essere determinante nel processo di formazione delle nazioni non era la comune identità slava basata sull’affinità linguistica, bensì la distinzione dagli altri regni aventi una medesima lingua, poiché nel Medioevo non c’è mai stato un senso di appartenenza esteso a tutti i popoli slavofili. Conclude questa parte del libro (cap. 8) la trattazione sulle percezioni esterne dei regni slavi nell’immaginario medievale. Di particolare interesse l’esposizione sull’evoluzione del significato di Sklavenoi nell’Impero Bizantino durante il XII secolo, quando il termine Sklavos assunse il significato di schiavo, sostituendo l’originaria denominazione identificativa di appartenente al popolo slavo. Di conseguenza, nel Medioevo la consapevolezza di una comunità formata da uno o più popoli di lingua slava non si è sviluppata spontaneamente, ma è stata anch’essa creata in seguito (cap. 9). Nell’epilogo (cap. 10) Mühle dimostra che l’idea di una comunità slava nel tardo Medioevo è stata concepita attraverso un processo di astrazione come costrutto culturale da parte di studiosi medievali e in seguito generalizzata e strumentalizzata per scopi politici, sebbene gli Slavi medievali non si sono mai auto percepiti come una comunità sovrannazionale. Nonostante alcune puntualizzazioni sollevate da altri studiosi (Bohumil Vykypěl e Carsten Goehrke), il libro di Mühle arricchisce il dibattito contemporaneo sulla costruzione dell’identità politica nel periodo premoderno, espandendo il focus sulle regioni nell’Europa orientale e sudorientale. L’autore offre una nuova prospettiva sugli Slavi nel Medioevo, separando le concezioni moderne dell’idea slava dalle reali strutture storiche medievali. In questo modo, propone una visione più comprensiva degli Slavi come costrutto culturale, esaminando come l’idea slava sia stata utilizzata per scopi storico-politici. A corredo del libro, sono presenti 5 utili mappe, una vasta parte dedicata alle fonti e alla bibliografia (pp. 403–579) e ad un eccellente nonché esteso indice (pp. 580–610). Presentando e riordinando la sterminata bibliografia sull’argomento, questo lavoro può servire anche per uno studio storiografico di analisi del punto di vista tedesco sui territori ad est della Germania e per stimolare la riflessione sull’uso di determinati termini nel linguaggio delle narrazioni storiche, che rischiano di diventare dispregiativi.+TABRE+Filippo Forlani
Jean Claude Maire Vigueur, Così belle, così vicine. Viaggio insolito nelle città dell’Italia medievale, Bologna (Il Mulino) 2023 (Biblioteca storica), 448 pp., ill., ISBN 978-88-15-38762-2, € 38.
Effettivamente, quello che Jean-Claude Maire Vigueur propone nel suo libro, come annuncia già dal titolo, è un viaggio piuttosto insolito nella storia delle città italiane del pieno Medioevo, quantomeno dal punto di vista storiografico. Il termine „insolito“ deve qui essere interpretato in maniera letterale: si tratta infatti di un percorso che intende ricostruire la storia delle città dell’Italia centro settentrionale, di cui Maire Vigueur è un esperto internazionalmente affermato e riconosciuto, da un punto di vista diverso da quello maggiormente rappresentato a livello storiografico. La storiografia si è dedicata alla storia delle città raggiungendo risultati importanti, prendendo in esame le istituzioni cittadine, l’evoluzione dei sistemi politici, le dinamiche di ascesa sociale all’interno delle città, l’economia e la giustizia, e infine la retorica comunale. Recentemente alcune nuove importanti ricerche hanno messo bene in evidenza l’importanza delle arti visive all’interno della comunicazione politica (basti pensare, senza essere esaustivi, agli studi pubblicati negli ultimi anni da Matteo Ferrari, Andrea Gamberini e di Gabriella Piccinni). Le arti visive svolsero infatti un ruolo tutt’altro che secondario nell’ambito della comunicazione politica, così come nella creazione e nel consolidamento di un immaginario comune condiviso. È proprio in questa direzione che va considerato il viaggio che Jean-Claude Maire Vigueur compie insieme ai lettori, soffermandosi su diverse fasi della storia cittadina lasciando che siano le città a narrarsi, principalmente attraverso la loro struttura urbanistica e attraverso i monumenti. Il ruolo figurativo e comunicativo dell’architettura cittadina nel lungo periodo (sec. XI–XV) è messo bene in luce anche dal ricchissimo apparato fotografico del vol. La struttura del percorso proposto dall’autore segue una scansione cronologica nei primi tre capitoli, prendendo come momenti di cesura gli sviluppi politico-istituzionali cittadini. Il primo è dedicato alle città precomunali e comunali, in un tempo in cui il contraltare principale del comune era costituito dalle élite ecclesiastiche. Di questo primo periodo Maire Vigueur mette in luce in particolare il ruolo figurativo svolto dalle cattedrali e dai palazzi vescovili, soffermandosi sugli esempi di Parma, Modena e Pisa. La crescita demografica iniziata nell’XI secolo e il successivo incremento degli scambi commerciali coincise in Italia centro settentrionale con un momento di grande maturità del sistema politico cittadino: questi fattori determinarono l’estensione e riconfigurazione dello spazio urbano cittadino, un tema che viene affrontato nel secondo capitolo (pp. 57–100). L’apice dell’autocoscienza politica cittadina trovò la sua massima espressione nelle modifiche dell’architettura urbana a sostegno del Popolo: all’emergere di nuovi attori politici fece seguito il consolidamento del loro ruolo anche come committenti artistici. Se la commissione „cittadina“ della cattedrale è un esempio chiaro del passaggio nella conduzione delle istituzioni cittadine (pp. 137–145), sono i palazzi del Popolo a rappresentare l’apice espressivo dell’istituzione e della comunità cittadina. Prendendo come esempio Firenze, Siena, Perugia, Gubbio e Venezia, Maire Vigueur indaga le fasi di ideazione, realizzazione di tali opere edilizie, così come il loro scopo comunicativo. I restanti quattro capitoli affrontano il tema dello sviluppo urbano secondo alcune sfaccettature nuove: nel quarto capitolo sono ripercorsi alcuni interventi volti ad abbellire lo spazio pubblico e privato, tra i quali particolare rilievo viene dato al ciclo pittorico del Buono e Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti. Particolarmente originale è il capitolo dedicato al ruolo dell’acqua e delle risorse idriche che dal contado dovevano essere convogliate nei centri cittadini: anche in questo caso, viene messa bene in evidenza la funzione di cisterne e acquedotti, questi ripresi dall’antichità romana, e anche la funzione pratica, ornamentale e politico-ornamentale delle fontane. Gli ultimi capitoli sono dedicati ai cambiamenti subiti dall’architettura cittadina in occasioni dei conflitti fra le città e fra le partes interne alle città stesse (mura, rocche, torri), e, infine, all’impatto delle arti e dei mestieri sullo sviluppo urbano. La ricerca di Jean-Claude Maire Vigueur trova il suo tratto specifico nella stretta correlazione, evidente in tutto il vol., tra lo sviluppo istituzionale cittadino, l’autocoscienza dei suoi attori politici e il riflesso che le evoluzioni politiche ebbero sull’architettura e sui monumenti cittadini, dimostrando bene come la nuova concezione politica della città trovò espressione negli interventi di politica edilizia e monumentale.+TABRE+Caterina Cappuccio
David L. d’Avray, The Power of Protocol. Diplomatics and the Dynamics of Papal Government, c. 400 – c. 1600, Cambridge (Cambridge University Press) 2023, XI, 266 S., ISBN 978-1-009-36111-8, € 102.
David L. d’Avray gehört zu den großen Kennern des mittelalterlichen Papsttums und weiß dessen Funktionsweise auch einem größeren Interessentenkreis und Studierenden zu vermitteln. Im vorliegenden Bd. geht es um die Frage: Warum wandte man sich an den Papst? Er stellt sich dem schon von Othmar Hageneder angesprochenen Problem, wie die päpstliche Kanzlei damit umging, dass sie keine Mittel der Wahrheitsüberprüfung der von ihr ausgestellten Schreiben besaß. Mit anderen Worten: Wie konnte die Kirche ohne Verwaltungsapparat die Christenheit regieren? Mit diesen Leitfragen will der Vf. die vorherrschende Distanz zwischen der Papsturkundenlehre als Domäne der Hilfswissenschaften und der Papsthistoriographie im weiten Zeitrahmen von ca. 400 bis ca. 1600 überwinden. Die oft angeführte Reskripttechnik ging zwar auf das antik-kaiserliche Vorbild zurück, erklärt aber nicht, wie die Kirche im Mittelalter die dafür nötigen Gewaltmittel aufbrachte. Selbst die Androhung des Kirchenbanns als eine päpstliche Waffe ab dem späten 11. Jh. war eher das Resultat denn die Ursache für das Anwachsen des päpstlichen Herrschaftseinflusses. Allgemein akzeptiert sei indes, dass diese Entwicklung letztlich auf die gestiegene Nachfrage nach Papstbriefen aus den partes zurückging. Der mit Max Weber vertraute Autor (vgl. sein Buch „Medieval Religious Rationalities. A Weberian Analysis“, Cambridge 2010) führt dafür die Idee des Amtscharisma an. Rekapitulieren wir einige Etappen: Als die Kaiser nach dem Untergang des antiken römischen Reiches keine Konzilien mehr einberufen konnten, traten die Päpste von Rom an ihre Stelle. Die Ausweitung des päpstlichen Primatsanspruches ging ab dem späten 5. Jh. einher mit dem Aufkommen der ersten Kirchenrechtssammlungen. Im Zuge der Gregorianischen Reform suchten Klöster in Rom um den päpstlichen Schutz nach und erhielten lange Papyrus-Schreiben, die oft nahezu unverständlich formuliert waren, aber doch visuellen Eindruck machten (S. 69). Der Papsthof überließ („outsourced“) die Ausstellung der Briefe Schriftkundigen, die anfangs noch ohne geregelte Bezahlung arbeiteten (S. 8). Ab dem späten 12. Jh. bat man um Verleihung von Pfründen, was die Ausstellung von litterae executoriae und den Ausbau der Delegationsgerichtsbarkeit zur Folge hatte. Bald sorgten die Pönitentiarie und die Kanzlei für die Registrierung der Briefe. Der Personalmangel im Zuge des Großen Abendländischen Schismas brachte die von Sekretären ausgestellten Breven hervor. Nicht uninteressant erscheint der Gedanke – der allerdings noch prosopographisch zu belegen wäre –, dass der Ämterhandel die Eliten des Kirchenstaates enger an das Papsttum gebunden und dieses letztlich gestärkt hätte (S. 12 f., 68, 152–155). Nach der bis zur Umbildung der Kurie nach Trient geführten Einleitung beschäftigt sich der Autor mit der Geschichte der Disziplin der Papstdiplomatik und den Studien zum Geschäftsgang. Wegweisend war u. a. Fichtenaus Interpretation von Arengen als Ausdruck der Mentalitätsgeschichte (S. 35 f.). Zwischen ca. 1150 und 1200 kam es zur Ausbildung von Gratial- und Justizbriefen (S. 83, 92–97). Die mit Leo IX. (1049–1054) nach Rom gekommenen deutschen Schreiber waren Pergament gewohnt. Damals entfalteten Monogramm, Rota und Bene valete auf den feierlichen Privilegien ihre symbolische Macht (S. 70 f.). Anfang des 12. Jh. kamen noch Papst- und die Kardinalssignatur hinzu (S. 71 f.). Das Kapitel „The Religious Governance of the Latin World, 1150–1378“ ist den verschiedenen Urkundentypen gewidmet, die mit den sich erweiternden Feldern päpstlichen Engagements (wie Kreuzzügen, Ablässen, Exkommunikationen, Konzilien) Schritt halten mussten. Die Interessenten zahlten für die Registrierung der litterae communes; die der litterae de curia wurde von der Kurie bestritten. Webers Bürokratie-Idealtypus widerspreche allerdings der Umstand, dass die Kurie trotz Verfahrensregeln keine systematische Hierarchie und bezahlte Beamte besaß (S. 85 f.). Die ab 1216 in einem Kolleg organisierten scriptores arbeiteten von zu Hause aus. Das Scheitern Cölestins V. (1294) zeigte, dass administratives Können nun für einen Papst unerlässlich war (S. 77 f.). In Avignon stiegen dann die päpstlichen Sekretäre auf. Mit diplomatischer Akribie stellt der Autor die Tücken in der Interpretation von Papstschreiben vor, unter denen es auch hybride Formen geben konnte (S. 96–100). Zum Teil Neuland wird im Kapitel „From Schism to Counter Reformation, c. 1450 – c. 1600“ betreten. Es ist die Stunde der eingangs erwähnten Breven, die durch ihre Kürze ein flexibles Instrument auch in der politischen Kommunikation wurden. Der kuriale Geschäftsgang war längst so komplex, dass er ohne den Einsatz der Prokuratoren nicht zu meistern war (S. 150). Am Beispiel der Pönitentiarie zeige sich, dass das Amtscharisma „had been delegated and routinised“ (S. 151). Neue Instrumente der päpstlichen Machtentfaltung waren die Datarie, das Staatssekretariat, die Kongregationen und Nuntiaturen. Am Schluss dieses mitunter etwas verwirrenden Marschs durch die Institutionen haben die Leserinnen und Leser einen Einblick in die Komplexität der kurialen Apparate gewonnen. Man kann dem Autor für diese – mitunter auch persönliche Entdeckerfreude versprühende – Einführung in die Papstdiplomatik, die die internationale Forschung sprachübergreifend einbezieht, nur danken. Abgeschlossen wird der Bd. mit Transkriptionen von Papsturkunden vor allem aus den erstaunlich reichen Beständen der British Library. Die deutsche Leserschaft wird überrascht sein, dort eine Urkunde von 1268 zur Kirche von Beindersheim, die dem Andreasstift Worms gehörte, zu finden (S. 205 f.; die Diözesanangabe Warmaciensis sollte man aber zu Wormaciensis vereinheitlichen, um die Verwechslung mit Ermland auszuschließen).+TABRE+Andreas Rehberg
Giacomo Todeschini, Come l’acqua e il sangue. Le origini medievali del pensiero economico, Roma (Carocci) 2021 (Frecce 34), 336 S., ISBN 987-88-290-0500-0, € 29.
Wie der Fluss des Wassers und die Zirkulation des Bluts wurden nach Giacomo Todeschini die Abläufe der Wirtschaft im ökonomischen Denken des Mittelalters beschrieben, das er auf der Basis seiner früheren Arbeiten in brillanter Weise nachzeichnet und dessen Nachwirken in der Neuzeit er aufzeigt. Im Zentrum der vier Teile der Monografie stehen Wörter, Sprachbilder und Konzepte, die sich über die Zeiten – jenseits der Ausbildung einer Wirtschaftswissenschaft und verschiedener Wirtschaftstheorien – erhalten haben. Im ersten Teil erläutert Giacomo Todeschini die mittelalterliche Verzahnung insbesondere von Theologie, Philosophie, Recht, Medizin und Mathematik in der Reflexion der göttlichen und weltlichen Ordnung, deren Funktionsweise unter Rückgriff auf Metaphern anschaulich gemacht wurde. Die Gemeinschaft der Christen, die Kirche, galt als mystischer Leib Christi, der als Abbild göttlicher Vollkommenheit ebenso wie der soziale/politische und der menschliche Körper eines Kreislaufs und der Harmonie aller Glieder bedurfte. Entsprechend wurde der gesunde vom kranken – Dysfunktionalitäten und/oder Störungen des Gleichgewichts aufweisenden – Körper unterschieden. Neben dieser Vorstellung bestand die des Fließens und der Fruchtbarkeit, die an das Wasser gebunden war. Dass sie sich ergänzten, manifestiert sich im Bereich des – mit dem Kreislauf des sozialen/politischen Körpers gleichgesetzten – gerechten Austauschs von Leistungen und Waren. Das Geld, das diesen ermöglichte, hatte in einem kontrollierten Fluss zu bleiben. Seine ferner belegte Gleichsetzung mit dem Nervensystem erscheint mir fast als interessantere Metapher, was an dieser Stelle aber nicht vertieft werden kann. Die Zirkulation und das mit dem Fließen und der Fruchtbarkeit einhergehende Wachstum wurden in Bezug auf das Gemeinwohl und als Schutz vor Hunger, Not und Unfreiheit verstanden und sind von den im 13. Jh. einsetzenden Reflexionen über den Markt, die Preis- und Wertbestimmung, die Verteilung von Ressourcen und Lasten nicht zu trennen. Das Wohlergehen der Stadt steht im Zentrum des zweiten Teils. Wie der Vf. darstellt, wurde die Unversehrtheit des sozialen/politischen Körpers im Mittelalter als bedroht empfunden und wurden nicht zuletzt geizige Personen respektive Wucherer als Gefahr für die wirtschaftliche und soziale Blüte und damit für das Gemeinwesen als Ganzes gesehen. Die eigennützige Gier nach Geld sowie sein Anhäufen und Zurückhalten geriet zum Inbegriff eines infektiösen und widernatürlichen Verhaltens von Feinden, Verdächtigen, Fremden und Nicht-Christen. Andererseits wurde zugleich vor der in die Armut und in den Verfall führenden Verschwendung gewarnt. Reichtum war nicht nur rechtmäßig zu erwerben, sondern auch richtig auszugeben. Die aufgrund des gewählten Fokus implizit bleibenden Hinweise von Giacomo Todeschini auf eine komplexe und veränderliche Praxis hinter den Ideen, auf die die Akteurinnen und Akteure rekurrierten, sind mit Nachdruck zu unterstreichen. Vertrauen und Handlungsmaximen wie Gerechtigkeit und Gleichheit, auf denen das angestrebte Gleichgewicht beruhte, wurden in Bezug sowohl auf den Abschluss von Rechtsgeschäften als auch auf das Zusammenspiel der Glieder des Körpers der Stadt, des Fürstentums, des Königtums etc. postuliert, in verschiedenen historischen Situationen jedoch unterschiedlich konnotiert. Bereits in Teil 1 und 2 verdeutlicht Giacomo Todeschini, wie sich das Nachdenken über die Ökonomie bis ins 17. Jh. weiterentwickelte und Anspruch auf Neutralität und empirische Glaubwürdigkeit zu erheben begann, Ausdrucksformen und Vorstellungen aber übernommen wurden. Seine Überlegungen werden in Teil 3 und 4, in denen er sich dem ökonomischen Körper der modernen Gesellschaft sowie der ökonomischen Theologie und den Ökonomen widmet, vertieft. Soziale Strukturen und wirtschaftliche Prozesse in Bildern des Körpers oder der Natur zu fassen und deterministisch zu interpretieren bzw. das Wachstum für ein indiskutables und heiliges Ziel zu erachten, war unabhängig von der Ausrichtung auch im 19. und 20. Jh. noch üblich. Giacomo Todeschini hat ein wichtiges, lesenswertes Buch vorgelegt, in dem er das ökonomische Denken der letzten 800 Jahre in den Blick nimmt und für das christlich geprägte Westeuropa Verbindungen zwischen dem Mittelalter und der Neuzeit aufzeigt. Für ein Publikum, das mit der Materie im Grundsatz vertraut oder bereit ist, sich auf die Dichte an zitierten Autoren und Argumentation einzulassen, eröffnet es den Dialog sowohl über das Detail als auch die großen Linien und schließlich ein Hinterfragen unseres Mindsets. Eine größere Wirkung kann eine Monografie nicht erzielen.+TABRE+Petra Schulte
Roberto Rusconi, Predicazione e predicatori in Italia nel medioevo e in età moderna, Roma (Viella) 2023 (La storia. Temi 111), 348 S., ISBN 979-12-5469-321-6, € 29.
Der Mediävist und Frühneuzeitler Roberto Rusconi, institutionell beheimatet an der Universität Roma Tre, ist unbestritten der Altmeister der italienischen Predigtforschung. Aus diesem Grunde ist es wenig verwunderlich, dass im Jahr 2023 noch einmal ein Buch erschienen ist, das zehn wichtige neuere und neueste sowie ältere Aufsätze von ihm zur italienischen Predigtgeschichte vereint. Die einzelnen, im Buch abgedruckten Beiträge sind in ganz verschiedenen Kontexten und zu unterschiedlichen Zeiten, d. h. Schaffensperioden, entstanden. Der ursprüngliche Publikationszeitraum umfasst konkret die 1980er, die 2000er und 2010er Jahre bis in die jüngste Gegenwart hinein. Herausgekommen ist so ein knapp 350 Seiten starkes Werk namens „Predicazione e predicatori in Italia nel medioevo e in età moderna“, welches man – folgt man diesem Titel – auch als ein klug konzipiertes Überblickswerk über die wichtigsten Stationen der historischen Homiletik vom Zeitalters Karls des Großen bis zur Controriforma verstehen könnte. Da Beiträge über einen längeren Forschungszeitraum hier versammelt sind, stellt das Buch auch so etwas wie einen gerafften Forschungsstand zu Kanzelreden dar. Gerade die sehr lesenswerte Einleitung spiegelt auch die Untersuchungstrends der letzten Jahrzehnte wider; Rusconi beschreibt hier in biografischer Erzählform seine akademischen Stationen und Kontakte und somit auch, wie einzelne Beiträge von ihm entstanden sind. Die einzelnen Kapitel sind chronologisch angeordnet und reichen vom Frühmittelalter bis ins 16. Jh. Aufgrund des vorgegebenen Rahmens der Rezension können hier die einzelnen Beiträge leider nicht den Besprechungsraum bekommen, den sie eigentlich verdienen. Festzuhalten bleibt: Die Gliederung ermöglicht eine multidimensionale Perspektive, die vom Großen ins Kleine fokussiert, etwa von Predigtstilen um das Jahr 1000 (vgl. Kapitel 2) hin zu einzelnen großen Kanzelrednern. Über das so entfaltete Panorama bleibt Platz für sozial- und kulturgeschichtliche oder medienhistorische Fragestellungen („parole in chiesa, parole in piazza“, S. 137; „dai manoscritti al pulpito alle stampe“, S. 227) wie für theologiegeschichtliche Interessen („La predica dell’Antichristo“, S. 269). Selbstverständlich können die insgesamt zehn Aufsätze Rusconis nicht das ganze Panorama der Predigtforschung abdecken. Man merkt dem Buch vielmehr deutlich seine nationale Perspektive an, etwa in der Betonung der Rolle der Mendikantenorden oder in dem Zuschnitt auf prominente Prediger wie den sozialengagierten Bernardino da Siena (1380–1444) oder den radikalen Revolutionär Girolamo da Ferrara (1452–1498), im deutschsprachigen Raum eher als Girolamo Savonarola bekannt (S. 227–268). Die Reformation als Einschnitt und Auftakt für eine katholische Controriforma erwähnt Rusconi, verknüpft sie aber direkt mit (post-)tridentinischen Debatten – eine Vorgehensweise, die vor dem Hintergrund der italienischen Kultur,- Sozial- und Kirchengeschichte völlig korrekt ist, für Deutschland als das Mutterland der Reformation aber natürlich anders hätte akzentuiert werden müssen. Wenngleich einschränkend zu dieser Beobachtung festgehalten werden muss, dass der Autor stets auch internationale Sekundärliteratur, häufig auch deutschsprachige, zitiert. Umgekehrt ist es aufschlussreich zu sehen, dass – unabhängig von nationalen Besonderheiten – Predigtthematiken nicht beliebig erweiterbar sind, sondern es mehr oder minder einen Kanon an gepredigten Inhalten gibt: wie etwa Antijudaismus (S. 185–207), das Beschwören von Kollektiv- und Individualschuld (S. 209–226) oder die Rede vom Antichrist, der beim Jüngsten Gericht wiederkommt (S. 269–290). In seinem Schlusswort macht sich der Vf. für ein interdisziplinäres Erforschen von Predigten, im Konzert von Geschichts-, Literatur- und Sprachwissenschaft stark (S. 321). Zu ergänzen blieben die Theologie sowie die Performance Studies, da Kanzelreden nicht nur vom Manuskript, sondern von ihrer Aufführung leb(t)en. Im Zeitalter digitaler Datensamples – Rusconi nutzt wie selbstverständlich Hilfsmittel aus dem Netz (S. 209) – möchte der Rezensent noch einmal die Möglichkeit stark machen, vor diesem Hintergrund stärker eine komparative Predigtforschung anzustoßen. Von einem transnationalen Datensample ausgehend Gemeinsamkeiten und Unterschiede von Kanzelreden in verschiedenen Ländern und Zeiträumen zu identifizieren, könnte für die künftige Forschung mehr als lohnend sein. Doch was das zu besprechende Werk angeht, bleibt vorerst der folgende Eindruck: Insgesamt hat der Viella-Verlag Rusconi ein würdiges Denkmal gesetzt, das durch eine „Nota bibliografica“, einen Anhang, der Rusconis sämtliche Veröffentlichungen zum Thema Predigt, beginnend im Jahr 1973 bis in das Jahr 2017 auflistet, abgerundet wird. Chapeau zu einem derartigen Œuvre!+TABRE+Florian Bock
The Cambridge History of Medieval Canon Law, ed. by Anders Winroth/John C. Wei, Cambridge-New York (Cambridge University Press) 2022, 638 pp., ISBN 978-1-107-02504-2, GBP 140.
Cominciamo dalla fine. Questa introduzione al diritto canonico medievale, composta di 30 capitoli redatti da 27 autori e autrici, si conclude con un capitolo finale del compianto Peter Landau (1935–2019), che ha riassunto lo „spirito del diritto canonico“ in dieci preziose pagine. Il diritto canonico medievale, scrive Landau, è un diritto religioso che si distingue dagli altri per il suo carattere razionale. Max Weber lo aveva sottolineato, a ragione, nel suo sforzo per l’identificazione dei caratteri distintivi della società occidentale, nelle sue componenti economiche, giuridiche e morali. Landau ritiene che una conoscenza approfondita e tecnica del diritto canonico medievale sia una „necessary precondition for a full understanding of the legal heritage of our modern world“ (p. 573). La storia del diritto, dunque, è per lui una disciplina innanzitutto giuridica, perché nessun giurista provveduto in Occidente può ignorare il processo di formazione dei concetti astratti che regolano la vita economica e civile; e in quasi tutti il diritto canonico ha svolto un ruolo fondamentale. Gli esempi di Landau sono scolpiti in brevissimi paragrafi che compongono il suo testo: la promulgazione ufficiale delle norme pontificie affermata da Innocenzo III; il ruolo dell’equità nel momento processuale, che insieme al meccanismo della dispensatio, introduce nell’ordinamento il principio della funzione sociale del diritto; l’individuazione del diritto pubblico e della pubblica utilità; il principio di legittimità e i meccanismi di elezione in base al principio maggioritario; le strutture corporative, la personalità giuridica degli enti, la finzione della persona giuridica: in sole tre righe Landau smentisce lo sforzo di Gierke di individuare l’origine delle corporazioni (Genossenschaften) in un mitico diritto germanico (p. 579); il diritto processuale civile e penale; il concetto di colpa e di responsabilità; il matrimonio e la famiglia, e il principio pacta sunt servanda, fondamentale per il diritto dei contratti. Dalla fine passiamo al principio, cioè all’introduzione firmata dai curatori Anders Winroth e John C. Wei, i quali invece pensano piuttosto a un pubblico di storici. Il vol., infatti, si pone due obiettivi principali: il primo è quello di introdurre „advanced students and professional historians to the basic history, sources, and doctrines of canon law“, perché possano includerle nel loro repertorio scientifico; il secondo è di offrire una panoramica delle scoperte recenti e delle nuove direzioni della ricerca specialistica nel settore (p. 6). I trenta capitoli sono divisi in tre grandi parti: le prime due, dedicate alla storia del diritto canonico medievale (capp. 1–9) e alle fonti e la diffusione (capp. 10–16), sono in realtà unitarie, dal momento che la prima è pure ampiamente centrata sulle fonti del diritto. La terza parte è intitolata „doctrine and society“, e offre osservazioni sul rapporto fra il diritto canonico e la società medievale, scegliendo di seguire la partizione tematica adottata dalle collezioni di decretali a partire dalla cosiddetta „Compilatio prima“ di Bernardo da Pavia, che divise il materiale normativo raccolto in cinque libri: iudex, iudicium, clerus, connubia, crimen. Ai primi due è dedicato un solo capitolo, di Wolfgang Müller, che evoca il processo ordalico, e la sua alternativa altomedievale rappresentata dalle liturgie penitenziali previste dai „libri de synodalibus causis“ di Regino di Prüm. Tra XI e XII secolo, la „svolta per il diritto“ della Chiesa è rappresentata innanzitutto dalla scelta per un processo razionale, e per l’abbandono dei riti decisori che coinvolgevano direttamente la divinità, soprattutto attraverso la liturgia sacramentale di benedizione degli strumenti ordalici, proibita dal Concilio Lateranense IV nel 1215. Müller rileva d’altra parte che la svolta „razionale“ non fu in grado di mutare del tutto i costumi delle comunità sul territorio. Le penitenze pubbliche, ad esempio, benché non più previste dall’ordinamento, continuarono ad esser praticate. In termini di „svolta del XII secolo“ si possono leggere anche altri capitoli del vol. Ad esempio quello di Charles de Miramon sulla proprietà ecclesiastica, le decime e gli spiritualia, cioè i poteri e i diritti legati all’ufficio svolto da un ecclesiastico o semplicemente al suo status. Questa corrispondenza tra la carica ecclesiastica ottenuta e il suo corrispettivo economico fa parte delle novità introdotte nella Chiesa – e quindi nella società europea – nel secolo XII. Accanto all’emergere dell’individuo laico, al quale il diritto romano reinterpretato attribuiva diritti appunto individuali, radicati nella persona fisica titolare di beni e di diritti di credito, anche i diritti dei soggetti ecclesiastici cominciano ad assumere un aspetto analogo, anche se ben distinto. Il cap. 19 sui benefici (di Andreas Meyer) illustra il complesso sistema delle prebende e dei benefici, che rappresenta tutto sommato il più compiuto e riuscito modello giuridico di attribuzione di risorse a enti e individui che non si basava sulla proprietà individuale e non prevedeva un’economia di mercato. Il sistema includeva anche le comunità femminili (cap. 20). Quanto al matrimonio e alla famiglia, cioè alla forma di vita prevista per i laici, la regolazione canonica è illustrata da due capitoli di eccellenti specialisti: Sara McDougall e Franck Roumy. Il quinto tema della distinzione di Bernardo da Pavia, crimen (il diritto penale canonico) è illustrato da quattro capitoli, il primo dei quali (26, della specialista Lotte Kéry) funge da introduzione. I limiti di spazio della presente recensione non consentono di dar conto dei singoli capitoli, ognuno per suo conto molto utile e interessante. Sia consentita solo una notazione generale e un paio di piccole osservazioni marginali. In generale mi pare che la visione che guida il vol. resti quella di una vicenda nettamente divisa in due fasi: il diritto canonico primitivo, che va dall’età costantiniana fino a quella gregoriana e al „Decretum“ di Graziano, e poi la seconda fase, quella del diritto canonico „ordinato“, basato sui tre pilastri della legislazione, della giurisdizione e della dottrina. A fare da spartiacque c’è l’età della Riforma, trattata nel cap. 4 da Christof Rolker, che ne analizza le specificità attraverso le discussioni „riformatrici“, centrate sul coniugio dei chierici, sul consenso e sugli impedimenti per il matrimonio dei laici, e poi sulla struttura della Chiesa, con i differenti ordini che la compongono e con la definizione degli uffici ecclesiastici. Infine c’è il tema dei sacramenti, essenziale per precisare la distinzione fra chierici e laici. Questa nuova impresa editoriale, dunque, non abbandona la categoria storiografica di „riforma gregoriana“, che pure è stata discussa recentemente (proprio da due degli autori: de Miramon e Austin), ma preferisce riproporre una narrazione che ruota intorno alla „rivoluzione“ della Chiesa nel senso già indicato da Weber e ripreso da Harold Berman. Questa visione rischia di svalutare l’immenso fenomeno storico della creazione di un sistema complesso di attribuzione e circolazione della ricchezza che prescindeva dalla proprietà privata individuale e dalle logiche dello scambio contrattuale, per fondarsi invece su una articolata struttura gerarchica. Ne trattano i primi cinque capitoli, tutti eccellenti, ma nell’architettura generale del vol. i secoli precedenti al XII risultano relegati al ruolo di necessaria preparazione di un’epifania basso-medievale. Due critiche minori, rivolte più al taglio editoriale che alla sostanza del vol. La prima è che una bibliografia finale non limitata soltanto agli studi sulle fonti primarie avrebbe giovato all’utilità del vol. La seconda è che il prezzo di vendita è troppo alto: 163 € per l’accesso alla versione elettronica, e 140 GBP per l’acquisto del libro cartaceo: se l’obiettivo dichiarato è quello di favorire giovani ricercatori e ricercatrici, un prezzo così alto non può che scoraggiare l’acquisto da parte di chi non può servirsi di strutture bibliotecarie sufficientemente dotate.+TABRE+Emanuele Conte
Carl-Friedrich Bieritz, Mit Sallust Geschichte schreiben. Inter- und Hypotextualität in der nachantiken Literatur, Leiden-Boston (Brill) 2024 (Mittellateinische Studien und Texte 57), [VIII], 582 S., ISBN 978-90-04-69326-5, € 185,50.
Sallust, zumindest mit seiner „De coniuratione Catilinae“, bis heute Schulautor, wurde auch in Mittelalter und Früher Neuzeit gelesen und von Geschichtsschreibern rezipiert. Dies ist keine neue Erkenntnis. Entsprechend geht der Vf., der spätestens seit seiner Diss. über die Diodor-Rezeption bei Louis Petremol (16. Jh.) als ausgewiesener Experte der Rezeptionsgeschichte in der Gattung der Historiographie gelten kann, bewusst weit über die Rezeptionsgeschichte hinaus, auch wenn er eingangs seine Untersuchung als „rezeptionsgeschichtliche Studie“ bezeichnet (S. 1). Der Untertitel und der Titel seines Eingangskapitels „Wie funktioniert nachantike lateinische Literatur?“ machen die weitergehende Intention seiner Studie deutlich. Damit geht es im Kern in der Tat um Inter- und Hypotextualität, auch wenn der Vf. – in einer Art Bescheidenheitstopos – eine ausführliche Methodendiskussion der literaturwissenschaftlichen Narratologie als nicht machbar ablehnt. Das inzwischen übliche einleitende Methodenkapitel wird freilich durch eine umfangreiche, sehr gut lesbare Schilderung der Fragestellungen und Vorgehensweise des Vf. ersetzt (S. 5–27). Im Mittelpunkt steht die „… als ‚rhetorisiert‘ oder ‚rhetorisch‘ bezeichnete Historiographie antiker Prägung …“ (S. 8) der Vormoderne, die sich als „hybride, weil sowohl faktuale wie fiktionalisierte“ Erzählung (S. 13) deutlich von der Geschichtsschreibung der Aufklärung und des 19. bis 21. Jh. abhebt. Das Spannungsfeld zwischen der Rezeption antiker Vorlagen (in Sprache, Rhetorik und Gattungsregeln) und der Bewältigung der geschilderten, zeitgenössischen Wirklichkeit wird folgend anhand von vier Fallbeispielen illustriert. Im Zentrum stehen mit dem „Saxonicum bellum“ Brunos von Merseburg ein hochmittelalterlicher Text aus dem späten 11. Jh. (S. 62–242) und mit „De bello Belgico“ von Famiano Strada eine Quelle aus der ersten Hälfte des 17. Jh. (S. 305–546). Die chronologisch dazwischenliegenden Werke Geralds von Wales „Topographia Hibernica“ und „Expugnatio Hibernica“ sowie Rahewins „Gesta Friderici I. imperatoris“ (jeweils aus dem 12. Jh.) dienen dazu, wichtige literaturwissenschaftliche Begriffe der „Bauform“ und der „politischen Sprache“ an Beispielen vorzustellen. Damit wurde ein sehr breiter zeitlicher Rahmen gewählt, der freilich besonders deutlich macht, welche langandauernde Auswirkung der antike Gattungsbegriff der (erzählenden) Historiographie und die Rezeption Sallusts und sallustischer Strukturelemente (wie fiktionaler Reden, Synkriseis oder Panoramaschilderungen) auch in völlig unterschiedlichen Kontexten aufwiesen. Die „Schlussbemerkung“ (S. 547–549) ist bewusst sehr kurzgehalten. Eine umfangreiche Bibliographie (S. 551–579) mit einem Schwerpunkt auf Ausgaben, Übersetzungen und Kommentaren sowie ein sehr nützliches Namens- und Werktitelverzeichnis (S. 580–582) runden die Arbeit ab. Eine Rezension dieser detaillierten Untersuchung mit ihren vielfältigen Einzelergebnissen fällt schwer. Das Werk ist in einem ersten Durchgang sehr flüssig zu lesen, in einer zweiten Schicht fordert die vom Vf. bewusst gewählte Methode, Einzelergebnisse mit (offenen) Fragen zu präsentieren und vielerorts zu relativieren, zu einem ständigen intellektuellen Dialog mit den antiken und nachantiken Geschichtsschreibern, vor allem aber mit dem Vf. heraus, in gewisser Hinsicht kann man auf methodischer Ebene eine „Intertextualität“ mit der sokratisch-platonischen Maieutik erkennen. Die Interaktion mit den Leserinnen und Lesern steht auf einer Metaebene in Konfrontation mit den Gattungsvorgaben der „analytischen wissenschaftlichen Abhandlung“. Damit wird auch die angesprochene Zielgruppe deutlich erweitert: Es handelt sich nicht – oder nicht nur – um eine philologische und literaturwissenschaftliche Rezeptionsgeschichte, sondern um die Erörterung der Frage, wie im kulturellen Kontext der (sprachlichen) Rückgriffsmöglichkeit Geschichte gedeutet und literarisch zu Papier gebracht werden konnte. Leserinnen und Lesern, die sich auf diesen Dialog einlassen, bietet sich eine Vielzahl von Erkenntnissen und Reflektionen. Unter diesem Gesichtspunkt ist die Lektüre auch über den Kreis der Philologie und der mittelalterlichen oder frühneuzeitlichen Geschichte hinaus überaus empfehlenswert. Vielleicht hätte sich die zusätzliche Aufnahme eines Fallbeispiels aus der Renaissance inhaltlich angeboten, zumal da Inter- und Hypotextualität in diesem Umfeld (vermeintlich) eine besonders große Rolle spielen, allerdings hätte dies den Umfang des Werks gesprengt. Ein kleiner Wermutstropfen: der Dialog von Leserinnen und Lesern mit dem Werk wird durch den Preis deutlich erschwert – es wird wohl kaum in viele private Bücherschränke Eingang finden.+TABRE+Thomas Hofmann
Elisabetta Caldelli/Raffaella Crociani (a cura di) con la collaborazione di Annalisa Anastasio/Marco Guardo/Valentina Sagaria Rossi, I manoscritti datati della Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana di Roma, Firenze (SISMEL. Edizioni del Galluzzo) 2022 (Manoscritti datati d’Italia 34), X, 124 pp. + 99 tav., ISBN 978-88-9290-142-1, € 98.
Novantacinque sono i manoscritti datati descritti in questo volume, ai quali se ne devono aggiungere diciannove scartati, perché presentano elementi cronici dubbi o attestazione sospetta di copista. Fanno tutti parte dei vari fondi della Biblioteca dell’Accademia dei Lincei e Corsiniana di Roma ampiamente e meticolosamente raccontati nella loro storia. In particolare quello della Biblioteca Corsiniana collocata dal 1713 nel Palazzo Pamphili, dove l’anno successivo nacque l’Accademia dei Quirini, e che nel luglio dello stesso anno, con l’elezione a pontefice di Lorenzo Corsini con il nome di Clemente XII e, successivamente, grazie a due suoi brevi si avviò a divenire un importante luogo di studio e di conservazione anche delle opere di eretici, o comunque contrarie alla religione cattolica, manoscritte e a stampa. L’autorizzazione papale sarebbe dovuta essere considerata valida anche in futuro. E mentre Giovanni Gaetano Bottari, nominato bibliotecario della Corsiniana, attende alla catalogazione dei manoscritti e ad eventuali accorti acquisti, di cui sono rimasti tre corposi voll., si lavora alla ristrutturazione della nuova sede nel Palazzo Riario alla Lungara e nel maggio 1755 si dispone l’apertura ufficiale della biblioteca all’uso pubblico. Questa accresce sempre di più il suo patrimonio grazie ai lasciti e agli acquisti, come ad esempio quello della raccolta di Nicolò Rossi, segretario amministratore di casa Corsini, impreziosita da numerosi incunaboli e da testi di classici greci e latini, anche in traduzione. Verso la fine del sec. XIX Palazzo Corsini divenne sede dell’Accademia dei Lincei inglobando così anche il fondo „linceo“ e dando origine a due entità librarie, quella degli scienziati e quella privata di una famiglia di ecclesiastici della Roma papalina. Tra i manoscritti corsiniani si deve richiamare qui il prezioso membranaceo con la „Concordia“ di Gioacchino da Fiore vergato nel primo quarto del sec. XIII nel monastero di San Giovanni in Fiore (Cors. 797), oppure l’esemplare datato della „Commedia“ del 1378 (Cors. 1265, scheda nr. 26). Le provenienze dei manoscritti sono per lo più italiane, in prevalenza romana e toscana, con alcuni esempi di origine nordica, come il „Decretum“ di Ivo di Chartres dell’inizio del sec. XII di probabili origini anglosassoni. Tra i manoscritti più antichi (X–XIV sec.) solo tre recano la data: la già ricordata „Commedia“, i „Factorum et dictorum memorabilia“ di Valerio Massimo del 1348 (Cors. 1143, scheda nr. 23), e il „Commento“ di Nicolas Trevet al „De consolatione philosophiae“ di Boezio del 1393 (scheda nr. 4). Tra i Rossiani da ricordare un volgarizzamento delle „Lettere a Lucilio“ di Seneca del 1373 (Rossi 32, scheda nr. 46), il „De remediis utriusque fortunae“ di Petrarca del 1391/1392 (Rossi 367, scheda nr. 90). Il presente catalogo, corredato da indici e tav., riprende una iniziativa a cui Armando Petrucci aveva dedicato un lungo e intenso periodo di lavoro (1956–1972) per una profonda e sistematica revisione, con intento scientifico, del materiale manoscritto presente in biblioteca, e aggiunge un tassello alla storia della collezione.+TABRE+Mariarosa Cortesi
Manoscritti datati del Sud. Inventario, a cura di Marco Palma/Teresa De Robertis/Nicoletta Giovè Marchioli, Firenze (SISMEL. Edizioni del Galluzzo) 2023 (Manoscritti datati d’Italia. Strumenti 2), [XVII], 200 S., ISBN 978-88-9290-189-6, € 42.
In Vorbereitung weiterer Bde. der einschlägigen Reihe „Manoscritti datati d’Italia“ kombinierten die Hg. in Zusammenarbeit mit zahlreichen Mitarbeiterinnen und Mitarbeitern die erste Sichtung der datierten Hss. des Regno delle Due Sicilie (mit Ausnahme der Bestände Siziliens, die bereits 2003 in Bd. 8 veröffentlicht wurden) mit einem vorläufigen Inventar, das zwar kürzere Katalogisate enthält, aber dennoch in bewährter Weise die wichtigsten Informationen zur beträchtlichen Zahl von 481 datierten Hss. in der süditalienischen Großregion liefert. Dieses Verzeichnis ist in der Unterreihe „Strumenti“ erschienen. Zweifelsohne war eine derartige erste Sichtung für die Planung künftiger Bde. unerlässlich, gleichzeitig können sich interessierte Forscherinnen und Forscher bereits jetzt in zuverlässiger Art und Weise über die jeweiligen Bestände informieren. Das Vorwort („Premessa“, S. XI–XV) stellt prägnant die statistischen Zahlen vor: Geographisch werden Bibliotheksbestände (in Einzelfällen auch Hss. in Archiven und sonstigen Kultureinrichtungen) in den Regionen Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia und Sardegna erfasst. Die (vorläufige) Gesamtzahl datierter mittelalterlicher Hss. beläuft sich auf 481. Dabei ist allerdings die Verteilung höchst unterschiedlich: Während sich 430 Hss. in Bibliotheken der Region Campania befinden (davon allein 393 in der Biblioteca Nazionale di Napoli), kann die Region Molise kein einziges datiertes Exemplar vorweisen. Während einige dieser Zahlen kaum überraschen, wie z. B. die hohe Besitzquote von über 80 % der Biblioteca Nazionale di Napoli, war wohl nicht zu erwarten, dass die gesamte Region Puglia mit durchaus reichen Archivbeständen und einer bis heute andauernden Buch- und Verlagstradition nur 14 datierte Hss. aufweist. Auch die extrem geringe Anzahl in Städten wie Salerno (drei Exemplare) oder Benevento (ein Exemplar) sind überraschend. Die Gründe hierfür werden nur kurz angedeutet, das Hauptmotiv dürfte aber sicher in der ausgeprägten Zentralisierung im Regno delle Due Sicilie seit dem Spätmittelalter liegen. Die Auflistung der einzelnen Hss. (S. 3–150) erfolgt strikt alphabetisch nach dem Sitz der jeweiligen Bibliothek. Neben der heutigen Signatur werden die Datierung, eine Kurzbeschreibung von Inhalt und Umfang bzw. Anordnung der Lagen und eine detaillierte Angabe der Fundstelle für die Datierung geboten. Eine in diesem Fall besonders willkommene Bibliographie (S. 151–158) und die gewohnten Indizes („Indice dei manoscritti“, „Indice cronologico“, „Autori, opere e incipit“ und „Nomi di persona e di luogo“) runden die Veröffentlichung ab. Inhaltlich sind bei den erfassten datierten Hss. antike Autoren sowie kanonistische und juristische Texte stark vertreten, die Anzahl humanistischer Schriften ist deutlich geringer als in den Zentren der italienischen Renaissance. Auffällig ist die relativ geringe Anzahl liturgischer Texte: Gemäß Index gibt es lediglich drei Bibel-Hss. Eine genauere Betrachtung inhaltlicher Schwerpunkte (und Lücken) kann freilich erst nach Vorlage der endgültigen Katalogbde. erfolgen. Den Hg. ist zu danken, dass sie ihre ersten Ergebnisse bei der Erfassung datierter Hss. im Regno bereits in dieser Phase zugänglich gemacht haben. Hinsichtlich elaborierter Katalogisate, des extrem nützlichen Bildmaterials und detaillierter Beschreibungen der Fonds der besitzenden Bibliotheken wartet die Forschung gespannt auf die hoffentlich bald erscheinenden Katalogbde.+TABRE+Thomas Hofmann
Susanne Ehrich/Jörg Oberste (Hg.), Herrscher in der Metropole. Spannungsfelder zwischen politischer Zentralität und urbaner Diversität in der Vormoderne, Regensburg (Schnell & Steiner) 2023 (Forum Mittelalter. Studien 20), 312 S., ISBN 978-3-7954-3812-8, € 49,95.
Im Zentrum des Sammelbd. steht das Verhältnis zwischen Herrscher und Stadt in vormodernen abendländischen Metropolen. Zwölf chronologisch angeordnete Beiträge, die sich vom 4. bis 14. Jh. erstrecken, widmen sich der Frage, wie sich Machthaber in der Metropole organisierten und wie sich dies auf die städtische Gesellschaft auswirkte. Teil dieses Spannungsfelds ist auch die Frage nach der herrscherlichen Repräsentation im urbanen Raum zur Legitimation der politischen und sakralen Macht eines Reiches (S. 8). Den Aufsätzen liegt ein breites Quellenspektrum von schriftlichen Zeugnissen und Bildprogrammen bis hin zur sakralen Architektur zugrunde, deren Inhalte stets in den Forschungskontext eingeordnet und kritisch untersucht werden. Die ersten drei Autorinnen und Autoren beschäftigen sich aus unterschiedlicher Perspektive mit Konstantinopel in den Zeiten von Konstantin d. Gr. bis hin zu Konstantinos VII. Während Muriel Moser die privaten, gesetzlichen und steuerlichen Privilegien anhand literarischer Zeugnisse analysiert und der Stadt überzeugend den Rang einer römischen Kolonie sowie ihren Räten das splendissimus zuspricht (S. 21–24), stützt sich Felix K. Maier anhand der Werke von Ammanius Marcellinus, Libanios und Themistios auf die Verschiebung vom Residenz- zum Palastkaisertum. Albrecht Berger verfolgt den feierlichen Gang durch die Stadt mittels kartographischer Darstellungen und eruiert die Prozesse des Kaisers anhand des Zeremonienbuches, in dem auch der Aufstieg und Fall der Metropole sowie die Kommunikationswege zwischen Herrscher und städtischer Gesellschaft verankert sind. Dabei veranschaulicht er anhand verschiedener Quellengattungen, darunter panegyrische Schriften zeitgenössischer Gelehrter, wie sich die Repräsentation des Herrschers und seine Tätigkeitsbereiche veränderten, also etwa von der Reichsgrenze in die Stadt verschoben wurden. In der Folge etablierte sich seiner Meinung nach eine eher defensive Haltung zum Krieg anstelle des bis dahin gültigen Bildes eines kriegerischen Herrschers an der Front (S. 40). Die römische Geschichte wird in zwei Beiträgen diskutiert: Manfred Luchterhandt thematisiert in seinem Überblick zu den kirchlichen Denkmälern die Schwierigkeiten der Erforschung postantiker Papstherrschaft und Gesellschaft. Dabei differenziert er zwischen deutscher und italienischer, englischer und französischer Mediävistik, in denen das Interesse an der städtischen Gesellschaft jeweils unterschiedlich ausgeprägt sei (S. 70, Anm. 9). So widme sich die deutsche Forschung immer noch der „anhaltenden Dominanz politikgeschichtlicher Narrative“, während sie das Faktum, dass die Quellen Tatbestände verzerrt darstellen, weitgehend unberücksichtigt ließen. Andreas Rehberg charakterisiert das Rom des Trecento als „eine Institution im Defensivmodus“ (S. 262), in der sich die Abwesenheit der Päpste und die unregelmäßige Anwesenheit der Kaiser auswirkte, ehe sich die Rückkehr der auf Urban V. folgenden Päpste in die Hauptstadt im städtischen Bildprogramm niederschlug (S. 163). So sei die Bildpräsenz während der avignonesischen Epoche aufgrund mangelnder Schriftzeugnisse nur anhand von Restaurierungsmaßnahmen und Kunstaufträgen zu rekonstruieren (S. 286). Der norditalienischen Metropole Mailand und ihren wechselhaften Beziehungen zu den weltlichen Herrschern des 11. und 12. Jh. widmen sich Alberto Spataro mit der Krönung und Hochzeit von Heinrich IV. und Konstanze von Hauteville sowie Étienne Doublier anhand der Chroniken Landulfs des Älteren, Arnulfs und Landulfs des Jüngeren. Knut Görich untersucht gezielt den Adventus Barbarossas in italienischen Städten. Überdies widmet sich Frank Engel mit Alfons XI. einer anderen Herrscherfigur, wenn er die Vor- und Nachteile von dessen Anwesenheit für die Stadtgesellschaft in den Blick nimmt. Christina Bröker betrachtet Heinrich III. und London aus der Perspektive der Emotionsgeschichte und konkludiert, dass in der Stadt ein „Spannungsverhältnis, das für Heinrich nicht ohne Konflikte und Verlust seiner Fassung aufzulösen war“ (S. 169), herrschte. Jörg Oberste zeigt anhand des Baus der Kathedrale Notre-Dame de Paris eindrücklich, wie Paris zum Herrschaftsmittelpunkt des Kapetingerreiches wurde. Dabei veranschaulicht er den Anspruch einer Metropole anhand eines architektonischen Bauwerks, indem er darlegt, wie eng die Kathedrale mit den Handlungsspielräumen von Herrschern wie Philipp II. verbunden war, und dass auch das urbane Bildprogramm zur Propaganda genutzt wurde. Die Verflechtung von Klerus und königlicher Verwaltung, etwa Ludwigs IX. mit seinem Kämmerer Johannes Sarracenus, verdeutlicht das beschriebene Phänomen auch im 14. Jh. (S. 203). Den „heiklen Status“ (S. 215) von Denkmälern erforscht Sascha Köhl am Beispiel von Denkmalsetzungen in Paris, London und Brügge, womit er die thematische Komplexität des vorliegenden Bd. erweitert. Die Publikation überzeugt durch die sorgfältige Auswahl von Beiträgen, deren überwiegende Zahl aus einer Tagung des Jahres 2021 hervorgeht. Die Autoren nähern sich der Thematik aus verschiedenen Perspektiven – kulturhistorisch, kunstwissenschaftlich oder emotionsgeschichtlich – und auf differierender Quellengrundlage. Trotz des Eurozentrismus fällt der Blick auf einen zeitlich und geographisch weitgefassten Raum von der Spätantike bis zum Spätmittelalter, in dem natürlich nicht alle Regionen und Epochen samt ihren Akteurinnen und Akteuren und Geschehnissen gleichermaßen erfasst werden konnten. Eine Erweiterung auf den asiatischen oder persischen Raum hätte der Zusammenstellung einen globalen Fokus geben können, aber möglicherweise die Kohärenz gestört. Resümierend handelt es sich um eine facettenreiche Aufsatzsammlung, die das vielschichtige Beziehungsfeld zwischen Macht und Urbanität im europäischen Mittelalter anhand anregender Beispiele beleuchtet.+TABRE+Beatrice Blümer
Fabrizio Oppedisano (Ed.), Between Ostrogothic and Carolingian Italy. Survivals, Revivals, Ruptures, Firenze (Firenze University Press) 2022 (Ruling in Hard Times. Patterns of Power and Practices of Government in the Making of Carolingian Italy 2), 262 S., ISBN 978-88-5518-663-6, € 29,90.
Der Bd. versammelt die Vorträge einer internationalen Tagung von Forscherinnen und Forschern der Geschichte, Klassischen Philologie und Archäologie, welche im November 2021 an der Scuola Normale Superiore in Pisa stattfand. Das Thema steht im Kontext eines von Giuseppe Albertoni (Trient) geleiteten Projekts zu Machtstrukturen und Praktiken des Regierens im karolingischen Italien. Die Beiträge kreisen um die Frage, ob und inwiefern das in den „Variae“ Cassiodors überlieferte Bild einer friedfertigen, auf Ausgleich von Romanen und Goten bedachten, die zivilisatorische Mission des römischen Imperium fortsetzenden Politik Theoderichs des Großen im Ostgotenreich zum Modell für karolingisches Regieren geworden sein könnte. Dem stehen nicht nur die erst im Hochmittelalter intensiv einsetzende Rezeption der „Variae“, sondern auch das weitgehende Schweigen karolingischer historiographischer Quellen zur ostgotischen Geschichte entgegen. Bestimmend für die Verdunklung des Andenkens an das Ostgotenreich Theoderichs war das Verdikt des von ihm zum Tode verurteilten Politikers und Philosophen Boethius, der Theoderich in der „Consolatio Philosophiae“ als rachegierigen König darstellte. Geschwärzt wurde das Image nachgerade durch Papst Gregors des Großen „Dialogi“, insbesondere dessen Bericht über Theoderichs Ende: er sei vom Papst Johannes ohne Gürtel und Schuhe in einen Vulkan, d. h. den Eingang zur Hölle, gestürzt worden (IV,31). Gegen diese Negativfolie ist schon 2002 darauf hingewiesen worden, dass Alkuin sich in den Verhandlungen um die Wiedereinsetzung Papst Leos III. vor der Kaiserkrönung Karls anhand der Akten auf den Präzedenzfall des Laurentianischen Schismas des Jahres 499 bezog und sich an Theoderichs damaligem Umgang mit der Situation orientierte. Der vorliegende Bd. bietet weitere untrügliche Indizien dafür, dass das Ostgotenreich für die Karolinger ein wichtiger Bezugspunkt ihrer imperialen Herrschaft war. Es wird deutlich, dass vor allem im Recht, der diplomatischen Korrespondenz und der herrschaftlichen Architektur der Karolingerzeit wahrscheinlich bewusste Anknüpfungen an das Vorbild des Ostgotenkönigs anzutreffen sind. Marco Cristini kann zeigen, dass die „Variae“ in der Klosterbibliothek von Lorsch vorhanden waren, dass wörtliche Anklänge an die Briefe schon in den diplomatischen Schreiben Karls des Großen an den byzantinischen Kaiser auftauchen, namentlich das programmatische Stück „Variae I,1“, begegnet, in welchem Cassiodor die Gleichrangigkeit des Ostgotenreichs mit der res publica der Oströmer behauptet. Dass Elemente der „Variae“ darüber hinaus ausgerechnet bei Paschasius Radbertus und in der Konstantinischen Schenkung auftauchen, verweist auf das Vorhandensein des Textes im Reichskloster Corbie, in welchem als Hort der Opposition gegen Ludwig den Frommen auch die Pseudo-Isidorischen Fälschungen kompiliert wurden. Stefan Esders macht auf das Vorhandensein von Kompendien spätantiker Rechtstexte im karolingischen Italien aufmerksam („Epitome Iuliani“, „Epitome Aegidii“) und konstatiert, dass eine Mischhs. aus dem karolingischen Verona des 9. Jh. Texte aus dem „Edictum Theoderici“, welches inzwischen in der Forschung mehrheitlich dem Ostgotenkönig zugeschrieben wird, enthielt. Dario Internullo zeigt, dass die „Variae“ von Richtern und Notaren in Rom und Latium schon im 10. und 11. Jh. als Formulierungsreservoir in Gerichtsverhandlungen benutzt wurden. Ihre Benutzung bereitete auf diese Weise die Renaissance der römischen Rechtskultur vor. Carlo Ferrari verweist auf eine aussagekräftige Parallele langobardischer und karolingischer imitatio imperii: wie bekanntlich Karl der Große nach der Kaiserkrönung eine Reiterstatue Theoderichs aus Ravenna mitnahm und im Jahre 801 vor dem Palast in Aachen aufstellte, so verfuhr schon der Langobardenkönig Aistulf im Jahre 751, als er nach der Eroberung Ravennas 751 die sog. Regisole in seine Königsstadt Pavia transportierte. Federico Cantini hebt hervor, dass sich gotische und karolingische herrschaftliche Architektur der römischen Vorbilder (palatia, praetoria, curiae) bediente und diese nach Möglichkeit weiter nutzte und erhielt. Erst Ende des 6. Jh. zeigte sich aufgrund des Endes der römischen Steuerpraxis und der infolgedessen einbrechenden Einnahmen eine Zäsur: viele Gebäude wurden aufgegeben oder verkleinert. Eine Neuentwicklung der Karolingerzeit war die Ansiedlung spezialisierter Handwerksbetriebe und Märkte um die Herrschaftssitze herum, die man effektiv besteuern konnte. Der durch ein Quellen-, Namen- und Ortsregister erschlossene Bd. unterstreicht die unzweifelhafte historische Langzeitwirkung des kurzlebigen Ostgotenreichs in Italien und regt zu deren weiterer Erforschung an.+TABRE+Verena Epp
Sabrina Blank/Caterina Cappuccio (a cura di), L’universalità del papato medievale (sec. VI–XIII). Nuove prospettive di ricerca, Milano (Vita e Pensiero) 2022 (Ordines. Studi su istituzioni e società nel medioevo europeo 13), 288 pp., ISBN 978-88-34348-39-0, € 25.
Questo vol. offre l’edizione degli atti del convegno tenutosi a Wuppertal nel 2019, dal titolo significativo „Quod solus Romanus pontifex iure dicatur universalis“, citazione del „Dictatus papae“ di Gregorio VII. Come indicato nella breve e concisa „Introduzione“, scritta dalle curatrici (pp. 9–13), si tratta di un approfondimento sulle norme e teorie sul primato petrino, sulla sua percezione nell’ambito curiale e, non per ultimo, sui rapporti ed interazioni tra la curia e le singole province della Chiesa. Il vol. si divide in tre sezioni tra cui la prima („Teorizzazioni del primato petrino“) focalizza sulle prospettive normative e storiche dietro il concetto dell’episcopato universale. Sabrina Blank (pp. 17–30) osserva il concetto della non-giudicabilità del papa e le modalità delle elezioni a soglia pontificia sulla base delle raccolte canoniche dell’XI e XII secolo. In questo quadro si distingue anche il nuovo ruolo del collegio cardinalizio. Marco Cristini (pp. 31–48) porta un esempio precoce dell’idea del primato romano, con lo studio della „Historia Apostolica“ offerta da Aratore a papa Vigilio nel 544. Marco Sirtoli (pp. 49–69) osserva l’idea del primato attraverso le opere dei poeti carolingi del XI secolo, autori con delle basi sia classiche che cristiane. La seconda sezione riguarda il punto di vista della stessa curia romana („Prospettive curiali e Patrimonium Petri“). Andrea A. Verardi (pp. 73–106) scrive sulle elezioni papali documentate nel „Liber Pontificalis“ (VI–IX secolo) tra gli aspetti tradizionalistici e le necessità di adattamento, senza dimenticare l’annoso problema degli scismi. Enrico Veneziani (pp. 107–124) riprende questa tematica, questa volta con l’esempio dell’elezione papale di Onorio II („Lamberto cardinale vescovo di Ostia“) nel dicembre 1124. Il caso è particolare, perché la descrizione dell’evento è stato fornito più tardi, durante lo scisma anacletiano, che questa narrazione a suo modo documenta. Stephan Pongratz (pp. 125–140) esamina il ruolo dei cardinali e della curia nel XII secolo attraverso le „Vitae pontificum romanorum“ composte dal cardinale Bosone (deceduto nel 1181), intese a legittimare il pontificato di Alessandro III, ma che attribuivano un ruolo rilevante al collegio cardinalizio. Eric Müller (pp. 141–160) studia il protocollo del notaio papale Bassus de Civitate (anni 1269–1276) per cernere il ruolo dei mercanti e banchieri – come quelli della società dei Bonsignori da Siena o di quella dei Scotti – nella curia romana. Alberto Spataro (pp. 161–179) osserva l’amministrazione del Patrimonium Sancti Petri tra il XII e il XIII secolo con uno studio approfondito del caso di Assisi e del suo territorio da Innocenzo III sino ad Alessandro IV, portando una serie di riflessioni innovativi, tra cui quelle sul ruolo non solo temporale ma anche spirituale del governo papale e sul sovrapporsi dei papi alle strutture statali preesistenti. La terza ed ultima sezione („Strumenti dell’universalizzazione“) riguarda le comunicazioni tra il centro e le province e, in particolare, le persone che la assicuravano. Maria Vezzoni (pp. 183–220) entra nel vivo del pontificato di Alessandro II (anni 1061–1073), periodo cruciale per l’affermazione dell’autorità papale e per la riforma della Chiesa, con un esame dell’azione dei legati pontifici e dei presuli locali e della teoria e prassi del concetto di primato petrino. Le opinioni delle personalità „centrali“ per la Chiesa vengono messe a confronto con delle voci provenienti dalla periferia e si constata come Alessandro II fosse stato ben conscio dell’universalità della sua missione. Caterina Ciccopiedi (pp. 221–237) si chiede se i vescovi del Nord Italia possano essere considerati come strumento del governo papale nei secoli XI e XII, esaminando i casi di tre metropoli ecclesiastiche della regione (Torino, Milano e Genova), notando come il rapporto tra i presuli e i papi fosse influenzato dal ridimensionamento del ruolo dei vescovi, condizionati dalle società cittadine dalle quali provenivano e dai loro capitoli cattedrali. Alla fine, cercando la protezione della Sede Apostolica, i presuli finiranno per diventare dei funzionari a suo servizio. Caterina Cappuccio (pp. 239–249) offre una descrizione degli sviluppi istituzionali della cappella pontificia nel XII secolo, con un interesse particolare per il ruolo dei cappellani papali come elemento di collegamento tra la curia e le Chiese locali. Francesco D’Angelo (pp. 251–272) descrive l’affermazione dell’autorità papale in Scandinavia (secoli XI–XII), ottimo esempio di una periferia della Chiesa, essendosi gli Scandinavi peraltro convertiti in cristianesimo solo a partire dal IX secolo. Ci troviamo dunque nel periodo del completamento dell’organizzazione ecclesiastica della regione e dei rapporti piuttosto intensi con la curia, assicurati dai legati apostolici. Una delle questioni chiave era l’emancipazione della Chiesa scandinava dalla tutela metropolitana di Brema-Amburgo (con la creazione delle arcidiocesi di Lund, Nidaros e Uppsala), con il conseguente stabilimento di rapporti diretti tra i papi e i regni del Nord. Questo vol. offre un ottimo esempio di miscellanea, focalizzandosi su un concetto preciso – quello dell’affermazione del primato dei papi romani – e su un arco cronologico predefinito e presentando una lunga serie di comunicazioni davvero inerenti alla tematica (il che purtroppo non è sempre il caso nei voll. dei convegni). Così, esso non affronta alcune tematiche collegate, potenzialmente fuorvianti, come il rapporto con la Chiesa d’Oriente o quello con il potere imperiale, mantenendosi sulla strada principale che è quella dello studio della teoria e della prassi del primato petrino nella curia e nelle singole province e degli uomini vettori di questo fenomeno, papi, legati cardinali, vescovi, cappellani, mercanti o altri che siano stati. I contributi sono significativi, realizzati con buona metodologia e per lo più innovativi. Avrei apprezzato una sintesi finale che riassumesse le singole comunicazioni ed evidenziasse i risultati ottenuti, anche perché l’introduzione del vol. offre solo alcuni veloci spunti iniziali.+TABRE+Kristjan Toomaspoeg
Maria Concetta Nicolai, Panfilo dei Longobardi. Il culto di San Panfilo Vescovo e Confessore in Abruzzo, Ortona (Edizioni Menabò) 2023, 184 pp., ISBN 979-12-8117610-2, € 16,50.
Il lettore non si aspetti di trovare in questo agile e denso volumetto le caratteristiche di un lavoro svolto secondo i crismi della ricerca storica come professione e che ponga una minuziosa attenzione ai limiti disciplinari. Del resto, Maria Concetta Nicolai storica non è e il lavoro su Panfilo rivela i suoi più forti interessi che sono rivolti verso l’antropologia culturale. Ciò è mostrato, in particolare, dal capitolo IX, intitolato „San Panfilo e i suoi patronati“ (si noti en passant un uso forse eccessivo delle maiuscole adottato nel libro per „Santo“, „Vescovo“, „Confessore“ e simili) dal quale si trae una serie di informazioni sulle molteplici vesti assunte da Panfilo nella cultura popolare abruzzese: egli è di volta in volta legato alla disponibilità di acqua e, con essa, alle contingenze primaverili, a seconda dell’annata positive o negative per i raccolti; o a rituali relativi al cibo e ai cerali; o, ancora, a riti particolari legati a peculiarità delle terre abruzzesi, ad esempio lo zafferano, o a doti non meno proprie della santità, come quelle di esorcista. Questi sono i contenuti del capitolo conclusivo che pare anche essere il più riuscito dell’opera. Procedendo, invece, con ordine e muovendo dalle pagine iniziali, il libro si apre con un primo capitolo intitolato „le fonti“ (pp. 7–13) con il quale la studiosa intende rendere noti i testi agiografici cui dedicherà la sua attenzione. L’esposizione potrebbe essere più lineare e intellegibile, se supportata da un apparato critico meglio organizzato e da una organizzazione forse meno partecipata ma più chiara. Il secondo capitolo (pp. 14–30) è di grande utilità per la diffusione della conoscenza della vicenda di Panfilo, traducendo in italiano due vite di san Panfilo tratte dagli „Acta Sanctorum“. Con il terzo capitolo (pp. 31–50) si arriva alla ricezione della vicenda del vescovo abruzzese tra i longobardi che si insediarono in queste terre. L’autrice offre, così, un quadro dei protagonisti delle vicende del popolo longobardo nel secolo VII, nel corso del quale si dipanò la vicenda personale di Panfilo: se la bibliografia citata è piuttosto difforme, l’insieme può senz’altro essere utile per il lettore privo di conoscenze di base relative ai principali protagonisti della storia dei longobardi in questo secolo. Più aggiornata la bibliografia sia di taglio storico sia archeologico su cui si basa il quarto capitolo e che offre una biografia di Panfilo, mentre nel quinto è sviluppata una prima parte di „note agiografiche“ dalle quali comincia a trasparire il forte interesse antropologico della studiosa che culmina nell’ultimo capitolo, di cui si è sopra scritto, non prima di aver dedicato agli aspetti agiografici un ulteriore capitolo e di aver tratteggiato nel successivo, il VII, il passaggio di Panfilo da vescovo di Valva a „santo dell’identità etnica“ fortemente venerato, ma anche conteso, tra più centri delle odierne terre abruzzesi. Il libro era stato preceduto da una prima versione, più breve e di facile reperimento on line, dalla quale si evince che questo su Panfilo sia stato un impegno prolungato nel tempo da parte dell’autrice, al quale ha dedicato molte energie. Nonostante vi si possano ravvisare imperfezioni e limiti – ad esempio, un indice dei toponimi e, soprattutto, degli antroponimi, avrebbe senz’altro agevolato l’orientarsi tra le pagine – il libro si propone come un esempio di quella vivacità culturale di un territorio che può fornire spunti interessanti per gli appassionati locali ma anche per i ricercatori pur palesando, talvolta, scelte di metodo che non convincono a pieno e una certa farraginosità dell’esposizione. „Panfilo dei Longobardi“ è una pubblicazione che mostra, come già in passato hanno fatto più voluminose opere, quanto gli Abruzzi siano una terra in cui si sono concretizzati fenomeni complessi e di grande interesse: in particolare, non ne è stata adeguatamente rimarcata l’importanza nei secoli altomedievali che hanno contribuito a produrre anche per quelli successivi una certa poliedricità di immagini. Manca così, ad oggi, una sintesi sulle vicende di queste terre fino al secolo X – senza sminuire il valore di ottimi lavori, a partire dalla monografia di Laurent Feller „Les Abruzzes médiévales del 1998“ – da inserire nel più ampio quadro di quei territori che vissero il contraccolpo dei mutamenti istituzionali che interessarono Roma nel passaggio dalla tarda antichità all’alto medioevo. Un’area che si potrebbe ricomprendere in quella definizione di „Italia mediana“ coniata dagli storici della lingua, come ha di recente proposto Carlo Tedeschi nella „Prefazione“ (pp. V–VI) a un altro utile volume per orientarsi nelle vicende abruzzesi, quella raccolta di studi di Luigi Pellegrini intitolata „Abruzzo medievale“ uscita per i tipi dell’ISIME nel 2021.+TABRE+Mario Marrocchi
Giuseppe Albertoni/Francesco Borri (a cura di), Spes Italiae. Il regno di Pipino, i Carolingi e l’Italia (781–810), Turnhout (Brepols) 2022 (Collection Haut Moyen Âge 44), 433 pp., fig., ISBN 978-2-503-59946-5, € 80.
The thirty-year reign of Pippin, son of Charlemagne, crowned king of Italy at the tender age of four in 781, has been too often overlooked hitherto. This book makes a strong case for the reign’s importance, not only for the light it may throw on Carolingian government in general, but also for Pippin of Italy’s own achievements. The book also acts as a welcome complement to the volume edited by Clemens Gantner and Walter Pohl („After Charlemagne. Carolingian Italy and its Rulers“, Cambridge 2021); indeed, eight of the authors, including Pohl and Gantner, in „Spes Italiae“ also contributed chapters to „After Charlemagne“. An underlying emphasis of many of the chapters in this book is that Pippin’s kingdom was a new political creation a few short years after Charlemagne’s conquest of the Lombard kingdom in 774. With a child king at its head and aided by a small group of counsellors, it was an experiment. This inevitably created uncertainties and potential opportunities. Thus a number of the chapters consider how ceremonial and passive as opposed to how active a role was the child king able to play? Peter Štih expresses the political situation most bluntly: who really ruled Italy between 774 and 810? There would be a case for extending this question to embrace Pippin’s son Bernhard’s reign (810–817) as well. What was the impact of this experiment on the ideology of kingship itself, and how was the royal role transformed during these three decades? As an indirect response to such questions, a number of chapters dwell on Pippin’s military exploits; these can be recognized as an assertion of leadership by Pippin once he had come of age. Conversely, the Carolingian capitularies relating to Italy during Pippin’s reign suggest the extension of Charlemagne’s authority into Italy. The contemporaneous and similarly experimental creation of the subkingdom of Aquitaine, as Stefano Gasparri observes, offers some valuable points of comparison with the three-year old Louis, another son of Charlemagne, and also with a group of Frankish magnates to govern the polity. Yet, as Giuseppe Albertoni and Francesco Borri stress in their introduction, Italy’s position was both unique and anomalous within the Frankish empire, not only because of the many-faceted legacy of the Lombard King Desiderius, but also because of the special relationship with Rome and its bishop and, after the coronation of Charlemagne as emperor by Pope Leo III in 800, the claim to the imperial title with the kingship of Italy. Assessment of Pippin’s regime is hampered by disparate and often ambiguous sources, though Italy’s position implicit in Charlemagne’s Divisio regnorum of 806 gives some notion of the achievement of the young Pippin and his advisers in these years. By 806, Pippin’s realm included much of Bavaria and Alemannia, though it explicitly excluded Rome and the „Republic of St Peter“. The volume’s thematic sections consider the birth of the regnum Italiae, Pippin’s military campaigns, especially his successes against the Avars, and diverse representations of Pippin as lawgiver, soldier in coin, manuscripts and frescoes. Strong cases are made for the political and strategic importance of the northeast of Italy and Istria, for Pippin’s developing role in diplomacy as well as a military leader, and for the responses within Italy to local needs of government in a newly-conquered kingdom. As Marco Stoffella argues, these are far more important an element of the Divisio regnorum of 806 than the questions of empire usually credited to it by modern scholars. A set of particularly illuminating papers explores Pippin’s reign from a literary and cultural perspective, exploring the representation and construction of the historical memory of Pippin in a variety of visual, narrative and literary sources. These were primarily associated with Pippin’s court, such as the famous Avar victory poem, and the dialogue between Pippin and Alcuin. The latter in Cinzia Grifoni’s discussion yields hints of Pippin’s education and his own conception of his role as king. The authors nevertheless are perhaps a little too trusting in their restrained critique of the individuals behind the throne of a child king, though they are admittedly much hampered by the meagreness of the surviving evidence. They seem too to have been insufficiently curious about how this experimental and inevitably volatile political institution came about, as well as why it was accepted. A useful comparison might be made with the period of child emperors in Italy in the fourth and fifth centuries, analysed by Meaghan McEvoy („Child Emperor Rule in the Late Roman West, AD 357–455“, Oxford 2013). Generally, however, new thinking and a notable diversity of fresh perspectives on familiar sources make this volume an invaluable contribution to our knowledge both of early medieval Italy and of the ramifications of Carolingian rule more generally. The authors make clear how many more aspects of the political, ecclesiastical and cultural aspects of the history of the kingdom of Italy remain to be explored, not least in relation to the rich documentary and manuscript evidence surviving from northern Italy. The implications of the group of manuscripts that Bernhard Bischoff suggested could be associated with the court of Pippin, for example, merit further investigation. The cultural activity of the court itself and the degree to which the extension of Carolingian church reforms were to any extent orchestrated from the court would be topics to develop further. Nevertheless, the energy and expertise brought to all the discussions make this book an invaluable stimulus to further research as well as an engaging set of important studies.+TABRE+Rosamond McKitterick
Richard Hodges, La Pompei del Medioevo. San Vincenzo al Volturno dalle origini al sacco dei Saraceni, Roma (Carocci) 2023 (Biblioteca di testi e studi), 148 pp., ISBN 978-88-290-2053-9, € 20.
La passata grandezza e un destino traumatico accomunano senza dubbio la città romana di Pompei e il monastero di San Vincenzo al Volturno, cui il volume di Richard Hodges è dedicato. Responsabile degli scavi archeologici per diciotto anni, a partire dalla prima campagna di scavo nel 1979, l’autore ha condensato scoperte, ipotesi e acquisizioni di questo lungo periodo di studi in un agile volume dal taglio decisamente divulgativo – non sono presenti note a piè di pagina e la bibliografia proposta è ridotta all’osso – e dalla linea interpretativa chiara e netta: l’abbazia benedettina di San Vincenzo al Volturno raggiunse l’apice dello splendore economico e politico tra la fine del secolo VIII e la prima metà del IX, quando la città monastica toccava i cinque ettari di estensione; successivamente, prima, il violento terremoto del giugno 847 e, poi, il saccheggio saraceno dell’ottobre 881 ne decretarono il declino irreversibile, fino all’abbandono definitivo del sito alla sinistra del Volturno nel giro di due secoli. Attraverso il modello antropologico della temple society, applicato alla Chiesa medievale occidentale da Ian Wood, l’abbazia vulturnense è interpretata come medium delle relazioni che la società beneventana tesseva con il resto dell’Europa carolingia e, in ottica soteriologica, con l’aldilà. I punti nodali del testo sono due: la descrizione delle varie fasi architettoniche del complesso monastico dal secolo VIII alla metà del successivo; testare alla prova delle risultanze archeologiche il racconto che il monaco Giovanni tramandò del saccheggio delle bande saracene di Sawdān nel „Chronicon vulturnense“ al principio del secolo XII. Dopo la „Prefazione“, dove si forniscono le principali coordinate storiche per la vicenda di San Vincenzo nel periodo medievale, e un primo capitolo introduttivo, in cui l’autore racconta l’esperienza dell’inizio degli scavi negli anni Ottanta, la ricostruzione del „più grande monastero italiano del IX secolo“ (p. 25) entra nel vivo. Situato su un declivio sulla sinistra del fiume Volturno, a due chilometri dalla sua sorgente, il monastero occupava un’area abitata fin dal Paleolitico superiore. Risale al VII secolo a. C. un insediamento sannita, che, in età repubblicana, divenne un vicus e poi una villa rustica, frequentata fino al secolo IV o all’inizio del V. Nel tardo V secolo, il nuovo insediamento cambiò sponda del fiume collocandosi a sinistra, dove sarebbe sorta l’abbazia medievale. Questo stanziamento tardoantico comprendeva due chiese e un’ampia costruzione a torre; risulta tuttavia già abbandonato al principio del secolo VII. Sui suoi resti, nel 703 fu fondato un monastero di modeste dimensioni, composto da due chiese e una torre, probabilmente la residenza dei primi monaci. Per il periodo altomedievale, gli scavi hanno evidenziato sei fasi costruttive: le fasi 3a e 3b (703–784) dalla fondazione ai primi decenni di vita del monastero; la fase 3c (ca. 783–792), corrispondente al governo dell’abate Paolo che riorganizzò e ampliò il cenobio introducendo le nuove ideologie carolingie di riforma monastica; la fase 4 (792–817), quando fu abate Giosuè, che diede avvio a nuove imprese edilizie, tra cui la costruzione dell’imponente chiesa di San Vincenzo Maggiore; la fase 5a1 (817–842), quando l’abbazia raggiunse il massimo splendore sotto gli abati Talarico ed Epifanio, di cui ancora si conserva la cripta affrescata; e infine la fase 5a2 (842–844), quando l’abate Totone modificò ancora la chiesa maggiore e le officine annesse. Il momento di più decisa trasformazione è segnato dalla fase 4, quando i monaci beneficiarono del sostegno e delle donazioni dei duchi di Benevento. In quella fase, il complesso monastico era composto dalla grande basilica di San Vincenzo Maggiore, dotata di atrio sopraelevato; da un triclinium detto „palazzo beneventano“ perché a disposizione degli ospiti legati alla famiglia ducale; dal palazzo abbaziale a due piani; dalle strutture monastiche, costituite da refettorio, lavatorium, sala di riunione e dormitorio; e da officine artigianali collettive poste su un fianco della basilica principale. I tre capitoli successivi analizzano gli eventi che portarono alla crisi e, infine, all’abbandono del cenobio. Il vero spartiacque è rappresentato dal terremoto del giugno 847: dopo l’evento, cessò la realizzazione dei grandi apparati decorativi e si interruppero anche i nuovi progetti edilizi. Pochi anni dopo, nell’861, l’emiro di Bari Sawdān si presentò una prima volta a San Vincenzo richiedendo una taglia in denaro per non distruggerla. La seconda visita, il 10 ottobre 881, segnò invece l’epilogo della vicenda monastica: il monaco Giovanni racconta che bande armate di predoni infedeli irruppero nell’abbazia, sterminarono gran parte dei monaci e incendiarono l’intero complesso. L’esame delle stratigrafie si discosta però decisamente da questo resoconto, poiché i danni riscontrati furono parziali e circoscritti ad alcune aree: il palazzo abbaziale, le officine e le sepolture dei monaci. Se ne ricava quindi l’impressione di un attacco puntuale, volto esclusivamente a colpire i tesori abbaziali e la persona dell’abate stesso, Maione. Il numero di punte di freccia ritrovate veicola poi l’idea di un gruppo assai ristretto di assalitori. In conclusione, l’azione si configura piuttosto come una spedizione punitiva ai danni dei vertici della comunità che, in quel momento, avevano nel vescovo e duca di Napoli Attanasio un avversario ben più agguerrito e risoluto, rispetto all’emiro di Bari medesimo. Il risultato fu comunque la rovina di San Vincenzo, che tuttavia aveva imboccato già da qualche decennio la via del declino. Come racconta in sintesi l’ultimo capitolo, a poco valse il ritorno della comunità e la rifondazione nel 916. Quando poi l’abate Gerardo decise di creare un nuovo plesso cenobitico sull’altra sponda del Volturno (ca. 1115), ratificò l’irrilevanza di San Vincenzo nel nuovo mondo del secolo XII, tuttavia propiziò la scoperta di questa „Pompei del medioevo“ per i posteri che sarebbero venuti.+TABRE++TABRE+Edoardo Manarini
François Bougard, Le royaume d’Italie de Louis II à Otton Ier (840–968). Histoire politique, Leipzig (Eudora Verlag) 2022 (Italia Regia 5), 376 pp., ill., ISBN 978-3-938533-80-2, € 99.
Il vol. offre una narrazione complessiva delle vicende politiche che interessarono la parte centro-settentrionale della penisola italiana in un arco cronologico che si estende dalla metà del IX fino alla metà del X secolo. Al centro della ricca e documentata analisi offerta da François Bougard si stagliano le lotte per il potere nel Regno italico che, dopo la morte dell’imperatore Ludovico II (850–875), videro come protagonisti numerosi sovrani e aspiranti sovrani, che erano tutti in grado di vantare un’ascendenza carolingia, anche se solo per parte di madre. Accanto a questi ultimi agivano inoltre gli esponenti della grande aristocrazia del regno, laici ed ecclesiastici, ciascuno con i propri interessi politici, che sostenevano l’uno o l’altro candidato muovendosi all’interno di reti di relazioni fluide e talvolta sovrapposte. La storia politica del Regno italico viene presentata attraverso una scansione cronologica divisa in tre fasi, al termine della quale, in un capitolo che funge anche da conclusione, l’autore puntualizza alcuni nodi e questioni storiografiche tirando le fila rispetto a quanto emerso nel corso della lunga trattazione precedente. La prima fase copre la fase tardo-carolingia del regno, quindi tutto ciò che va dal regno di Ludovico II alla morte di Carlo il Grosso (881–888) ed è pertanto legata a doppio filo con il mondo transalpino, con i cui modelli e pratiche del potere il periodo successivo non smetterà comunque di dialogare. La fase intermedia corrisponde invece al periodo più intensamente conflittuale, che vede come protagonista indiscusso Berengario del Friuli (888–924) e si conclude con l’accesso al potere di Ugo di Provenza (926–947). Il regno di quest’ultimo inaugurò infatti un nuovo momento, durante il quale gli equilibri politici dell’Italia centro-settentrionale vennero di nuovo influenzati in modo preponderante dagli equilibri d’oltralpe. Questo periodo si conclude con il regno di Ottone I (951–973), vale a dire con la definitiva associazione delle aree germanica e italica sotto il cappello del rinnovato Impero. La pubblicazione, corredata di mappe, alberi genealogici e da una ricca bibliografia, ha innanzitutto un merito, che potrebbe forse sembrare banale sottolineare: si tratta di una narrazione storiograficamente e metodologicamente aggiornata riguardante un periodo, quello dei cosiddetti re di Pavia, che da tempo non veniva affrontato nel suo insieme. Il vol. ha senz’altro potuto beneficiare delle numerose ricerche condotte nell’ultimo ventennio sul Regno italico, sia quelle inerenti alla gestione dei beni fiscali da parte del potere regio sia quelle che si sono concentrate su ambiti regionali ben individualizzati, come per esempio la Toscana, e/o su specifici individui e gruppi parentali facenti parte dell’élite centro-settentrionale. A questi studi recenti si devono ovviamente affiancare quelli condotti da Bougard medesimo, che hanno spesso avuto al centro la storia politica e sociale dell’Italia carolingia e ottoniana, con uno spiccato interesse per la produzione documentaria. Le vicende politiche del Regno italico vengono presentate attraverso un ricco dossier di fonti, all’interno del quale i diplomi e le carte hanno senz’altro un posto privilegiato. Tra le fonti prese in considerazione vi sono anche le narrazioni storiografiche coeve, a cui si sommano eventuali raccolte epistolari, testi agiografici e componimenti poetici. In alcuni casi esse sono efficacemente inquadrate non solo nello sviluppo delle vicende politiche, ma anche nel dibattito storiografico, come nel caso della famosa lettera di Berta di Toscana al califfo al-Muktafl. L’autore si muove con la consueta agilità e cognizione all’interno di un insieme articolato di testimonianze, sottolineando i limiti e le potenzialità della documentazione disponibile, che risulta più densa per alcune aree o città (Lucca, Piacenza) e assai limitata per altre. In questo volume Bougard affronta (o riaffronta) alcune questioni centrali per la storia dell’Europa post-carolingia, come il rapporto delle élites con il potere regio e la loro progressiva trasformazione in senso regionale. Nel caso della penisola italiana si assiste a una certa mobilità delle aristocrazie dovuta alla presenza di elementi transalpini, che non obliterarono appieno la componente longobarda, e alla moltiplicazione degli attori regi in competizione tra loro. Nonostante la centralità indiscussa di Pavia, ciò condusse alla proliferazione delle corti regie e, più in generale, portò i sovrani italici a consolidare i rispettivi network attraverso la delega di funzioni politiche e beni fiscali. In alcuni casi ciò diede avvio a fenomeni di mobilità sociale ascendente, spesso combinata con unioni matrimoniali ipergamiche, mentre in altre situazioni i sovrani finirono semplicemente per riconoscere e legittimare egemonie regionali già esistenti. Come messo in luce dall’autore, le fedeltà dei membri dell’élite erano variabili e spesso il candidato di riferimento venne cambiato a seguito di interessi politici contingenti, come risulta evidente dall’analisi di alcuni esempi in ambito episcopale. Tra i temi che caratterizzano il dibattito sull’Europa postcarolingia ci sono anche quelli riguardanti la dimensione spaziale dell’autorità politica, che viene attraversato da Bougard enfatizzando il ruolo di Pavia a fronte degli altri palatia, e le modalità di accesso al potere regio, quindi più in generale la percezione della legittimità dei candidati. L’autore sottolinea a più riprese il ruolo dell’assemblea, che si teneva a Pavia ed era composta dai grandi del regno, e solo in seconda battuta quello del papa, che conferiva sì il titolo imperiale ma che rimane perlopiù sullo sfondo, agganciato ancora ad equilibri di potere esclusivamente romani. In questo ambito si colloca anche l’istituto dell’associazione al potere, utilizzato con frequenza, anche se spesso inutilmente, dai re italici per garantire l’affermarsi di una dinastia. Questo istituto viene ricondotto da Bougard, secondo quanto enunciato da alcune fonti, al mos grecorum, ma forse potrebbe pure collegarsi all’influenza esercitata dai principati longobardi dell’Italia meridionale sul Regno italico (via Spoleto), che l’autore mette giustamente in evidenza per i regni di Ludovico II e Guido di Spoleto. Bougard enfatizza inoltre il ruolo politico esercitato dai membri femminili della famiglia regia, ai quali aveva già dedicato alcune ricerche in passato, e in particolare sottolinea come la loro ascendenza carolingia venisse spesso sfruttata per sostenere e convalidare l’autorità politica di uno o dell’altro candidato. Se il matrimonio con donne di stirpe regia venne utilizzato per ottenere legittimità e alleanze, come nel caso emblematico di Ottone I e Adelaide, esse si dimostrarono centrali anche in ambito memoriale, come risulta dalle fondazioni monastiche volute da Angelberga, in cui confluì il noto dotario della regina. Aggirando ogni rischio di cadere nella storia evenemenziale, il vol. si pone quindi come uno strumento aggiornato per l’accesso alla storia politica del Regno italico e dialoga in modo efficace con i nodi principali del dibattito storiografico intorno all’Europa postcarolingia.+TABRE+Giulia Zornetta
Hannes Engl, Rekonfigurationen regionaler Ordnungen. Die religiösen Gemeinschaften in Lothringen und das Papsttum (ca. 930–1130), Wien-Weimar-Köln (Böhlau) 2023 (Regesta Imperii. Beihefte: Forschungen zur Kaiser- und Papstgeschichte des Mittelalters 49), 345 pp., ISBN 978-3-412-52821-8, € 55.
Oggetto del vol. di Hannes Engl, che presenta la versione rielaborata della sua tesi di dottorato discussa nel 2020 e pubblicata nel 2023 per la collana „Forschungen zur Kaiser- und Papstgeschichte des Mittelalters, Beihefte zu J. F. Böhmer, Regesta Imperii“, è lo studio delle interazioni tra il papato e le comunità religiose (canonici secolari, canonici regolari e monaci benedettini) della Lorena tra il 930 e il 1130. La regione che Engl si propone di studiare è costituita dall’area delle tre diocesi suffraganee di Trier, Metz, Toul e Verdun, identificabili con l’attuale regione della Lorena – con l’eccezione di parte del territorio della diocesi di Metz che sconfinava nell’attuale palatinato occidentale. Si tratta di una regione che si può considerare senza problemi come di confine tra la Francia e il Reich e come un’area, a motivo proprio del suo ruolo di „zona di passaggio“ (p. 16), particolarmente passibile di sperimentazioni da parte del papato. L’arco cronologico coperto dalla ricerca pone come inizio la riforma di Gorze dei monasteri del 930 e comprende dunque la fine dell’età carolingia, la riforma cosiddetta „gregoriana“ così come la cosiddetta lotta per le investiture, fino a terminare con il XII secolo, alle soglie dello scisma innocenziano (1130). Il cuore fondamentale della ricerca è da ricondursi alla ricerca sugli attori, prerequisiti, cause, metodi e conseguenze dell’interazione tra il papato, le autorità locali, e le comunità religiose (p. 16). Quali vie seguirono tali contatti? In che modo tali rapporti sono rintracciabili nella documentazione edita ed inedita? È possibile identificare dei momenti di cesura o di svolta nel corso di queste interazioni? La ricerca di Hannes Engl si inserisce molto coerentemente all’interno di due tendenze cardine della storiografia tedesca – e internazionale – relative alla storia del papato: in primo luogo, si colloca, come indica la cronologia scelta, in una storiografia che considera la riforma gregoriana come un fenomeno non riducibile esclusivamente al pur fondamentale pontificato di Gregorio VII, ma come un complesso di riforme portate avanti in un arco temporale più esteso. In secondo luogo, la scelta di considerare il papato nel suo rapporto con le chiese locali, e in particolare nello studio degli attori di tale interazione, prende le mosse dagli studi coordinati da Jochen Johrendt e Harald Müller sul rapporto tra il centro e le province ecclesiastiche, pubblicati nel 2008 e nel 2012 e che hanno inaugurato una nuova linea di ricerca nella storiografia relativa al papato medievale, mettendo in evidenza, così come Hannes Engl nel suo lavoro, il ruolo attivo svolto dalle chiese locali nel dialogo con la sede romana. Dopo una breve introduzione sulle scarsamente documentate interazioni tra il papato e la Lorena nell’età carolingia, l’autore sviluppa in primo luogo un’analisi cronologica e quantitativa di tali relazioni e individua tre momenti di cesura. In primo luogo considera la lunga portata della riforma monastica di Gorze (930) nelle diverse realtà religiose delle diocesi della Lorena (pp. 27–57); si sofferma poi sul significato del pontificato di Leone IX, che anche da pontefice rimase vescovo di Toul, così come dei suoi successori (pp. 58–86), per giungere infine all’ultimo momento di svolta individuato, quello della cosiddetta riforma gregoriana e le sue conseguenze fino al 1130 (pp. 87–144). Nella seconda parte del suo lavoro Engl si interroga sulle forme e sui fattori, attori, strumenti, che permisero e incrementarono il contatto tra il papato e le comunità della Lorena. Ricorrono qui motivi dell’interazione più volte sottolineati dalla storiografia del papato pieno medioevale in particolare da coloro che si sono occupati del rapporto con le chiese locali, e che trovano dunque ulteriore e ben documentata conferma in questa ricerca: l’impiego consapevole dei privilegi papali, l’incremento dell’attività legatizia, le nomine episcopali così come le consacrazioni di chiese e altari da parte di Leone IX e l’incremento dei viaggi dei pontefici riformatori. È in questa direzione che sono da considerarsi i casi presi in esame sia delle immunità monastiche di Saint-Vanne e Gorze, sia l’analisi del processo tra Chamousey e Remiremont. Il vol. di Hannes Engl presenta un contributo importante non solo di storia regionale (Landesgeschichte) ma ovviamente anche di storia del papato, inserendosi nelle più attuali tendenze storiografiche; il focus sulla vita religiosa perseguito da Engl apporta una novità alla ricerca sulle relazioni tra il papato e le chiese locali nel pieno Medioevo, principalmente concentrate sullo studio dell’autorità vescovile o delle autorità territoriali nel loro dialogo con la sede romana.+TABRE+Caterina Cappuccio
Enno Bünz/Wolfgang Huschner (Hg.), 1050 Jahre Erzbistum Magdeburg (968–2018). Die Errichtung und Etablierung des Erzbistums im europäischen und regionalen Kontext (10.–12. Jahrhundert)/I 1050 anni dell’arcivescovato di Magdeburgo. La fondazione e il consolidamento dell’arcivescovato nel contesto europeo e regionale (secoli X–XII), Leipzig (Eudora-Verlag) 2022 (Italia Regia 6), 439 pp., ill., ISBN 978-3-938533-81-9, € 99.
Nei giorni 1–2 novembre 2018 si è tenuto a Lipsia un convegno per celebrare i 1050 anni dalla istituzione dell’arcivescovato di Magdeburgo: un evento di capitale importanza per la storia politico-ecclesiastica del secolo X, che, dopo un periodo gestazionale di tredici anni, trovò compimento nell’autunno 968. I risultati di quel convegno sono ora fruibili nella splendida veste editoriale messa a disposizione dalla collana „Italia Regia“, edita da Eudora-Verlag. Curatori del volume sono Enno Bünz e Wolfgang Huschner, ma è tutta la medievistica di Lipsia – insieme con i molti studiosi attivi in altre sedi ma in rapporto con essa – a trovare voce in una opera collettanea che sembra dare una definitiva sistemazione a una questione oltremodo complessa: quella, appunto, relativa alla nascita della provincia ecclesiastica di Magdeburgo. Certamente tale questione è già stata indagata a più riprese – impossibile non menzionare Walter Schlesinger, Dietrich Claude, Odilo Engels, Helmut Beumann, Gerd Althoff, Ernst-Dieter Hehl e lo stesso Wolfgang Huschner – ma non esaurita nella sua poliedricità. Ed è proprio questa poliedricità a essere l’oggetto del vol. Per affrontarla quest’ultimo adotta due prospettive: si potrebbe dire, una spaziale e una temporale, ma si tratta di aggettivazioni accettabili solo a condizione di tenere a mente che entrambe sono foriere di implicazioni metodologiche più profonde rispetto a un mero adattamento delle coordinate spazio-temporali di indagine. La prima prospettiva – e qui il magistero di Wolfgang Huschner è particolarmente tangibile – consiste nell’inquadrare la genesi della chiesa di Magdeburgo nell’ampia cornice dello spazio euro-mediterraneo, quindi in rapporto alle decisive interazioni tra la dimensione regionale, quella sovraregionale e quella europea. Solo le interazioni tra questi diversi ma correlati livelli spaziali consentono di cogliere la portata di un evento che fu decisivo tanto per una regione come la Sassonia orientale, quanto per la competizione tra l’Impero romano-germanico e l’Impero bizantino e tra la Chiesa romana e il Patriarcato costantinopolitano, in quello che può essere definito il grande gioco politico degli equilibri mondiali del secolo X. La seconda prospettiva consiste nell’adozione di una cronologia di medio-lungo periodo: una cronologia, cioè, funzionale non solo a ricostruire le dinamiche soggiacenti alla fondazione dell’arcivescovato di Magdeburgo (die Errichtung), ma anche a ripercorrere la lunga – e finora poco studiata – fase di stabilizzazione di questa istituzione (die Etablierung). I due secoli successivi al 968 sono dunque investigati in rapporto ai contrastati e, da ultimo, tardivi processi di territorializzazione della provincia ecclesiastica – con risultati che arricchiscono il dibattito storiografico aperto da Florian Mazel –, di strutturazione di un tessuto plebano-parrocchiale e di formazione dei capitoli cattedrali. Il vol. si compone complessivamente di venti saggi, organizzati in cinque sezioni. La prima di esse contestualizza la creazione della chiesa di Magdeburgo in rapporto agli arcivescovati che – proprio negli stessi anni – furono istituiti in altre aree parimenti periferiche ma strategiche della Cristianità latina come la Langobardia minor e la Catalogna. Alla „konfrontative-expansive Tendenz“ che attraversò le relazioni ottoniano-bizantine in Sud Italia, con ricadute significative proprio sulle istituzioni ecclesiastiche, è dedicato l’importante saggio di Sebastian Kolditz. Le peculiarità del caso catalano sono invece restituite nel contributo di Sebastian Roebert, dov’è messo a fuoco il „Bündel von Faktoren“ che, a partire dal protagonismo politico del conte Borrell II, determinò la promozione di Vich a sede arcivescovile. Nuove prospettive sono poi aperte da Jochen Johrendt, il cui studio rivaluta convintamente la figura di papa Giovanni XIII in rapporto alla irrituale ondata di fondazioni arcivescovili che segnò il suo pontificato. La seconda sezione propone rigorose indagini sulle fonti, nel segno del felice connubio tra diplomatica e storia, che è uno dei tratti salienti della collana „Italia Regia“. Spicca il contributo di Wolfgang Huschner sui diplomi ottoniani per Magdeburgo. Epitome dei precedenti studi di questo studioso su tali documenti, ma anche coronamento di quei lavori, il saggio affronta la problematica genuinità di alcuni pezzi e dimostra come diversi diplomi furono redatti tardivamente con lo scopo di registrare accordi già stipulati in precedenza in forma orale. L’acribia filologica caratterizza anche l’intervento di Antonella Ghignoli, che, sposando la lectio difficilior del Palliumsprivileg per il primo arcivescovo di Benevento, retrodata dal 991 al 969 il primo uso del titolo bizantino prothoasecretis da parte di esponenti apicali della corte ottoniana. La terza sezione del volume è dedicata a quattro delle cinque sedi suffraganee: Meißen, Zeitz/Naumburg, Merseburgo e Brandeburgo. Rappresentativo dei contributi in essa raccolti è soprattutto il lavoro di Mathias Kälble su Meißen, che ha il pregio di mostrare l’oscillante territorializzazione della diocesi nei secoli X–XI, anche in rapporto a progetti concepiti ma non finalizzati, come fu forse quello di Ottone III. La nascita dei capitoli cattedrali è il tema portante della quarta sezione. È merito di Enno Bünz aver ricostruito la doppia velocità del processo di istituzionalizzazione dai Domkleriker al Domkapitel: un processo precoce a Magdeburgo, dove fu alimentato dalla spiccata proiezione politica di quella sede, e ritardato nelle diocesi suffraganee di Meißen e di Merseburgo. La quinta e ultima sezione indaga il sostegno ai re offerto dagli arcivescovi e dai vescovi della provincia ecclesiastica di Magdeburgo. Garanti dell’ospitalità a supporto dell’iter regis, mediatori nei conflitti, consiglieri politici, ambasciatori e organizzatori di eserciti: tutte funzioni toccate nei saggi di questa sezione, tra i quali si segnala quello di Martin Riebel sulla partecipazione dei presuli di Magdeburgo e di Naumburg alle spedizioni in Italia nei secoli XI–XII. Ancora una volta la collana „Italia Regia“ è riuscita a offrire agli studiosi uno strumento innovativo nei contenuti e aggiornato nei metodi per affrontare la storia delle istituzioni medievali, dimostrando come un questionario improntato a un vasto orizzonte d’indagine possa saldamente coniugarsi con il severo rigore filologico richiesto dal dato documentario.+TABRE+Stefano Manganaro
John Magee/Fabio Troncarelli, The Codex Pagesianus (BAV, Pagès 1) and the Emergence of Aristotle in the Medieval West, Città del Vaticano (Biblioteca Apostolica Vaticana) 2022 (Studi e Testi 549), 174 S., Abb., ISBN 978-88-210-1072-9, € 12.
Die Überlieferungsgeschichte der aristotelischen Schriften, insbesondere im lateinischen Westen, wo folgend (beginnend mit der Scholastik) Aristoteles die philosophische und theologische Argumentation entscheidend prägen sollte, ist überaus komplex und wird entsprechend in der Forschung intensiv diskutiert. John Magee, über lange Jahre Professor in Toronto und einer der besten Experten zu Boethius, und Fabio Troncarelli, Kommunikationswissenschaftler, Mediävist und Paläograph mit einem breiten Forschungsspektrum von Boethius über Cassiodor bis hin zu Gioacchino da Fiore, haben sich in einem schmalen Bd. in der renommierten Reihe „Studi e testi“ diesem Thema gewidmet, wobei der Cod. Pagesianus 1 der Biblioteca Apostolica Vaticana (BAV) den Ausgangspunkt bildet. Der Fondo Pagesianus ist einer der weniger bekannten Bestände der BAV, eine Sammlung von 102 Hss., die im frühen 19. Jh. vom Abt Étienne Pagès zusammengestellt, vor 1841 an die erst kurz zuvor vom Papst anerkannte Societas Mariae in Lyon verkauft und zu Beginn des 20. Jh. an die Niederlassung dieses Ordens in Rom transferiert wurde. Aus diesem Bestand ragt zweifelsohne der Codex Pagesianus 1 heraus, der, ins letzte Drittel des 8. Jh. datiert, auf fol. 39r–106r Boethiusʼ Kommentar zur aristotelischen Schrift „De interpretatione“ enthält (eine detaillierte Inhaltsbeschreibung dieses Kodex findet sich S. 82–88). In den Kapiteln I bis III schildert John Magee zunächst die Überlieferungsgeschichte der Übersetzungen und Kommentare des Boethius, die bis ins 12. Jh. im lateinischen Westen den einzigen Zugang zum aristotelischen Werk boten. Dabei liegt auch diese Überlieferungsschiene für mehr als zwei Jh. im Dunkel, erst gegen Ende des 8. Jh. wurden die Übersetzungen des Boethius für uns nachweisbar wieder rezipiert. Dabei spielt der Codex Pagesianus eine entscheidende Rolle: „Manuscript V, the Codex Pagesianus, has rightly been described as the oldest surviving collection of logical texts of the Middle Ages, and it may indeed represent our first direct sighting of Aristotle in the medieval West“ (S. 21). Im Folgenden wird der Aufbau des Kommentars beschrieben (S. 21–38). Das dritte Kapitel (S. 39–48) stellt unter Einbeziehung aller Textzeugnisse die überlieferten Passagen des Aristoteles-Textes im Kommentar des Boethius zusammen. Der zweite Teil der Veröffentlichung (Kapitel IV und V, verantwortet von Fabio Troncarelli) widmet sich der Datierung und Provenienz des Kodex. Aufgrund der autographen Notiz auf fol. 1v ist gesichert, dass die Hs. von Bischof Leidrat (Bischof von Lyon 798–814) der Kirche des Hl. Stephan in Lyon geschenkt wurde. Damit ist freilich die exakte Entstehungszeit noch nicht geklärt. Der Vf. liefert unter ausführlicher Einbeziehung der Forschungsdiskussion eine überzeugende Datierung auf die Zeit vor 798. Der erste Teil der Sammelhs. dürfte wohl noch in den letzten Lebensjahren des Bischofs Arbeo von Freising (gestorben 784) im Gebiet von Noricum, also im südostdeutsch-österreichischen Raum, entstanden sein, was auch durch die paläographische Nähe mit der Münchner Hs. Clm 6309 belegt wird. Insgesamt verweist die vorkarolingische Minuskel eher auf das scriptorium von Freising als auf eine Schreibschule in Lyon. Eine überzeugende „recapitulatio“ (S. 101 f.) datiert die einzelnen Teile der Sammelhs. auf den Zeitraum von 784 bis 798. Ob die zahlreichen Marginal- und Interlinearkorrekturen (in karolingischer Minuskel) und Anagramme sowie einzelne Zeichnungen auf fol. 1v (vgl. dazu Kap. V, S. 131–162) auf Alkuin selbst zurückzuführen sind, muss offenbleiben. Eine detaillierte Bibliographie (S. 163–174) rundet das Werk ab. Die vorliegende Veröffentlichung ist sicher primär für spezialisierte Forschungen zur Überlieferungsgeschichte des Aristoteles latinus interessant. Der zweite Teil macht weiterhin exemplarisch deutlich, welchen Erkenntnisgewinn detaillierte kodikologische und paläographische Studien bringen können, auch wenn nicht alle Einzelpunkte vollends überzeugen. Der „Nebeneffekt“ interessanter Einblicke in die Geistesgeschichte der karolingischen Zeit lässt eine Konsultation auch für weitere Lesergruppen gewinnbringend erscheinen.+TABRE+Thomas Hofmann
Antonio Musarra, Urbano II e l’Italia delle città. Riforma, crociata e spazi politici alla fine dell’XI secolo, Bologna (Il Mulino) 2023 (Studi e ricerche 790), 320 S., ISBN 978-88-15-38304-4, € 28.
Antonio Musarra gehört zu den besonders produktiven italienischen Kreuzzugsforschern, der einem breiteren Publikum durch seine Mitarbeit an der „Großen Geschichte der Kreuzzüge“ bekannt sein dürfte, die 2022 ins Deutsche übersetzt wurde. In der vorliegenden Monographie wendet er sich dem Beginn der Kreuzzugsbewegung zu, genauer gesagt der Frage, wie die Kriegspläne Urbans II. mit dessen Aktivitäten im Bereich der Kirchenreform zusammenhingen, und welche Rolle sie für die Kommunen in Norditalien spielten. Da sich die Studie sowohl an diejenigen richtet, die mit dem Thema bereits vertraut sind, als auch an alle Interessierten, nehmen grundlegende Erläuterungen zu Papsttum und Reform im späten 11. Jh. zunächst einigen Raum ein. Es geht um die Biographie Urbans II., seinen Werdegang, seine Wahl und die Bündnisse und Konflikte, welche die ersten Jahre seines Pontifikats prägten. Danach rückt die Reise des Papstes über Norditalien nach Frankreich 1095/1096 ins Zentrum – und damit die Werbung für den ersten Kreuzzug. Gerade die Kirchenversammlungen in Piacenza und Clermont, wo der erste Kreuzzugsablass verkündet wurde, werden ausführlich gewürdigt. Das dritte Kapitel behandelt die Kreuzzugsidee Urbans II. systematisch, wobei auch erzählende Quellen – insbesondere die Chroniken Balderichs von Dol und Fulchers von Chartres – diskutiert werden. Zudem kommt das Kreuzzugsdekret von Clermont erneut zur Sprache, das ausgehend von der auf Carl Erdmann zurückgehenden Unterscheidung von Kriegs- und Marschziel im Licht aktueller Forschungen erörtert wird. Besonders betont Musarra die Verbindung der Kreuzzugspläne mit den bereits länger dauernden militärischen Maßnahmen gegen Muslime auf der Iberischen Halbinsel und in Süditalien. Weitere Verbindungslinien dürften zwischen dem Kreuzzug und den Entwicklungen in Norditalien bestehen, was der Autor zunächst für den kirchlichen Bereich diskutiert. Er verfolgt dabei die These, dass der sich formierende Kreuzzug zur Durchsetzung des Papstes gegen den konkurrierenden, kaisertreuen Clemens III. beigetragen habe. Derartige Überlegungen finden sich bereits in mittelalterlichen Quellen, doch Musarra konkretisiert sie auf überzeugende Weise anhand der Bistumspolitik Urbans II. Es dürfte kein Zufall gewesen sein, dass der Papst auf seiner Rückreise aus Frankreich in Diözesen wie Genua, Bologna und Mailand, in denen lange Zeit die Anhänger des Gegenpapstes dominierten, seinen Kandidaten zur Bischofswürde verhelfen konnte. Danach wendet sich der Autor den Kommunen zu, genauer gesagt der Beteiligung der städtischen Eliten an den Kreuzzügen von 1096–1099 und 1100–1101. Während die Kreuzfahrer aus Pisa dem Heer des päpstlichen Legaten angehörten, formierten sich in Mailand und Genua genuin städtische Kampfverbände, deren Aktionen einigermaßen gut dokumentiert sind. In beiden Fällen sind zudem Rückwirkungen auf die Städte zu beobachten. Hier dürfte der Kreuzzug dazu beigetragen haben, die concordia zu sichern, sei es durch die liturgische Feier militärischer Erfolge im Heiligen Land oder durch die Planung zukünftiger Kreuzzugsaktivitäten. Derartige Beobachtungen legen es nahe, die Bedeutung des Kreuzzugs für die Festigung kommunaler Identitäten neu – und höher – zu bewerten. Die Lektüre des Buches lohnt sich also für alle, die sich für das Reformpapsttum, die Kreuzzüge und die italienischen Kommunen um 1100 interessieren. Musarra hätte es seiner Leserschaft etwas leichter machen können, wenn er auf die vielen Schachtelsätze mit zahlreichen, meist relativierenden Einschüben verzichtet hätte. Auch ein zweiter Blick auf einige Quellenzitate hätte nicht geschadet, doch soll derartige Detailkritik nicht den wissenschaftlichen Ertrag der Studie schmälern. Der ist beachtlich, denn dem Autor ist es gelungen, die wichtigsten Quellen zur Entstehung der Kreuzzugsidee noch einmal neu zu perspektivieren – und zwar im Hinblick auf die kirchlichen und kommunalen Verhältnisse in Norditalien. Musarra beschränkt sich dabei nicht auf die Auseinandersetzung mit italienischen (Regional-)Studien, sondern setzt sich ausführlich mit den aktuellen Debatten der internationalen Kreuzzugsforschung auseinander, zu der seine Monographie zweifellos einen wichtigen Beitrag leistet.+TABRE+Georg Strack
Bernardo di Chiaravalle, Sermoni sull’anno liturgico. Introduzione, traduzione e note di Domenico Pezzini, Roma (Città Nuova) 2021 (Opere di San Bernardo 3), 2 voll., 768; 935 S., ISBN 978-8-8311-9188-3; 978-8-8311-9189-0, € 100; 110.
Der Zisterzienser Bernhard von Clairvaux († 1153) gehört zu den prägenden Gestalten des 12. Jh. Als (Kirchen-)Politiker war er ebenso einflussreich wie als Autor wegweisender Traktate, Kommentare und Predigten. Die Übersetzung des Gesamtwerks Bernhards von Clairvaux in italienischer Sprache begann 1984 und nähert sich mit der vorliegenden Edition der Predigten für das Kirchenjahr ihrem Ende. Bernhard hat sich mit diesen insgesamt 128 Predigten Zeit seines Lebens beschäftigt. Sie sind als work in progress zu begreifen, wurden immer wieder inhaltlich revidiert und sprachlich überarbeitet. Und so erstaunt es nicht, dass eine Vielzahl von Predigthss. erhalten ist, die sich z. T. fundamental voneinander unterscheiden. Der gelehrte Benediktiner Jean Leclercq († 1993), der in den Jahren 1966/1968 die lateinische Edition dieser „Sermones“ besorgte (in: Sancti Bernardi Opera 4, 1966 und Sancti Bernardi Opera 5, 1968), unterschied dabei zwischen vier Redaktionen, die er mit den Siglen B (Brevis), M (Media), L (Longior) und Pf (Perfecta) versah. Seine Edition verfügte über eine umfangreiche Einleitung, in der großer Raum der Beziehung der Hss.-Gruppen untereinander eingeräumt wurde. Domenico Pezzini, der Übersetzer der lateinischen Predigten ins Italienische, wartet mit einer neu konzipierten, über 100 Seiten umfassenden Einleitung auf, die den aktuellen Forschungsstand sicher wiedergibt. Behandelt werden die sprachliche Gestalt der sermones liturgici und ihr Inhalt – eine unverzichtbare Hilfe bei der Entschlüsselung vieler Predigten. Seine Fähigkeiten als Übersetzer mittellateinischer Texte zisterziensischer Provenienz hat Pezzini, der nur wenige Monate nach Erscheinen der hier vorliegenden Bde. 83-jährig in Lodi starb, immer wieder unter Beweis gestellt. Auch in vorliegendem Fall ist ihm Großes gelungen. Zisterzienseräbte waren gehalten, mindestens 17 Mal im Jahr, vornehmlich an den Hochfesten und an besonderen zisterziensischen Gedenktagen, in capitulo vor ihren Mönchen zu predigen. Bernhard geht über diese Vorschrift weit hinaus, mehrere Male entschuldigt er sich gar selbst dafür, dass das Fest, zu dem er predigt, in den consuetudines nicht besonders herausgehoben sei. Die „Sermones“ Bernhards – und hier ist Pezzini unbedingt zuzustimmen – oszillieren zwischen den Gattungen der Predigt und des biblischen Traktats. Insbesondere dort, wo Bernhard mehrere Predigten für ein und denselben Festtag konzipiert, drängt sich der Eindruck eines kleinen, in unterschiedliche Kapitel (eben die einzelnen „Sermones“) untergliederten Traktats auf. Die Frage, ob diese Predigten tatsächlich gehalten wurden oder doch eher „nur“ das Ergebnis eines bloßen Schreibprozesses sind, beantwortet Pezzini vorsichtig abwägend: Ja, wahrscheinlich sei die mündliche Predigt von der Kanzel aus gehalten, doch sei dieses Produkt überzeugender Rhetorik später verschriftlicht und stark überarbeitet worden. Dem kann man zustimmen, erklärungsbedürftig bleiben dann aber die Marker, die nur aus einem mündlichen Vortrag heraus verständlich werden. Die vorliegende Übersetzung bietet – auf gegenüberliegenden Seiten angeordnet – sowohl die lateinische, von Jean Leclercq besorgte Edition (in der 93 Fehler stillschweigend bereinigt wurden) als auch die italienische Übersetzung. Bernhard ist daran gelegen, so Pezzini, „… di dare bellezza e perfezione ai suoi sermoni …“ (S. 21): Form und Struktur waren ihm ganz offensichtlich wichtig. Einblick in die bernhardinische Schreibwerkstatt gewährt Pezzini mittels einer kleinteiligen Analyse des Sprachgebrauchs, der verwendeten grammatischen Konstruktionen und Sprachbilder nebst den für Bernhard typischen colores rhetorici. Predigten vermitteln Glaubenswahrheiten: Von zentraler Bedeutung ist deshalb Bernhards Umgang mit dem biblischen Text und seinen vier Schriftsinnen, ohne die eine erschöpfende (mehr oder minder widerspruchsfreie) Behandlung der biblischen Aussagen überhaupt nicht möglich wäre. In diesem Zusammenhang wird der Frage nachgegangen, welche Bibelversion Bernhard eigentlich nutzte (im Gesamtwerk sind über 31 000 Bibelzitate nachweisbar), und der aktuellen Forschung insofern Tribut gezollt, als neben der „Vulgata“ vor allem liturgische Quellen und die großen Homiliarien der Kirchenväter als biblische „Stichwortgeber“ identifiziert werden. Eines sollte freilich nicht vergessen werden: Bernhard denkt in stilistischen Kategorien, hat also keinerlei Probleme damit, Bibelzitate kreativ – gerade auch unter euphonischen Aspekten – zu verändern. Rein quantitativ erstaunt die beherrschende Stellung des Weihnachtszyklus, zu dem 27 Predigten gehören (S. 59–73). Der Osterfestkreis umfasst hingegen nur 19 Predigten (S. 73–82), die vier großen Marienfeste 13 Predigten (S. 82–87), die weiteren Festtage, an denen der Abt die Verpflichtung zur Predigt in capitulo hatte (Benediktsfest, Allerheiligen, Johannes der Täufer, Peter und Paul), 17 (S. 88–94). In der letzten Redaktion kamen drei Predigten für Sonntage nach Pfingsten hinzu, deren biblische Grundlagen für Bernhard (nicht zuletzt wegen ihres allegorischen Reichtums) von besonderer Bedeutung waren (S. 95–97). Die vorliegende Sammlung umfasst auch Predigten zu einzelnen Heiligenfesten, etwa zum Stephanus-, Martins- oder zum Michaelistag, und anlassbezogene Predigten (de occasionibus), die nicht aus liturgischer Notwendigkeit, sondern etwa aus dem Bemühen heraus entstanden sind, durchreisende Äbte mittels einer Ansprache zu ehren. Pezzini äußerst sich grundsätzlich zu seinem Vorgehen als Übersetzer in einer „Nota del curatore“ (S. 105–107). Obwohl die Grundprämisse gilt, möglichst eng am Stil Bernhards zu bleiben, gelingt ihm das Meisterstück, eine gut lesbare und verständliche Übersetzung zu liefern. Der Blick in die Fußnoten lohnt: In ihnen finden sich häufiger nicht nur wertvolle sprachliche Erklärungshilfen, sondern auch Verweise auf mögliche (patristische) Vorlagen und Ideengeber und (besonders wertvoll, weil auf der Expertise Pezzinis im Bereich zisterziensischer Autoren des 12. und 13. Jh. gründend) auf gemeinsame zisterziensisch-spirituelle Grundlagen. Ein Blick in die Bibliographie genügt, um zu erkennen, dass Pezzini bei weitem nicht der einzige ist, der sich bisher den Predigten Bernhards als Übersetzer genähert hat. Übertragungen ins Französische, Englische und Deutsche liegen vor. Die vorliegende Übertragung ragt jedoch aufgrund ihrer Qualität hervor. Pezzini gibt seiner Hoffnung Ausdruck „… di aver fatto una cosa utile …“ (S. 107). Dieser Wunsch ist in Erfüllung gegangen: Profitieren werden von der vorliegenden Übersetzung nicht nur all diejenigen, denen Bernhard bereits vertraut ist, sondern auch all jene, denen ein tieferer Einblick in die sermoniale Gedankenwelt des großen Zisterziensers erst noch bevorsteht.+TABRE+Ralf Lützelschwab
Matt King, Dynasties Intertwined. The Zirids of Ifriqiya and the Normans of Sicily, Ithaca (Cornell University Press) 2022 (Medieval Societies, Religions, and Cultures), 235 S., 6 Abb., ISBN 978-1-5017-6346-5, US$ 57,95.
Matt Kings Studie zu den Beziehungen zwischen den Normannenherrschern Süditaliens und den zīrīdischen Emiren Ifrīqiyas reiht sich ein in jüngere transkulturelle Untersuchungen zum Mittelmeerraum. Während der mediterranen Dimension im politischen Handeln der normannischen Regenten und Aspekten der ‚Multikulturalität‘ im Königreich Sizilien schon seit Längerem das Interesse gilt, blieben die Zīrīden, deren Geschichte als Niedergangsnarrativ geschrieben wurde, weitgehend im Schatten der Forschung. Jenseits eurozentristischer Sichtweisen geht es dem Autor in seiner Monografie um eine Verflechtungsgeschichte, die die Interaktionen, politischen Handlungsspielräume und ökonomischen Interessen beider Dynastien so weit wie möglich gleichberechtigt einbezieht. Dadurch rückt die – nicht zuletzt auch für das Verständnis der Normannenherrschaft wichtige – agency der Zīrīden stärker als bisher in den Mittelpunkt. Grundlage für die Studie sind lateinisch- und arabischsprachige Quellen, deren Ungleichgewichtung, Entstehungskontexte und voneinander abweichende Darstellungen einerseits adäquat in die Analyse einbezogen und deren Informationen andererseits in eine breitere mediterrane Perspektive eingebettet werden. Berücksichtigung finden über textliche und einige materielle Quellen hinaus auch klimageschichtliche Daten basierend auf dem digitalen „Old World Drought Atlas“, die Erwähnungen von Dürren und Hungerkrisen konkreter zu lokalisieren und einzuordnen erlauben. Die Gliederung in sechs Hauptkapitel, gerahmt von einer Einleitung und einem „Epilogue“, folgt im Wesentlichen chronologischen Kriterien von den Anfängen beider Dynastien bis zum Ende des normannischen Königreichs in Nordafrika und der Verdrängung der Zīrīden im Zuge des Vordringens der Almohaden. Den räumlichen Rahmen für die zīrīdisch-normannische Verflechtungsgeschichte bilden die Küstengebiete und Inseln des zentralen Mittelmeerraums mit einem Schwerpunkt auf Ifrīqiya. Matt King gelingt es, in seinem in erster Linie als Ereignis- und Beziehungsgeschichte geschriebenen Buch, die Verschiebung der Kräfteverhältnisse zwischen den beiden Dynastien sowie ihr von pragmatischen Überlegungen bestimmtes Mit- und Gegeneinander vor dem Hintergrund politischer, ökonomischer und klimatischer Veränderungen unter Einbeziehung anderer relevanter lokaler und transregionaler Player nachzuzeichnen. Durch diesen multiperspektivischen Ansatz werden bestimmte Dynamiken verständlicher oder auch überhaupt erst sichtbar. Das gilt vor allem für die Auswirkungen von Personalwechseln in Ämtern weit über die lokale Ebene hinaus (z. B. im Fall des fāṭimidischen Wesirs Bahram und des von Roger II. eingesetzten ammiratus Georg von Antiochien, die beide die normannisch-fāṭimidischen Beziehungen maßgeblich prägten) sowie für ökonomische Interessen, die nicht nur zu gewaltsamen Konflikten führten, sondern oft auch ausschlaggebend für Friedensverträge und Handelsabkommen waren. Deutlich wird so auch, wie die Normannen lokale Auseinandersetzungen für sich zu nutzen wussten, um in den 1140er–1150er Jahren eine – weitgehend indirekt organisierte – Herrschaft zwischen Tripolis und Tunis zu etablieren. Aufgrund veränderter Machtdynamiken sollte diese jedoch keinen Bestand haben. Überzeugend wird in diesem Zusammenhang dargelegt, wie nach einer Zeit extremer Trockenheit der durch den politischen Wechsel seitens der Normannen beförderte ökonomische Aufschwung in den nordafrikanischen Küstenregionen neue Rahmenbedingungen schuf, die sehr bald schon anti-normannische Revolten beförderten. Wichtig bleibt schließlich auch zu erwähnen, dass aus zeitgenössischer Perspektive die Beziehungen zwischen den Normannen und Zīrīden gerade nicht mit Kreuzzugs- oder Ǧihād-Terminologien beschrieben wurden. Matt Kings gut lesbare Studie bietet nicht nur für den Einstieg in die Thematik eine Fülle an Detail- und Hintergrundinformationen auf dem aktuellen Stand der Forschung, sondern hält durch ihren facettenreichen Ansatz auch für Expertinnen und Experten so manches interessantes Detail bereit.+TABRE+Kordula Wolf
Philippe Lefeuvre, Notables et notabilité dans le contado florentin des XIIe–XIIIe siècles, Roma (École française de Rome) 2023 (Bibliothèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome 402), X, 411 pp., ill., ISBN 978-2-7283-1543-7, € 35.
La domanda dalla quale ha origine questo libro viene espressa sin da subito: „qu’y a-t-il, au Moyen Âge, entre seigneurs et paysans?“ (p. VII). La risposta appare chiara: i notabili, gli intermediari, i conversi che si trovarono a colmare i legami fra signori e agricoltori nelle gerarchie delle società rurali fra XII e XIII secolo. L’area geografica presa in esame è quella relativa al quadrante Sud-Est del comitato fiorentino, interamente nella diocesi di Fiesole, nel quale si trovavano le abbazie vallombrosane di Santa Maria di Vallombrosa, San Cassiano a Montescalari e San Lorenzo a Coltibuono, enti produttori delle pergamene sulle quali si poggia la quasi totalità della ricerca. L’autore evidenzia come, nel corso di due secoli, i ruoli e le relazioni di questi intermediari siano mutati in relazione al „processus de métropolisation à l’échelle du comitatus florentin“ (p. 4) anche in base alle diversità orografiche e sociali delle zone del Pratomagno, del Valdarno Superiore e del Chianti. Poggiandosi principalmente sui lavori di Maria Elena Cortese ed Enrico Faini per lo studio delle aristocrazie locali, su quelli di Elio Conti e Johan Plesner per le società rurali e lo sviluppo delle loro relazioni con la città, lo storico francese offre un quadro chiaro su quegli attori che, in particolare fra il 1170 e il 1230, assistettero a „une profonde mutation des structures économiques“ (p. 345), e che allo stesso tempo furono co-autori di una ristrutturazione dei modelli di proprietà e sfruttamento del suolo. Nel corso dei vari capitoli, ognuno dei quali con uno sviluppo cronologico interno che mostri i diversi progressi fra XII e XIII secolo, Philippe Lefeuvre analizza il tema secondo vari punti di vista, non mancando di portare affreschi esemplificativi delle figure di intermediari. Il primo viene affrontato dalla prospettiva storiografica; il secondo tramite l’osservazione delle mutazioni documentarie dei fondi presi in esame; il terzo legando il ruolo politico delle tre abbazie vallombrosane alle più alte gerarchie regionali; il quarto con l’analisi delle traiettorie di alcune famiglie di notabili e di come, in base al loro capitale economico e sociale, muti il loro destino; il quinto offrendo una visione sociale interna al mondo dei boni homines del contado e del loro progressivo distacco dai lavoratori del suolo. Negli ultimi tre capitoli, chi ha condotto la ricerca si dedica agli aspetti più prettamente economici; sono forse proprio questi ultimi tre, quelli che dipingono al meglio lo spazio e le caratteristiche dei notabili rurali del contado fiorentino fra XII e XIII secolo, poiché mostrano come siano le mutazioni economiche, ben legate con gli aspetti precedenti, a spiegare il processo locale „de renouvellement des élites: le départ progressif des seigneurs de castelli vers la ville libérant l’espace à des familles plus réduites“ (p. 343). Per il XII secolo si può parlare di „communautés rurales encore très informelles dont se détache un groupe étendu de medium owner“ (p. 9), ove „s’est avéré difficile d’établir une distinction nette entre propriétaires et travailleurs du sol“ (p. 344). Le differenze fra signori e fideles erano invece ben chiare, ma le strette relazioni fra piccoli signori, boni homines, intermediari e lavoratori del suolo rendevano possibile che „certains dépendants participaient eux aussi aux profits que générait une domination familiale et seigneuriale“ (pp. 141 sg.). L’aumento di moneta corrente e la crescita dell’influenza fiorentina permisero a quei signori che avevano costruito una propria identità attraverso la reiterazione di pratiche economiche e sociali, forniti quindi anche di un capitale simbolico come i da Cintoia, di divenire finanziatori di grandi enti monastici come la Badia Fiorentina e Passignano. D’altra parte, però, „nombre de coloni du XIIIe siècle avaient pour ancêtres les possessores des XIe et XIIe siècles“ (p. 345): per via dell’indebitamento delle campagne e della „tendance à l’institutionnalisation de rapports de dépendance“ (p. 276) imposta dal progressivo inquadramento del contado nel sistema fiorentino, molti notabili furono costretti a vendere anche quello che era la cosa più importante: „ce qu’on cédait avec une terre, c’était le droit de la travailler et faire fructifier, et plus encore celui de la faire travailler“ (p. 225). Lefeuvre illumina angoli della storiografia toscana fino a ora solo tangenti gli studi passati; le traiettorie multigenerazionali di notabili descritte sono un nuovo inizio per la creazione di un quadro capillare dell’organizzazione della società del comitato fiorentino. Con la cura necessaria per l’individuazione dei legami personali e delle reti di conoscenza, lo studio degli intermediari e delle loro famiglie risulta essere il modo migliore per ampliare il panorama degli studi, fino a ora limitati ai signori di Tuscia, e spiegare sviluppi politici le cui motivazioni e connessioni più profonde erano solo ipotizzabili.+TABRE+Giulio Cerri
Sara Bischetti, La tradizione manoscritta dell’„ars dictaminis“ nell’Italia medievale. „Mise en page“ e „mise en texte“, Berlin-Boston (De Gruyter) 2022 (Toscana Bilingue. Storia sociale della traduzione medievale/Bilingualism in Medieval Tuscany 4), 242 pp., ISBN 978-3-11-070150-0, € 79,95.
Il libro di Sara Bischetti si inquadra, come scrupoloso contributo codicologico, nella poderosa stagione di studi sull’ars dictaminis che sta conoscendo un fervore vorticoso caratterizzato da una dinamica moltiplicatoria di indagini in grado ormai di fare emergere con sempre maggior precisione i connotati di un vastissimo e articolato fenomeno culturale, l’ars dictaminis appunto, che sempre meglio va definendosi come una gigantesca e produttiva rete intellettuale europea dispiegatasi tra una rinascita e un rinascimento, tra il XII secolo e il Cinquecento. In questi nostri anni spiccano infatti per numero e qualità edizioni critiche di testi fondamentali che gettano luce nuova su autori e ambienti fino a poco tempo fa giacenti ancora nella penombra, con notevolissimi progressi in fatto di attribuzione di testi e comprensione di dinamiche culturali; e si contano, notevolissimi ancora per numero e qualità, convegni, miscellanee, repertori, progetti editoriali che vedono impegnati, spesso in fruttuosa collaborazione, ricercatori di tutta Europa, ma soprattutto in Italia, Francia e Germania, in un dialogo proficuo che raduna agli stessi tavoli gli sguardi diversi e complementari di storici e filologi. In una prospettiva larga, il presente studio, come è chiarito dall’autrice nella „Premessa“, punta in prima istanza ad „approfondire, grazie all’analisi delle fonti documentarie, alcuni aspetti legati alle caratteristiche materiali della produzione dettatoria“ (p. 1) e conseguentemente organizza in prospettiva statistica la massa dei dati raccolti, inquadrandosi dunque „nel solco della cosiddetta ‚codicologia quantitativaʻ“ (p. 2, nota 6). In una mira più circoscritta, esso ha preso le mosse nell’ambito del progetto „Biflow“ (Bilingualism in Florentine and Tuscan Works), („Premessa“, p. 1), una iniziativa cioè dedicata al fenomeno del bilinguismo nella Toscana medievale, circostanza, questa, che motiva – insieme anche con i limitati tempi di durata del progetto – i criteri della selezione del corpus di testimonianze librarie prese in esame. Interessata infatti soprattutto al versante volgare dell’ars dictaminis, versante sì innovativo ma pure marginale del fenomeno, l’autrice circoscrive la sua indagine a pochissimi autori e testi – distribuiti in due aree geografiche, l’Emilia e la Toscana – tra i quali domina la vasta produzione di Guido Faba (tramandata da poco meno di 200 esemplari), la cui innovativa apertura al bilinguismo („Gemma purpurea“ e „Parlamenta ed epistole“) ha costituito il „significativo punto di partenza per indagare“ (p. 6), con ricerche estese conseguentemente anche ai volgarizzamenti di alcune opere di Faba. Gli altri testi considerati nel primo dei due capitoli in cui è strutturata la prima metà del volume („La produzione e la circolazione manoscritta dettatoria nei secoli XIII e XIV“), sono la „Brevis introductio ad dictamen“ di Giovanni di Bonandrea, anch’egli professore a Bologna (ca. 1245–1321), e il relativo volgarizzamento (la „Brieve introductione a dittare“), il volgarizzamento del „De doctrina dicendi et tacendi“ di Albertano da Brescia e la „Piccola dottrina del parlare e del tacere“, e cioè l’estratto dell’opera di Albertano inserito da Brunetto Latini nel „Trésor“. Nel secondo capitolo („La produzione e la circolazione manoscritta dettatoria nel secolo XV“) si seguono fino al sec. XV le vicende del corpus testuale di Faba e delle due ultime opere appena menzionate. In seguito ad una „ricognizione sistematica ed esaustiva“ (p. 10) del materiale disponibile relativo alle tradizioni manoscritte degli autori e dei testi ora citati (edizioni critiche, censimenti dei manoscritti, cataloghi e inventari delle biblioteche e bibliografia specializzata), e con scelta perlopiù dettata da motivazioni pratiche legate alle principali sedi in cui si è svolto il progetto „Biflow“ (Firenze, Roma, Venezia e Parigi), l’autrice ha selezionato un significativo corpus costituito da settanta codici, esaminati direttamente o su riproduzione digitale, le cui schede descrittive, allegate dopo le „Conclusioni per un quadro d’insieme“, conformano la seconda metà del volume. Nei due capitoli che precedono le schede l’autrice dispiega la sua accurata indagine codicologica valutando le tipologie librarie dei testi presi in considerazione (distribuzione cronologica, materiale scrittorio, taglia, fascicolazione, impaginazione, tipologie grafiche) secondo una prospettiva diacronica e comparatistica e giungendo quindi a individuare con nettezza le analogie e le divergenze fra le varie tradizioni manoscritte anche grazie all’ausilio di numerosi ed eloquenti grafici esplicativi. L’approccio codicologico all’ars dictaminis e in particolare l’attenzione alla costruzione della pagina, alla scrittura e agli accorpamenti testuali può conferire senz’altro allo studio dell’ars dictaminis un contributo di evidenza archeologica e se ne desiderano infatti ulteriori applicazioni. Nel caso specifico, come scrive l’autrice nelle „Conclusioni“, l’esame degli aspetti materiali e quello degli accorpamenti testuali „hanno permesso di ricavare informazioni ancora più pregnanti sui contesti di ricezione e di circolazione dei manufatti librari“ (p. 91). Quanto ai risvolti sociali di questa vivissima stagione dell’ars dictaminis cui appartengono i casi esaminati, ossia quanto al passaggio dalla concezione elitaria e sapienziale esibita dai dettatori della generazione di Faba (e cioè Boncompagno da Signa soprattutto e Bene da Firenze) alla successiva apertura a un pubblico urbano più largo, non accademico, i dati raccolti e meditati in questo volume confermano in pieno le conclusioni alle quali gli studi (penso specialmente a quelli di Enrico Artifoni, opportunamente messi a frutto dall’autrice) sono giunti da tempo a partire da una prospettiva storica e filologica. Il presente vol. costituisce insomma un ricco e giovevole strumento che corrobora con numerosi e ragionati dati librari il quadro di un segmento sia pure assai delimitato, come si è visto, di una estesissima vicenda culturale che ha riguardato tutta l’Europa del Medioevo e oltre. Eppure queste due prerogative del libro, ovvero da un lato la programmatica delimitazione dell’indagine e d’altra parte la cospicua quantità del materiale raccolto, non trovano il dovuto riscontro paratestuale: il titolo infatti, assai generico, promette troppo nonostante la messa a punto del sottotitolo, e un indice dei nomi sarebbe stato gradito. Ma questo si dice non per disappunto, bensì per suggerimento.+TABRE+Paolo Garbini
Sabine Fees, Das päpstliche Corporate Design. Quellen zur äußeren Ausstattung von Papsturkunden im hohen und späten Mittelalter, Köln-Weimar-Wien (Böhlau) 2022 (Archiv für Diplomatik. Beiheft 21), 392 S., Abb., ISBN 978-3-412-52815-7, € 65.
Äußere Merkmale von Urkunden stellen ein weites Themenfeld dar, das in der Forschung oft thematisiert wurde. Dabei wurden die Befunde meist auf Grundlage der diplomatischen Überlieferung selbst interpretiert, während zeitgenössische Handbücher und Arbeitshilfen bislang geringere Beachtung fanden. Diesem Desiderat geht die Marburger Diss. von Sabine Fees nach, die verschiedene, vor allem der päpstlichen Kanzlei entstammende Zeugnisse im Hinblick auf ihre Konzeption und Festlegungen für die Gestaltung von päpstlichen Urkunden untersucht sowie ihre Autoren und Nutzung (S. 12, 17 f.), um eine Erklärung für die Konsistenz des titelgebenden päpstlichen Corporate Design zu finden, wobei sie den Begriff im landläufig-modernen Sinn benutzt. Dafür geht sie auf die Gattungen der Privilegien, litterae sowie Bullen ein, die in den genutzten Quellen beschrieben werden. Die Arbeit gliedert sich in insgesamt fünf Textkapitel. Die Einleitung (S. 11–19) stellt ausführlich den Forschungsstand dar und macht deutlich, dass der Fokus der Untersuchung auf den päpstlichen Quellen liegt, obgleich auch kurienferne Quellen diskutiert werden. Daran schließt sich ein Kapitel über die päpstliche Kanzlei an (S. 20–38), in dem knapp die verschiedenen Typen des produzierten Schriftguts, der Geschäftsgang und das Personal umrissen werden. Keine Berücksichtigung fanden an dieser Stelle Breven, über sich die Zeitgenossen möglicherweise nicht äußerten. Den einschlägigen kurienfernen Quellen – den Artes dictandi – widmet sich Kapitel 3 (S. 39–54), die hinsichtlich ihrer Prägekraft für die kurialen Quellen dargestellt werden. Sehr kleinteilig nimmt der Hauptteil die kuriale Dokumentation im vierten Kapitel (S. 55–323) in den Blick. Dessen Struktur folgt im wesentlichen der diplomatischen Überlieferung, d. h. den drei Urkundentypen, jedoch gehen diesen zwei Unterkapitel über die Festlegungen Innozenz’ III., Innozenz’ IV. sowie der Ordines Romani zu den Bleibullen voran (Kap. 4.1 und 4.2). Während des Pontifikats Innozenz’ III. lassen sich die Sonderformen der Halbbulle sowie die spannenden Frage der rekonstruierten Vorurkunden (litterae tonsae) nachweisen, die Fees ebenfalls in ihre Darstellung einbezieht. Überraschend ist vielleicht, dass die litterae als die graphisch am wenigsten spektakuläre Urkundengattung am ausführlichsten analysiert wird (Kap. 4.3, S. 106–203). Doch damit folgt die Autorin lediglich ihren Quellen, in denen ebenfalls diese am häufigsten ausgestellten Schreiben sehr detailliert beschrieben werden. Auch die Privilegien, die im 14. Jh. langsam außer Gebrauch gerieten, nehmen einen großen Teil der Untersuchung ein (Kap. 4.4, S. 203–282). Beide Abschnitte stellen zunächst die relevanten Quellen und deren Charakteristika vor und erfassen anschließend minutiös die beschriebenen Merkmale nach einem einheitlichen Schema. Dabei geht Fees entgegen der titelgebenden Wendung nicht allein auf die äußeren Merkmale im engeren Sinne ein, wie sie eingehend charakterisiert werden (S. 12), sondern widmet auch inneren Merkmalen Aufmerksamkeit, wie etwa der Datierung. Demgegenüber werden die Bullen nur vergleichsweise kurz gestreift (Kap. 4.5, S. 282–286), was wiederum darauf zurückgeht, dass dieser Typus einerseits erst spät in den Quellen begegnet und andererseits für ihn nur spärliche Regeln festgelegt wurden. Allgemeine Bestimmungen in den Kanzleibüchern (Kap. 4.6, S. 286–306) und Ausnahmefälle (Kap. 4.6, S. 306–323) diskutieren die letzten beiden Unterkapitel. Eine ausführliche Zusammenfassung beschließt den Text (S. 324–346). Daran schließen sich eine schematische Übersicht über die verwendeten Quellen (S. 347), die Verzeichnisse (Abkürzungen, Bibliographie und Abbildungen, S. 348–379) sowie das Orts- und Personenregister (S. 360–384) an. Die Arbeit ist sehr materialgesättigt und bezieht die umfangreiche Quellenbasis intensiv und sehr plastisch in die Beschreibung ein. Dabei liegt der Schwerpunkt auf dem 13. und 14. Jh., während das 15. Jh. demgegenüber stärker zurücktritt. Leider geht nicht in allen Fällen eindeutig aus den Anmerkungen hervor, welche Hss. nun tatsächlich konsultiert wurden und in welchen Fällen allein die Edition Grundlage für die Analyse bildete. Zudem fehlen im Quellenverzeichnis mindestens drei Hss., die im Text benutzt wurden (Archivio Apostolico Vaticano, Reg. Aven. 57 auf S. 133, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ottob. lat. 778 auf S. 218 sowie Bibliothèque Nationale de France, Ms. lat. 4163 auf S. 132). Im Vergleich zwischen den untersuchten Urkundentypen, besonders zwischen litterae und Privilegien, kann die Autorin die grundlegend unterschiedlichen Rahmenbedingungen für deren Kommentierung herausarbeiten. Während die Anweisungen zu ersteren aus der praktischen Arbeit der Autoren erwuchsen, bildeten die Anweisungen zu Privilegien einen Versuch, diese vor dem Vergessen zu bewahren. Zudem suchten die Kardinäle eine Möglichkeit, ihren Einfluss auf die päpstliche Regierung zu wahren, der sich unter anderem in ihren Unterschriften auf den päpstlichen Privilegien äußerte. Allerdings erlangten die Regularien keinen offiziellen, sondern bestenfalls einen offiziösen Status. Angefertigt wurden sie bevorzugt in krisenhaften Situationen wie dem Umzug nach Avignon bzw. der Rückkehr nach Rom, um die Arbeitsfähigkeit der päpstlichen Kanzlei zu gewährleisten. Zudem folgten sie den Urkunden, d. h. sie wurden erst nach der Herausbildung der Merkmale redigiert und wirkten mithin nicht stilbildend. Die Pontifices selbst griffen nicht direkt in die Gestaltung der Texte ein, bestenfalls vor ihrer Amtszeit in anderen Funktionen, die sie etwa in der Kanzlei innehatten. Alles in allem handelt es sich um eine bedeutsame Grundlagenarbeit, die bis dato wenig beachtete Quellen und somit ein wichtiges Feld für die Diplomatik erschließt. Wünschenswert wäre es, auch für andere geistliche und weltliche Kanzleien über ähnliche Arbeiten zu verfügen, auf deren Grundlage dann vergleichende Untersuchungen möglich wären. Der flüssig geschriebene Text ist sorgfältig redigiert, so dass die seltenen orthographischen oder grammatischen Versehen nicht ins Gewicht fallen. An einigen Stellen wäre jedoch eine größere Klarheit wünschenswert gewesen, wie etwa in der Zusammenfassung. Dort verweist die Autorin auf mehrere Phasen in der Redaktionstätigkeit bzw. Verwendung der Regularien (S. 324–328). Bisweilen numeriert sie diese kurzen Passagen, unterlässt dies aber in anderen Fällen, wodurch es unklar bleibt, wie viele Abschnitte sie letztendlich identifiziert. Sehr hilfreich ist die schematische Darstellung der Quellen, doch leider fällt diese sehr klein aus. Sicherlich wäre auch ein Sachregister nützlich gewesen, aber aufgrund der kleinteiligen Gliederung gestattet der Band das schnelle Nachschlagen nach Quellenzitaten oder Sachverhalten. Damit eröffnet die Autorin ungeachtet der genannten geringfügigen Monita mit dieser Arbeit wichtige neue Perspektiven für die päpstliche Diplomatik im engeren Sinne bzw. diplomatische Forschungen im weiteren Sinne.+TABRE+Sebastian Roebert
Tuomas Heikkilä (Hg.), Time in the Eternal City. Perceiving and Controlling Time in Late Medieval and Renaissance Rome, Leiden (Brill) 2020 (Later Medieval Europe 22), 396 S., ISBN 978-90-04-43624-4, € 118.
Der vorliegende Sammelbd. vereint die Forschungsergebnisse einer Gruppe von Nachwuchswissenschaftlerinnen und -wissenschaftlern aus den Disziplinen der Geschichte und der klassischen Philologie, die unter der Direktion des Hg. in unterschiedlicher Zusammensetzung zwischen 2013 und 2017 am Institutum Romanum Finlandiae tätig war. Unter der Rubrik „Wahrnehmung und Kontrolle von Zeit im spätmittelalterlichen und frühneuzeitlichen Rom“ wählen die einzelnen Studien einen kulturgeschichtlichen Ansatz zu einem geradezu existenziellen Thema, das zumal innerhalb der historischen Mediävistik jenseits der klassischen und im Wesentlichen mit der Zeitberechnung befassten Grundwissenschaft der Chronologie noch erhebliches Potential birgt. Dies lässt sich auch daran erkennen, dass die Autorinnen und Autoren immer wieder auf die wegbereitenden Vorarbeiten von Jacques Le Goff zu unterschiedlichen mittelalterlichen Zeitkonzepten zurückkommen und zurückgreifen (müssen). Wie der Einleitung von Tuomas Heikkilä (S. 1–14), nicht aber dem Inhaltsverzeichnis zu entnehmen ist, unterteilt sich die Anthologie lose in zwei nicht immer trennscharf voneinander zu scheidende Sparten, die sich mit Fragen der „kommunikativen und präsentischen Zeit“ bzw. der „kulturellen und historischen Zeit“ beschäftigen. Tatsächlich widmen sich die vier Aufsätze der zweiten Kategorie, von denen drei aus der Feder ein und desselben Autors stammen, hauptsächlich der Analyse der im liturgischen Zusammenhang entstandenen spätmittelalterlichen Kalendare aus S. Pietro in Vaticano und S. Maria Maggiore. Diesen offensichtlichen Forschungsschwerpunkt scheinen die ersten drei Beiträge zu Kanonisationsprozessen und Diarien, zum Jubeljahr 1300 und zu Zeitangaben in nichtfunerären Inschriften eher zu flankieren. Eine Erklärung dieses Ungleichgewichts und ganz allgemein eine Erläuterung zur Genese der Veröffentlichung im Kontext der Arbeit des Kollegs der Forscherinnen und Forscher am Finnischen Institut in Rom bleibt allerdings aus. Dies befördert den Eindruck einer gewissen Unausgewogenheit, der sich besonders bei der Lektüre des ersten Teils der Publikation einstellt. Überzeugen kann vor allem Saku Pihkos Studie zur niederschwelligen, alltäglichen Perzeption von Zeit(räumen) im Rom des Quattrocento (S. 15–58). Trotz der mit dem Quellenmaterial einhergehenden methodischen Bedenken kann der Vf. überzeugend demonstrieren, wie selbst die vermeintlich auf genaue temporale Angaben ausgelegte Kanonisationsprozess- und Tagebuchüberlieferung flexible, ambivalente und vor allem relationale Zeitdeutungsmuster offenbart. So belegen fluktuierende und changierende temporale Ausdrucksformen und ihre Gleichzeitigkeit den komplexen Umgang mit divergierenden Modi der Erfassung von natürlicher, kirchlicher oder mechanischer Zeit. Eine weitere wichtige Dimension mittelalterlicher Temporalität(en), nämlich die (sozial)räumliche Bedingtheit von Zeitwahrnehmung, deutet Pihko indes nur implizit an: Als die später als S. Francesca Romana bekannte Heilige von S. Paolo fuori le mura kommend auf dem Rückweg in die Stadt aus einer längeren Phase der Ekstase aufwachte und ihre Begleiterinnen nach der Zeit fragte, antworteten diese, dass sie sich bei dem Stadttor (wohl der Porta Ostiense) befänden und es Nacht sei, höchstwahrscheinlich weil die topographische Situation in diesem Moment keine andere Orientierung zuließ. Undurchsichtiger wirkt demgegenüber, wie Jasmin Lukkari in ihrem Beitrag (S. 59–105) die Kontrolle von Zeit durch Bonifaz VIII. im Umfeld des Heiligen Jahrs 1300 definiert. Dass der Jahrhundertwende besondere Bedeutung beigemessen wurde, scheint lediglich für das (einfache) Volk in Kardinal Giacomo Gaetani Stefaneschis Traktat „De centesimo seu iubileo anno“ zuzutreffen. Ebenso verfügte der Papst freilich über die Vollmacht, die zeitlichen Rahmenbedingungen für den Erwerb von Ablässen zu terminieren und zu manipulieren. Dies hingegen als Kontrolle einer praktischen Zeitebene zu werten und selbige von anderen Zeitschichten abzugrenzen, etwa von der „abstrakten und unermesslichen“ (S. 96), die der Papst ebenso kontrolliert habe, als er den auf der (unvollendeten) Pilgerfahrt nach Rom Verstorbenen dieselben Ablässe gewährte, mutet etwas forciert an. Einen anderen Quellentypus untersucht Urpo Kantola (S. 106–158) in seinem Beitrag zu den Datierungsformen und Zeitangaben in nichtfunerären Inschriften aus dem hoch- und spätmittelalterlichen Rom, mit dem er sich auf die Spuren Iiro Kajantos, eines Pioniers der finnischen epigraphischen Romforschung, begibt. Das Unterfangen ist löblich, doch trägt es analytisch aufgrund der Heterogenität und zeitlichen Streuung des herangezogenen Inschriftenmaterials kaum Früchte. Einschlägige Literatur wie das „Corpus Cosmatorum“ oder das „Corpus Basilicarum Christianarum Romae“ wurde zudem nur oberflächlich oder überhaupt nicht konsultiert, wie der Autor explizit eingesteht (S. 108 f., Anm. 12 f.). Der eigentliche Ertrag liegt somit in der Katalogisierung der Inschriften in nicht weniger als drei umfangreichen Appendizes und Konkordanztabellen (S. 315–382). Im Gegensatz zum ersten Hauptteil bilden die Beiträge zu den römischen Kalendaren aus Alt-St. Peter, S. Maria Maggiore und mit Abstrichen der Lateranbasilika eine zusammengehörige Einheit, deren Abschnitte aufeinander aufbauen. Zunächst strebt Holger Kaasik (S. 159–219) hierbei eine Bestandsaufnahme an, samt Beschreibung der Hss., des Forschungsstands und Methodik. Der zweite Beitrag (S. 220–241) präsentiert daraufhin erste Ergebnisse in Bezug auf das Navigieren zwischen den verschiedenen Zeitabschnitten des Kirchenjahres in den römischen Kalendaren, wobei die Kalendare vornehmlich der Orientierung bei der Harmonisierung zwischen Sanktorale und Temporale dienen, also etwa darüber informieren, welche Heiligengedenktage von den beweglichen Herrenfesten überlagert werden. Hierdurch erklärt sich auch die an den Kalendaren ablesbare Aufmerksamkeit für die Kalkulation der Sonntage und damit primär des Wochenablaufs. Der darauffolgende Vergleich zwischen den Kalendaren aus S. Pietro in Vaticano und S. Maria Maggiore (S. 242–274) unterstreicht die starke lokale Färbung der Kalendare, ihre Ausrichtung auf spezifische religiöse Standorte und Gemeinschaften, betont aber gleichzeitig die Uneinheitlichkeit etwa der Exemplare aus Alt-St. Peter, bei denen jeder vierte Eintrag in nur einem Kalendar begegnet. Kalendare fungierten ergo eher als Stützen von Tradition, Identität und Memoria, nicht allerdings als Instrumente liturgischer Standardisierung. Den Bd. beschließt die Studie von Marko Halonen (S. 275–314), der Kalendare weniger als liturgische Quellen im engeren Sinne behandelt, sondern ein breiteres Verständnis von Kalendarien voraussetzt, auf dessen Grundlage er nach Hinweisen auf die Wahrnehmung von solaren, stellaren und lunaren Zeitzyklen fragt. Dabei räumt er eine gewisse Konservativität und Konformität bei der Verzeichnung natürlicher Zeitphänomene in den römischen Kalenderwerken ein, etwa wenn Angaben zu den Äquinoktien ganz einfach abgeschrieben werden. Dennoch zeige sich im 13. und 14. Jh. eine zunehmende Auseinandersetzung mit der Berechnung beobachtbarer kosmologischer bzw. astronomischer Veränderungen, nicht freilich um diese selbst, sondern um mit ihrer Hilfe Gottes Schöpfung zu ergründen.+TABRE+Wolf Zöller
Massimo Ciambotti/Anna Falcioni (Eds.), The Malatestas’ Registers and Medieval Accounting (13th–15th Centuries), Spoleto (Fondazione CISAM. Centro italiano di studi sull’alto medioevo) 2021 (Fonti e studi malatestiani 1), 196 S., ISBN 978-88-6809-325-1, € 30.
Dieser erste Bd. der „Fonti e studi malatestiani“ geht auf eine internationale Tagung unter dem Titel „I registri malatestiani e la contabilità medievale (secoli XIII–XV)“ im marchesanischen Fano vom Juni 2019 zurück und präsentiert acht Beiträge von ausgewiesenen Experten und einer Expertin. Einer kurzen Einleitung von Giorgetta Bonfiglio Dosio folgen die Kapitel der beiden Hg., Anna Falcioni und Massimo Ciambotti, die sich beide auf die Rechnungslegung und Verwaltung des Herrn von Fano und Brescia, Pandolfo III. Malatesta (1370–1427), konzentrieren und insgesamt stattliche 80 Seiten umfassen. Grundlage für die verwaltungs-, finanz-, fiskal- und buchführungshistorische Analyse bilden die im Archivio di Stato di Fano niedergelegten und Codici Malatestiani genannten 113 Registerbde. herrschaftlicher Rechnungslegung. Anna Falcioni rekonstruiert detailliert die Entwicklung der Administration unter Pandolfo Malatesta. Dieser, seit 1385 Herr zu Fano, führte eine Reihe von Reformen durch, welche in besonderer Weise den zentralisierten Durchgriff der Signoria auch auf städtische Ämter erlaubten. Der Herrscher verstand es, einerseits Einwanderergruppen – Griechen, Albaner, Deutsche – zur Absicherung seines Regimes einzubeziehen, andererseits den eingesessenen Stadtadel Fanos durch entsprechende Privilegien in den Apparat zu integrieren. Massimo Ciambotti schlüsselt die gesamten Registerbde. herrschaftlicher Rechnungslegung von Brescia sowie Fano auf, so dass jede einzelne Kategorie an Rechnungsbüchern vorgestellt und in einem präzise erarbeiteten Buchführungsschema graphisch veranschaulicht wird. Insbesondere in der Herrschaft Brescia entwickelte sich unter dem Schatzmeister Gioacchino Malagonella mit dem depositarius Andrea Bettini, beide mit Florentiner Wurzeln, eine an die lombardische Tradition (also in lateinischer Sprache) angelehnte, elaborierte Buchhaltung, in deren Mittelpunkt die Kontenbücher der corte signorile standen. Das Büchersystem im Herrschaftsgebiet Fanos, welches sich um ein zentrales Ein- und Ausgabenregister entfaltet, wirkt demgegenüber weniger gut organisiert. Mit der allgemeinen Verwaltung und der Organisation der Buchhaltung des Spedale del Santa Maria della Scala in Siena beschäftigt sich Roberto Di Pietra. Diese im 11. Jh. gegründete Einrichtung, deren Dokumentation mit knapp 6000 Einheiten im Archivio di Stato di Siena abgelegt ist, erfüllte die charakteristischen Aufgaben eines mittelalterlichen Hospitals. Während der Spedale zunächst unter der kommunalen Leitung eines Laienbruderordens stand, geriet er am Ende des 16. Jh. infolge der Reformen Großherzog Ferdinands unter die Lenkung durch den toskanischen Gesamtstaat. Di Pietra zeichnet die Entwicklung des großen Verwaltungsaufwands der Institution nach und zeigt anschaulich, wie über die Kontokorrente schrittweise die doppelte Buchführung in die Rechnungslegung Einzug hielt und die Bilanzierung in einer Eingangs- und Ausgangsrechnung auf einem zunehmend komplexen Büchersystem aufsetzte. Alan Sangster befasst sich in einer Überblicksdarstellung mit der Adaption der doppelten Buchführung im europäischen Zusammenhang und spannt dafür den Hintergrund der ökonomischen Gesamtentwicklung auf. Seine Argumentation stellt die Anpassung der unternehmerischen Buchführung an die sich ausdifferenzierenden Märkte, vor allem an die Geldmärkte mit den Wechselmessen, in den Mittelpunkt seiner Analyse. Armand Jamme unternimmt den anspruchsvollen Versuch, auf der Grundlage einer vergleichsweise dünnen Überlieferungssituation die Fiskalverwaltung und die Rechnungskontrolle in der Mark Ancona während des 13. und 14. Jh. zu untersuchen. Mit bemerkenswerter Sensibilität leuchtet er die wenigen manifesten Fälle der Revision der Rechnungslegung im Kirchenstaat des Spätmittelalters – etwa die Kontrolle des Provinzschatzmeisters Hugo Bos durch den Nuntius Bertrand Carit im Herbst 1324 – aus, um die Strukturen der Finanzadministration im Patrimonium Petri kenntlich zu machen. Den zwischen 1366 und 1430 insgesamt ca. 60 Registern der Institutionen und der Verwaltung der Herrschaften der Grafen von Armagnac, die sich vor allem in der Grafschaft Rodez, den seigneuries des Rouergue und der Vizegrafschaft de Creissels befanden, wendet sich Guilhem Ferrand zu. Die vorwiegend im Okzitanischen gehaltenen Rechnungen wurden besonders durch den Sekretär des Grafen, Raymond Rouquette, zu Beginn des 15. Jh. in ein komplexes Raster gebracht und effektiver Kontrolle unterworfen. Ein abschließendes Kapitel von Gabriele Archetti fasst die Beiträge des vorliegenden Bd. zusammen. Die Aufsatzsammlung liefert einen ebenso ausgezeichneten wie profunden und mustergültigen Überblick über die institutionelle Rechnungslegung im Spätmittelalter.+TABRE+Heinrich Lang
Marina Gazzini/Thomas Frank (a cura di), Ospedali e montagne. Paesaggi, funzioni, poteri nei secoli medievali (Italia, Francia, Spagna), Milano (Bruno Mondadori-Pearson) 2021 (Quaderni degli Studi di Storia Medievale e di Diplomatica 5), 455 pp., ISBN 978-88-67742-92-9.
Gli studi sull’assistenza peccano, per motivi vari non ultimi quelli relativi alla diversa disponibilità di fonti, di quel marcato urbanocentrismo che in Italia coinvolge, oltre agli ospedali di montagna o di strada, anche i piccoli ospedali di campagna, sia pure con alcune interessanti eccezioni. Pubblicato nei „Quaderni degli Studi di Storia Medioevale e diplomatica“ dell’Università di Milano diretti da Giuliana Albini, il vol. „Ospedali e montagne. Paesaggi, funzioni, poteri nei secoli medievali (Italia, Francia, Spagna)“ inizia a colmare questa lacuna mettendo a fuoco soprattutto ciò che accade nelle montagne dell’Italia settentrionale (dall’Appenino tosco-emiliano all’arco alpino) anche se proponendo alcuni fruttuosi confronti con le aree montane di Spagna e Francia. Il convegno dal quale ha avuto origine il vol. si inserisce, con una sua chiara originalità, nelle attività editoriali del Prin-2015 (Progetto di Rilevante Interesse Nazionale) dal titolo „Alle origini del welfare (XIII–XVI secolo). Radici medievali e moderne della cultura europea dell’assistenza e delle forme di protezione sociale e credito solidale“. Tra i risultati del progetto c’è stata una più piena consapevolezza della varietà e originalità delle iniziative assistenziali: una parte importante nata con la forza proveniente dal basso, cioè dall’iniziativa di uomini e donne che offrivano la propria manodopera gratuita oppure denaro o beni che potessero fornire una rendita all’istituzione che li riceveva; un’altra parte proveniva dal mondo artigiano e da sodalizi a base professionale che si impegnavano a favore degli iscritti in cattive condizioni economiche o di salute, anche attraverso forme proto- e cripto-assicurative; un’altra ancora, meno pulviscolare e più appariscente, originava dall’iniziativa dei poteri superiori, nelle loro diverse forme istituzionali (monarchiche, municipali, signorili, ecclesiastiche). Sono poi emerse le varianti determinate dalla eccezionale complessità del Paese – con la sua posizione protesa in mezzo al mare, la dorsale degli Appennini che la divide in due nel senso della lunghezza, l’alternanza di valli e montagne, la catena alpina, la netta differenza di clima tra la nebbia del nord e la siccità del sud e delle isole – un vero mosaico di territori che nel tempo ha favorito l’istaurarsi di diversi rapporti tra bosco, coltivazioni, centri abitati, facendo convivere, tutto sommato in poco spazio, pastori, boscaioli, marinai o agricoltori. A fare la differenza, sono poi emerse anche le dimensioni varie degli ospedali e le loro diverse funzioni, perché non tutti svolgevano tutti i compiti, né erogavano gli stessi servizi. Qualcuno distribuiva solo elemosine, qualcuno accoglieva per brevi periodi e qualcuno a lungo, qualcuno offriva aiuto a fasce particolari di persone come carcerati, malati, lebbrosi, feriti nelle giostre o mutilati dalla giustizia, donne senza dote, vedove, abbandonate o maltrattate dai mariti, trovatelli delle città o dei territori, anziani, poveri vergognosi, declassati e impoveriti. E anche pellegrini, anche se, come confermano i curatori Gazzini e Frank nella articolata „Introduzione“ al vol. (pp. 1–20), il ruolo del pellegrinaggio come motore dell’assistenza continua tutt’oggi ad essere enfatizzato a discapito delle altre funzioni, anche nel caso di un ospedale in campagna o in montagna. Insomma, troppa luce sul flusso dei pellegrini e troppo poca sui bisogni delle popolazioni rurali e montane, sulle reti di relazioni economiche che si intrecciano con la popolazione circostante anche sugli spostamenti di popolazione per motivazioni diverse dal viaggio occasionale. Gli ospedali di montagna, dunque, presentano una loro forte specificità nel rapporto con il territorio di riferimento, che viene in questa sede per la prima volta indagato con attenzione specifica contribuendo, come spesso accade quando si utilizza la documentazione ospedaliera, anche alla ricostruzione dei paesaggi storici delle montagne medievali. I saggi sono tutti centrati su casi di studio, cosa che permette di individuare ciò che fa assomigliare tra loro le iniziative ospedaliere, ma anche le loro diversità: un po’ ospizi, un po’ locande, un po’ santuari, un po’ aziende, un po’ rifugi, un po’ fortezze, un po’ luoghi di controllo della strada o dei valichi. Nella Lombardia alpina, ad esempio, spicca l’ospedale Maggiore di Milano che dalla pianura coordina – tra gli altri dei quali una bolla di papa Pio II gli affida un controllo non sempre pacifico – anche gli ospedali di passo, che comporta l’apertura di una controversia sulla raccolta e gestione dei proventi delle questue (Giuliana Albini, pp. 181–243). L’ospedale di San Giovanni di Bellinzona si presenta invece come un presidio incastellato all’inizio delle valli che portano ai passi del San Gottardo e di San Bernardino (Massimo Della Misericordia, pp. 91–132). L’edizione e l’analisi di alcuni quaderni di un cartolario della metà del XIII secolo e di un coevo inventario di beni di un ospedale della Valtellina, nelle Alpi centrali, consente di osservare Ruggero Beccaria, notaio influente e professionalmente qualificato, mentre mette a punto un metodo con il quale delimita le piccole unità territoriali e prova a rappresentare in forma scritta il paesaggio montano reale (Rita Pezzola, pp. 133–179). Sulle Dolomiti l’ospedale di Campiglio appare insieme punto di riferimento per la comunità locale e di attrazione su territori lontani (Emanuele Curzel, pp. 21–43). Così pure, attraverso l’esame di una serie di visite pastorali, Elena Corniolo illustra le condizioni, spesso critiche, degli enti ospedalieri della valle d’Aosta, molto legati ai percorsi viari dell’area e con tipologie di assistenza plurifunzionali non accompagnate da processi di specializzazione (pp. 245–284). In Val di Susa e sul piccolo Moncenisio gli ospedalieri antoniani si occupano di malati fin dal tardo XII secolo e vanno via via radicando la propria attività. Come meta di pellegrinaggi – perché le tappe antoniane sul passaggio per il Moncenisio, frontiera tra il Regno d’Italia e il Regno di Borgogna di riconosciuta importanza, sono testimoniate da ben due itinerari tardo quattrocenteschi per Compostela – ma anche organizzando le questue e acquisendo case e mulini, boschi, campi, terreni incolti in pianura e vigne, e praticando l’allevamento brado di maiali, capre pecore e bovini (Mariangela Rapetti, pp. 285–317). Negli ospedali delle Alpi e Prealpi venete Francesco Bianchi (pp. 45–90) individua, infine, una cesura cronologica dal momento che, mentre il boom ospedaliero del XII secolo sembra destinato, per quanto non in maniera esclusiva, più al servizio della rete viaria, gli ospizi fondati tra XIV e XV secolo appaiono più attenti alla soddisfazione del bisogno della popolazione locale. Anche l’Appennino tosco emiliano (Marina Gazzini, pp. 319–355) appare seminato di presenze ospedaliere situate nei pressi dei valichi (ma ne esistono anche di media e bassa valle) lungo vie di transito che mettono in comunicazione il centro e il nord della penisola svolgendo, oltre alle funzioni locali di cura della malattia e di assistenza ai poveri e ai bisognosi, anche funzioni di ricovero per i viaggiatori, di manutenzione dei ponti e delle strade, di controllo militare del territorio, di presidio di sicurezza: si apprende, ad esempio, che negli anni 1347–1348 il comune di Pistoia finanzia il restauro dell’ospedale della Croce Brandegliana per contrastare la pericolosità della strada „de montanea superiori“, infestata da latrones che rapinavano uomini comuni e mercanti in viaggio (p. 337). Aprono la possibilità di confronti interessanti a scala europea tre saggi dedicati alle aree di mezza montagna dell’alta Provenza e del Massiccio Centrale (Damien Carraz, pp. 357–388), ai Pirenei orientali (Marta Sancho i Planas e Maria Soler Sala, pp. 389–429) e alla Cordigliera cantabrica (María Álvarez Fernández, pp. 431–455). Nel primo caso si segnala il ruolo dell’ordine degli ospedalieri di San Giovanni nell’organizzare la transumanza su brevi distanze. Nel secondo si conferma che persino lungo il cammino di Santiago la rete delle fondazioni ospedaliere non ha origine dal pellegrinaggio bensì da una serie di luoghi sacri e centri termali di epoca romana e pagana che dal passaggio di pellegrini ricevono solo un nuovo impulso. Nella Cordigliera Cantabrica, infine, si costruisce un sistema di micro ospitalità, capace di unire diversi piccoli centri di assistenza sviluppatisi lungo le vie di comunicazione ma anche in diretto contatto con quegli attivi nuclei di popolamento che ricoprono un ruolo rilevante nello sviluppo della regione, dove le attività pastorali sono predominanti su quelle assistenziali. La chiave di lettura del vol., dunque, è quella di valorizzare il rapporto degli ospedali di montagna con i territori circostanti e con i bisogni della popolazione locale, ridimensionando il ruolo del pellegrinaggio e del viaggio come motore unico dell’assistenza nelle aree montane.+TABRE+Gabriella Piccinni
Christian Grasso, Governare con la parola. Papato e crociata durante il pontificato di Onorio III, Roma (Istituto Storico Italiano per il Medioevo) 2021 (Nuovi studi storici 123), 534 pp., ISBN 978-88-31445-12-2, € 35.
Per troppo tempo quello di Onorio III (1216–1227) è stato considerato come un pontificato „di mezzo“ tra quello del predecessore Innocenzo III (1198–1216) e quello del successore Gregorio IX (1227–1241). Se questi due papi sono usualmente tratteggiati come inflessibili propugnatori del potere pontificio e inflessibili decisionisti nelle loro scelte di governo, Onorio III è stato sempre descritto come cauto e più propenso alla mediazione. Tale immagine è quella che emerge dalla monumentale monografia di Viola Skiba, dal significativo titolo „Honorius III. (1216–1227). Seelsorger und Pragmatiker“ (Stuttgart 2016). Il vol. della studiosa tedesca offre un esaustivo resoconto del pontificato onoriano; eppure, non solo rimane possibile e auspicabile l’acquisizione di nuove conoscenze su questo papa, ma anche una rivalutazione complessiva del suo governo. Ed è proprio quello che emerge dalla lettura del vol. di Christian Grasso, frutto di lunghi anni di ricerca durante i quali ha visto la luce un volume miscellaneo, curato sempre da questi, da titolo „Nuovi studi su Onorio III“ (Roma 2017). La corposa monografia (oltre 500 pagine!) al centro delle presenti riflessioni ha come poli tematici, fortemente interconnessi tra loro, il papato, la crociata e la comunicazione politica. Nell’„Introduzione“ è offerto un prezioso affresco storiografico nel quale si sottolinea, tra gli altri argomenti, la necessità di un’interazione sempre più approfondita tra studi di storia istituzionale del papato e crociatistica, interazione che dovrebbe avvenire a non solo a livello tematico, ma anche per quel che concerne lo studio e l’analisi della documentazione curiale riguardante l’organizzazione della crociata. In questo vol. l’autore dimostra di adempiere a tali desiderata storiografici con indubbia maestria e competenza. La prima parte del vol. („La crociata durante il pontificato di Onorio III“) si apre con una puntuale ricostruzione della carriera curiale di Cencio, carriera esemplare di un chierico dell’Urbe che ha per scenario il vivace mondo delle istituzioni ecclesiastiche romane e della corte papale. I primi passi del cursus honorum di Cencio nel suo contesto sono fondamentali per poter accostare il problema dell’impresa d’Oltremare durante gli anni del pontificato di Onorio III. Il forte slancio organizzativo per una nuova crociata è testimoniato all’indomani dell’adventus del 24 settembre 1223 e fu perseguito dal pontefice con tutti i mezzi istituzionali e finanziari a disposizione della curia romana. Di questi sforzi l’autore dà conto con estrema puntualità ed esaustività, ricostruendo l’attività legatizia di Ugo d’Ostia nell’Italia dei Comuni, di Guala Biccheri in Inghilterra, nonché di altri predicatori in Francia e nell’impero romano-germanico. Si pone giustamente enfasi sull’abilità oratoria e di mediazione politica dei rappresentanti papali, specialmente per quel che concerne il perseguimento della pace tra le città, per il cui mantenimento un ruolo essenziale era quello dell’osservanza del giuramento, la cui rottura comportava un’offesa a Dio e il venir meno all’utilitas generale della Chiesa. Nonostante ciò, il successo non arrise alla crociata d’Egitto (1219–1221) organizzata da Onorio III. Ciò non è da ascriversi solamente alla maggiore dimestichezza degli eserciti avversari in quel contesto geografico e alle annose problematiche legate al prelievo fiscale per finanziare la crociata, ma anche alle difficoltà nel coordinamento e la comunicazione tra i contingenti militari crociati, compito al quale il rappresentante della curia, Pelagio cardinale vescovo di Albano, non riuscì a tenere testa. Il tema della comunicazione ricopriva, dunque, un ruolo di primo piano in quella particolare forma d’interazione tra il centro (Roma) e la periferia (la Cristianità) che, per usare le parole di un altro importante storico delle crociate, Thomas W. Smith, caratterizzava il responsive government della curia papale. Se dal punto di vista evenemenziale la politica crociata di Onorio III conobbe una sconfitta, l’esperienza acquisita e la preparazione di un nuovo passagium generale portò la Sede apostolica ad accreditarsi quale referente ultimo e supremo nell’organizzazione dell’impresa d’Oltremare, nel contesto più ampio della sempre più concreta affermazione della plenitudo potestatis del papa. Ciò comporterà un mutamento sostanziale nei rapporti con l’impero di Federico II, specialmente durante il pontificato di Gregorio IX definito dall’autore, nell’ambito dell’organizzazione della crociata, „L’erede di Onorio III“. La seconda parte, divisa in due lunghi capitoli, riguarda tematiche fondamentali già emerse nella prima sezione del vol.: il rapporto tra „Autorità Pontificia e Crociata“ (cap. V) e „Ars praedicandi e Crociata“ (cap. VI). Nel primo si analizzano gli strumenti canonistico-sacramentali dei quali Onorio III si servì per rendere effettiva l’egemonia romana sull’organizzazione del negotium crucis, quali la riserva pontificia, l’amministrazione della Penitenza, la regolamentazione del votum crucis, la tutela apostolica nei confronti dei crucesignati. Attraverso questi strumenti la Chiesa di Roma giunse a proporre la crociata come causa comune che chiamava in causa tutti i membri della societas christiana. Nell’ultimo capitolo, che è quello – a nostro avviso – maggiormente innovativo, l’autore considera il ruolo della comunicazione nell’organizzazione della crociata attraverso la trasmissione di lettere, i sermoni e pastoralia e le stesse omelie di Onorio III. Egli prende le mosse da dati già acquisiti dalla storiografia (come l’aumento dell’efficienza della cancelleria apostolica a partire dal pontificato di Innocenzo III, oppure il ruolo fondamentale delle scuole parigine e della cerchia di Pietro Cantore sulla predicazione), per poi avanzare una rilettura generale del rapporto tra potere e parola sul piano dello spazio pubblico (l’Öffentlichkeit di Jürgen Habermas), dischiudendo in questo modo promettenti punti di contatto con altre branche della storiografica politica e istituzionale del medioevo. In ultima analisi, il vol. di Christian Grasso, corredato da un’accurata appendice documentaria e dall’indice dei nomi di persona, costituisce allo stesso tempo una messa a punto del problema della crociata all’inizio del Duecento e una rilettura complessiva del pontificato di Onorio III che, a nostro parere, supera per profondità di interpretazione quelle finora proposte.+TABRE+Alberto Spataro
Onorio III, i frati minori e la Regola del 1223. Atti del Convegno Internazionale di studi (Roma, 12–13 maggio 2022), a cura di Antonella Dejure/Christian Grasso/Juri Leoni/Marco Guida/Massimo Miglio/Sara Muzzi, Roma (Istituto Storico Italiano per il Medioevo) 2023 (Nuovi Studi Storici 128), 482 pp., ISBN 978-88-31445-34-4, € 38.
Tra i numerosi convegni e incontri di studio celebrati in occasione dell’ottavo centenario della promulgazione della Regola detta bullata concessa da Onorio III, papa dal 1216 al 1223, a Francesco d’Assisi (1182–1226) e ai suoi compagni, quello svoltosi a Roma tra il 12 e il 13 maggio 2022 presso la Pontificia Università dell’Antonianum in sinergia con l’Istituto Storico Italiano per il Medioevo, ricopre senz’altro un ruolo particolare. Ciò non è dovuto solo al prestigio di queste due istituzioni, ma alla molteplicità di prospettive disciplinari e tematiche attraverso cui si è analizzato questo documento così importante, non solo per la storia dell’Ordine francescano. Gli atti raccolti nel vol., introdotti da una breve premessa firmata da Marco Guida e Massimo Miglio, si possono raggruppare in diversi nuclei tematici. Il primo, avente come osservatorio la figura di Onorio III e la sua curia, è aperto da un saggio di Agostino Paravicini Bagliani che ha per titolo „Onorio III e Cristo: riti e simboli“, al cui interno si evidenzia come sin dai tempi del cardinalato il futuro pontefice avesse profuso ampi sforzi nell’approfondimento dei riti che significavano la plenitudo potestatis dei successori di Pietro, in continuità con quanto già operato in tal senso dal suo predecessore Innocenzo III. In particolare, è presa in esame la particolare celebrazione, tutta romana, della rosa d’oro durante la quarta domenica di Quaresima (detta Laetare): attraverso l’analisi del sermone di Onorio III relativo a tale ricorrenza, l’autore mostra come questo pontefice espliciti con maggiore intento didascalico quanto già esposto dal predecessore. Nel contributo successivo Werner Maleczek propone un’ampia disamina della composizione della curia onoriana („Honorius III. und die römische Kurie“), passando dettagliatamente in rassegna il collegio cardinalizio, la cappella pontificia, la cancelleria e la camera apostolica e gli altri offici di curia. Sebbene tali istituzioni avessero assunto una loro solidità sotto Innocenzo III, secondo l’autore Onorio III seppe servirsene in maniera oculata e con equilibrio in modo da garantirne un funzionamento nel suo insieme efficiente. André Vauchez, affrontando nel suo contributo „La politique de la sainteté d’Honorius III (1216–1227)“, ha messo in luce l’attenzione alla procedura canonica inaugurata dal pontificato di Alessandro III (1159–1181), che prevedeva un esame attento della documentazione scritta relativa alle canonizzazioni; inoltre, si evidenzia come il numero non indifferente di francesi e di religiosi appartenenti all’Ordine cisterciense associato al catalogo dei santi si possa spiegare con la mediazioni di esponenti di queste due categorie all’interno del collegio cardinalizio. L’ultimo contributo di questo primo nucleo tematico è di Christian Grasso, che affronta un aspetto a lui ben noto: „Onorio III e l’ars predicandi: tra regole ed eccezioni“. L’autore delinea sia l’attività di predicatore del pontefice stesso, cogliendo il carattere tipico dell’uso romano-curiale, ossia l’esegesi biblica supportata dalle auctoritates dei padri – Gregorio Magno in primis –; dopodiché sono analizzate le campagne di predicazione dei suoi legati, stilisticamente e tematicamente più improntate alle novità elaborate nel contesto culturale parigino. I saggi di Simona Paolini, Felice Accrocca e Marco Guida hanno per oggetto la Regola del 1223 nel contesto dei rapporti tra Francesco e la curia romana. Nel primo contributo „L’autorità pontificia di Onorio III sul religiose vivere“, offrendo una panoramica sul diritto canonico a partire dalla riforma dell’XI secolo fino a dei richiami al Codice di Diritto Canonico riformato del 1984, si tenta di evidenziare la specificità degli interventi di Onorio III sulla vita religiosa e, segnatamente, sull’esperienza minoritica. Di seguito, con il significativo titolo „Una storia complessa. L’Ordine francescano durante il pontificato di Onorio III“, il saggio di Accrocca ripercorre il travagliato processo di istituzionalizzazione della fraternitas minoritica a decorrere dalla testimonianza risalente al 1216 di Giacomo da Vitry e scandito dalla stesura della Regola del 1221 prima e da quella definitiva del 1223 poi, fino alla morte del Poverello di Assisi. Attraverso un confronto con le circostanze storiche che videro l’Ordine ingrandirsi e diffondersi in Europa e non solo, l’autore sottolinea come Francesco abbia vissuto in maniera sofferta, almeno a partire dal 1220, i cambiamenti che si imposero (o meglio che furono imposti) alla compagine minoritica. Nel suo contributo „Frate francesco e la regola negata“ Marco Guida, soprattutto a partire dalla Compilatio Assisiensis, rilegge le frizioni che s’intravedono in filigrana nella legislazione dell’Ordine (e sull’Ordine) individuando un „Bipolarismo insostenibile“ che andrebbe colto non nelle incomprensioni insorte tra la curia romana (specificamente nella figura del cardinale Ugo d’Ostia) e l’Assisiate, ma tra questi e il gruppo dei ministri provinciali. A seguire sfila un trittico di contributi che prendono in esame la tradizione manoscritta della Regola del 1223: Michael J. P. Robson („St. Francis’s Reg. B., According to Early Manuscripts [1223–1259]“), concentrandosi sui primi sette testimoni di tale testo, ha evidenziato come la trasmissione della Regola fosse accompagnata dagli scritti di Francesco, spesso e volentieri nella più antica lezione; la ricerca proposta da Marco Cursi e Antonella Dejure, „I volgarizzamenti italiani della Regula bullata: tradizione manoscritta, testimoni, testi“ è tanto ambiziosa quanto di estrema utilità, giacché un censimento delle traduzioni in volgare della Regola bullata permette non solo di cogliere adattamenti linguistici dovuti alle varietà di volgari della Penisola ma anche al contesto della predicazione osservante; infine, prezioso è il saggio di Anna Gaspari circa „La traduzione greca della Regola dei frati Minori: un nuovo testimone (Vat. Gr. 1093)“ e una nuova edizione, dove si propone come contesto genetico della traduzione quel milieu culturale greco che all’inizio del XV secolo ambiva all’Unione tra le due Chiese. L’ultimo gruppo di saggi analizza l’ampio quanto affascinante tema dei commenti alla Regola dal periodo dell’Osservanza (Francesco Carta, „I commenti osservanti alla regola del 1223 [XV–inizio XVI secolo]“), passando per gli inizi dei Cappuccini (Michele Camaioni, „I commenti dei primi cappuccini alla Regola del 1223. Una prospettiva storica“), fino a quello proposto durante il Capitolo delle Stuoie del 15–18 aprile 2009 e promulgato nel 2012 (Fortunato Iozzelli, „La Regola dei frati Minori in alcuni commenti degli anni 1948–2012“). Nel lungo periodo e nella varietà dei contesti nei quali videro la luce i commenti della Regola è possibile scorgere il continuo ritorno di punti di interesse come il valore spirituale – oltre che giuridico – del testo e la sua aderenza o meno al propositum originario di Francesco. Non stupisce che tali problematiche, inerenti più in generale alla dialettica tra il carisma francescano e l’istituzione della Chiesa romana, come sottolineato da Pietro Manaresi, „La questione della Regola bollata nelle biografie contemporanee“ sono quelle che più animarono il dibattito scientifico a partire da Paul Sabatier a oggi. Nella „Finalis conclusio“ Jacques Dalarun, riassumendo gli assi tematici del convegno, ha evidenziato come lo studio dell’esperienza di Francesco e dei suoi frati nel contesto più ampio della storia delle istituzioni ecclesiastiche sia foriera di acquisizioni sempre più lucide e profonde dell’esperienza minoritica: i contributi del presente vol. ne sono una degna testimonianza.+TABRE+Alberto Spataro
Marcello Pacifico, Corrado IV di Svevia. Re dei Romani, di Sicilia e di Gerusalemme, Bari (Adda) 2020 (Itineraria 26), 182 S., ISBN 978-88-6717-527-7, € 20.
Zum Stauferkönig Konrad IV. fehlt eine aktuelle Biographie. Jener Haupterbe Kaiser Friedrichs II. wurde von der älteren, nationalen Sicht auf das Mittelalter in den Schatten seines glänzenden Vaters gestellt. Heutigen euromediterranen Interessen dürfte der immerhin in Deutschland, Nord- und Süditalien sowie Outremer herrschende Konrad IV. wohl schon mehr entsprechen. So schlägt man erwartungsvoll die Monografie Marcello Pacificos auf, seines Zeichens Dozent für mittelalterliche Geschichte an der Università Telematica PEGASO in Neapel. Und tatsächlich verspricht die Einleitung nicht weniger als „la revisione di quel giudizio negativo storiografico sul sovrano svevo“ (S. 9), das Pacifico der älteren Forschung unterstellt. Wichtige Grundlage für die Revision seien neue Quellen, namentlich die Schreiben der erst kürzlich edierten Innsbrucker Briefsammlung. Dies „… permette finalmente … di riscrivere la storia intrecciata dei regni di Gerusalemme, di Sicilia e dell’impero“ (S. 12) zur Zeit Konrads IV. Doch erfüllt das Buch – um es vorwegzunehmen – die hohen Erwartungen nicht. Das beginnt schon mit dem Titel, der eine Biographie andeutet, während de facto Aspekte der Beziehungen Konrads IV. zu Akteuren in seinen Reichen sowie teils auch zwischen letzteren ohne Vollständigkeitsanspruch behandelt werden. Die Abhandlung erfolgt in zwei chronologisch gegliederten Teilen: erstens zu Konrads IV. Aufwachsen und seinen eingeschränkten Herrschaftsaufgaben ab 1228 bis zum Tod seines Vaters 1250, zweitens zu Konrads selbständiger Regierung ab 1250 bis zu seinem frühen Tod 1254. Der zweite Teil zerfällt dabei in drei Kapitel mit regionalem Schwerpunkt: zum römisch-deutschen, Jerusalemer und sizilischen Reich in jeweils chronologisch paralleler Abhandlung. Pacificos große Aufmerksamkeit für Outremer ist dabei eine vielversprechende Bereicherung, ebenso seine quellengesättigte Darstellung. Unglücklicherweise vollzieht sich diese aber vor allem als Aneinanderreihung von Brief- und Urkundeninhalten, die kaum kritisch beleuchtet oder abgewogen erörtert werden. Vielmehr übernimmt Pacifico ohne weitere Begründung die Sicht der stauferfreundlichen Quellen: Konrad IV. gilt ihm als „homo pacificus et iudex severus“, der „… riformare la pace e la giustizia nei suoi regni …“ wollte (S. 10, 12); der gegen den Staufer kämpfende Papst Innozenz IV. hingegen erscheint von „profondo odio contro la stirpe sveva“ (S. 30) getrieben und fördert damit letztlich z. B. „l’anarchia … nel regno di Gerusalemme“ (S. 31) bzw. verhindert einen erfolgreichen Kreuzzug; die Staufergegner seien durch Geld korrumpiert und zur Rebellion gegen die legitime Majestät aufgehetzt worden (S. 37, 84). Hier, wo Mitte des 13. Jh. jeweils begründete Rechtsstandpunkte aufeinandertrafen, wäre die heutige Entscheidung für einen von diesen sorgfältig zu rechtfertigen gewesen. Doch berücksichtigt Pacifico nur einen Teil der Forschungsliteratur und -kontroversen und zitiert häufig eigene Schriften sowie eine Reihe veralteter Werke und Editionen – z. B. Kantorowiczʼ Biographie zu Friedrich II. von 1927. So gelangt er zu dem Urteil: „la propaganda può distruggere la memoria di un uomo che ha tentato di portare a termine quella riforma di pace e giustizia“ (S. 144), aber die vorliegende Studie „… vuole rendere onore alla sfortuna di un uomo, sempre pio e devoto“ (S. 145). Pacifico schließt mit der für ein historisches Fachbuch bemerkenswerten Anregung, „… se qualcuno vuole dedicargli una preghiera affinché finalmente trovi quella pace sempre anelata …“, könne man dies im Konrad IV. zu verdankenden Dom von L‘Aquila tun (S. 145). Auf diesen Epilog folgen noch eine Tabelle mit dem Nachweis der in der Darstellung zitierten Dokumente aus der Innsbrucker Briefsammlung sowie ein Namens- und Ortsregister. Alles in allem ist die Überwindung nationaler Deutungsmuster bezüglich Konrad IV. sicherlich der Weg der Wahl, doch ist Pacificos Art der Ehrenrettung so neu nicht. Schon 1983 hatte schließlich Gerhard Baaken geurteilt, Konrad IV. „… possedeva un marcato senso del diritto e della giustizia …“ und habe sich in Italien „come un sovrano energetico e … un condottiero esperto“ erwiesen (Gerhard Baaken, Corrado IV, re dei Romani, di Sicilia e di Gerusalemme, in: DBI, Bd. 29, Roma 1983, S. 389–394, hier S. 394). So bleibt als Fazit der Ausgangspunkt: Noch fehlt zum Stauferkönig Konrad IV. eine Biographie auf neuestem Stand.+TABRE+Richard Engl
Giovanni Vitolo/Vera Isabell Schwarz-Ricci (Hg.), Konradin (1252–1268). Eine Reise durch Geschichte, Recht und Mythos/Corradino di Svevia (1252–1269). Un percorso nella storia, nel diritto e nel mito, Heidelberg (Heidelberg University Publishing) 2022, 316 S., Abb., ISBN 978-3-96822-150-2, € 54,90.
Il vol. raccoglie le relazioni presentate alla giornata di studi dedicata a Corradino di Hohenstaufen che si tenne all’Università di Napoli Federico II nell’ottobre 2018, in occasione dei settecentocinquanta anni dalla morte del sovrano svevo, il 29 ottobre 1268. Il libro, pubblicato a stampa e in Open Access (https://heiup.uni-heidelberg.de/catalog/book/1037), in versione bilingue tedesco-italiana, è aperto da una breve introduzione di Giovanni Vitolo e dai saluti rivolti ai convegnisti da Arturo De Vivo, Renata De Lorenzo, Marta Herling e Bernhard Prinz von Baden. Esso accoglie poi i contributi di cinque storiche e storici, tra i quali quello del compianto Hansmartin Schwarzmaier, già pubblicato nel 2018 nella „Zeitschrift für Württembergische Landesgeschichte“, e quello di Cristina Andenna, preparato per questo vol. in sostituzione dell’intervento di Aurelio Cernigliaro. Le tragiche vicende che portarono all’uccisione di Corradino, re di Gerusalemme e duca di Svevia, venuto in Italia nel 1267 per riprendersi il regno di Sicilia, che riteneva suo per diritto di discendenza, accesero gli animi e la fantasia dei contemporanei favorendo la nascita di un mito che perdura ancora ai nostri giorni. La sua disfatta a Scùrcola, presso Tagliacozzo, ad opera di Carlo I d’Angiò; la precipitosa fuga verso la torre di Astura, dove fu tradito da Giovanni Frangipane che lo consegnò ai suoi nemici; la prigionia nel Castel dell’Ovo e la successiva decapitazione a Napoli, nell’area del mercato fuori le mura, insieme all’amico e cugino Federico di Baden e ad altri cavalieri svevi del suo seguito, ebbero vasta eco nell’Europa del tempo, allora ancora lacerata dallo scontro tra lo schieramento svevo e quello papale, tra l’impero, il papato, i regni e le diverse formazioni politiche che si schierarono dall’una e dall’altra parte. L’epilogo della vicenda umana di Corradino segnò la fine della potenza della casa sveva e della lotta che la Chiesa aveva ingaggiato con Federico II per tenere separato il regno di Sicilia dall’impero. Già il trovatore veneziano Bartolomeo Zorzi, nel suo compianto per la morte di Corradino, delineò la figura di un re ideale e virtuoso, giovane, bello, generoso, pio, giusto e saggio, abile nell’uso delle armi, ingiustamente condannato a morte a soli sedici anni. La sua esecuzione fu poi ricordata con accenti commossi da tutti i cronisti del tempo, compreso il guelfo Saba Malaspina, che la giudicò iniqua. Soprattutto negli ambienti antiangioini, il ricordo della crudele morte del nipote di Federico II era ancora vivissimo ai tempi di Dante, che nella „Commedia“ rievoca Corradino per sottolineare la mancanza di scrupoli che aveva caratterizzato l’operato politico di Carlo I d’Angiò. Nel 1313, quando Enrico VII decise la spedizione punitiva contro il regno di Sicilia, nell’esercito dell’imperatore si parlava di vendicare Corradino, come scriveva re Roberto d’Angiò a papa Clemente V. La sua giovane età e la sua tragica fine hanno quindi contribuito a forgiare una immagine di lui che attraversa i secoli e riemerge nella poesia, nella letteratura, nelle arti e persino nella storiografia, fino ai giorni nostri. La sua vita e la sua morte sono state a lungo materia privilegiata di narrazioni storiche e, al tempo stesso, mitologiche, nelle quali si sono riflesse le sfide e le tensioni del XIII secolo e delle epoche successive, come accade, emblematicamente, nella „Geschichte der Hohenstaufen und ihrer Zeit“ (1823–1825) di Friedrich von Raumer. L’esaltazione romantica dell’ultimo svevo trova un’efficace espressione figurativa nella statua che Peter Schöpf realizzò nel 1847, in stile neoclassico, per la chiesa del Carmine di Napoli sulla base di un modello approntato da Bertel Thorvaldsen, che rappresenta il figlio di Corrado IV e di Elisabetta di Baviera „splendente di giovinezza e di bellezza“, come scrisse un osservatore coevo. L’Ottocento è però stato anche il secolo in cui sono state raccolte ed esaminate con acribia filologica la maggior parte delle fonti ancora oggi utili per ricostruire la storia e il mito di Corradino, grazie soprattutto a Giuseppe Del Giudice, che vagliò attentamente documenti e cronache relative al giudizio e alla condanna dello Svevo, e a Karl Hampe, che nel 1894 compose una poderosa biografia di Corradino, tuttora un saldo punto di riferimento per chiunque voglia avvicinarsi alla storia di quest’epoca. In seguito, sono state condotte ricerche di fondamentale importanza, come quelle di Hellmuth Kämpf, August Nietschke, Hans Martin Schaller e Peter Herde. Soprattutto, negli ultimi decenni, sono stati realizzati tantissimi studi che hanno profondamente rinnovato la storia della „costituzione materiale“, della società e della cultura del regno di Sicilia, dello stato della Chiesa, delle formazioni politiche dell’Italia centro-settentrionale, delle città e dei principati della Germania, del regno di Francia e delle contee di Angiò e di Provenza; in altri termini, delle diverse regioni in cui prevalentemente si svolse l’azione politica di Svevi e Angioini. Per ragioni di spazio, non è possibile dirne qui più estesamente. In dialogo con numerosi autori della storiografia più recente sono i cinque contributi pubblicati nel vol. curato da Giovanni Vitolo e Vera Isabell Schwarz-Ricci. Il primo articolo, di Giancarlo Andenna, è dedicato al tramonto degli Svevi da Federico II a Corradino: esso muove dall’interpretazione che Giuseppe Galasso ha dato della crisi della casata sveva in Italia meridionale, provocata dal mancato sostegno da parte delle maggiori città del regno, dalla tendenza dei baroni a crearsi ampie aree di dominio personale, dai rapporti conflittuali con il papato. Il secondo saggio, di Giovanni Vitolo, illustra innanzitutto la scena dell’esecuzione, la vasta piazza del Mercato, un luogo familiare sia ai napoletani sia a chi frequentava il regno, spesso per motivi commerciali, provenendo da altre regioni; in questo spazio esterno-interno alla città, secondo Vitolo, Carlo I avrebbe messo in atto un’imponente operazione politico-propagandistica alla presenza di un’ampia rappresentanza della nobiltà feudale del regno e dei sindaci delle principali città delle province di Principato e Terra di Lavoro, ai quali sarebbe stato riservato il ruolo di accusatori dell’ultimo Svevo. Sulla base di una ricca messe di fonti, come trattati, opere storiche e cronachistiche, e specula principis, Cristina Andenna presenta nel terzo contributo l’aspra contesa che si sviluppò tra i sostenitori di Corradino e gli intellettuali legati al papato sull’idoneità di Corradino a governare e sulla legittimità delle sue pretese alle corone dell’impero e di Sicilia sulla base di argomenti di carattere genealogico; in particolare, Cristina Andenna si sofferma analiticamente sui trattati di Pietro da Prezza, sulle invettive pontificie e sul „Chronicon“ di Saba Malaspina. Nel quarto contributo, Hansmartin Schwarzmaier conduce un attento esame filologico e diplomatistico delle pergamene alle quali furono affidate le ultime volontà di Corradino e di Federico di Baden, per molti secoli conservate a Weingarten, uno dei più ricchi monasteri della Germania meridionale. Al mito di Corradino è dedicato l’ultimo articolo, in cui Arnold Esch si sofferma su alcune pagine di Ferdinand Gregorovius, che nelle „Passeggiate per l’Italia“ e in „Una settimana di Pentecoste in Abruzzo“ è preso da profonda emozione quando descrive i luoghi in cui si consumò il dramma di Corradino, al punto da legare la memoria degli Hohenstaufen a quella degli Hohenzollern, che nel 1870, a Sedan, avrebbero finalmente „vendicato il sangue“ dell’ultimo svevo. Esch sottolinea infine come la figura di Corradino, svincolata dal reale svolgimento dei fatti, si fosse profondamente radicata nella cultura popolare dell’Italia meridionale e, in particolare, nell’immaginario di quei contadini della Basilicata, incontrati da Carlo Levi durante il suo confino del 1935–1936, che ancora portavano il lutto per quel „bel ragazzo biondo … ucciso senza colpa“. In conclusione, il lettore troverà in questo vol. utili riferimenti a fonti e bibliografia, nonché significativi spunti di riflessione da riprendere e approfondire in future indagini specialistiche e in nuove sintesi storiografiche.+TABRE+Roberto Delle Donne
Marco Vendittelli/Marco Ciocchetti, Roma al tempo di Dante. Una storia municipale 1265–1321, Roma (Società romana di storia patria) 2021 (Miscellanea della Società romana di storia patria 72), 491 S., Abb., ISBN 978-88-97808-61-9, € 30.
Die 1952 von Eugenio Dupré Theseider vorgelegte Monographie „Roma dal Comune di popolo alla signoria pontificia“ verlangte schon seit einigen Jahrzehnten eine neue Darstellung zur römischen Geschichte der so wichtigen Jahrzehnte der Wende vom 13. zum 14. Jh. Marco Vendittelli und Marco Ciocchetti helfen deshalb mit ihrem Bd. diesem Manko ab. Dass sie dabei die Lebensdaten von Dante Alighieri – 1265 bis 1321 – zugrunde legen, erscheint allerdings künstlich und ist dem Dante-Label zu verdanken, das in seinem Jubiläumsjahr 2021 in Italien allgegenwärtig war. Dantes Präsenz in Rom – wohl zu zwei Gelegenheiten 1300 und 1301 – war eher marginal (S. 13 f.), aber die mitunter dramatischen Zustände in Rom und Umgebung wurden natürlich in ganz Italien lebhaft verfolgt, betrafen sie ja auch direkt und indirekt die Universalmächte Papsttum und Kaisertum, mit denen sich der große vate Zeit seines Lebens beschäftigte. Die beiden Autoren konzentrieren sich allerdings in ihrer akribischen Rekonstruktion der Fakten auf die Fährnisse der römischen Kommune, die damals durchaus selbstbewusst auftrat und ihren wechselnden Stadtherren auch einige (wirtschaftliche) Vorteile abringen konnte. Die Vf. kämpfen dabei gegen das Negativimage der Römer an, dem auch Dante bis hin zur Verachtung des örtlichen Dialekts (S. 11) folgte. In der Tat hat die römische Historiographie in den letzten Jahrzehnten das Bild von dem parasitären Rom korrigiert und die – wenn auch vorwiegend agrarische – eigene Wirtschaftskraft der Stadt betont. Zweifellos erhielt die Stadt neue Impulse, als der ehrgeizige, vom Papst als König von Neapel ins Land gerufene Karl I. von Anjou 1265 Senator von Rom wurde. Immer wieder werden wenig bekannte Details präsentiert (so findet man S. 187, Anm. 55 eine Liste von Römern, die 1278–1280 anderenorts als Podestà wirkten, die belegt, dass nicht nur die führenden Baronalfamilien sondern auch die Geschlechter des niederen Stadtadels wenigstens in Mittelitalien durchaus wahrgenommen und geschätzt wurden). Man achtete bei den städtischen Amtsträgern auf würdiges Erscheinen und bei der Amtskleidung oft auch auf die Stadtfarben Rot und Gelb (S. 73, 146, 236). Die Kommune verschaffte sich auch ein größeres Interessensgebiet im Umland, das man anderenorts als Contado bezeichnet hätte. Natürlich kann Dantes berühmte Beobachtung zur Verkehrsregelung auf der Engelsbrücke im ersten Jubeljahr 1300 nicht fehlen. Neu hingegen ist die plausible Zuschreibung dieser Maßnahme an die magistri aedificiorum et stratarum, der offenbar erstaunlich effizient arbeitenden römischen Bauaufsicht (S. 291). Zur – allerdings nur kurzen – kulturellen Blüte Roms zu Beginn des 14. Jh. trug gewiss auch die Gründung des Studium Urbis durch Bonifaz VIII. bei. Der Rückschlag ließ nicht lange auf sich warten, blieben doch seit 1305 die jetzt aus Frankreich stammenden und vorwiegend in Avignon residierenden Päpste der Stadt fern. Das Intermezzo des Krönungszugs Heinrichs VII. brachte der Urbs 1312 nur Unbill, weckte aber auch bei Dante große Hoffnungen. Den deutschen Imperator hätte es sehr betrübt, wenn er noch erfahren hätte, dass Robert von Anjou wie sein Großvater Karl I. über Jahre im Namen der Avignoneser Päpste auch als Senator von Rom eingesetzt wurde. Angesichts des Todes Dantes endet das Buch abrupt im Jahr 1321. Es ist zu hoffen, dass es keines weiteren signifikanten Jubiläums bedarf, die Stadtgeschichte Roms so detailreich fortzuschreiben, wie es der vorliegende Bd. tut.+TABRE+Andreas Rehberg
Jean-Marie Martin, De la Pouille à l’Artois. Documents italiens concernant le comte d’Artois Robert II conservés aux Archives départementales du Pas-de-Calais (1266–1303), avec une étude de Amedeo Feniello, Paris (CNRS Editions) 2022 (Documents, études e répertoires. Publiés par l’Institut de recherche et d’histoire des textes 92), 203 pp., ISBN 978-2-271-14032-6, € 70.
Ultima opera del compianto maestro Jean-Marie Martin, questo vol. offre l’edizione commentata di 26 documenti custoditi negli Archives départementales del Pas-de-Calais provenienti dall’arco cronologico tra il 1266 e il 1303. Non si tratta di una collezione o di un fondo omogenei e l’elemento comune di questi atti è che essi riguardano direttamente o indirettamente la persona di Roberto II conte di Artois (1248–1302). Il conte, nipote di Luigi IX di Francia e di Carlo I di Sicilia, uomo di guerra, partecipante alla crociata di Tunisi nel 1270, morto nella battaglia di Courtrai, era dal gennaio 1285 all’aprile 1291, durante la prigionia e poi l’assenza del re Carlo II, a capo dell’amministrazione del Regno di Sicilia (Napoli), inizialmente insieme con Gerardo Bianchi da Parma, cardinale di Sabina. Quest’uomo ha avuto un ruolo primordiale nello stabilizzare il Regno nella difficile situazione a seguito dell’insurrezione dei Vespri siciliani del 1282. I documenti qui editi riguardano in realtà poco l’azione del conte nel Regno, nota soprattutto grazie ai registri della cancelleria angioina, offrendo delle informazioni su una serie di argomenti, minuziosamente esaminati nell’introduzione del vol. (pp. 7–25). Andando in ordine cronologico, il primo blocco tematico consiste in quattro lettere degli anni 1266–1268 emesse da papa Clemente IV e dal re Carlo I a beneficio dei Senesi aderitisi alla causa angioina che si trovavano in Francia. Il secondo gruppo consiste in due atti giudiziari, ovvero un’inchiesta (2–18 luglio 1286) e una sentenza (22 novembre 1286) nel processo contro Adenolfo d’Aquino conte di Acerra, un argomento già studiato dal Martin in altra sede (nel vol. del 2016, „Quei maledetti normanni“, in onore di Errico Cuozzo). Adenolfo era, senza dubbio giustamente accusato da Rinaldo di Avella – un alto ufficiale della corte – di tradimento del re e di adesione alla causa sveva, sebbene gli 80 testimoni interrogati nel primo documento fossero poco chiari sul punto. Alla fine si pervenne ad una condanna che, contrariamente a quello che si è affermato nel passato, non era una pena di morte (che si pensava fosse poi stato annullato dal re) ma la semplice confisca dei beni del reo. Secondo Martin, è altamente probabile che Adenolfo d’Aquino, peraltro membro di una famiglia originaria dello Stato della Chiesa, quella di san Tommaso, non fosse stato messo a morte grazie ad un intervento del papa in persona. Comunque sia, egli sarà arrestato di nuovo nel settembre 1293 in Provenza, condannato per sodomia e tradimento, finendo per essere messo sul rogo. La maggioranza degli atti si riferiscono al sostegno finanziario a Roberto d’Artois, ovvero alle somme che doveva ricevere da parte della corte reale e alle aziende agricole messe a sua disposizione. Nel primo caso, risulta che il conte avesse spesso anticipato delle somme di tasca propria e che vi fosse stato un ritardo nei rimborsi e ricompensi a lui dovuti. Nel secondo caso, abbiamo a che fare con due documenti molto rilevanti per la storia economica del Mezzogiorno: una ricevuta data dagli artigiani e commercianti di Corleto che hanno lavorato per una masseria del conte (4 giugno 1297) e il „Quaternus rationum“, ovvero la contabilità, delle sue masserie in Capitanata (redatta dopo il 31 agosto 1300). Questi atti sono probabilmente i più importanti tra quelli editi nel vol. e Martin ne fa un esame minuzioso, seguito poi (pp. 135–153) da un altrettanto dettagliato studio sul „Sistema delle masserie“ da parte di Amedeo Feniello. Come notano i due autori, si tratta di tre tipi diversi di aziende agricole che la corte reale aveva concesso al conte per suo sostentamento, ovvero una serie di massarie, aracie e marescalle, dunque centri di produzione agro-pastorale, allevamenti e centri di allevamento di cavalli. Si tratta di uno dei pilastri dell’economia del regno (quelli del conte, da soli, producevano un profitto netto di 437 once d’oro), sotto stretto controllo del re e concentrati in Puglia e Basilicata, in particolare in Capitanata (48 di queste aziende sono noti). Le masserie, che erano un’unità economica di produzione e non un’entità giuridico-istituzionale, sono documentate dai registri angioini di Napoli, ma in nessun altro caso possediamo una contabilità così dettagliata per seguire il loro funzionamento. All’edizione dei 26 atti (pp. 27–133) e al saggio già menzionato di Feniello, segue una ricostruzione dell’itinerario di Roberto d’Artois nel Regno tra gli anni 1275 e 1291 (pp. 155–165), un elenco analitico prosopografico dei personaggi citati nei documenti (pp. 167–190), un glossario (redatto dal Feniello, pp. 191–193), la carta indicante la collocazione delle masserie di cui sopra (p. 194), l’elenco delle fonti e della bibliografia (pp. 195–203). Si tratta dunque di una piccola ma molto utile aggiunta alla documentazione disponibile per il periodo angioino, eseguita con la solita maestria da Jean-Marie Martin (e da Amedeo Feniello).+TABRE+Kristjan Toomaspoeg
Francesco Poggi, Conflitti di popolo. Lo spazio politico di Orvieto (1280–1337), Roma (Viella) 2022 (Italia comunale e signorile 15), 280 pp., ISBN 978-88-3313-723-0, € 29.
Il volume, risultato di una tesi di dottorato, si pone fin dall’inizio il problema di identificare la natura del popolo orvietano tra fine Duecento e primo Trecento. La dimensione conflittuale, colta tramite la valorizzazione di alcuni momenti politicamente significativi della storia della città, si presta bene come terreno di indagine per soppesare ruoli e pesi specifici dei soggetti in campo. La cornice storiografica, – delineata nell’„Introduzione“ insieme ad una panoramica sulla storiografia orvietana dalla fine dell’Ottocento a oggi – è pienamente inserita nel discorso sullo spazio politico cittadino portato avanti soprattutto da Andrea Zorzi, esplicitamente volto ad indebolire le connotazioni più squisitamente progettuali del programma politico popolare, rimarcando la molteplicità delle componenti sociali appartenenti al popolo. Il primo capitolo del volume mette subito in chiaro le caratteristiche dello spazio politico orvietano, modificatosi negli anni Ottanta del Duecento, quando i guelfi al potere vennero progressivamente sconfitti dalla pars populi, una coalizione socialmente trasversale che aveva come fine principale e condiviso quello di mettere fine al regime in atto. Una volta instauratosi il nuovo governo, le componenti meno radicali del vecchio gruppo di governo sarebbero state cooptate nella nuova impalcatura istituzionale, che riuscì a contenere la conflittualità cittadina in nuove „arene“, rappresentate dai consigli (Generale, di Credenza, del Popolo e delle Arti); questi avrebbero assorbito gran parte del gioco politico orvietano a scapito dei pur sempre attivi ambiti extra-istituzionali. I capitoli 2, 3, 4 sono il vero e proprio cuore del discorso, derivanti dalla minuziosa ed intelligente analisi dei registri delle riformagioni disponibili per gli anni dal 1295 al 1304. L’autore descrive in maniera convincente le complesse pratiche politiche condotte dalle parti cittadine, che usavano i quattro consigli sia come sedi a cui di volta in volta rimandare questioni di cui si voleva frenare l’approvazione o continuare il dibattito, sia, tramite strategie di astensioni e/o voto contrario, per rendere problematico l’avallo delle proposte. L’analisi si mostra particolarmente sottile perché, come altrove, anche ad Orvieto la quasi totalità delle riformagioni conservate furono approvate, dentro meccanismi consiliari che lasciavano poco spazio ad un confronto che non fosse diretto dalle magistrature di governo. Fonti schematiche e per questo di non semplice interpretazione sono particolarmente ben sfruttate nel tentativo di cogliere l’identità politica dei consiglieri, sia coloro che proponevano le riformagioni, sia coloro che si esprimevano in assemblea e i cui pareri venivano messi per iscritto; ma anche i ruoli dei sette consoli delle Arti, del notaio delle riformagioni, delle magistrature forestiere ci vengono mostrati nella loro dinamica conflittuale, pur in formulari spesso volti ad ingessare le pratiche consigliari in un’immagine irenica e ordinaria. Le strategie individuate dall’autore consentono di capire quali meccanismi potessero essere utilizzati dalle diverse parti per minare l’immagine di concordia con cui il governo si presentava, costringendo a riaprire discussioni su temi delicati, come la politica di espansione in Maremma al fianco del papa ai danni degli Aldobrandeschi. Favorevoli all’espansione erano tanto importanti famiglie di milites quanto esponenti dell’élite popolare, dentro convergenze di interessi non formalizzate, che l’autore riesce bene a ricostruire coniando il nome di „parte della Maremma“, che si sarebbe opposto ad un partito altrettanto trasversale dal punto di vista sociale, ma meno coinvolto nella conquista, a sua volta battezzato „parte di Chiusi“. La necessità di identificare coalizioni fluide e non formalizzate porta ad un continuo impiego di tali denominazioni, che rischia però di schematizzare eccessivamente il carattere spontaneo e in continua ridefinizione di queste esperienze, soprattutto per quanto riguarda la „parte di Chiusi“, che sembra aver agito di rimessa rispetto ai progetti dei gruppi egemoni. Il capitolo 5 ci porta, invece, fuori dai consigli, dentro spazi di confronto politico differenti, nondimeno recepiti in seguito nei canali consiliari: l’esercito è al centro della diserzione di 500 cittadini in relazione ad una spedizione del 1294 contro Bolsena, attuata per rinegoziare i criteri di spartizione dei bottini, o del tentativo di smobilitazione dell’esercito orvietano in Maremma del 1303, organizzato dalle frange politicamente ostili all’espansione nell’area. Le opposizioni alle linee di governo maggioritarie potevano anche trasferirsi in località soggette, come quando a Bagnoregio prese vita un governo ghibellino sostenuto anche da orvietani ostili alle politiche attuate dalla loro città. Con l’ultimo capitolo l’autore salta agli anni Trenta del Trecento, per mostrarci come l’esperienza di governo personale di Manno Monaldeschi (1334–1337) abbia progressivamente spostato sulla figura del nobile orvietano il peso politico prima ricoperto dai consigli, non prima di aver portato avanti le istanze di un ampio gruppo – sempre socialmente trasversale – di individui e famiglie la cui appartenenza al popolo non era più il principale canale di affermazione politica, ma andava a fondersi con lo spazio di manovra di altre istituzioni, come la pars guelfa. Nel rispondere al quesito iniziale le conclusioni dell’autore sono molto sicure quando sostiene che „non è possibile storiograficamente ritenere il popolo uno strumento interpretativo capace di indicare un oggetto politico chiaramente identificabile“ (p. 257). I regimi di popolo sarebbero stati così diversi da impedire qualsiasi loro considerazione unitaria. Certo, il fatto che con la stabilizzazione della pars populi „famiglie da oltre un secolo al vertice economico e politico della città … e piccoli artigiani … agivano per la prima volta nello spazio politico cittadino“ trasformando il popolo da „forza politica“ a „spazio d’azione“ (pp. 251 sg.), non pare un fenomeno di poco rilievo politico, ma anzi strutturalmente fondativo di quanto poi sarebbe rimasto in vigore per decenni, pur nelle differenze di contesto. L’estimo del 1292, giustamente ridimensionato nei suoi caratteri punitivi nei confronti dei grandi proprietari terrieri, si pone come il risultato di una mediazione tra componenti sociali non contrapposte ideologicamente, ma inserite in un dialogo che include temi sociali nell’agone politico. Il salto dal 1304 a Manno Monaldeschi lascia, poi, fuori dall’analisi un’ulteriore esperienza di rilancio del popolo, anche in senso antimagnatizio, quella in cui Poncello Orsini fu capitano del popolo, nel libro solo richiamata. Risulta, infine, pressoché assente la dimensione comparativa con altre città dell’area. Si tratta, in ogni caso, di rilievi che non impediscono al volume di porsi come un imprescindibile punto di riferimento per chiunque si accosti alla storia di Orvieto nei decenni trattati.+TABRE+Alberto Luongo
Lorenzo Tanzini (a cura di), Narrare la crisi. Economia e vita religiosa nelle trasformazioni dell’Italia del Trecento, Roma (Viella) 2023 (I libri di Viella 458), 232 pp., ISBN 979-12-5469-381-0, € 27.
La categoria di „crisi“ è stata ampiamente utilizzata dalla storiografia degli ultimi anni, al di là del senso problematico della parola stessa. La situazione odierna ha fatto fiorire le indagini sui più diversi aspetti delle crisi. È quanto ricorda Lorenzo Tanzini nella premessa della raccolta: „Narrare la crisi. Economia e vita religiosa nelle trasformazioni dell’Italia del Trecento“. Il titolo può trarre in inganno, poiché fa riferimento al progetto generale – „Narrating the crisis“ – e all’insieme dei tre voll.; tuttavia, è un po’ lontano dal contenuto di questa prima raccolta di saggi, centrata proprio sulla „crisi“ in sé stessa piuttosto che sulla sua narrazione – che rimane spesso latente nei contributi. „Narrare la crisi“ si inserisce nella lunga scia storiografica che tende a sottolineare i chiaroscuri del XIV secolo, a metterne in risalto i fattori positivi, o creativi. Già Carlo M. Cipolla nel 1964 si interrogava sulla complessità della congiuntura tardomedievale, evidenziando la sostituzione di centri e attività in declino con altri in ascesa. Da allora una corrente storiografica ha accolto questa tendenza alla rivalutazione della „crisi“: tra i maggiori contributi, Stephan R. Epstein negli anni Novanta ha messo in risalto gli sviluppi, le strategie che oggi definiremmo „di resilienza“ e i cambiamenti sociali generati in Sicilia dalla congiuntura trecentesca, giungendo poi a conclusioni di carattere generale. „Narrare la crisi“ si inserisce in questa corposa – e da tempo maggioritaria – tradizione di studi sul tema. I saggi fanno riferimento al contesto italo-mediterraneo e a due categorie storiografiche distinte, benché intersecate in alcuni aspetti: la storia economica e la storia ecclesiastica. Entrambe le tradizioni storiografiche hanno conosciuto una particolare enfasi sulle difficoltà del XIV secolo e sono qui presentate nel tentativo di suggerire diverse chiavi di lettura rispetto alla datata visione del Trecento come secolo d’indistinta decadenza. Nella prima parte del vol., Marco Giacchetto indaga l’impatto delle istituzioni politiche sulle economie cittadine, in un’epoca di forte interdipendenza come il tardo Medioevo. Lo fa tramite lo studio degli atteggiamenti dei governi senesi nella seconda metà del Trecento e le loro scelte in politica economica. Gli ufficiali cittadini si confrontarono con questioni come l’arrivo di manodopera forestiera a seguito dei problemi demografici e l’afflusso di materie prime. Giacchetto illumina come le riforme daziarie fossero complicate dalle dinamiche di politica estera, specialmente nel rapporto con Firenze, i mercanti catalani e i Visconti. Elena Maccioni conduce, invece, un’ampia analisi sul ruolo delle istituzioni e dei tribunali per la gestione delle contese tra i mercanti mediterranei, tra Corona d’Aragona, centri provenzali e città italiane. L’autrice sottolinea come la consapevolezza di un contesto di cambiamento, con l’aumento di violenza e d’instabilità, avesse rafforzato l’impegno di alcuni gruppi economici nella risoluzione di problemi. Maccioni analizza la gestione delle rappresaglie, dei risarcimenti e delle relazioni internazionali, la fiscalità, il mantenimento della pace, gli sforzi delle istituzioni pubbliche che dovevano sostenere le conseguenze giudiziarie delle azioni di privati, illustrando diversi modelli per la gestione delle emergenze. Tommaso Vidal propone un’analisi dell’organizzazione dei mercanti toscani in un’area economica di frontiera come l’Italia nordorientale (e in particolare in Friuli). L’autore si concentra sulle risposte alle „micro-crisi“ determinate dall’azione degli operatori esterni in un contesto socio-culturale diverso da quello d’origine. La messa in atto di specifiche forme societarie, disegnate sulle peculiarità locali, era segno dell’adattamento dei mercanti: l’ibridazione aveva favorito la vitalità proprio tra XIV e XV secolo. Francesco Violante indaga le masserie regie pugliesi, misurando la loro capacità di adattamento dinanzi alla congiuntura trecentesca. Le masserie avevano convertito una produzione prevalentemente cerealicola, tipica della fase espansiva ma fragile dinanzi a mutamenti congiunturali, con un’organizzazione legata al mercato pubblico e all’allevamento. Il cambiamento degli equilibri politico-economici del Meridione aveva determinato un orientamento verso prodotti ad alto rendimento e connessi alle grandi reti commerciali. La seconda parte del volume osserva, invece, la crisi del XIV secolo attraverso la lente delle istituzioni ecclesiastiche. Fabrizio Pagnoni offre uno studio del patrimonio episcopale nell’area lombardo-padana: lo scopo dell’autore è quello di mettere in luce la non diretta correlazione tra difficoltà e perdita di proprietà ecclesiastica. Al contrario, Pagnoni insiste sulla varietà delle strutture e sulle strategie di risposta delle curie vescovili. Le spoliazioni subite da molte sedi episcopali mostrano gli impatti negativi della congiuntura, ma al contempo l’autore fa emergere anche contesti di rivitalizzazione, come le rendite agrarie in natura e le decime. Francesco Borghero si inserisce con rispetto nella tradizione di studi sulla crisi bassomedievale degli enti monastici benedettini. L’autore affronta lo studio dell’ordine vallombrosano tramite la documentazione notarile, sottolineando la decrescita trecentesca – pur complessa e non assoluta – e le strategie di ripresa dei priori dinanzi alle crisi di mortalità determinate dalle epidemie. Il monachesimo vallombrosano, passando attraverso „peste, fame, guerra (e fisco)“, pur diminuito, era riuscito a reinventare il proprio ruolo sociale e spirituale, ponendo le basi per la sua rifioritura successiva. Cécile Caby si rivolge invece allo studio dell’ordine camaldolese, caratterizzato da una struttura centralizzata che si riflette nella natura della documentazione. L’autrice, con un approccio incentrato sulla prospettiva giuridico-istituzionale piuttosto che sui singoli monasteri, mostra le difficoltà dell’ordine, tra epidemie e difficoltà economico-politiche. Le fonti permettono a Caby di osservare l’auto-narrazione della crisi e la presa di consapevolezza interna, riuscendo poi a mettere in luce la capacità di reazione e le scelte dei priori. Infine, Riccardo Parmeggiani tratteggia un quadro complessivo del dibattito storiografico sull’identità dei vescovi del Trecento, la loro capacità governativa e il rapporto con gli altri poteri istituzionali. Il XIV secolo fu un periodo di ripensamento, in cui gli episcopi offrono esempi di capacità di ripresa e persino d’innovazioni. Tra gestione della giurisdizione temporale, amministrazione di lasciti e occasioni di conflitto, i vescovi mostrano le possibilità di reazione al loro tempo. All’interno di „Narrare la crisi“ molte autrici e molti autori riconoscono che, nonostante la tendenza della storiografia a una sua rivalutazione, il Trecento fu un secolo sicuramente instabile e di ristrutturazione. La storia ecclesiastica, che occupa metà del vol., è osservata in questo senso però solo dal punto di vista economico, giuridico e istituzionale, tralasciando la dimensione religiosa. Un dato che ci si augura possa trovare più spazio in futuro, insieme all’analisi culturale dell’impatto della „crisi“ sui contemporanei. Come ha mostrato Benjamin Z. Kedar in „Mercanti in crisi“, uno studio emblematico – benché criticato – sulle mentalità dei protagonisti trecenteschi, la reazione a un periodo di difficoltà è profondamente legata alla sua percezione. Dunque, „Narrare la crisi“ è una raccolta di saggi notevole: non punto d’arrivo ma di partenza per approfondire, in contributi futuri, la „narrazione“ di un tempo irto di problemi.+TABRE+Simone Lombardo
Davide Liberatoscioli, Juden ohne Päpste. Inklusion und Judenfeindlichkeit zwischen Rom und Avignon, München (Oldenbourg. De Gruyter) 2021 (Europäisch-jüdische Studien. Beiträge 52), VIII, 231 S., ISBN 978-3-11-070440-2, € 114,95.
Die auf der Diss. beruhende Studie Davide Liberatosciolis untersucht die delikate Situation der römischen Juden, die im 13. und 14. Jh. ihr Auskommen mit den Päpsten und ihren christlichen Nachbarn vor Ort finden mussten. Der Autor will dabei die Juden „nicht primär als Außenseiter der Mehrheitsgesellschaften“ betrachten, „sondern als Akteure, die die Zugehörigkeitskriterien in der societas fidelium (Gesellschaft der Gläubigen) erfüllten und aktiv am sozialen und politischen Stadtleben teilnahmen“ (S. 16, vgl. ähnlich S. 97). Allerdings bietet er wenige Argumente an, die diese Grundannahme bestätigen könnten. Hatten die Juden in Rom wirklich diese Position, die sie von anderen Gemeinden in Europa grundlegend unterschieden hätte? Die vom Vf. aufgebotenen Quellen genügen dem hohen Anspruch allerdings nur bedingt. Zunächst einmal weiß man einfach viel zu wenig über die rechtliche, ökonomische und soziale Situation der Juden in der Ewigen Stadt. Für Rom sind für die im Mittelpunkt der Studie stehende Zeit nicht die aus anderen Kommunen bekannten pacta überliefert, die die Rechte und Pflichten der Juden in einer Stadt regelten (S. 19, 204). Auch für folgende Behauptung fehlen die Belege: „Im Fall der Verlegung des Papsttums nach Avignon bedeutet dies, dass dieselbe Praxis (die Kooperation mit jüdischen Händlern, die Zinsgeschäft betrieben) von den avignonesischen Päpsten, deren Hintergrund und Bildung sich von denjenigen der vor-avignonesischen Päpsten prägnant unterschied, entsprechend anders wahrgenommen wurde“ (S. 26 f.). Zweifelsohne bediente sich die römische Kurie diverser mercatores zumal italienischer Städte, die von der Kirche und den Monarchen europaweit in der Steuererhebung eingesetzt wurden. Dass dabei aber auch jüdische Bankiers zum Einsatz kamen, ist keineswegs sicher, denn die Kronzeugen des Vf., Giovanni und Angelo di Giovanni Judaei, müssen keineswegs Juden gewesen sein, da man sie durchaus als Mitglieder einer christlichen Familie Giudei betrachten kann (vgl. für die Gegenmeinung S. 55, Anm. 168, 66). Gerade die enge Nachbarschaft von Christen und Römern (vor allem im Stadtviertel Arenula) könnte Rom ausgezeichnet haben. Umso erstaunlicher ist es, dass der Vf. nirgends die Möglichkeit diskutiert, dass es sich bei den Judaei vielleicht um Konvertiten gehandelt haben könnte. Zudem unterscheidet er zwischen Päpsten römischer Herkunft (1216–1241) (S. 56 f.) und den antijüdischen Päpsten aus Frankreich (allen voran Klemens IV., S. 65). Für die Behauptung, dass die vom Camerlengo Rinaldo di Ienne (1255–1261 Papst Alexander IV.) geführte Camera Apostolica sich „als der zentrale Ort für die Begegnung der jüdisch-römischen Händler mit den Kirchenleuten“ erwiesen habe (S. 63), fehlen Belege. Unbestritten ist, dass jüdische Händler ab den 80er Jahren des 13. Jh. aus Rom in Städte Mittel- und Norditaliens auswanderten, wo sie sogar mitunter das Bürgerrecht erwerben konnten, was aber keine Garantie für eine Gleichheit aller Bürger gewesen sei (S. 91–96). Während in der avignonesischen Zeit (1305–1377) die französischen Päpste in Frankreich antijüdische Maßnahmen (vor allem mit Blick auf das Wucherverbot) erließen, hätten sie die Kennzeichnungspflicht in Italien bewusst nicht durchgesetzt (S. 139–141). 1320 (bzw. 1322) wurde auf päpstliche Anweisung in Rom der Talmud verbrannt (S. 141–148). Danach fehlt es erst einmal wieder an Quellen für Rom, und der Vf. wendet sich Mittelitalien zu. Dort wartet insbesondere die Kommune Perugia mit Nachrichten zu Geldgeschäften von Juden auf (S. 152). „Die Idee, dass man civis ist, weil man die Steuer bezahlt, und nicht, weil man Sohn eines civis ist, ist eine der größten und wichtigsten Erfindungen des italienischen Kommunalkontextes und zeigt einen deutlichen Unterschied zwischen den mittel- und norditalienischen Regionen dieser Zeit und dem Rest Europas auf.“ (S. 158) In Frankreich dagegen wurden die Juden als Gefahr für die Gesellschaft wahrgenommen. Dafür, dass sich die Juden bei fairer Behandlung gegenüber den christlichen Gemeinwesen erkenntlich zeigten, führt der Vf. ein auf 1392 datiertes Testament des Kaufmanns Manuello aus Rom an (S. 161). Auch die Römer baten die Juden kontinuierlich zur Kasse, mussten sich diese doch jährlich mit rund 1130 Floren an den Agone- und Testacciofestspielen der Kommune beteiligen (S. 167). Die Statuten von Rom 1363 sahen die Kennzeichnungspflicht vor. Im Ausblick in die Zeit nach Avignon (1377–1400) wird auf die rechtlichen Neuerungen, wie die Konstituierung einer universitas Judaeorum und die Kennzeichnungspflicht, hingewiesen, die die Päpste nach ihrer Rückkehr nach Rom beibehielten und erweiterten. Im Gegenzug stellten sie die Kooperation mit den jüdischen Händlern wieder her und erließen Schutzbriefe und Privilegien für einzelne Juden (S. 192–202). Die in Teilen mühsame Lektüre wird mitunter auch durch unglückliche Formulierungen und Anachronismen erschwert: „Nikolait“ (S. 38, Anm. 122), „Pauperismus“ (S. 45, Anm. 141), „Macht des Bistums von Rom“ (S. 52), „jüdische Integration“ (wohl statt „Integration der Juden“) (S. 140), „Urban V.“ (statt Klemens V.) (S. 149) etc.+TABRE+Andreas Rehberg
Simone Lombardo, La Croce dei Mercanti. Genova, Venezia e la Crociata Mediterranea nel tardo Trecento (1348–1402), Paderborn (Brill Schöningh) 2023 (Mittelmeerstudien 23), XIII, 638 pp., ill., ISBN 978-3-506-79085-9, € 156,52.
Nel corso dell’ultimo decennio si è assistito a una notevole intensificazione degli studi dedicati alla tematica delle Crociate, che ha portato a riesaminare con sensibilità attuale e rinnovata attenzione critica tematiche che sono state oggetto di importanti opere storiografiche fin dal XIX secolo. In questo contesto, tuttavia, il tema specifico delle Crociate tardomedievali, che pure era stato nella prima metà del XX secolo l’argomento di studi considerati dei „classici“ del settore (basti qui menzionare i nomi di Nicolae Iorga e Aziz S. Atyia), non ha avuto al momento la stessa fortuna. È per questo da salutare con soddisfazione il presente lavoro, che non solo riporta al centro dell’attenzione il tema delle Crociate „tardive“, ma lo fa focalizzando la propria ricerca su aspetti specifici, quali le trasformazioni dell’ideologia crociata nella seconda metà del XIV secolo e il particolare ruolo giocato da due potenze „mercantili“ come Genova e Venezia in questo processo. Dopo un’opportuna e approfondita rassegna della storiografia sul tema e una dettagliata presentazione delle fonti disponibili e delle loro specifiche caratteristiche, l’autore infatti affronta un problema fondamentale: come e quanto era cambiato, dopo la caduta di Acri, e soprattutto dopo il devastante passaggio della Peste Nera e il conseguente affermarsi di nuove tipologie di esperienze spirituali e penitenziali, il modo di guardare al passagium oltremarino come forma di esperienza di fede? E soprattutto, quali furono il livello e le forme del coinvolgimento in tale esperienza dei rappresentanti di due società, come quelle genovese e veneziana, strutturatesi intorno al valore fondamentale degli scambi commerciali? L’approccio tradizionale a questo problema ha sempre teso a contrapporre la spiritualità e la fede dei cavalieri e dei pellegrini al freddo pragmatismo e al cinico disinteresse dei mercanti, ma l’obbiettivo del lavoro in esame è proprio quello di sottolineare come, in particolare nei decenni della seconda metà del Trecento, tale contrapposizione appaia più come una convenzione storiografica, che come un reale dato di fatto. In effetti, nelle mutate condizioni del mondo mediterraneo del tempo, si assiste a quello che si potrebbe definire come un „dislocamento“ del fronte di combattimento principale del movimento crociato: mentre infatti, pur tra le ormai consuete difficoltà e periodici episodi di ostilità, le relazioni con i Mamelucchi appaiono progressivamente improntate a un sostanziale appeasement (manifestato anche dall’istituzione della Custodia francescana), che favoriva la ripresa dei pellegrinaggi in Terrasanta di cui Venezia era il capolinea occidentale, la nuova „frontiera“ dello scontro fra Cristianità e Islam si spostava nell’area egeo-anatolica, dove la rapida affermazione della nuova potenza ottomana poneva bruscamente in prima linea i possedimenti che genovesi e veneziani si erano ritagliati nel corpo morente di Bisanzio. Una situazione nuova e un nuovo avversario, che imponevano non solo al Papato di rivedere l’impostazione ideologica con la quale guardava alla questione (dalla liberazione dei Luoghi Santi alla defensio Christianitatis), ma soprattutto a Genova e a Venezia, e principalmente ai dinasti di origine genovese e veneziana che governavano le signorie costituite nell’Egeo, di elaborare nuove strategie per tutelare non solo i propri interessi, ma quelli generali della Cristianità nell’area. Un segnale significativo in tal senso, opportunamente evidenziato, è il fatto che la Crociata in quanto tale tenda a passare in secondo piano, o a scomparire del tutto, in tradizioni cronachistiche che pure nei secoli precedenti avevano esaltato la partecipazione delle due città di mare alle „sacre imprese“, costruendovi intorno buona parte della loro immagine pubblica, mentre invece la „minaccia turca“ acquista sempre maggiore spazio nella loro narrazione, forse anche come reazione alle diffuse accuse di sotterranea complicità con il nemico che le inevitabili ambiguità di una politica tesa a contenere il pericolo e contemporaneamente a mantenere le relazioni commerciali contribuivano a far crescere. A tale situazione di incertezza contribuivano senza dubbio anche le ricorrenti ostilità genovesi-veneziane, che si rinnovarono per ben due volte nel periodo considerato coinvolgendo gran parte delle potenze affacciate sullo scacchiere italiano e mediterraneo, dalla Corona d’Aragona a Bisanzio e dalle signorie italiane all’Ungheria. Ciò nonostante, la necessità di coinvolgere entrambe, e soprattutto i loro domini orientali, in una comune politica anti-ottomana era assolutamente chiara ai pontefici dell’epoca, che dall’impresa di Smirne in avanti non cessarono di rivolgere appelli, sostenuti anche da intellettuali come il Petrarca, a unire le forze contro una minaccia che appariva sempre più incombente, almeno fino all’improvvisa apparizione sulla scena di Tamerlano, che all’inizio del XV secolo parve cambiare completamente il quadro. La nuova guerra veneto-genovese scoppiata proprio nel 1402 inaugurò di fatto una nuova fase della politica nel Levante e nella storia delle Crociate: mentre genovesi e veneziani riprendevano a contendersi i resti di Bisanzio quasi fino alla vigilia della sua caduta, il teatro d’operazioni della Crociata si spostava nuovamente, questa volta nei Balcani, e la Croce, dalle spalle dei mercanti, tornava a posarsi su quelle di sovrani e cavalieri.+TABRE+Enrico Basso
Simone Lombardo, La crociata dopo la peste. Metamorfosi di un’idea (secolo XIV), Milano (Vita e Pensiero) 2023 (Ordines. Studi su istituzioni e società nel Medioevo europeo 15), 310 pp., ill., ISBN 978-88-343-5380-6, € 30.
Il volume si pone esplicitamente all’interno del filone storiografico relativo alla trasformazione della crociata in epoca tardomedievale, con protagonisti, tra gli altri, studiosi come Norman Housley, Mike Carr, Anthony Luttrell. In un’ideale continuità con i recenti lavori di Antonio Musarra sulle conseguenze della presa di Acri del 1291, Simone Lombardo analizza nel dettaglio, e prendendo in considerazione un ampio ventaglio di fonti, il percorso che portò la crociata a perdere l’antica concretezza progettuale legata al recupero della Terrasanta in favore di una dimensione più contestuale alle sempre più presenti reazioni alla minaccia turca. L’ideale crociato nel Trecento non basta più, come esplicitato nel titolo del secondo capitolo del libro, in cui si ripercorre il progressivo spostamento verso i turchi degli obiettivi delle spedizioni crociate dagli anni Trenta del secolo alla sua fine. Nonostante la frequenza delle spedizioni, l’analisi delle cronache delle principali città italiane (Genova, Pisa, Venezia, Milano) mostra per esse uno scarso interesse: i cronisti le considerano perlopiù nella loro appartenenza ad un passato lontano o come vicende lontane non più di attualità. La diffusione delle pratiche autopenitenziali tipiche dei movimenti dei Flagellanti, intensificatisi dopo la peste (tra cui quello dei Bianchi), spostava fuori dalle istituzioni ecclesiastiche – e quindi dalle crociate – i percorsi penitenziali prima intrapresi mediante il passagium in Terrasanta, mentre la nuova sensibilità mistico-escatologica (Jean de Roquetaillade, Vicente Ferrer, Brigida di Svezia) si allontanava dalla dimensione bellica. L’analisi delle lettere pontificie di Innocenzo VI, Urbano VI e Gregorio XI (capitolo 3) mostra chiaramente la tendenza a diluire le menzioni al passagium dentro un più deciso scontro militare contro i Turchi, con Genova e Venezia che, pur con le loro difficoltà, rimanevano i principali interlocutori organizzativi; anche gli ordini monastico-militari – su tutti in quest’epoca gli Ospitalieri – mostravano il fianco, stimolando appelli – in verità poco partecipati – alle truppe mercenarie occidentali. Il quarto capitolo va in cerca del tema della crociata nelle opere di alcuni grandi letterati trecenteschi, riscontrandone ancora una volta una certa marginalità, sia essa sottoforma di consapevole e malinconica solitudine (Philippe de Mézièrs), di mero contesto per racconti cortesi (Guillaume de Macahut), o di arma retorica nella battaglia culturale umanistica (Francesco Petrarca). Il quinto capitolo si concentra sulle risposte agli appelli di crociata da parte dei diversi gruppi sociali, rilevando l’affievolirsi dell’interesse degli strati popolari, una maggiore partecipazione da parte dell’aristocrazia e un atteggiamento più pragmatico e utilitaristico da parte dei mercanti, tutto mentre la prima linea del confronto con gli infedeli veniva affidata alla Custodia francescana, a cui papa Clemente VI riconobbe il diritto di rappresentare la Chiesa di Roma nel 1342. Se l’analisi sulla metamorfosi dell’idea di crociata è senz’altro convincente e ricca di dettagli, è forse da perfezionare il discorso sul ruolo della peste, caricato di un significato forte a partire dal titolo, ma continuamente stemperato dalla considerazione – opportuna – che sono molteplici i fattori che concorrono al cambiamento culturale, molti dei quali affondano le loro radici ben prima del 1347. È piuttosto la crisi del Trecento, di cui la peste fa certamente parte, il contesto di molti dei fenomeni e dei percorsi descritti, come ben mostra il primo capitolo, che propone un percorso storiografico sulla congiuntura del XIV secolo nel suo complesso. Il legame della trasformazione della crociata con la peste (in cui si sentono forti gli echi dei lavori di Benjamin Z. Kedar sulla „crisi“ dei mercanti) appare più come un’intuizione, un proposito – senz’altro auspicabile – per ulteriori ricerche, possibilmente più circoscritte a singoli casi di studio.+TABRE+Alberto Luongo
Daniela Rando/Eva Schlotheuber (a cura di), Carlo IV nell’Italia del Trecento. Il „Savio Signore“ e la riformulazione del potere imperiale, con la collaborazione di Maria Pia Alberzoni/Miriam Tessera, Roma (Istituto Storico Italiano per il Medioevo) 2022 (Nuovi studi storici 126), 724 pp., ISBN 978-88-31445-28-3, € 50.
In the introduction, the editors place their volume in a recent historiographical trend that questions the narrative of the late-medieval decline of the Holy Roman Empire. Whereas the „enormous significance of the imperial idea“ (p. 8) in Italian discourses has already been shown recently („Emperors and imperial discourse in Italy. New perspectives. 1300–1500“, ed. Anne Huijbers [Rome 2022]), the present volume focuses on the concrete role of Charles IV in Italy „in terms of political relations, possibilities of influence and de facto power relations“ (p. 8) and integrates perspectives from both north and south of the Alps. The contributions, which result from two conferences held in Italy in 2019, also shed light on (the limitations and challenges of) the ongoing source editions of the MGH and „Regesta Imperii“, political, prophetical, and legal vocabularies, and the question how „Italy“ influenced the artistic commissions of Charles and his entourage. Rather than summarize the twenty-six contributions (the volume itself already contains helpful English abstracts), I highlight some of the themes that emerge. Charles IV descended into Italy twice. He was both remembered as a „wise lord“ (savio signore) and as a greedy merchant, especially when, after receiving the imperial crown in Rome, he left Italy for Prague. Throughout the volume, it is repeated that Charles IV diplomatically kept his political intensions hidden and that this strategy allowed him to navigate through the Italian peninsula without causing armed conflicts (he „mastered dissimulatio“, p. 234). He had learned this lesson „from the experience of his grandfather Henry VII“ (p. 16), who was by circumstances forced to side with the Ghibellines, caused war, and died in Italy in 1313: this explains Charles’ political maxim „anything is better than war“ (p. 235). His „diplomatic mastery“ led to a peaceful coronation in Rome, where he entered with the Neapolitans Niccolò Acciaiuoli and Zanobi da Strada and was escorted by a Florentine Guard, which symbolized his reconciliation with the main Guelph powers (p. 246). Only the relation with the powerful papal vicar for Italy, Cardinal Aegidius Albornoz, who had refused to crown Charles and had aggressively reconquered the Papal States, remained unresolved. As the subtitle shows, the volume aims to show the „reformulation“ of imperial power under Charles’ government, which formed a „decisive turning point in the relations between the empire and the papacy“ (p. 11) and a break with the policy of his predecessors, predominantly because Charles „renounced imperial power in Rome and in the Papal States by oath and also de facto“ (p. 249). This, so Eva Schlotheuber emphasizes in her contribution, was part of the negotiated deal. In turn, Charles demanded a policy of „papal non-intervention in the empire“ (p. 251) north of the Alps. In 1356, one year after the imperial coronation in Rome, the Golden Bull was proclaimed in Metz with Cardinal Hélie Talleyrand de Périgord being present. The bull remained silent about a papal right of approval of the elected King of the Romans. Later, Charles managed to have his son Wenceslaus elected „King of the Romans“ – while he was still alive. Did Charles really abandon all jurisdiction in Rome? Andreas Rehberg shows in his contribution that, in Rome, the emperor had installed counts palatine, who then had the hereditary right to appoint imperial judges, imperial notaries and to legitimate children born outside marriage – a powerful legal instrument which enabled, for instance, the right to inherit. What is more, the imperial notaries appointed by the count palatine could then in turn appoint twelve notaries and legitimize twelve people. In this way, this imperial policy had a wanted „multiplier effect“ (p. 609). The counts palatine had the right to include the imperial eagle in their seals and coat of arms: this was a sign of glory, power, and legitimacy and „offered the emperor significant visibility“ (p. 604). On the functioning of these counts palatine more research is needed. Marianna Spano revealed, that the „Italienprojekt“ of the „Regesta Imperii“ will further facilitate research into this subject (p. 38). In the divided Italian cities, the arrival of the emperor – which was a public mass event: people desired to see their „natural Lord“ – offered an occasion for uprisings and was thus feared (p. 483). Alma Poloni discusses how the arrival of Charles IV caused political upheavals in Siena and Pisa („Viva lo‘nperadore, e muoia lo Conservatore“). Schlotheuber also pays ample attention to the perception of the emperor as a threatening factor, especially in the Kingdom of Naples. For this, she draws upon the letters of Niccolò Acciaiuoli, where one can read for instance that „the whole Kingdom trembled“ at Charles’ arrival in Italy, fearing that the old hostilities between the empire and Naples would revive. In a similar vein, Andreas G. Kistner argues that two of the cardinals, who were supposed to crown Charles in Rome, refused not for financial reasons, but because of their relations with important players in the Kingdom of Naples. Daniela Rando questions the – in Italian scholarship – prevalent interpretation of Charles as a passive dispensator of legitimacy, only interested in the financial advantages of his Italian campaigns. Building on recent historiographical trends, she conceives the late-medieval empire as a network of powers, constantly seeking a (new) balance and consensus, and participating in an „associative political culture“ (p. 490). In this complex powerplay, Charles was the great protagonist, mediator, and negotiator, who used the imperial vicariate as an ordering instrument to secure the loyalty and obedience of the powerful, cemented publicly by a ritual oath. Discussing the imperial vicariate of the Milanese Visconti and its juridical consequences, Rando also sheds light on the many Lombards who received imperial privileges, were appointed counts palatine, were knighted, or were called familiares or secretarii of the emperor. The imperial influence on the Gonzaga family receives exclusive attention in the article of Christina Antenhofer: she shows how Charles’ policy helped the Gonzaga family in a crucial and formative period to become a dynasty with an own territory. The relation of Italy’s men of letters to Charles comes to the fore as well. Alexander Lee analyses how Coluccio Salutati, influenced by Petrarch, presented Charles as a redemptor Italie who could guarantee the liberty of Italian city states. Marco Petoletti, in his contribution, focuses on some less known Italians with humanist interests, who were collaborators of Charles, such as Andrea Painelli and Niccolò Beccari. Whereas Schlotheuber focuses on Petrarch as a political actor, Carla Maria Monti concentrates on the concept of empire in his letters. The imperial program of Cola di Rienzo is discussed by Thomas Frank. The English contributions of nonnative speakers, especially the introduction, unfortunately contain several linguistic and editorial slips: several missing words: p. 12: „SPQR, [form] the evidence of this programme“, p. 14: „at least [number missing] Italian clerics and friars“, p. 16: „to the viewpoint [of] their own city“; p. 17: „In [the] 14th century Rome remained …“, „during the editing [of] the proceedings“; repetitions (p. 14: [his election as king of the Romans]; inconsistencies (such as „Heinrich VII“, „Henry VII“, „14th century“, and „14th c.“); inaccurate source citations (p. 249: „after gaining you have gained“, p. 245, note 113: ununsquisque for unusquisque). Despite these imperfections, this voluminous Sammelband is a welcome result of international and interdisciplinary collaboration. It offers a new reference point for scholars interested in both the impact of the Holy Roman Empire in late-medieval Italy and the Italian influence on the late-medieval emperor and his court.+TABRE+Anne Huijbers
Cédric Quertier, Guerres et richesses d’une nation. Les Florentins à Pise au XIVe siècle, Roma (École française de Rome) 2022 (Bibliothèque des Écoles françaises d’Athènes et de Rome 398), 600 pp., ISBN 978-2-7283-1537-6, € 35.
Il vol. giunge a conclusione di una lunga ricerca, che Cédric Quertier ha impostato nel 2008, all’avvio del suo percorso dottorale, in co-tutela fra L’Université Paris 1 – Pantheon Sorbonne e l’Università di Firenze. Essa si situa entro un più ampio ambito di interesse dell’autore: quello per il concetto e lo statuto di „estraneità“, tanto di individui quanto di collettività, nei comuni cittadini dell’Italia centro-settentrionale, in primo luogo della Toscana e nel Trecento. Nell’introduzione l’autore esplicita le questioni che intende affrontare: tre aspetti fra loro interconnessi. Si tratta di un libro sulla storia della „nazione mercantile“ dei Fiorentini a Pisa, di cui si segue il farsi come istituzione nel corso del XIV secolo, soprattutto dal 1345, con la comparsa di un console (un cittadino pisano), e dal 1381, con la messa per iscritto di „ordini overo statuti“, e la sua scomparsa dopo il 1396: un preludio alla conquista fiorentina di Pisa del 1406. Questa parabola è ricostruita grazie alle fonti della Mercanzia di Firenze, federazione delle cinque Arti maggiori costituitasi nel 1308. Il punto di vista extra-pisano è motivato in ragione della distruzione degli archivi giudiziari di Pisa nel frangente, appunto, della conquista. L’autore ha operato una selezione nel vasto mare della Mercanzia, analizzando in particolare: 178 deliberazioni, fra 1361 e 1406; 111 lettere, fra 1389 e 1395; gli „ordini overo statuti“ del 1381; il „libro d’entrata e uscita per le gabelle“ del notaio-sindaco dei Fiorentini a Pisa, Francesco di Vanni Muzzi (1374–1382), edito nel 2020 da Bruno Figliuolo e Antonella Giuliani. È questo l’angolo di osservazione adottato per riflettere sulla dialettica fra Pisa e Firenze nel periodo tradizionalmente interpretato come di ineluttabile decadenza della prima a vantaggio della seconda: una miscela complessa di complementarità e rivalità. L’opera si articola in otto capitoli, di cui due (4 e 7) concepiti grazie allo spoglio della documentazione di archivio. Dapprima l’autore presenta dei quadri introduttivi, dedicati alla storia delle relazioni politico-diplomatiche fra Pisa e Firenze nel corso del Trecento (cap. 1) e alla base documentaria oggetto di indagine (cap. 2). Segue una sezione incentrata sulla „nazione“, che tratta dei suoi caratteri costitutivi (cap. 3) e della sua storia (cap. 4). Si giunge, quindi, alla parte più cospicua del lavoro, dedicata agli scambi. Essa è composta da: una cornice volta a illustrare il sistema portuale pisano e i rapporti economici con Firenze (cap. 5); un affondo sulla storia delle franchigie accordate ai Fiorentini (cap. 6); un tentativo di ricostruire volumi e flussi dei traffici commerciali sulla base del „libro d’entrata e uscita“ (cap. 7). I calcoli restituiscono valori tanto bassi da rafforzare l’autore nella sua convinzione che le ragioni delle franchigie doganali e, più latamente, dell’impianto di una „nazione“, risiedano nella volontà di rendere sicuri gli scambi e non dal guadagno che da esse può essere ricavato direttamente. Da ultimo (cap. 8), si affrontano le tre principali cause di conflitto: le franchigie; i fallimenti; il diritto di rappresaglia. L’approccio interpretativo pone l’accento sulla reputazione e sul capitale sociale. Corre l’obbligo di segnalare che in alcuni elementi puntuali il testo avrebbe meritato una più attenta rifinitura: l’Alessandria di cui Oddone della Sala, già arcivescovo di Pisa, nel 1323 diventa patriarca non è certo in Piemonte (p. 32); i pissicarii a più riprese menzionati insieme ai rigacterii sono, a ogni buon conto, pizzicagnoli e non „pêcheurs“ (pp. 131 sg., 326). Ma al di là delle notazioni minute, torno all’impalcatura concettuale e documentaria per mettere in rilievo alcune osservazioni dell’autore che possono fungere da stimolo per ulteriori riflessioni. Più volte l’autore sottolinea la sua volontà di porre sotto la sua lente le istituzioni, meno osservate rispetto a oggetti e persone coinvolte negli scambi (p. 17). È importante allora chiedersi di quale istituzione si stia trattando. A tal proposito, il concetto di „nazione mercantile“, ripreso da Giovanna Petti Balbi, può essere posto in discussione: non è ricavato dalle fonti e discende dagli schemi di pensiero della modernità, da cui anche la nozione di colonia. Inoltre, esso mal si accorda alle conclusioni cui giunge l’autore in alcuni passaggi, quando rimarca l’importanza del nesso fra fiscalità e cittadinanza (p. 326), categoria non perfettamente sovrapponibile a quella di nazionalità, e quando mostra, in questo nodo, il flessibile gioco delle identità, come nel caso di Fruosino, residente a Barcellona (pp. 399 sg.). Il concetto di natio rimanda, infatti, a un’identità naturale e immutabile. Del resto, nelle fonti dal 1346 in avanti l’ente in questione è chiamato universitas e, da proiezione della Mercanzia fuori da Firenze, negli statuti del 1381 esso sembra avere acquisito una dimensione più ampia rispetto all’insieme dei soli mercanti, che ne costituiscono, comunque, la matrice essenziale. Più utile è, dunque, il termine comunità. Un fattore determinante per il farsi ente, persona giuridica, di una collettività è la presenza di una sede. Ciò si invera con l’affitto di una loggia nel palazzo del signore della città, Pietro Gambacorta (1369–1392), al tempo in cui sono redatti gli „ordini overo statuti“. Qui altre tre logge sono date a singole compagnie di cittadini fiorentini, uno per tutti Francesco Datini. Da tutto ciò discendono due questioni su cui può essere interessante fare luce. L’ente ha un suo archivio e, al caso, in che rapporto sta con quello della Mercanzia? Ancora da chiarire sono le pratiche di archiviazione e le ragioni della trasmissione, che condizionano fortemente la documentazione in esame (p. 348). A ben vedere, e non stupisce osservando la natura delle fonti, il campione indagato ci dice quasi più dei Pisani a Firenze (pp. 137–145) e, fra i Fiorentini a Pisa, riesce a illuminare meglio quelli di calibro medio-piccolo (pp. 450–452). E così si passa alla seconda considerazione. Qual è il rapporto fra le strutture alloggiate nel palazzo di Gambacorta, fra l’universitas e le compagnie tanto potenti da stare per conto proprio? In altre parole, i Fiorentini indagati nel vol., come dice in premessa Laurent Feller, sono un gruppo „supposément homogène“ (p. XIV)? Si può essere Fiorentini in molti modi: è possibile distinguere non soltanto fra quelli che risiedono dentro e quelli che risiedono fuori Firenze, ma anche all’interno di quanti coabitano, o che più semplicemente operano, in uno stesso contesto urbano e che, fra le diverse possibili, sono in grado di assumere questa identità.+TABRE+Paolo Tomei
Andrea Fara/Eleonora Plebani (a cura di), Lettere e registrazioni di mercanti-banchieri e ambasciatori per la storia di Roma nel contesto italiano ed europeo (XIV–XVI secolo), Roma (Roma nel Rinascimento) 2022 (RR inedita 98, saggi), 145 S., ISBN 978-88-85800-27-4, € 22.
Die 10 Beiträge des schmalen Sammelbd. gelten der zentralen Rolle, die Rom in den italienischen und europäischen Netzwerken von Finanz und Diplomatie im Quattrocento zunehmend spielte, und legen dazu die spezifischen Quellen beider Bereiche dar: Gesandtenberichte und Instruktionen, kaufmännische Korrespondenzen, Lageberichte, Notizen und Einträge. Beginnend mit einem Blick auf die Messen der Champagne und ihre innovative, weitausgreifende Rolle, die nach dem 13. Jh. von anderen Handelsstrukturen abgelöst werden (Amedeo Feniello), werden im Folgenden diese spätmittelalterlichen Strukturen in ihren typischen Quellengattungen vorgestellt: welch breites Spektrum von Informationen auch zum Handel in diplomatische Depeschen einfließen (Elisabetta Scarton); die Art von Informationen, die der Fürst in seinen Instruktionen zu erfahren wünscht, etwa vom päpstlichen Hof (Anna Modigliani); das Wirtschaftsgebaren der Kardinäle und ihr nachgelassener Besitz, aber auch das Rom der Römer in ihrem wirtschaftlichen Alltag (Matteo Briasco). Wie aus Venedig und der reichen Sforza-Korrespondenz, erfahren wir dann, was sienesische Kaufleute und Gesandte aus Rom nach Hause zu berichten hatten und dabei sogar „la natura de li omini di qua“ charakterisierten (Ivana Ait); sogar ein begehrter Condottiere wie Gentil Virginio Orsini unterhielt ein ganzes Netz von eigenen Informanten, wie hier am Beispiel von Rom gezeigt wird, wo sie Kontakt auch zu Florentiner Bankiers hatten (Claudia Bischetti); für den Kaufmann unentbehrliche Nachrichten über politische Eingriffe und Steuerungen, Protektionismus und Monopole, und andererseits Behinderungen wie Krieg, Blockaden, Piraterie, gegenseitige Repressalien (und das nicht nur in Italien, sondern im ganzen westlichen Mittelmeer), vor denen die Briefe im Archivio Datini warnen (Luciano Palermo). Die bekannte gewichtige Rolle, die die Florentiner zunehmend in Rom (und nicht nur im Bereich der Finanz) spielten, wird im Verhältnis zwischen Innozenz VIII. und Lorenzo deʼ Medici behandelt und dem vorherrschenden Urteil über die Harmlosigkeit dieses Papstes widersprochen (Andrea Fara). Was diese Quellen nicht nur an politischen und wirtschaftlichen Nachrichten für Rom hergeben, wird an den darin enthaltenen Schilderungen der großen Pest von 1522/1523 vorgeführt: „hormai non solamente sono piene le chiese e cimiteri, ma le piazze“ (Anna Esposito). Abschließend einige grundsätzliche Überlegungen zur Überlagerung von diplomatischen und kaufmännischen Netzwerken (Eleonora Plebani). Im Ganzen eine reizvolle Mischung von politischen und wirtschaftlichen Nachrichten, die die dürftige Quellenlage Roms in willkommener Weise von außen ergänzt und wieder einmal zeigt, welch außergewöhnliche Quellengattungen die italienischen Gesandtenberichte und Kaufmannskorrespondenzen sind.+TABRE+Arnold Esch
Domenico di Gravina, Chronicon. Edizione critica, traduzione e commento a cura di Fulvio Delle Donne, con la collaborazione di Victor Rivera Magos/Francesco Violante/Marino Zabbia, Firenze (SISMEL. Edizioni del Galluzzo) 2023 (Edizione Nazionale dei Testi Mediolatini d’Italia 65. Serie II, 32), VI, 695 S., ISBN 978-88-9290-217-6, € 115.
Albano Sorbelli war der erste, der Anfang des 20. Jh. die kritische Edition eines der für die Geschichte des Königreichs Neapel im Zeitraum von 1333 bis 1350 zentralen Texte vorlegte (Dominici de Gravina notarii Chronicon de rebus in Apulia gestis, ed. A. Sorbelli, in: Rerum Italicarum scriptores, seria seconda, XII, 3, Città di Castello 1903–1909). Über das Leben des Chronisten Domenico da Gravina ist kaum mehr als das bekannt, was er in seiner Chronik selbst von sich preisgibt (den besten biographischen Abriss liefert nach wie vor Mario Caravale, Domenico da Gravina, in: DBI, Bd. 40, Roma 1991, S. 625–628). Geboren um 1300, gestorben nach 1350, ging Domenico einer Notarstätigkeit in der Stadt Gravina, einem der „principali centri militari ed ecclesiastici murgiani“ (S. 7) nach. Domenico lebte in äußerst turbulenten Zeiten. Unter der seit 1343 regierenden Johanna I. wurde das Königreich Neapel von bürgerkriegsähnlichen Unruhen erschüttert. Grund war die wohl mit Billigung Johannas erfolgte Ermordung ihres Gatten Andreas von Ungarn. Der Meuchelmord schlug international hohe Wellen – selbst Papst Clemens VI. verarbeitete das Geschehen mit verstörender Detailfreude in einer in Avignon gehaltenen Predigt. Der ungarische König Ludwig, entschlossen seinen Bruder zu rächen, setzte 1347 ein Heer in Bewegung und eroberte 1348 Neapel. Johanna floh und kehrte nach dem Abzug des Königs zurück: Dies bezeichnete den Beginn eines Bürgerkriegs, der den ungarischen König 1350 zu einem weiteren Eingreifen bewog. Auch in der Stadt Gravina konnte man sich von der allgemeinen politischen Entwicklung nicht abkoppeln. Domenico scheint zwischen den unterschiedlichen Lagern laviert zu haben. Diese Strategie war nicht von Erfolg gekrönt und führte schließlich zur Flucht nach Bitonto und zur Exilierung. Über das weitere Schicksal Domenicos nach 1350 ist nichts bekannt – die Chronik bricht in diesem Jahr ab. Domenicos Werk, „cronaca di viaggio, di guerra, di conflitto, di politica e di intrighi“ (S. 15), zählt zu den großen italienischen Chroniken des 14. Jh. und kann in einem Atemzug mit dem Geschichtswerk der Florentiner Giovanni, Matteo und Filippo Villani genannt werden. Die Chronik gibt minutiöse Einblicke in die Abläufe der das Regno erschütternden Aufstände und kriegerischen Handlungen und konzentriert sich dabei nicht nur auf die Zentralorte, sondern beschreibt auch das Geschehen in unbedeutenderen Städten und Landstrichen. Der Text präsentiert sich als Ereignisbericht, in dem der Autor stets auch als Protagonist gegenwärtig ist. Um seine Bedeutung als direkter Zeuge der Ereignisse besser einschätzen und einen Überblick über die Werkstruktur erlangen zu können, empfiehlt sich zunächst der Blick auf die nach Kapiteln gegliederte knappe Inhaltsangabe (S. 20–31). Deutlich wird: Nicht der napoletanische Hof steht im Zentrum, sondern die Realität Apuliens. Die Chronik gliedert sich in zwei Teile: Ersterer entstand (eventuell in Bitonto) im Juni-Juli 1349, der zweite Ende 1350/Anfang 1351. Während sich der erste Teil vornehmlich mit der Heirat des Andreas von Ungarn mit Johanna und den daraus folgenden Verwerfungen (IX.4: „O quam miserum regnum istud, quod ad regimen mulierum et infantium est deductum“!) beschäftigt, richtet sich das Augenmerk im zweiten Teil auf die Beschreibung der politischen Situation nach dem Tod des Andreas in Apulien, geprägt von vielerlei autobiographischen Bezügen. Erklärte Absicht ist es, „… di riportare notizie e descrivere eventi in maniera misurata, senza troppi fronzoli stilistici e orpelli retorici“ (S. 43). Das Fehlen vieler Details erstaunt, vor allem der Verweis auf die im Regno wütende große Pest von 1349, die lediglich an einer Stelle explizit erwähnt wird. Das, was Domenico da Gravina beschreibt, wird von Fulvio Delle Donne in seiner kompetenten Einführung in das Gesamt der chronikalen Überlieferung im Mezzogiorno eingebettet. Die Chronik, ohne Titel in einer einzigen Hs. überliefert, präsentiert sich unvollständig: Es fehlen Anfang und Schluss, und auch dazwischen gibt es immer wieder kleinere Lücken. Der Codex befindet sich seit Beginn des 18. Jh. in Wien (Österreichische Staatsbibliothek, Lat. 3465) und gelangte wohl aus der Sammlung des ungarischen Gelehrten und Bibliophilen János Zsámboky (Iohannes Sambucus, 1531–1584) in die kaiserliche Bibliothek. Der Hauptteil wurde von einer Hand Mitte des 14. Jh. geschrieben, wobei mit guten Gründen von einer autographen Hs. ausgegangen wird, die ihrerseits aber eine Kopie des Originals ist. In den Marginalien, die wenig mehr als Verweise auf im Text vorkommende Namen und Orte liefern, sind vier Hände erkennbar. Die orthographische Gestalt des Editionstextes präsentiert sich „di tipo conservativo“ (S. 81), folgt also grundsätzlich dem codex unicus und weicht nur davon ab, wenn offensichtliche Fehler korrigiert werden. Da sich bei der Interpunktion innerhalb der Hs. kein klares System erkennen lässt, wurde aus Gründen der besseren Gliederung und Lesbarkeit eine modernen Grundsätzen folgende Zeichensetzung eingeführt. Die Übersetzung ist nah am Text und wohl mit Blick auf diejenigen konzipiert, die in erster Linie mit der lateinischen Fassung arbeiten und sich durch einen Blick auf die Übersetzung in ihrem Verständnis absichern möchten. Liest man die Übersetzung en bloc, stellt sich so schwerlich ein gesteigertes Lesevergnügen ein. Die Edition verfügt über zwei Apparate: Im ersten sind die vom codex unicus abweichenden Lesarten (auch diejenigen der Edition von Sorbelli) ebenso wie die (nichtautographen) Marginalien angeführt, im zweiten finden sich die impliziten und expliziten Zitate identifiziert. Von großem Nutzen sind die „Note di commento“ am Ende des Bd. (S. 609–669), in denen auf der Grundlage der neuesten Literatur Namen, Orte und Sachverhalte ausgesprochen kompetent erläutert werden. Eine Karte mit den im Werk erwähnten Orten und ein Index der Namen und Orte beschließen ein Werk, das mit dem Anspruch antritt, das zu verbessern („migliorare“ ist das Schlüsselverb, vgl. S. 81), was die Vorgänger hinterlassen haben – gemeint sind Sorbelli mit seiner kritischen Edition von 1903/1909 und Maria Giovanna Montrone mit ihrer 2008 vorgelegten Übersetzung. Delle Donne tut gut daran, auf die Arbeit dieser Gelehrtenpersönlichkeiten hinzuweisen, liegt doch der eigentliche Mehrwert dieser nun bequem samt Übersetzung zu konsultierenden lateinischen Edition im mit großer Akribie verfassten Kommentar. Ein Gewinn für die Forschung.+TABRE+Ralf Lützelschwab
Luigi il Grande Rex Hungariae. Guerre, arti e mobilità tra Padova, Buda e l’Europa al tempo dei Carraresi, a cura di Giovanna Baldissin Molli/Franco Benucci/Maria Teresa Dolso/Ágnes Máté, Roma (Viella) 2022 (Bibliotheca Academiae Hungariae Roma. Studia 8), 570 S., Abb., ISBN 979-12-5469-204-2, € 60.
Die 23 Beiträge des reich bebilderten Tagungsbd. befassen sich, gerahmt von einleitenden und zusammenfassenden Ausführungen, mit den multiplen Verbindungen zwischen dem ungarischen Königreich, dem Padua der Da Carrara und weiteren Teilen der Apenninenhalbinsel in der zweiten Hälfte des 14. Jh. Nicht selten warten sie mit neuen Erkenntnissen oder Thesen auf, überdies entfalten sie ein facettenreiches Panorama der Zirkulation von Personen, Objekten oder Vorstellungen. Eine erste Sektion zu „Storia, filologia e letteratura“ versammelt 14 Aufsätze (S. 1–231), eine zweite zu „Arte e araldica“ deren neun (S. 233–447). Zunächst wird der historische Rahmen erörtert: Pierluigi Terenzi rekapituliert das Wirken der Anjou in Nord- und Mittelitalien bis zur Mitte des Trecento (S. 3–16), Enikő Csukovits den Italienzug des ungarischen Königs Ludwigs des Großen 1347/1348 (S. 17–27), Dario Canzian die diplomatisch-politischen Verbindungen zwischen dem Ungarnkönig und Francesco I. da Carrara, ihren dichten Gesandtenverkehr sowie die militärische Unterstützung des Anjou in den 1370–1380er Jahren (S. 29–45). Auch weitere Beiträge thematisieren die Diplomatie: Katalin Prajda erhellt deren kommerzielle Seite in den Kontakten zwischen Florenz, Padua und Ungarn, v. a. die Bedeutung des Kreditwesens und die Beteiligung von Kaufleuten wie den Bene und Ricci aus Florenz oder Iacopo Saraceno und Bonifacio Lupi aus Padua (S. 79–94). Venedig, Padua oder der Papst entsandten in den 1370ern zudem mehrere Franziskaner als Vermittler nach Ungarn, deren Einsatz Maria Teresa Dolso und Emanuele Fontana ausleuchten (S. 145–178). Militärische Kampagnen Ludwigs gegen die Serenissima behandeln Judit Csákó und Zeno Castelli: Erstere erläutert, dass der Anjou seinen Angriff auf Zadar 1346 wohl auf Rat seiner Barone zugunsten der geplanten Vereinigung der Kronen von Ungarn und Neapel abgebrochen habe (S. 47–62), Letzterer analysiert die Darstellung des Kriegsgeschehens 1356–1358 in der „Cronica di Venexia“, deren Vf. (evtl. ein Kaufmann) die destabilisierende Wirkung der Kontraste hervorhebe und den Wert Dalmatiens geringschätze (S. 63–77). Die überschaubaren dokumentarischen Überlieferungsreste zu den paduanisch-ungarischen Beziehungen werten György Rász respektive Federico Pigozzo aus, zum einen aus ungarischen Archiven (S. 95–111), zum anderen aus zwei Paduaner Kanzleiregistern von 1382–1384 (S. 113–119). Auch die Buchkultur kommt nicht zu kurz: Der in Padua beheimatete Humanist Giovanni Conversini, in Buda geborener Sohn des Leibarztes Ludwigs I., führt den Ungarnkönig und den Paduaner Signore bisweilen parallel, Erstgenannten zudem stereotyp in mehreren seiner Schriften an, wie Rino Modonutti darlegt (S. 131–144). Conversinis Vater wiederum soll von Ludwig den thesaurus librorum Roberts von Anjou geschenkt bekommen haben; der Bibliothek Ludwigs, der sich als rex sapiens stilisieren ließ, spürt Vinni Lucherini nach (Kodizes Conversinis; 2 miniaturierte Manuskripte, S. 333–363). Giulia Simeoni ermittelt anhand übermalter und ergänzter Wappen, dass BAV, Arch. Cap. S. Pietro C 132 unter, vielleicht auch für Giacomo II. da Carrara angelegt wurde, ehe sie Francesco I. offenbar dem Anjou, eventuell als Dank für geleistete Kriegshilfe, schenkte (S. 315–332). Kontakte nach Ostoberitalien hatten auch die in ungarischen Diensten stehenden Frankopan, Herren von Krk (Veglia), die – wie Danijel Ciković ausführt (S. 365–385) – trotz angespannter politischer Verhältnisse im 14./15. Jh. Kunstwerke aus Venedig erwarben. Ivan V. Frankopan, dessen Bruder Stefan I. 1372 Caterina da Carrara ehelichte, sicherte sich 1391/1392 die Dienste des Arztes Iacopo Zanettini aus Padua, dessen sich Franco Benucci annimmt (S. 193–216). Ungarische Spuren, vornehmlich heraldischer Art, begegnen mancherorts in Padua – aber auch in Mittelitalien, wie Vittoria Camelliti veranschaulicht (S. 387–417). Im Castello Carrarese machte man mittels Wappen und Helmzier Ludwigs I. Mitte der 1370er das prestigeträchtige Bündnis sichtbar, Valentina Baradel erkennt dabei die Hand von Giusto de’ Menabuoi oder eines Mitarbeiters sowie ein zweites Bildprogramm unter Francesco Novello (S. 245–267). Jener Künstler und seine Werkstatt zeichnen auch für die Ausmalung der von Fina Buzzacarini finanzierten Kapelle des Hl. Ludwig von Toulouse in S. Benedetto Vecchio verantwortlich, mit der die Äbtissin Anna, Finas Schwester, zugleich ihre Familie und ihr eigenes Wirken zelebrierte, so Zuleika Murat und Giulio Pietrobelli (S. 269–299). Giovanna Baldissin Molli erläutert u. a., dass in der von Bonifacio Lupi in Auftrag gegebenen Kapelle von S. Giacomo in der Basilica del Santo in der Figur des Königs Ramiro wohl Ludwig I. dargestellt sei (S. 419–447). Béla Zsolt Szakács indes sieht in der Franziskanerkirche von Keszthely den Einfluss von Marienzyklen aus der Toskana, v. a. aus Siena, und der Cappella Scrovegni (S. 301–314). Quellen-, Literatur- und Handschriftenverzeichnisse, ein Personen- und Ortsregister sowie Abstracts beschließen den gelungenen Bd.+TABRE+Giuseppe Cusa
Gli Statuti della Repubblica fiorentina del 1355 in volgare. Vol. I: Statuto del Capitano del Popolo; vol. II: Statuto del Podestà; vol. III: Indici, a cura di Federigo Bambi/Francesco Salvestrini/Lorenzo Tanzini, Indici a cura di Federigo Bambi/Piero Gualtieri, Firenze (Olschki) 2023 (Documenti di storia italiana. Serie II 18), VIII, 648; 654; 264 pp., ill., ISBN 978-88-222-6782-5, € 350.
Nel 1355 il Comune di Firenze deliberò di raccogliere la normativa locale in due codici (riportanti uno lo „Statuto del Podestà“, l’altro lo „Statuto del Capitano del Popolo“) e di provvedere anche alla traduzione in volgare. Nessuna delle due operazioni – né la raccolta, né la traduzione in volgare – era una novità. A Firenze (come in molte altre città comunali) esisteva un’ampia normativa scritta almeno dai primi decenni del secolo XIII. Negli anni Venti del Trecento (1322–1325) il Comune aveva, inoltre, già organizzato la raccolta attorno a due nuclei, riferiti ai nomi dei due rettori forestieri: il Podestà e il Capitano del Popolo. I codici che testimoniano quell’operazione sono i primi statuti fiorentini organici conservati. Alcune parti specifiche della normativa cittadina – ad esempio i celebri „Ordinamenti di Giustizia“ – erano state volgarizzate già nei primi decenni del secolo. Se guardiamo al contesto toscano andrà ricordato che si conservano raccolte vaste di leggi comunali già per il secolo XIII (Siena, San Gimignano, Volterra) e addirittura per il XII (Pisa e Pistoia) e che a Siena si era giunti a una monumentale traduzione del „Costituto“ quasi cinquant’anni prima di Firenze: nel 1309–1310. La novità del 1355 stava nella vastità e nell’organicità del volgarizzamento condotto contestualmente alla raccolta. La traduzione fu affidata a un intellettuale d’eccezione, il notaio Andrea Lancia, conosciuto oggi soprattutto come volgarizzatore di testi antichi e autorevole copista della „Commedia“ (in passato gli è stato addirittura attribuito l’„Ottimo commento“). I punti caratteristici dell’edizione che si recensisce sono due: da una parte la pubblicazione del solo volgarizzamento (e non dell’originale latino), dall’altra l’edizione di codici statutari che non sono i testimoni della fase più antica della normativa locale. Occorre spendere qualche parola sulla scelta – poco frequente – di editare i testimoni intermedi, per dir così, della normativa locale medievale. È pur vero che gli statuti del Podestà e del Capitano del Popolo del 1322–1325 furono pubblicati a cura di Romolo Caggese già negli anni Dieci del Novecento e che dal 1999 ne esiste anche un’edizione aggiornata dal punto di vista della critica storica; tuttavia, tale scelta ha una motivazione non dettata solo dall’ingombrante eredità editoriale. Essa deriva (come spiega Tanzini) dall’intenzione di valutare il deposito normativo nel suo variare nel tempo, così da restituire – nello specchio degli statuti – la vitalità delle istituzioni politiche e perfino della società fiorentina trecentesca. Francesco Salvestrini spiega nella sua introduzione come si giunse alla raccolta del 1355. Nel corso della prima metà del secolo le istituzioni del Comune di Firenze furono sottoposte a numerosi stress. Era stato necessario, infatti, affrontare emergenze belliche estese ormai a una scala ultraregionale: si pensi solo alla guerra con Mastino della Scala (1336–1339) o allo scontro con Giovanni Visconti (1350–1353). Furono le crisi interne, però, a modificare – nella sostanza più che nella forma – l’assetto istituzionale. In particolare, la breve signoria del Duca d’Atene (1342–1343), con la saldatura tra regime signorile e istanze popolari, e la successiva crisi demografica determinata dalla peste (1348–1350) avevano indotto il gruppo dirigente mercantile-bancario a un ripensamento in senso oligarchico degli equilibri politici. L’occasione per un „ingessamento“ delle istituzioni e per una sanzione autorevole della svolta antisignorile venne dalla expeditio Italica di Carlo IV di Lussemburgo (1355). Fu allora che il Comune ottenne il vicariato imperiale e, dunque, l’autorizzazione a emanare una legislazione per la città e per il territorio controllato. Forte di questo risultato, l’oligarchia organizzò un’impresa che era anche un progetto culturale: offrire – attraverso gli statuti – l’immagine di un governo equo e popolare nel solco della tradizione (come testimonia il perdurare dell’organizzazione in due raccolte distinte: Podestà e Capitano), garantito da una legislazione accessibile a chiunque grazie alla traduzione in volgare. Qualcosa di molto simile a quanto era avvenuto a Siena con gli statuti voluti dal governo dei Nove tra 1337 e 1339. Non c’era solo l’ideologia, però, dietro alla necessità di promuovere una nuova redazione. Lorenzo Tanzini mette bene in evidenza le novità del progetto del 1355: quella che era stata una disordinata e occasionale espansione territoriale, precipitato di un paio di secoli di protagonismo politico in Toscana, a metà Trecento cominciava a strutturarsi come autentico „dominio“, anche grazie al vicariato imperiale. Non è un caso che la storiografia tradizionale distingua la storia del ‚Comune di Firenze‘ da quella della ‚Repubblica fiorentina‘ e che la distinzione vada a collocarsi, dal punto di vista cronologico, proprio nel corso della seconda metà del XIV secolo. Se è vero che una vera e propria ideologia del „repubblicanesimo fiorentino“ fu promossa da Coluccio Salutati in funzione antiviscontea solo nell’ultimo decennio del Trecento, Tanzini evidenzia come un esplicito rifiuto del reggimento signorile si trovi già negli statuti del 1355. Inoltre, la normativa di metà secolo dedica una porzione vastissima alla definizione territoriale: dei confini, delle comunità, delle leghe interne al distretto fiorentino. Ciò che apparirà esplicito nella successiva grande silloge statutaria del 1409–1415 è dunque già leggibile in una certa misura in questi del 1355: non più solo la città e il suo Comune, ma un articolato dominio, ormai esteso ad altri contesti cittadini o quasi-cittadini (Pistoia, Prato, San Gimignano, Arezzo). L’idea stessa di una „monumentalizzazione“ delle leggi locali e di una loro complessiva ricapitolazione era relativamente nuova a metà del XIV secolo (Modena, Bologna, Siena): anche in questo caso si aggiungeva alla costante e pragmatica proliferazione di provvedimenti (provvisioni, provvisioni canonizzate, ordinamenti particolari) un punto di riferimento superiore. Alla normalizzazione del dominio, quindi, si affiancava una normalizzazione della stessa normativa. In tutto questo sarà bene tuttavia ricordare almeno un paio di dati che riguardano la versione volgarizzata degli statuti, ovvero l’oggetto specifico di questa edizione. Il primo è un dato emerso dall’analisi filologica, codicologica e linguistica: se possiamo attribuire senz’altro al Lancia (e al 1356) il volgarizzamento degli statuti del Podestà, non possiamo fare altrettanto per quelli del Capitano, volgarizzati quasi certamente da qualcun altro e probabilmente solo qualche decennio più tardi. Il secondo è che – diversamente da quanto evidenziano i testimoni latini – i codici volgari non furono sottoposti a una puntuale opera di commento e non sembrano mai esser diventati dei veri „codici d’uso“ nell’ambito degli uffici locali: a far testo, per i giudici e i notai trecenteschi, rimasero le norme latine. Quale fu, dunque, il senso del volgarizzamento e qual è il senso dell’edizione che recensiamo qui? Come ha scritto Cesare Segre: „Nella traduzione due forme mentali, due concezioni del mondo vengono a contatto, e dall’accostamento acquistano vivezza le loro caratteristiche peculiari“. Ora, la singolarità del volgarizzamento di un testo medievale è che si tratta della restituzione del testo alla lingua nella quale esso era pensato dalla maggior parte delle persone. È vero che il latino dei testi giuridici (o teologici) viveva di vita propria nel Medioevo e che – forse – i giuristi di allora si trovavano assai più a loro agio con il loro latino che con le imprecisioni di un volgare estraneo alle aule scolastiche. Tuttavia, la discussione all’interno delle magistrature comunali avveniva in volgare e quella di una restituzione volgare della ratio (almeno) di ogni singola norma doveva essere una necessità assoluta. Ne deriva che il volgarizzamento della normativa ci restituisce una dimensione altrimenti inattingibile: la distanza (e il tentativo di una conciliazione) tra il tecnicismo giuridico e la vita concreta. Il puntuale e raffinatissimo lavoro di Bambi (il terzo volume di questa edizione è un ricchissimo glossario dei termini giuridici volgari) rappresenta, dunque, un’autentica chiave di ingresso al diritto medievale. Molto più di quanto si possa leggere nel „Vocabolario della Crusca“ o nel „Tesoro della Lingua Italiana delle Origini“ (TLIO). Tutto questo fa dell’edizione in tre voll. degli statuti fiorentini un’opera di grande novità per tutti quanti si occupino della società medievale (non solo fiorentina).+TABRE+Enrico Faini
Mercato immobiliare e spazi urbani nella Roma del Rinascimento, a cura di Luciano Palermo, Roma (Istituto di Studi Romani) 2022 (Fonti e studi per la storia economica e sociale di Roma e dello Stato Pontificio. Nuova serie 1), 540 S., 36 Abb., ISBN 978-887-311-517-5, € 40.
Der gewichtige Sammelbd. zeigt anhand einer besonderen, nur scheinbar engen Fragestellung, der Entwicklung des römischen Immobilienmarktes, wie sich zwischen spätem 14. und frühem 16. Jh. Rom grundlegend wandelte. Ausgangspunkt ist der desolate Zustand der Stadt und der stagnierende Markt bei der Rückkehr des Papsttums aus Avignon: eine kleine Bevölkerung auf großer Fläche; ganze Viertel stabil von Adelsklientelen besetzt; der ausgedehnte kirchliche Besitz wie eingefroren. Wie sich das alles in Bewegung setzte, ist Gegenstand der 19 Beiträge von Autorinnen und Autoren, die in der Rom-Forschung bereits bekannt sind. Der Hg. Luciano Palermo, seit langem selbst zu diesem Thema forschend, skizziert einleitend Rahmen und Ziel dieses Bd., darunter die wichtige Rolle der Florentiner, die, dem Papst bald unentbehrlich durch den Transfer seiner Einkünfte aus aller Christenheit, früh ihr Viertel, Fondaco an Fondaco, an der Engelsbrücke, dem Zugang zum Papst einrichten und die Geschäfte von Hof und Stadt beleben und dominieren, mit bewusster Beobachtung des Immobilienmarktes. Das Eindringen kaufmännischen Kapitals ist gewiss Voraussetzung für vieles. Aber es sind hier, umgekehrt, mit wachsendem Ansehen der Stadt und des (die Kirchenreformprojekte siegreich überstehenden) Papsttums auch Faktoren, die nicht ökonomisch kalkulieren und doch Investitionen anziehen und städtische Räume umverteilen (und damit treten zu den allgemeinen die spezifisch römischen Bedingungen der weiteren Entwicklung): der zunehmende Bedarf an repräsentativer Residenz (ein neuer Kardinalspalast kann ein ganzes mittelalterliches Viertel verschlingen) und erste urbanistische Konzepte; der demonstrative Wille des Papsttums, nach der Ausschaltung der Kommune aus diesem schäbigen Rom ein anderes zu machen. All das wird in den folgenden Beiträgen kenntnisreich und unter Nutzung des ganzen Spektrums verfügbarer Quellen ausgeführt. Eine Fülle von Daten und Einsichten zeigt die Fruchtbarkeit der Fragestellung. Wir erhalten ganze Kurven von Preisen, Mieten, Renten, sogar differenziert nach den rioni, was die Umverteilung städtischen Raums erkennen lässt (Manuel Vaquero Piñeiro); sehen, wie geistliche Institutionen von Rang (das Kapitel von St. Peter, S. Salvatore del Gonfalone, S. Agostino, S. Giacomo degli Incurabili) ihren Immobilienbesitz verwerteten, die Nutzung womöglich umstrukturierten und auf Bauboom und -verdichtung dieser Jahrzehnte reagierten, und worin sie die steigenden Einkünfte aus Immobilienbesitz investierten (Alexis Gauvain, Silvia Dionisi, Antonella Mazzon, Alessandra Peri), und wie karitative Institutionen (z. B. Hospitäler, oder Bruderschaften für die Ausstattung armer Mädchen) ihre Leistungen finanzierten (Claudia D’Avossa); welchen Faktor das Bevölkerungswachstum darstellte und der hohe Anteil von Nicht-Römern, von Mietern (Anna Esposito); wie sich das Straßensystem Roms zwischen den urbanistischen Plänen des Renaissance-Papsttums und den Bedürfnissen von Handel und Gewerbe neu ausgestaltete (Anna Modigliani); die Straßendurchbrüche im Borgo und ihre architektonische Ausgestaltung (Giuliana Mosca). Modernisierung und Monumentalisierung braucht Fläche: das wachsende Bedürfnis nach Selbstdarstellung und sichtbarer sozialer Geltung nimmt neue Dimensionen an (Maurizio Gargano). Und als Fallbeispiele, wie eine Florentiner Bank im Florentinerviertel in Hausbesitz investierte (Alessio Caporali), und einzelne römische und zugezogene Familien agierten und einzelne rioni besonderen Charakter annahmen (Andrea Fara); auch was die Lokalisierung der (unterirdischen) römischen Wasserläufe im Stadtgebiet zum Thema beiträgt (Giorgio Maria Annoscia). In der Aufteilung des städtischen Raumes für Rom charakteristisch der enorme Anteil agrarisch genutzter Flächen auch innerhalb der Mauern (Alfio Cortonesi); darum hier Fläche und Ertrag römischer Vignen, Vermarktung römischen Weines und Gewinne der Osterien (Daniele Lombardi); überhaupt: wie sich das antike Rom außerhalb des Tiberbogens leerte und die Ruinen und Trümmerflächen nun neu genutzt wurden (Daniela Esposito); aber auch, was der Boden dort an antichità – auch bewusst ergraben von Sammlern und Händlern – hergab (Antonella Parisi). Aber auch, wie sehr die zerstörerische Wirkung des Sacco di Roma von 1527 in der Beschreibung von Hausbesitz erscheint (Orietta Verdi). So verfolgen diese Beiträge (die Beigabe von Abstracts wäre der internationalen Verbreitung des Bd. förderlich gewesen) die Entwicklung und steigende Bedeutung des Immobilienmarktes, die Umverteilung des städtischen Raumes und die Umwertung der rioni – und lassen in dieser Nahsicht Größeres erkennen: den Weg vom Rom des Mittelalters zum Rom der Renaissance.+TABRE+Arnold Esch
Grabiela Rojas Molina, Decoding Debate in the Venetian Senate. Short Stories of Crisis and Response on Albania (1392–1402), Leiden-Boston (Brill) 2022 (The Medieval Mediterranean. Peoples, Economies and Cultures, 400–1500 134), 256 S., ISBN 978-90-04-52051-6, € 117,70.
Die bemerkenswerte, durch ein Personen-, Orts- und Sachregister zu erschließende Studie wertet knapp 5000 Einträge aus den Sitzungsprotokollen des venezianischen Senats („Deliberazioni Misti“ und „Secreti“) im Zeitraum zwischen 1392 und 1402 aus, wobei ein methodisch den Arbeiten der Cambridge School um John Pocock und Quentin Skinner verpflichteter kommunikationsgeschichtlicher Ansatz verfolgt wird, der die formelhaften Quellen als Spiegel von Aushandlungsprozessen liest. Es wird demnach versucht, hinter die reine Informations- und Sachebene zu blicken, um Rückschlüsse auf die Intensität der politischen Debatten zu ziehen, die im venezianischen Senatsausschuss des consiglio dei pregadi geführt wurden. Es geht der Autorin gewissermaßen um die „geheime Geschichte“ vor deren Aufzeichnung. Das vielstrapazierte Corpus der „Deliberazioni“ im Archivio di Stato di Venezia wird nicht als indexhafter Steinbruch für Orts- und Personennamen bearbeitet, sondern es wird nach den inneren Bezügen des Bestands gefragt – ein struktureller Ansatz, der mit einer regionalgeschichtlichen Fallstudie des Gebiets rund um Durrës, Lezha, Shkodra und Drisht kombiniert wird. So entwickelt die Autorin ein an formelhaften Wendungen festgemachtes System von insgesamt 14 Typen (routinemäßige, schnelle Finanzbewilligungen, Sonderzuschüsse, spezielle Aufgabenportfolios für Beamte, Missiven, Vertagungen, Handels- und Verteidigungsangelegenheiten, Rücknahmen von bereits gefassten Beschlüssen etc.) und wendet dieses für den im Titel angegebenen, sinnvoll gewählten Zeitraum zwischen dem osmanischen Vorstoßen auf dem Balkan und dem Jahr der Niederlage Sultan Bayezids I. und des Tods Gian Galeazzo Viscontis an. Damit stößt die Studie zeitlich in eine gewisse Forschungsleerstelle nach dem Krieg von Chioggia (1378–1381) bis zur venezianischen Festlandsexpansion gerade ab dem Jahr 1402, das von Zeitgenossen als venezianischer annus mirabilis beschrieben wurde. Die osmanische Offensive auf dem Balkan 1392 ließ Albanien, durch dessen Kommunen starke Umwälzungsprozesse rollten, stärker in den Fokus der pregadi rücken und forderte den venezianischen Eliten schnelles Handeln, Entsenden von Spezialisten und Aufbringen von beträchtlichen Geldsummen ab. Rojas Molina will für ihr untersuchtes Jahrzehnt unterschiedliche Phasen ausmachen: Habe bis 1395 die Sicherheit der Handelsgaleeren im Vordergrund des venezianischen Interesses gestanden, verbunden mit den Themenfeldern Piratenwesen, beschlagnahmte Wahren, Angriffe etc., hätten nach 1395 die weitgespannten Beziehungen der Signoria zunehmend an Bedeutung gewonnen. Offen muss bleiben, ob eine solche Trennung in eine „ökonomische“ und eine „politische“ Phase des venezianischen Albanieninteresses nicht zu holzschnittig, vielleicht auch anachronistisch ausfällt. Insgesamt stand Albanien in der Regel nicht als TOP 1 auf den Debattenzetteln des Senats, doch rückte die politische Großwetterlage die Balkanregion gerade in den Jahren 1392, 1395/1396, 1399 und 1401 verstärkt in den Fokus der Venezianer, wobei es daneben auch lange „albanienfreie“ Senatsmonate bzw. auch Zeiten der Reaktionslosigkeit gab, was wiederum Schlaglichter auf Informationsakquise und politische Einschätzung wirft. Doch besonders zwischen 1396 und 1400 forderten die Nachrichten aus Albanien die Politik der Lagunenstadt heraus. Insgesamt zeichnet die Untersuchung eine Geschichte der Anpassung und des Wandels der venezianischen Politik, die wiederum kontrastiert werden kann mit dem Mythos von der ehernen Stabilität Venedigs. Besonderes Interesse kommen deshalb auch den eine Krisenkorrespondenz markierenden Signalwörtern nova und novitates zu, die allerdings insgesamt nur in einem guten Prozent aller Einträge auftauchen. Derart gekennzeichnete Nachrichten erforderten eine schnelle Reaktion des consiglio dei pregadi, die vorerst auch in der Entsendung patrizischer Spione bestehen konnte, um zu einer verbesserten Nachrichtenbasis zu gelangen. Bei der Analyse von Verlautbarungen nach Vorschlägen von Botschaftern bzw. von venezianischen Reaktionen auf Entwicklungen im Ausland werden gruppendynamische Prozesse, konkurrierende Ansichten und „Spuren von Uneinigkeit“ unter den pregadi deutlich. Die Tragfähigkeit von Rojas Molinas innovativer, flott zu lesender, von der Konturierung des methodischen Zugriffs über die kulturgeschichtliche Kontextualisierung zur strukturellen Dekodierung der „Deliberazioni“-Einträge fortschreitender und beherzt im Urteil mit den Klassikern zur albanischen Geschichte umgehender Studie müssen weitere regionale Fallbeispiele zeigen. Zu fragen wird insbesondere sein, ob die Standardisierungsprämisse der Einträge, die einer quantifizierenden Analyse zugrunde liegt, nicht zu überdehnt ist, demzufolge auch weiterreichende Folgerungen hinterfragt werden müssen, nicht zuletzt anhand von ergänzendem Quellenmaterial. Bemerkenswert ist deshalb der Vergleich mit den Aufzeichnungen des Venezianers Antonio Morosini, der offensichtlich die „Deliberazioni“ rezipierte, die damit auch für Teile der venezianischen Bevölkerung den Horizont des Wissens und der Welt-Wahrnehmung absteckten.+TABRE+Christof Paulus
Verena Krebs, Medieval Ethiopian Kingship, Craft and Diplomacy with Latin Europe, Cham (Palgrave Macmillan) 2021, 308 S., ISBN 978-3-030-64936-4, € 41,59.
„Wie Griechen, Armenier, Äthiopier – sieh her! – wie dieser Jakobinerstamm den römischen Glauben angenommen hat!“ („Ut Graeci, Armeni, Aethiopes, hic aspice, ut ipsa Romanam amplexa est gens Iacobina fidem“), liest man unter einem linken Bildfeld auf dem Bronzeportal des Filarete für Alt St.-Peter (ca. 1445), auf dem deren Delegationen zum Konzil von Ferrara/Florenz und Papst Eugen IV. dargestellt werden. Mit der berühmten Bulle Laetentur coeli vollzog dieser in Ferrara die so genannte „Griechenunion“, sowie sukzessive einige weitere, wenn auch temporäre, Unionen mit den sog. orientalischen Kirchen – und machte damit vor allem auch europäische Politik. Die Episode ist bekannt als Teil einer Geschichte des Papsttums in der longue durée (siehe z. B. Anette Hettinger, Die Beziehungen des Papsttums zu Afrika, für das 11./12. Jh.; weniger bekannt ist über die äthiopische Delegation zum Konzil von Basel). Die vorliegende Dissertationsschrift befasst sich eher am Rande damit; ihr Gegenstand sind die vielfältigen Kontakte der äthiopischen Könige in und nach Europa – speziell in Italien und auf der Iberischen Halbinsel – im späteren Mittelalter. Ihr Anliegen besteht nicht in einer neuerlichen Aufarbeitung der zum Großteil bekannten europäischen Quellenbestände zum Thema, sondern in einer Zusammenschau der reziproken Quellen und Beziehungen und einem Perspektivwechsel im Sinne der Postcolonial Studies. War man seit den Studien von Renato Lefèvre davon ausgegangen, die afrikanischen Herrscher hätten ein Bedürfnis nach technologischem Wissen und politischen Allianzen mit Europa gehabt, so entfaltet Krebs ein Panorama, in dem die verschiedenen Pilger, Kaufleute und Diplomaten vor allem an der Erwerbung von Reliquien, Luxusgegenständen und Handwerkern interessiert gewesen seien. Das Buch geht chronologisch vor, spürt zunächst den ersten namhaften Kontakten nach: Äthiopiern in Rom am Beginn des 15. Jh., Venezianern in Nordafrika, der Delegation zum Konzil von Konstanz, zu der wenig bekannt ist (Kap. 2). Nachfolgend werden die Kreuzzugserwartungen, welche bei den Kontakten der Krone Aragón in den 1420er Jahren, den Ereignissen um das Konzil von Florenz und Eugen IV. sowie den Gesandtschaften und Briefkontakten der Päpste Nikolaus V., Calixt III. und Pius II. im Umfeld des Falls von Konstantinopel 1453 mitschwangen, als einseitig europäisch motiviert dargestellt (Kap. 3). In der zweiten Hälfte des 15. Jh., einer Zeit, die Krebs als besondere Periode der Prosperität in Äthiopien ansieht, kam es zu mehreren größeren europäisch-äthiopischen Kontakten (Kap. 4), unter anderem in den 1480er Jahren. Hierbei dividiert Krebs zwei Gesandte auseinander, die aus Imola stammten und den Familiennamen Brocchi hatten: der eine, Giovan Battista, ein hochrangiger Kurialer (tatsächlich der Kanzler des Girolamo Riario: ASRo, Camerale III, 1715, fol. 9r), begleitete eine äthiopische Delegation und lieh 1487 einen äthiopischen Kodex aus der Vaticana aus (weiterführend zu ihm: Tobias Daniels, Verschwörung der Pazzi, 2020, S. 183), der andere, ein gewisser Battista aus Imola, war zu derselben Zeit in der Levante und bis nach Äthiopien unterwegs. Dass sie unterschiedliche Männer waren, ist nachvollziehbar, ihre aber dennoch wahrscheinliche Beziehung, eventuell über die Signoria des Girolamo Riario, könnte nur durch tiefergehende Studien in den kurialen Beständen oder Gesandtschaftskorrespondenzen weiter geklärt werden. An der Wende zum 16. Jh. vollzog sich schließlich ein portugiesisch-äthiopischer Gesandtenaustauch, bei dem es 1520 zu der ersten formalen Anfrage nach Waffen kam. Folgten nun aber Kirchenbauten in Äthiopien einem italienischen Stil? Auf der Grundlage archäologischer Quellen ist jedenfalls von hybriden Formen unter starker royaler Beteiligung auszugehen (Kap. 5). Wichtig erscheint das Schlussstatement, dass man Äthiopien in seinem Kontakt mit Europa nicht als „machtlose Indigene“, sondern als selbstbewusstes christliches Königreich auf der Höhe zu verstehen hat – und das kann Krebs in ihrem Buch überzeugend aufzeigen.+TABRE+Tobias Daniels
Elisa Furlan/Francesco G. B. Trolese (a cura di), Dalla riforma di S. Giustina alla Congregazione cassinese. Genesi, evoluzione e irradiazione di un modello monastico europeo (sec. XV–XVI). Atti del Convegno internazionale di studi per il VI centenario di fondazione della Congregazione „De unitate“, Padova, Abbazia di Santa Giustina, mercoledì 18 – sabato 21 settembre 2019, Cesena (Badia di Santa Maria del Monte) 2022 (Italia benedettina 46), XXIV, 824 pp., 51 tavv., ISBN 978-88-98104-19-2, € 95.
Il corposo vol., dotato opportunamente di utili indici, raccoglie 27 contributi – di cui in questa sede non è possibile dare singolo resoconto –, prodotti da studiose e studiosi che hanno partecipato al convegno organizzato dall’abbazia di Santa Giustina in accordo con il Centro storico benedettino italiano per ricordare il centenario (1919) del ritorno dei monaci nella loro antica dimora, lasciata da oltre un secolo in seguito all’espulsione napoleonica, abbinandolo a quello del sesto secolo (1419) dalla fondazione della congregazione „De unitate“ promossa dal proprio abate, Ludovico Barbo, insieme alle abbazie di S. Giorgio Maggiore di Venezia, S. Maria di Badia di Firenze e S. Felice di Ammiana di Venezia. Temi e argomenti riguardanti la genesi della riforma dell’osservanza, l’evoluzione di un tale progetto e la sua prodigiosa irradiazione anche in ambito europeo sono qui approfonditi allo scopo di cogliere i motivi per cui i quattro abati fondatori presero l’iniziativa di unirsi e di immettere uno spirito nuovo nell’ordine monastico di san Benedetto. Le soluzioni adottate insieme ai provvedimenti emanati dai capitoli generali erano accompagnate da un esemplare stile di vita dei suoi componenti, permettendo così una rapida diffusione della riforma che inglobò numerosissime abbazie italiane: fra tutte, quella di San Paolo fuori le Mura di Roma (1425); alla fine del secolo XV i suoi monaci avevano aggregato ben 44 abbazie della Penisola, cui all’inizio del secolo seguente fu significativamente aggiunto l’archicenobio di Montecassino mutando la sua denominazione in Congregazione cassinese (Francesco G. B. Trolese, L’azione di Ludovico Barbo nella prima fase della riforma. Sviluppi istituzionali della Congregazione di Santa Giustina tra adesioni e resistenze, pp. 157–187; Mariano Dell’Omo, Montecassino nella Congregazione De unitate. Eredità di una tradizione e mutamenti di un’istituzione tra Chiesa e società nel corso del ʼ500, pp. 189–212). Le riforme introdotte dall’abate Ludovico Barbo e dalla sua congregazione nella tradizionale struttura dei benedettini neri ebbero una ricaduta anche in altre istituzioni monastiche europee, favorite dai pontefici a cominciare da Eugenio IV in poi, così che, ad esempio, i monaci francesi di Chezal-Benoît, Saint-Vanne et Saint-Hydulphe, Saint-Maur (Thierry Barbeau, Les déclarations de Sainte-Justine, un modèle de monachisme renouvelé pour les Congrégations françaises de Chézal-Benoît, de Saint-Vanne et de Saint-Maur, pp. 221–229), e quelli tedeschi della congregazione di Bursfeld (Franz Xaver Bischof, Movimenti di riforma monastica non congregazionali fra Tre e Quattrocento. Kastl e Melk, pp. 115–129) ottennero di modellare le loro costituzioni a quelle di S. Giustina. Si tocca in alcuni articoli pure il ruolo assunto dai monaci nella Chiesa del Cinquecento, dove umanesimo e fermenti rinascimentali spingevano a una sostanziale riforma della Chiesa nel capo e nelle membra. Tali istanze riformatrici ebbero il proprio approdo nel Concilio di Trento, dove il monachesimo si presentò forte della propria profonda cultura biblica e patristica (Matteo Al Kalak, In cerca di identità. L’Ordine benedettino al Concilio di Trento, pp. 453–466; Filippo Lovison, La Congregazione di Santa Giustina ormai cassinese nella chiesa del ʼ500, pp. 467–511; Vincenzo Vozza, I Cassinesi nella crisi religiosa del ’500. Un bilancio storiografico e nuove prospettive di ricerca, pp. 513–545). Il rinnovamento della spiritualità monastica, condivisa con altre esperienze religiose, ebbe infine una ricaduta sulla cultura dei monaci e sull’allestimento e incremento di nuove biblioteche (Roberto Rusconi, Le biblioteche monastiche alla fine del ’500. A proposito dei benedettini Cassinesi in Italia, pp. 547–575), sulle committenze artistiche anche per quanto riguarda il libro (Federica Toniolo, Codici miniati nella Congregazione nel ’400 e nel ’500, pp. 731–744) e sulla liturgia (Antonio Lovato, La riforma liturgico-musicale della Congregazione De unitate: dalle Ordinationes ai corali del Monastero di Santa Giustina, pp. 613–671; Giacomo Bonifacio Baroffio Dahnk, La tradizione cantoriale di Santa Giustina. L’innodia, pp. 673–700).+TABRE+Mariarosa Cortesi
Maren Elisabeth Schwab/Anthony Grafton, The Art of Discovery. Digging Into the Past in Renaissance Europe, Princeton-Oxford (Princeton University Press) 2022, 328 S., Abb., ISBN 978-0-691-23714-5, US$ 32.
Anders als Leonard Barkan, der sein unter ähnlichem Titel publiziertes Buch „Unearthing the Past“ (1999) vor allem dem literarisch-phantasievollen Zugriff auf die Antike gewidmet hat, setzen sich Schwab und Grafton mit den antiquarischen Forschungen des 15. und 16. Jh. auseinander. Es geht ihnen um einen Teilbereich der Antikenrezeption, nämlich um die aufsehenerregenden Grabungsfunde jener Epoche und die Diskussionen, welche sie auslösten, Diskussionen, die ihrerseits verschiedene techniques and practices zu erkennen geben, mittels derer man die Neufunde zu verstehen suchte. Dass es sich bei den vorgelegten Fallstudien um vertraute, von der neueren Literatur bereits vielfach kommentierte Ereignisse handelt, gesteht das Autorenteam freimütig ein. Die bemühten Quellen beeindrucken indes durch ihre Vollständigkeit, so dass neben den erwartbaren auch weniger bekannte Gelehrte zu Wort kommen. In den Mittelpunkt rücken dabei die Abweichungen innerhalb der unterschiedlichen Auffindungsberichte wie auch die Vereinnahmungen, denen die – mithin nur scheinbar zufälligen – Entdeckungen unterlagen. Angereichert werden diese Ausführungen durch Exkurse zu den einzelnen Autoren, ihren Interessen und Vernetzungen, zur Geschichte wissenschaftlicher Methoden, zu Antikenhandel und -fälschungen oder auch zur Rivalität zwischen künstlerischer und literarisch basierter Antikenexpertise. Was sich vor den Lesern auftut, ist ein, wenn auch nicht ganz neuer, so doch vielschichtiger und überaus farbig geschilderter Ausschnitt der Wissensgeschichte zur Zeit der Renaissance. Die ausgewählten Fallstudien sind zum einen berühmten Episoden aus dem Bereich der Altertumswissenschaft gewidmet, den Entdeckungen des Livius-Grabes in Padua (1413) und der Mädchenleiche an der Via Appia (1485), der Auffindung des Laokoons (1506) und der in den 1470er Jahren einsetzenden Rezeption der Grotesken-Malerei, die sich vor allem den Erkundungen der römischen Domus Aurea verdankte. Daneben stehen christliche Objekte, deren Rückkehr in das öffentliche Bewusstsein nicht weniger spektakulär verlief, so der Kreuzestitulus von S. Croce in Gerusalemme (1496), die 1508 im Kloster Glastonbury gehobenen Reliquien des Heiligen Dunstan von Canterbury und der anlässlich des Reichstags von 1512 im Trierer Dom geborgene Heilige Rock. Das Nebeneinander altertumskundlich und eher hagiographisch bedeutsamer Ereignisse dürfte manchen Leser verwundern, entspricht jedoch einer Grundthese des Buches, der zufolge die antiquarische Objektforschung dem Umgang mit Reliquien und christlichen mirabilia sehr viel mehr verdankte, als gemeinhin angenommen, weshalb die Studien der Antiquare denn auch nur bedingt als „fundamentally secular enterprise“ zu verstehen seien. Ganz neu ist diese These nicht. Mit Blick auf die mittelalterlichen Reliquienhebungen hatte schon Bernard Guenée in seinem Buch „Histoire et culture historique dans l’Occident médiéval“ (1980) von der Archäologie als „Tochter der Religion“ gesprochen (S. 86). Dass Fragen nach der Identität wiederentdeckter Leichname, Kontroversen um das Alter und die Echtheit dieser Funde und Kommissionen, die solche Hervorbringungen angemessen einordnen sollten, im Zusammenhang mit der hoch- und spätmittelalterlichen Verehrung heiliger Überreste aufgekommen waren und solche Erkenntnisinteressen dann auch an die Gräber weltlicher Verstorbener herangetragen wurden, hat Hans-Rudolf Meier anschließend in einem inhaltsreichen Aufsatz herausgearbeitet (in: Georges-Bloch-Jahrbuch 8 [2001], S. 7–26). Diesem Weg folgt der hier anzuzeigende Bd., wenn er die Parallelen im Umgang mit antiken und christlichen Grabungsfunden auch für die humanistisch geprägte Epoche um 1500 nachweist. Dennoch drängt sich der Eindruck auf, dass die Gleichsetzung des Materials den Bogen letztendlich überspannt. Das Besondere der vermeintlichen Livius-Gebeine und des Mädchenkörpers von der Via Appia lag doch darin, dass hier zwei nicht im Verdacht der Heiligkeit stehende Verstorbene ein Höchstmaß an Bewunderung erregten, was dann auch erklärt, warum man von Seiten der Kirche gegen die öffentliche Begeisterung einschritt oder zumindest einschreiten wollte, und anders als bei den Märtyrern wurde das an der Via Appia zu Tage geförderte corpus incorruptum eben nicht als Ausweis der Heiligkeit, sondern als Ergebnis antiker Konservierungskünste eingestuft. Wendete man die literarische Tradition christlicher Auffindungsberichte jetzt auch auf heidnische Verstorbene an, so zeugt das eher von deren Wertschätzung als von einer christlichen Prägung der entsprechenden Autoren. Man fragt sich zudem, wer von der Laokoon-Erzählung ausgehend „an easy parallel to the Christian salvation narrative“ gezogen habe (S. 174). Kaum weniger forciert klingt es, wenn die durch Künstlerzeichnungen vermittelte translatio (sic) antiker Bildmotive in die Kunst der Renaissance mit der Übertragung von Reliquien in eins gesetzt wird (S. 225). Hier werden Dinge verknüpft, die schwerlich zusammengehören. Im Übrigen dürfte es auch für den im vorliegenden Bd. so gern verwendeten Begriff des sacred antiquarianism kein Äquivalent des 16. Jh. geben, zumindest bei Ende des Jh. hätte man diese Wortverbindung vielmehr als contradictio in adiecto empfunden. Sehr überzeugend arbeiten Schwab und Grafton andererseits heraus, wie sehr die antiquarische Objektforschung stets einer Erhellung durch die literarische Überlieferung bedurfte. Die von Momigliano und der älteren Wissenschaftsgeschichte aufgestellte, bereits durch den Rezensenten nachdrücklich widerlegte These, der zufolge das Studium materieller Hinterlassenschaften an die Stelle der philologischen Untersuchungen treten sollte, dürfte damit endgültig zu verabschieden sein. Schwab und Grafton betonen darüber hinaus, welchen Stimulus die Antiquare dem „interdisziplinären“ Diskurs vermittelten, zogen sie zur Lösung ihrer Probleme doch je nach Bedarf Mediziner, Alchemisten, Experten für Textilien, Maler, Bildhauer und andere Fachleute heran. Angesichts eines solch intensiven Bemühens um historische Erkenntnis verwundert es, auf den abschließenden Seiten des Buches zu erfahren, dass die hier betrachteten Autoren stets auch von einer „creative invention“ beseelt gewesen seien (S. 297) und sie zu keinem Zeitpunkt erwartet hätten, dass man ihren Überlegungen rückhaltlos Glauben schenke. Die mithin verbissenen antiquarischen Kontroversen gerade des 16. Jh. sprechen eine andere Sprache.+TABRE+Ingo Herklotz
Jan L. de Jong, Tombs in Early Modern Rome (1400–1600). Monuments of Mourning, Memory and Meditation, Leiden-Boston (Brill) 2023 (Brill’s Studies on Art, Art History and Intellectual History 65), XIX, 401 S., Abb., ISBN 978-90-04-17936-3, € 149.
Das Buch ist der Grabkultur und speziell den Epitaphien im Rom der Renaissance gewidmet, wobei keine Sozialgeschichte angestrebt ist, sondern eine Selektion vorgelegt wird, die hohe Kirchenvertreter und Exponenten des Adels privilegiert. Das Werk ist in fünf Kapitel geteilt. Zunächst wird in das weite Feld der Bestattungen in Rom eingeführt, die unter Pius IV. (1561) und Pius V. (1566) aus hygienischen Gründen in den Kirchen eigentlich verboten wurden, was allerdings keineswegs überall befolgt wurde. Im Zuge des Neu- und Umbaus der Kirchen wurden durch die Jahrhunderte viele Gräber beseitigt. Es ist das Verdienst von Antiquaren, dass sie viele Grabinschriften zumindest kopiert und damit vor dem Totalverlust bewahrt haben. Die in der Regel auf Latein verfassten Inschriften gehen meist auf Entwürfe von Gelehrten oder Inschriftensammlungen zurück (S. 17–29, 54, 56); von Originalität und Unmittelbarkeit kann also nur selten ausgegangen werden. Die Realisierung der Grabmonumente war dagegen Teamwork von Handwerkern und Bildhauern (S. 20). Die Epitaphien lassen emotional-religiöse Motive ebenso wie gesellschaftliche Konventionen durchscheinen. Dabei war die Selbstdarstellung von Verstorbenen an heiligen Stätten keineswegs unumstritten. Der hl. Augustin hatte sich gegen Grablegen „ad sanctos“ gewandt, und auch ein Humanist wie Lorenzo Valla kritisierte, dass die überlebenden Verwandten über Gebühr die Gräber für ihre Angehörigen zur eigenen Selbstdarstellung nutzten (S. 48, 53). Einige Kardinäle – wie Nicolaus Cusanus – ließen ihre Leichname gegen kirchliches Gesetz teilen. Gräber wurden mitunter verlegt; zurück blieb ein Kenotaph. Was die Inhalte der Inschriften angeht, erstaunt es den Autor immer wieder, dass in römischen Kirchen viele Grabinschriften wenig spezifisch Christliches aussagen, sondern vielmehr Bitternis und Weltverdruss zum Ausdruck bringen (S. 58, 305 f.). Das zweite Kapitel legt den Fokus auf die Grablegen von Kardinälen, die oft sehr prächtig gestaltet waren. Die nicht seltenen konventionellen Formulierungen erklärten sich dadurch, dass die Gestaltung der Grablegen letztlich Sache der Hinterbliebenen und der Künstler gewesen sei (S. 61). Aber auch ein prächtiges Sibi posuit-Grabmal (also ein Grabmal, das auf den Bestatteten selbst zurückging) sei weniger als ein Zeugnis von persönlicher Eitelkeit zu deuten denn als Einladung an den frommen Betrachter, einem Vorbild zu folgen (S. 147 f.). Besonders aufwändig war die Grabkapelle für Kardinal Giovanni Ricci in S. Pietro in Montorio, die der gegenüberliegenden Del Monte-Kapelle nachempfunden war. Man spürt hier ein starkes Interesse an Materialität; in der Tat hat der Kardinal die wertvollen Dekorationen aus der Antike gezielt erworben. Für De Jong belegen die beiden dekorativen Kenotaphe der Ricci-Kapelle, dass der im Boden bestattete Kardinal trotz der ihm zugeschriebenen Ambitionen auf den Papstthron seine Kapelle als Ort des Gebets betrachtete (S. 131–145). Im Kapitel III stehen die Papstgrabmäler im Mittelpunkt. Auch hier waren die Umstände der Errichtung vielfältig. Der sich lange hinziehende Neubau von St. Peter konditionierte das Schicksal der Papstgräber des 15. und 16. Jh. Die Grabmäler dieser Zeit sind oft nur noch fragmentarisch entweder in den Grotten von St. Peter oder in anderen Kirchen erhalten. Eingehender wird das von Kardinal Enckenvoirt seinem Landsmann Hadrian VI. in S. Maria dell’Anima errichtete Grabmal behandelt (S. 188–192). Die Monumente für Leo X. und Klemens VII. im Chor von S. Maria sopra Minerva werden auch theologisch gedeutet. Auf Rom beziehen sich die Bildnisse der hl. Petrus und Paulus, auf Florenz die des Stadtpatrons Johannes des Täufers. Die beiden Gräber kommen ganz ohne Inschriften aus, zeigen aber zuhauf die Medici-Impresen (S. 204–209). Unter Außerachtlassung des Grabmals Pauls III. wendet sich der Autor dann den Monumenten für Pius V. in seinem Geburtsort Bosco Marengo (ein Kenotaph!) und in S. Maria Maggiore zu (S. 210–214). Die Kapitel IV und V sind den Frauen gewidmet, wobei zwischen Müttern und Ehefrauen unterschieden wird. Nur wenige Frauen hatten die Mittel für ein (Wand-)Grab in einer Kirche. Zumeist waren es die Witwer, die ihren Gattinnen und den Müttern ihrer gemeinsamen Kinder gedachten. Natürlich weiß man mehr über die Angehörigen der Oberschicht wie die 1520 gestorbene Alfonsina Orsini deʼ Medici (S. 240–242). In diesen Kreisen ist auch der Einsatz heraldischer Elemente verbreitet. Eingehender befasst sich der Autor mit den Grabmälern der aus Lucca stammenden und mit Pius II. liierten Familie Ammanati bzw. Mentebona. Im Testament des Kardinal Jacopo Ammanati zeigt sich eindrücklich der Kontrast zwischen der dort bekundeten Bescheidenheit und den tatsächlich beträchtlichen Ausgaben für die Beerdigung und die prunkvolle Grabgestaltung (S. 248–252, 258 f.). Am Grabmal der Römerin Cristofora Margani will der Autor eine eigenwillige Interpretation der Mutterliebe dieser Dame für nur einen Sohn als Pars pro Toto für andere vor ihr verstorbene Kinder erkennen (S. 296). Dem 1507 jung verstorbenen Giovanni Battista Milizi (= Cavalieri) setzte seine Mutter, die als gebürtige Massimo ebenfalls dem Stadtadel angehörte, in S. Maria in Aracoeli ein prächtiges Wandgrab. Die ausführenden Künstler bleiben meist anonym (S. 312 f.). Verstorbene Mütter selbst werden oft in Meditation und mit einem Rosenkranz in der Hand dargestellt; sie treten aber insgesamt unverkennbar hinter dem männlichen Sohn bzw. der Familie des Ehemannes zurück. Dagegen bemühten sich einige Mütter erfolgreich um den Nachruhm ihrer Söhne, was man an der Rezeption der Inschriften in späteren Inschriften-Sammlungen ersehen kann (S. 318 f.). Das fünfte und letzte Kapitel des Buches analysiert eine Reihe von Grabinschriften von Eheleuten. Dabei werden komplexe theologische Vorstellungen der spirituellen Partnerschaft im Himmel selbst in gar nicht so seltenen Fällen von Wiederverheiratung erkennbar (S. 336 f.). In einem Fall kann man nachweisen, dass für die Formulierung eine Elegiensammlung des Giovanni Antonio Campano, die 1502 posthum gedruckt worden war, herangezogen worden ist (S. 343). Unter den Gräbern von nach Rom Zugereisten sticht dabei das Monument eines Ehepaars aus den Familien Lengles und Cantacuzena de Flory in S. Maria sopra Minerva hervor (S. 354–357). Die im Spätmittelalter noch üblichen Grabplatten mit beiden Eheleuten kamen dagegen aus der Mode. Insgesamt kann man dem Bd. viele neue Einsichten abgewinnen. Man hat es zwar mit einer sehr individuellen Auswahl mit dem Mut zur Lücke zu tun, die sich ganz offensichtlich auch an der Ästhetik und den besonders ansprechenden Inschriften orientiert. Durch die oft nicht einfache Übersetzung der Epitaphien leistet der Bd. einen wichtigen Beitrag zur Erschließung der römischen Grabmalkultur in der Renaissance.+TABRE+Andreas Rehberg
Christopher Kast, Der Papsthof auf Reisen. Die Reisen der römischen Kurie in den Pontifikaten von Martin V. bis Pius II. (1417–1464), Göttingen (Vandenhoeck & Ruprecht) 2024 (Papsttum im mittelalterlichen Europa 12), 532 S., ISBN 978-3-412-52822-5, € 80.
Noch heute ist die Reise eines Papstes ein großes Medienereignis, das Abertausende Besucherinnen und Besucher anlockt. Obwohl der Kurienapparat im Vatikan verbleibt, entstehen hohe Kosten für die Organisation, die in der Regel von den einladenden Ortskirchen und Regierungen gestemmt werden müssen. Gemessen an den Möglichkeiten der Zeit kann man sich gut vorstellen, was für eine enorme Herausforderung für alle Beteiligten eine Papstreise im Spätmittelalter bedeutete. Christopher Kast untersucht in seiner Diss. vor allem die organisatorischen Aspekte der Reisen der Päpste von Martin V. bis Pius II. Dabei geht es dem Vf. nicht um eine chronologische Abhandlung (sieht man von den beiden Itineraren zu Martin V. und Nikolaus V. im Anhang ab). Sein Werk thematisiert vor allem die (kirchen-)politischen Rahmenbedingungen (Kap. I und II), das Transportwesen und die Versorgung mit Lebensmitteln (Kap. III), die multimedialen Aspekte vor allem des Einzugs in einer Stadt (Kap. IV) sowie die tagtägliche Unterbringung des Papstes und seines Trosses (Kap. V). Papstreisen hatten die unterschiedlichsten Ursachen. Die wohl bedeutsamste hier behandelte Reise war der nahezu drei Jahre beanspruchende Zug Martins V. von Konstanz nach Rom, mit dem eine neue Epoche der Kirchengeschichte einsetzte. Sieht man von den ausgeklammerten päpstlichen Aufenthalten in der Sommerfrische ab, waren es gewichtige Gründe (wie die Teilnahme an einem Konzil, die Festigung des Kirchenstaates, Familieninteressen oder die Vorbereitung eines Kreuzzugs gegen die Türken), die die Päpste zu mehrmonatigen Reisen veranlassten; bei Eugen IV. war es gar eine quasi-Flucht aus dem für ihn widrigen Rom. In der Regel wurden die Ortswechsel penibel vorbereitet, wobei die gastgebenden Städte und Potentaten frühzeitig in die Planungen eingeweiht wurden. Denn im Spätmittelalter reiste nicht nur der Papst und sein engster Stab (darunter die mit eigenen Haushalten ausgestatteten Kardinäle), es begleitete ihn auch ein Großteil des kurialen Behördenapparates. Damit waren Hunderte von Menschen und von Reit- und Transporttieren auf den Beinen und tagtäglich zu versorgen. Die Kosten für die Versorgung des Papstes und seines engsten Kreises mussten meist die Gastgeber übernehmen, für den Rest der mitziehenden Kurialen kam die Apostolische Kammer auf. Diplomaten und die Petenten, die aus der gesamten Christenheit ihre Anliegen an die Kurie tragen wollten, mussten der Kurie wohl oder übel auf eigene Kosten nachreisen. Und das konnte sehr teuer werden, explodierten doch entlang der Reiseroute die Preise für Lebensmittel und die – oft unzulänglichen – Unterkünfte. Sind diese Rahmenbedingungen durchaus weitgehend bekannt, so bereichert der Vf. die Forschung doch mit akribisch in vielen – zumal mittelitalienischen – Archiven und Bibliotheken (S. 449–453) zusammengetragenem, meist unediertem lokalen Archivmaterial, das die in Rom und Vatikan liegenden Quellen hervorragend ergänzt. Wahre archivalische Glücksfälle bieten immer noch die schier unerschöpflich erscheinenden Diplomatenberichte und kommunalen Riformanze und Stadtrechnungen, die allerdings in sehr unterschiedlicher Dichte überliefert sind. Es entsteht so ein Panorama zur materiellen Kultur des Reisens von damals, das man sich vielfältiger kaum vorstellen kann. Man spürt die Freude des Vf. an seinen Funden, seien diese nun Nachrichten über die Beschaffenheit des Zaumzeugs, das Verpackungsmaterial, die kurzerhand an den Außenfassaden angebrachten Futtertröge, den Tagesproviant oder die Wohlgerüche von den ephemeren Festdekorationen bei einem Papsteinzug. Der feierliche, oft auch mit heraldischen Zeichen und Symbolen begleitete Einzug eines Papstes in einer Stadt war in der Tat ein Ereignis für alle Sinne unter Fanfaren- und Glockenklang. Nicht immer lief alles nach Plan. Meist war dem Andrang der Menschenmenge nur mit dem – ablenkenden – Auswurf von Münzen Herr zu werden. Wer da denkt, dass ein Papst in seiner Heimatstadt stets gern gesehen war, täuscht sich im Falle Pius’ II. Piccolomini, dem 1459 in Siena sein Bestreben schadete, den nobiles zur Rückkehr in die Stadtregierung verhelfen zu wollen. Diskutiert wird, welche Folgen so ein Großereignis auf Urbanistik (S. 313) und Ökonomie hatte. Die S. 219–223 bieten Graphiken zum Konsum gewisser Lebensmittel (Geflügel, Wild, Fleisch und – die Fastenspeise – [Süß-]Fisch). Verschleiß stellte sich nicht nur bei den stark geforderten reisenden Kurialen ein, sondern auch bei den Lasttieren, die mit Medizin versorgt werden mussten. Großes Gewicht wird auf die vielfältigen Gelegenheiten zur Performation von Macht und Einfluss gelegt. Im Kirchenstaat zog der Pontifex als Stadt- und Landesherr ein, während er anderenorts als vicarius Christi begrüßt wurde. Schon den Zeitgenossen (zumal den aufmerksamen Diplomaten!) entgingen nicht die kleinsten Unterschiede. So erwartete Pius II. 1459 nach einem prächtigen Empfang in Perugia (im Kirchenstaat!) in Florenz deutliche Zurückhaltung; und schlechtes Wetter konnte alles ruinieren (S. 274 f.). Die oft als rituell eingestufte Plünderung des päpstlichen Reittiers und des ebenfalls sehr teuren Baldachins konnte mitunter durch insgeheime Absprachen mit den örtlichen Autoritäten abgewendet werden (S. 279 f., 283–287). Wie auch heute noch bei solchen Großereignissen konnte die Bilanz danach, gemessen an den hohen Erwartungen, enttäuschend ausfallen (S. 367). Ist es ein Zufall, dass der Vf. im Vergleich zur Gastgeberperspektive erstaunlich wenig zur „Kasse der Kurie“ (S. 377 f.) aussagen kann? Unter dem Strich zahlten sich für das Papsttum die Reisen als ein unerlässliches Instrument der Herrschaftsausübung aus. Dankbar ist man dem Vf. auch für die reichen Anhänge mit zwei Itineraren und Quellentexten. Unter den Indizes ist das hilfreiche detaillierte Sachregister hervorzuheben. Als kleine Schönheitsfehler sind ein Versehen auf S. 223, Abb. 5 (diese wiederholt die Abb. 4) und einige Tippfehler anzuzeigen. Martin V. sollte auch nicht als Dominikaner bezeichnet werden (S. 48). Aber dies schmälert den Wert des insgesamt sehr sorgfältigen Bd. in keiner Weise.+TABRE+Andreas Rehberg
Giacomo Mariani, Roberto Caracciolo da Lecce (1425–1495). Life, Works, and Fame of a Renaissance Preacher, Leiden (Brill) 2022 (The Medieval Franciscans 19), XIV, 538 S., ISBN 978-90-04-49930-0, € 159.
Das Spätmittelalter gilt als eine Zeit einer pastoralen Wende und als Hochzeit des Predigtwesens, befördert vor allem auch durch die Mendikantenorden, und oftmals ausgehend von Italien. Dass gerade Rom ein Ort war, an dem sich „Sacred Orators“ vermehrt einfanden, gehört seit den Studien von O’Malley zum allgemeinen Wissensstand. Weithin bekannt sind gelehrte Prediger wie Bernardino da Siena, Kapistran oder gar Savonarola, die nachgerade europäische Predigerkarrieren absolvierten. Eine weitere Gestalt, die eher einem Spezialpublikum vertraut sein dürfte, erfährt mit der vorliegenden Arbeit nun eine moderne monographische Aufarbeitung. Das ist begrüßenswert, nicht nur, weil der Franziskaner Roberto Caracciolo da Lecce in seiner Zeit ein äußerst bekannter Prediger war, sondern auch, da er in Hss., aber vor allem in Drucken immer wieder begegnet, denn er war (ähnlich wie der Dominikaner Savonarola) einer der ersten seiner Zeit, dessen Werke massenhaft im Buchdruck erschienen. Weniger bekannt als seine Zeitgenossen dürfte er – so die These Marianis – geworden sein, da er, anfangs protegiert durch Kapistran, eine Wende von der Reformbewegung der Observanz zu jener der Konventualen vollzog, was zur Folge hatte, dass manche rufschädigende schwarze Legende über ihn verbreitet wurde; u. a. Erasmus kritisierte ihn (Kap. 2). Das Buch versteht sich als Referenzarbeit und geht zunächst den Weg einer klassischen Biographie, die Leben und Werk in zwei Teilen bespricht. Teil I zeichnet die unklaren Anfänge in den höheren Schichten der apulischen Stadt Lecce und frühe Familienbeziehungen im Königreich Neapel nach, eine mögliche Unterweisung im Konvent San Francesco della Scarpa, erste Gehversuche in der Franziskanerobservanz im Salento, das Erlernen eines charakteristischen Predigtstiles wohl von einem ungarischen Bruder (Kap. 3). Es geht dann über zu den vielen verschiedenen Reisen als Wanderprediger, die Roberto im Laufe seines Lebens durch ganz Italien führten, zunächst nach Perugia (Kap. 4), dann nach Mittel- und Süditalien, wobei immer wieder Rom mit S. Maria in Aracoeli ein Fixpunkt ist (Kap. 5), nach Padua, wo eine unedierte Predigt aufgefunden wurde (Kap. 6), Brescia, Mailand, Forlì – Francesco Sforza will ihn hier nicht gehen lassen (Kap. 7). Doch der Bruch mit der Observanz 1452 nähert Roberto der Kurie an (Kap. 8 und 9), unter Calixt III. predigt er in Rom den Kreuzzug gegen die Osmanen, erlangt den akademischen Grad eines sacrae theologiae magister (Kap. 10), wird zum apostolischen Prediger in Mailand ernannt, wo er unter anderem mit Francesco Filelfo in Kontakt steht (Kap. 11), bevor ihn Cosimo deʼ Medici nach Florenz zieht und er in Rom anlässlich der Kanonisierung der Katharina von Siena direkt nach Papst Pius II. in S. Maria sopra Minerva das Wort ergreift (Kap. 12). Anfang der 1460er Jahre sehen wir ihn im Kontakt mit Kardinal Bessarion, als er in Norditalien den Kreuzzug predigt (Kap. 13), nachfolgend geht es wieder durch Mittel- und Süditalien, wo ihn Ferrante d’Aragona anfordert (Kap. 14), schon bald darauf wirkt er in Genua und Rom bei Exorzismen (Kap. 15). Die Chance zu einer kirchlichen Karriere eröffnet sich im Pontifikat Sixtusʼ IV., der Roberto zum Bischof von Aquino ernennt (Kap. 16); die letzten Jahre verbringt er in Lecce (Kap. 17). Teil II zeigt auf, wie Roberto sich stilistisch an Bernardino von Siena orientierte, sieht seine Quellenauswahl in theologischer und juristischer Hinsicht eher dürftig („nothing notable about Roberto’s literary references“, S. 243), sieht in ihm gar die Inkarnation der Kritik von Coluccio Salutati an populären Predigern der Zeit (Kap. 18). Robertos großen Erfolg versteht Mariani denn auch eher vor dem Hintergrund der systematischen Nutzung des Buchdrucks für die Verbreitung seiner Werke, gerade deshalb, weil seine Predigten so modellhaft genutzt wurden, und zwar nicht nur die lateinischen, sondern vor allem die volkssprachlichen (Kap. 19). Der editorische Erfolg seiner Werke in Europa hielt bis in die erste Hälfte des 16. Jh. an, als andere Autoren ins Spiel kamen (Kap. 20). Schließlich wird noch auf die Handschriftenverbreitung vorwiegend in Italien (Kap. 21) und die laikale wie klerikale Leserschaft eingegangen („every convent library possessed copies of his Latin or vernacular sermons“, S. 310), in Italien und darüber hinaus (Kap. 22 und 23). Ein Katalog der gedruckten Werke und ein Predigtregister beschließen den Bd., der eine solide Grundlage zu diesem Prediger bietet.+TABRE+Tobias Daniels
J. F. Böhmer, Regesta Imperii, Works in progress, Regesten Kaiser Friedrichs III.(1440–1493) nach Archiven und Bibliotheken geordnet, hg. von Paul-Joachim Heinig/Johannes Helmrath/Christian Lackner, Kurzregesten, Die Urkunden und Briefe aus den Archiven und Bibliotheken der italienischen Region Lombardei, bearb. von Jörg Feuchter/Marianna Spano, Wien (Österreichische Akademie der Wissenschaften) 2022, 28 pp. (http://www.regesta-imperii.de/fileadmin/user_upload/downloads/RI_XIII_Lombardei.pdf).
Intorno alla lunga vicenda di Federico III d’Absburgo (re dei Romani dal 1440 a 1452 e imperatore consacrato dal 1452 al 1493) è in corso da qualche anno a questa parte una significativa revisione storiografica, che tende a riconsiderare alcuni luoghi comuni consolidati, rivedendo la tradizionale lettura della presunta debolezza dell’istituzione imperiale e in particolare la tesi di un sovrano poco propenso a seguire le vicende dell’Impero nel suo complesso ed orientato in via prioritaria al consolidamento dei propri interessi di natura strettamente dinastica. Una recente puntualizzazione offre Richard C. Schlag, The Imperial Court and the Localities during the Reign of Holy Roman Emperor Friedrich III, in: German History 42,1 (2024), pp. 1–19. Lavori importanti come quelli del compianto Heinrich Koller, Kaiser Friedrich III., Darmstadt 2005, o come la grande biografia in tre voll. di Paul Joachim Heinig, Kaiser Friedrich III. (1440–1493), Wien 1997, hanno apportato al riguardo un contributo storiografico decisivo per questo cambio di prospettiva. Sono ricerche che hanno oggettivamente aperto una nuova stagione di studi storici sull’Impero bassomedievale: una stagione che si è naturalmente potuta avvalere – per quanto riguarda il cinquantennio di Federico III – sull’analisi del poderoso corpus documentario, di cui negli ultimi decenni si è proceduto a pubblicare i regesti, nei numerosi voll. (fino ad ora arrivati a 38) della XIII serie dei „Regesta Imperii“, vale a dire appunto i „Regesten Kaiser Friedrichs III. (1440–1493) nach Archiven und Bibliotheken geordnet“, pubblicati a partire dal 1982, sotto il coordinamento dapprima dello stesso Koller, e poi di Heinig e di altri. Il focus di queste ricerche si è naturalmente concentrato soprattutto sul regno di Federico III in relazione ai domini ereditari absburgici ed ai territori del cosiddetto Binnenreich, cioè i territori del Reich tedesco non dipendenti dai domini diretti del Re dei Romani. Rispetto alla tradizionale e fortunata formula di Peter Moraw sul „dualismo istituzionalizzato“ del Reich (Peter Moraw, Von offener Verfassung zu gestalteter Verdichtung. Das Reich im späten Mittelalter [1250 bis 1490], Berlin 1989, in particolare alle pp. 379–385), si è venuta cogliendo, con riferimento a un sovrano come Federico III una capacità di intervento non trascurabile, per cui se la continua e spesso contrastata dialettica con i principi territoriali (in particolare i sette principi elettori) restava in effetti un elemento costitutivo del peculiare contesto politico dell’Impero, si è tuttavia riconosciuta anche la significativa capacità della monarchia di svolgere un ruolo incisivo anche nelle relazioni con soggetti quali città – tanto libere quanto imperiali – cavalieri, comunità, monasteri, così come con le diverse alleanze e leghe tra tutti questi soggetti. Ovviamente però gli imperatori bassomedievali, oltre che perno politico-istituzionale entro la cornice del Regno tedesco, erano anche il vertice di un’istituzione dalle perduranti valenze universalistiche, ed erano altresì i legittimi titolari di altre due corone regie e cioè della corona italica e di quella del Regno di Arles. Ebbene, è proprio alla dimensione italica che si rivolge il volume curato da Jörg Feuchter e Marianna Spano, relativo ai regesti di lettere e documenti degli anni di Federico III riguardanti in particolare la Lombardia. Si tratta in tutto di 131 regesti, pubblicati in forma essenziale ed abbreviata, con l’intento non già di fornire indicazioni dettagliate e commentate sui singoli documenti, bensì con l’idea – in linea con la serie „Work in Progress“ dei „Regesta Imperii“ in cui la pubblicazione è collocata – di fornire agli studiosi e alle studiose interessati indicazioni preliminari di massima che possano consentire lʼindividuazione di fonti pertinenti (nellʼattesa di una pubblicazione in forma più ampia nei voll. dei „Regesta Imperii“). Lʼimpressione generale che si ricava da questi regesti è che nel caso italico debba essere sostanzialmente confermata la lettura storica tradizionale, ovvero di una scarsa capacità dellʼImpero, nel complesso, di incidere realmente sugli assetti politici del Regno. È quanto osservava ad esempio Tom Scott nel sottolineare che „beyond the Alps, imperial power in Italy had long been more shadow than substance“ (Tom Scott, Germany and the Empire, in: The New Cambridge Medieval History, vol. VII, Cambridge 1998, pp. 337–366, citazione a p. 342). In altre parole, per riprendere una celebre espressione di Bernard Guenée, lʼImpero in Italia faticava ad andare oltre la dimensione della mera „machine à legitimer“ (Bernard Guenée, L’Occident aux XIVe et XVe siècles. Les États, Paris 1971, p. 71). Signori, signorotti governi repubblicani, o perfino singoli individui, erano naturalmente più che interessati (anche spendendo grosse cifre) ad ottenere diplomi e privilegi imperiali, o riconoscimenti e patenti di nobiltà, che sanassero posizioni di dubbia legittimità, o che conferissero titoli ambiti e prestigiosi. Difficile era svolgere un ruolo politico attivo. Molti dei regesti pubblicati in questo prezioso vol. ne danno di fatto conferma.+TABRE+Francesco Somaini
Remigiusz Stachowiak, Spätmittelalterliche Kirchenkarrieren preußischer Kleriker. Soziale Räume und Netzwerke zwischen Zentrum und Peripherie, Osnabrück (fibre) 2023 (Einzelschriften der Historischen Kommission für Ost- und Westpreußische Landesforschung 32), VIII, 565 S., ISBN 978-3-944870-81-6, € 74.
Die hier anzuzeigende Studie zu Kirchenkarrieren von Geistlichen aus dem Deutschordensland Preußen wurde 2020 als Diss. an der Freien Universität Berlin angenommen. Der Vf. konfrontiert die Beziehungsgeflechte, die die Kleriker in ihrer Heimat (Peripherie) und an der Kurie (Zentrum) aufgebaut haben. Damit reiht sich die Arbeit in die mittlerweile stattliche Zahl prosopographischer Studien zur mittelalterlichen Kirche und vor allem zu Domkapiteln ein. Dass aber ausgerechnet das so weit von Rom entfernte Preußen nicht unbeträchtlich an der Kurie präsent war, erstaunt denn doch. Man wird diesen Umstand damit erklären können, dass der Deutsche Orden seit seiner Gründung in besonderer Weise mit dem Papsttum verbunden war und am Tiber sogar eine Vertretung – den Ordensgeneralprokurator (S. 84, 166–171) – unterhielt, die nicht geringe Mittel verschlang. Während der Orden seinen eigenen Mitgliedern nur selten den langen und teuren Weg nach Italien gestattete, nutzten Weltgeistliche schon eher die Möglichkeiten, um über die Kurie an eine Kirchenpfründe zu gelangen. Als kommunikativer Raum bot die Kurie auch strategische Vorteile; man denke nur an den Informationsvorsprung. Unter den genauer untersuchten preußischen Städten sticht die Hansestadt Danzig hervor, deren Patrizierschicht die Familien Ferber, Giese, Niederhoff und Suchten angehörten, aus denen eine Reihe ehrgeiziger Geistlicher hervorgegangen sind. Stets mitzudenken sind die politischen Gegebenheiten und Ereignisse, die auch direkte Konsequenzen auf das Kirchenwesen hatten (man denke nur an die Zäsur des Dreizehnjährigen Kriegs, 1454–1466). Als Thorn 1454 an Polen fiel, kam es zu Repressalien gegen die nicht mehr genehmen stadtfremden Deutschordenspriester. Anders sah die Situation in den regulierten Domkapiteln des Deutschen Ordens (Pomesanien und Samland) aus. Hier ging letztlich die größte Gefahr vom Orden selbst aus, denn 1524 führte der Bischof von Samland Georg von Polentz (1519–1524) „als erster deutschsprachiger Bischof die Reformation in seinem Bistum durch“ (S. 44). Den bis dato dem Orden angehörenden Kanonikern von Pomesanien und Samland hatte schon die Deutschordensregel den Weg nach Rom verbaut (S. 164 f.). Noch einmal anders stellte sich die Situation im Archidiakonat Pommerellen dar: der Bischof von Leslau und die dortigen Domherren waren durchweg Polen. Nur über das päpstliche Provisionswesen konnte der Deutsche Orden nach 1363 zumindest zeitweise das Archidiakonat an sich bringen. Was die aus römischen Quellen nachgewiesenen päpstlichen Rechtstitel auf heimische Pfründen angeht, ist allerdings zu bedenken, dass sich in der Regel nicht eindeutig feststellen lässt, ob sie letztlich entscheidend waren; die Erfolgsquote der kurialen Provisionsschreiben bleibt ungewiss (S. 107). Besonders Danziger Kandidaten gelang es, auch in den drei weltlichen Domkapiteln Livlands (Dorpat, Ösel-Wiek und Reval) Fuß zu fassen (S. 112). Die preußischen Kleriker streckten ihre Fühler aber auch in die Dom- und Stiftskapitel im Reich und im Königreich Polen aus. In Polen hatten es allerdings die bürgerlichen Kleriker schwerer, in den vom Adel dominierten Domkapiteln aufgenommen zu werden. Sprachliche Unterschiede scheinen dagegen keine große Rolle gespielt zu haben, da die Kanonikate nicht mit Seelsorge verbunden waren (S. 124). Auch wenn direkte Quellen dafür fehlen, schließt der Vf. nicht aus, dass die Danziger Johann und Mauritius Ferber, Tiedemann Giese, Leonhard Niederhoff, Christoph Suchten und Augustin Tiergart in Rom auch studierten; Niederhoff und Suchten erwarben in Rom wohl sogar per bullam den Grad eines Doktors beider Rechte (S. 148, Anm. 279). Bekannter sind die Universitätsbesuche von Nikolaus Kopernikus in Bologna, Padua und Ferrara. Wegen des steigenden Bedarfs an juristischem Fachwissen förderte der Deutsche Orden – bis 1466 – gezielt einige in Italien studierende Ordensgeistliche (S. 153). Wichtige Bindeglieder zwischen Papsthof und Pfründenort waren die Prokuraten und Exekutoren (S. 161 f.). In Rom tummelten sich aber auch Papst- und Kardinalsfamiliaren sowie Auditoren und Notare am Gerichtshof der Rota mit preußischen Wurzeln. Nachdem der Ordensgeneralprokurator aufgrund des unaufhaltsamen Machtverlusts des Deutschen Ordens gegenüber Polen auch in Rom in die Defensive geriet, gelang es den preußischen Weltklerikern – allen voran dem Kurialen Bernhard Sculteti (S. 234–238) – in der römischen Bruderschaft von S. Maria dell’Anima Fuß zu fassen (S. 171–175). Was die verwandtschaftlichen Netzwerke angeht, hatte gewiss das Watzenrode-Kopernikus-Netzwerk die größte Bedeutung, profitierte doch der große Astronom Nikolaus Kopernikus davon (S. 210–217, 233, 246). In Danzig gelang gewiss den Laien und Klerikern aus den Familien Ferber und Giese der beeindruckendste Aufstieg. Der Bürgermeistersohn Mauritius Ferber wurde 1523 zum Bischof von Ermland gewählt (S. 226). All die genannten Geistlichen sind auch in der stattlichen Prosopographie von 134 Biogrammen zu finden, die sich wie folgt verteilen: Danziger (40), Elbinger (26), Königsberger (19), Thorner (49) Geistliche.+TABRE+Andreas Rehberg
Niccolò V. Allegorie di un pontefice, a cura di Outi Merisalo/Anna Modigliani/Francesca Niutta, Roma (Roma nel Rinascimento) 2023 (RR inedita 104, Saggi), VIII, 437 S., ISBN 978-88-85800-29-8, € 80.
Die in diesem Bd. publizierte Tagung fand im Jahr 2022 statt, um nach dem Abschluss der Edition diplomatischer Berichte von der Kurie Nikolausʼ V. eine Zwischenbilanz zu diesem Pontifikat zu ziehen. Zum Druck gebracht werden 17 Aufsätze zu politik-, kultur-, kunst-, bildungs- und bibliotheksgeschichtlichen Aspekten sowie drei Beiträge einer Tavola rotonda zu architekturgeschichtlichen Themen. Die konzeptionellen Grundlagen der Tagung werden einleitend zur Tavola rotonda von Maurizio Gargano erläutert: die Zeit Nikolausʼ V. soll in ihrer Eigenart als „pontificato-cerniera“ an der Schwelle zur Neuzeit herausgearbeitet werden, unter besonderer Beachtung zeichenhafter und symbolischer Dimensionen. Ein Schwerpunkt der Beiträge liegt in der Auseinandersetzung mit den Quellen, wobei auch ungedruckte Materialien herangezogen werden; dankenswerterweise findet sich unter den Registern, mit denen der Bd. erschlossen wird, ein „Indice delle fonti manoscritte“. Vier Beiträge nehmen ihren Ausgang von den mailändischen und florentinischen Gesandtenberichten von der Kurie Nikolausʼ V., thematisieren deren Quellenwert (Isabella Lazzarini), Rolle und Agieren der Gesandten (Matteo Briasco), die Vorgänge um den Frieden von Lodi 1454 (Eleonora Plebani) und das politische Tableau Italiens in der ersten Hälfte des 15. Jh. (Francesco Somaini). Drei Aufsätze befassen sich mit der Reaktion Nikolaus’ V. auf die Expansion des Osmanischen Reichs und untersuchen die Quellen zu den kurialen Kreuzzugsplänen im Hinblick auf Ostmittel- und Südosteuropa (Andrea Fara, Concetta Bianca) sowie das Bild Nikolausʼ V. in Byzanz (Francesca Niutta). In diesem Kontext hätte unbedingt auch der 19. Bd. der Deutschen Reichstagsakten (erschienen in drei Teilen 1969–2013) eine Erwähnung verdient gehabt, der leider – wie so häufig außerhalb des deutschen Sprachraums – übersehen wurde; unter den hier zusammengestellten Akten der Reichstage von Regensburg, Frankfurt und Wiener Neustadt (1454–1455) sind zahlreiche Dokumente zum Agieren der päpstlichen Gesandten, u. a. auch Briefe und Reden Enea Silvio Piccolominis, kritisch ediert. Drei Beiträge beleuchten das Interesse Nikolausʼ V. für die griechische Literatur, nämlich die Widmungen der ihm von Georgios Trapezuntios dedizierten Übersetzungen (Paolo Viti), die Aktivitäten Nikolausʼ V. zur Förderung von Übersetzungen aus dem Griechischen als Ausdruck einer päpstlichen Kulturpolitik (Giancarlo Abbamonte) und die in der Biblioteca Vaticana aus dem Besitz Nikolausʼ V. nachweisbaren griechischen Hss. (Antonio Manfredi). Mit dem Engagement Nikolausʼ V. für die lateinsprachige Bildung befassen sich zwei Beiträge, eine Untersuchung der zahlreichen von diesem Papst für Universitäten in ganz Europa ausgestellten Urkunden (Carla Frova) und eine umfassende Revision der Quellen und Forschung zu den Bemühungen Nikolausʼ V. um eine ideale Bibliothek lateinischer Texte (Concetta Bianca und Clementina Marsico). Auch das Verhältnis Leon Battista Albertis zu Nikolaus V. wird in den Blick genommen: Eine chronologische Betrachtung der Quellen zur Biographie Albertis legt einen Bruch im Jahr 1453, mit der Verschwörung Stefano Porcaris, nahe (Lucia Bertolini). Bei der Tavola rotonda wurde daraufhin hingewiesen, dass die Annahme, Alberti habe als Berater Nikolausʼ V. gewirkt, sich aus seinen architekturtheoretischen Texten nicht erhärten lässt (Alberto Giorgio Cassani). Anna Modigliani hat zwei Beiträge beigesteuert, die um die Bauvorhaben Nikolausʼ V. kreisen. In einer längeren Untersuchung behandelt sie die Baupläne Nikolausʼ V. für das Viertel um St. Peter und den Vatikan (vicus curialis), wobei sie ihr Augenmerk besonders auf die päpstlichen Zielsetzungen für den Vatikanpalast und die Engelsburg richtet, bei denen Nikolaus V. fortifikatorische und ästhetische Belange habe verbinden wollen. Im Rahmen der Tavola rotonda stellt sie die ambivalenten Äußerungen Enea Silvio Piccolominis über Tommaso Parentucelli/Nikolaus V. zusammen und geht der Rezeption der päpstlichen Bauvorhaben bei den Rombesuchen Friedrichs III. nach. Drei Aufsätze gelten der visuellen Kultur an der Kurie. Gerardo De Simone untersucht den ikonographischen und ideologischen Kontext einiger Bildzeugnisse im Hinblick auf die Darstellung Nikolausʼ V., darunter die Cappella Niccolina und das Grabmal des Papstes. Massimiliano Albanese analysiert detailliert astronomische und astrologische Bezüge in der Gestaltung von Fußboden und Gewölbe der Cappella Niccolina sowie christologische Bedeutungsschichten der Fresken Angelicos. Andreas Rehberg behandelt anhand von Bild-, Text- und Sachquellen eindrücklich die Aussagekraft von Emblemen und heraldischen Symbolen Nikolausʼ V., deren Einsatz im Dienst der ausgeprägten Bildpropaganda dieses Papstes und dessen Selbstdarstellung im Sinne der imitatio imperii. Der Bd. stellt einen wichtigen Beitrag zur Papstgeschichte des 15. Jh. dar und wird vor allem für kulturgeschichtliche Fragestellungen im weitesten Sinn (einschließlich der Diplomatiegeschichte) mit Gewinn zu benutzen sein.+TABRE+Claudia Märtl
Antonio Manfredi/Francesca Potenza (a cura di), I codici greci di Niccolò V. Edizione dell’inventario del 1455 e identificazione dei manoscritti. Con approfondimenti sulle vicende iniziali del Fondo Vaticano greco della Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano (Biblioteca Apostolica Vaticana) 2022 (Studi e Testi 552), 968 pp. con 21 tavv., ISBN 978-88-210-1085-9, € 52.
Gli autori del corposo vol. si prefiggono di ricostruire, tramite l’inventario antico del 1455 e i codici superstiti della sezione greca, il fondo più antico della biblioteca vaticana di Niccolò V, facendo tesoro soprattutto di quanto già delineato dal cardinal Giovanni Mercati e da Robert Devresse, i quali avevano individuato tracce di considerevole valore dei manoscritti greci appartenuti al papa sarzanese, mentre il secondo pubblicò pure i cataloghi antichi di codici vaticani greci riconoscendo parecchie unità tra quelle attuali (1965). Un patrimonio sorprendente e considerevole, formatosi tra la prima e la seconda metà del Quattrocento grazie agli interventi e alle assidue ricerche del Parentucelli (sul soglio pontificio dal 1447 al 1455) e di Sisto IV (1471–1484), di cui il prezioso inventario compilato nel 1455 da Cosimo di Montserrat, bibliotecario di Callisto III, offre un primo sguardo di quella Biblioteca Vaticana, latina e greca, che venne gradatamente e progressivamente ampliandosi nei decenni successivi, come testimoniano altri elenchi conservati. Dall’indagine condotta dai due autori, volta alla identificazione di quanto allora catalogato con quanto conservato in forma eccellente per il nucleo umanistico papale, con un confronto serrato anche con gli inventari successivi per verificarne perdite e guasti, risultano circa quattrocento manoscritti greci raccolti dal papa teologo con l’aiuto di un bibliotecario ben attrezzato culturalmente, Giovanni Tortelli, per ricuperare gli scritti di autori classici, dei Padri della chiesa, della tradizione biblica e dei teologi bizantini: ambedue con notevoli esperienze nell’ambito del dialogo religioso e culturale con l’Oriente dopo la partecipazione al Concilio di Ferrara-Firenze. I codici greci ricondotti al papa sarzanese registrati nella lista di Cosimo (M2, attuale Vic, Arxiu i Biblioteca Episcopal, Ms. 201) rispondono a un totale di 427 voci, così distribuite: una lista con 353 item (fol. 3r–18r) relativi ai libri presenti in biblioteca durante la catalogazione e divisi in due ampie sezioni, „Sacra“ e „Profana“, entro le quali si raggruppano poi i libri in base all’autore, due liste con 51 volumi di prestiti ad usum vite al cardinale Isidoro di Kiev, e una quarta con gli undici concessi a Bessarione, dieci greci e uno latino: tre di questi, non ancora restituiti nel 1458, rientrarono più tardi nel fondo vaticano perché per due il cardinale Niceno aveva ricevuto una proroga, e l’altro era passato, con ulteriore domanda, al Ruteno. Un’altra breve lista, aggiunta più tardi all’inizio di M2, fol. 1r, di mano dello stesso intestario del prestito, registra in forma succinta, nove codici prelevati da Francesco Griffolini, testimonianza di un rapporto diretto con l’ambiente vaticano, mentre al fol. 25r si legge l’interessante richiesta inviata a Cosimo di Montserrat dal vescovo di Bosa, Giovanni Saguini, di restituzione di tre manoscritti da lui prestati a Niccolò V. Se il testimone unico di M2 „… è frutto di un lavoro piuttosto rigoroso“ (p. 49), altrettanto lo è la lunga ricerca, ardua e complessa, che offre oggi un solido disegno dell’istituzione avviata a Roma alla metà degli anni cinquanta del Quattrocento, subito intensamente innovativa per l’abbondanza di manoscritti greci, a cui gli umanisti attinsero per conoscere sempre meglio il mondo e la cultura ellenica e bizantina.+TABRE+Mariarosa Cortesi
Maffeo Vallaresso, Epistolario (1450–1471) e gli altri documenti trasmessi dal codice vaticano Barberiniano latino 1809, edizione critica a cura di Matteo Melchiorre/Matteo Venier, Ljubljana (Ljubljana University Press) 2021, 793 S., ISBN 978-961-06-0536-2, € 45.
Mit der Veröffentlichung legen Matteo Melchiorre und Matteo Venier eine Gesamtedition der Briefsammlung des venezianischen Adeligen und Prälaten Maffeo Vallaresso (1415–1494) vor, die zusammen mit anderen Dokumenten aus dem Besitz Vallaressos als Autograph im Barb. lat. 1809 vorliegt und bisher nur in einer Teiledition von Luka Jelić von 1898 verfügbar war. Damit ist eine Quelle ediert, die für die Geschichte des venezianischen Humanismus, Dalmatiens, des Verhältnisses von Klerus und Regierung in der Republik Venedig sowie für die Geschichte der Kurie des venezianischen Papstes Paul II. (Pietro Barbo), dem Patron Vallaressos, von allergrößter Bedeutung ist. Die Veröffentlichung hat drei Teile: Die Einleitung bietet eine Biographie Vallaressos (Matteo Melchiorre), eine stilistische Analyse des Epistolars (Matteo Venier) und eine kodikologische Beschreibung des Überlieferungszeugen (Marco Cursi). Der zweite Teil der Arbeit (Matteo Melchiorre und Matteo Venier) enthält eine vollständige Edition der Briefsammlung Vallaressos und der im Überlieferungszeugen ebenfalls enthaltenen Briefe anderer Autoren. Der dritte Teil (von denselben) besteht aus den nicht-epistolaren Texten, die im Barb. lat. 1809 mitüberliefert sind. Im Folgenden werden einige wenige der vielen Ergebnisse dieser – das sei vorausgeschickt – handwerklich äußerst sauberen, reichhaltigen und monumentalen Edition gebündelt dargestellt. Die Briefsammlung besteht aus 499 von Vallaresso versandten und empfangenen Briefe aus den Jahren 1450–1471. Der Barb. lat. 1809 enthält außerdem neben Vallaressos Briefen etliche Missiven anderer Autoren, beispielsweise jene seines Onkels Fantin Vallaresso, des Erzbischofs von Kreta, sowie zahlreiche nicht-epistolare Dokumente. Vallaressos Epistolar gehört damit zu den vier großen Briefsammlungen des venezianischen Quattrocento, für die alle kennzeichnend ist, dass die Autoren hochrangige Amtsträger waren, in deren Briefen literarischer Anspruch und politische, in der Regel persönliche Darstellungsziele zusammenwirken. Während die Autoren der drei anderen Briefsammlungen – Leonardo und Bernardo Giustinian, Francesco Barbaro, Ludovico Foscarini – führende Mitglieder der weltlichen Regierung waren, handelt es sich allerdings bei Maffeo Vallaresso um einen Prälaten, der als Erzbischof von Zadar ab 1450 relativ konstant in Dalmatien lebte und ein Klient des venezianischen Kardinals Pietro Barbo war, also des späteren Papstes Paul II. Daher spielte Vallaresso eine Rolle in der familia dieses Kardinals bzw. Papstes. Jedoch hatte Vallaresso, wie die Biographie erstmals gründlich nachweist, auch Verbindungen zu äußerst hochrangigen weltlichen Politikern aus Venedig mittels seiner Verwandtschaftsbeziehungen zu Admiral Alvise Loredan, dem schärfsten Rivalen des Dogen Francesco Foscari, und dadurch indirekt zum spiritus rector des venezianischen Humanismus, Francesco Barbaro. Mit seinen Briefen suchte Vallaresso sehr oft justizielle, ökonomische und berufliche Angelegenheiten für seine Verwandten sowie für seine dalmatinischen Klienten in Venedig und Rom voranzubringen. Er wandte sich dazu an die Verwandten, Klienten und strebte danach, die Gunst seiner eigenen Patrone – meist Kardinal Barbo bzw. Papst Paul II. – mit unterschiedlichen Mitteln wie beispielsweise Luxus- und Fischgeschenken sowie einer rhetorischen Gestaltung der Briefe zu erlangen und zu halten, die den stilistischen Ansprüchen des Humanismus gerecht werden sollte. Dementsprechend arbeiten die Briefe nicht nur mit Zitaten aus der Bibel, Bibelkommentaren, scholastischen und kanonischen Texten, sondern auch aus Valerius Maximus, Juvenal, Horaz, Plautus und Vergil, die in der Einleitung der Edition sorgfältig herausgearbeitet und in der Edition selbst umfassend nachgewiesen werden. Ferner zeigen die zahlreichen Marginalien und Randzeichnungen im Barb. lat. 1809, zu denen nun erstmals eine Analyse vorliegt, dass Vallaresso die Briefsammlung für andere systematisch lesbar machen wollte. Die Editoren haben sich dazu entschieden, die im Autograph überlieferte Ordnung der Einzelbriefe zugunsten einer chronologischen Ordnung aufzulösen. Die neue Ordnung hat den praktischen Vorteil, dass zeitliche Zusammenhänge nun viel besser nachvollziehbar sind als bei der Lektüre der Hs. Auf andere Gliederungskriterien, die Vallaresso im Barb. lat. 1809 zugrunde gelegt haben könnte, wird in der Einleitung ausreichend hingewiesen. Aus den angeführten Gründen, wegen der ungeheuren Arbeit, die in einer solchen Edition steckt, und vor dem Hintergrund, dass das Umfeld Papst Pauls II. bis auf Ausnahmen aktuell relativ gering erforscht ist, handelt es sich um eine Leistung der Grundlagenforschung, die gar nicht hoch genug eingeschätzt werden kann.+TABRE+Leonard Horsch
Thomas Woelki/Johannes Helmrath (Hg.), Landesherrschaft und Kirchenreform im 15. Jahrhundert. Studien zum zweiten Band der Acta Cusana, Hamburg (Felix Meiner Verlag) 2023 (Beihefte zu den Acta Cusana 1), 510 pp., ISBN 978-3-7873-4323-2, € 148.
Al ricco contenuto del secondo vol. degli „Acta Cusana“ (2020) sono dedicati i sedici contributi di questa stampa che dà inizio a una nuova serie „Supplemento“, raccolti e raggruppati in sezioni: quelli della prima e della seconda ruotano attorno al periodo in cui Cusano fu vescovo di Bressanone, anche se raramente presente in diocesi (1452–1458), e toccano i temi della riforma della chiesa e del rinnovamento spirituale (I), quindi dei vescovi e dei rapporti con il governo territoriale (II). Apre la serie l’ampio, corposo e ben strutturato intervento di Enno Bünz, Pastorale Visionen und die Kirchen vor Ort. Nikolaus von Kues, die Pfarreien und die Seelsorger im Bistum Brixen, pp. 15–71, sulle cure pastorali e su tutte quelle attività proprie di un episcopato, dai benefici, alle riunioni del clero, alle visite alle parrocchie, alla concessione delle indulgenze e ai rapporti con i laici e con le congregazioni, non sempre felici, anzi a volte fallimentari. Come critiche furono le relazioni con Verena von Stuben badessa del monastero benedettino di Sonnenburg (Isabelle Mandrella, Nicolaus Cusanus und Verena von Stuben. Neue Einsichten in ein spannungsreiches Verhältnis, pp. 113–134). Un rinnovamento pastorale quello tentato da Cusano che passa attraverso la predicazione, di cui i sermoni sono una concreta e rilevante testimonianza (Walter Andreas Euler, Die Acta Cusana und die Brixener Predigten des Nikolaus von Kues [mit einem sprachwissenschaftlichen Anhang von Nikolaus Ruge], pp. 89–112). Thomas Horst, Das Bistum Brixen unter Bischof Ulrich Putsch, 1427–1437. Ständiges Ringen mit den Grafen von Tirol im Vergleich zu Cusanus, pp. 137–169, richiama l’attenzione sulla condizione della diocesi di Bressanone durante il governo del vescovo Ulrich Putsch e sui rapporti conflittuali con i conti del Tirolo, arricchendo la sua trattazione con una appendice di documenti, selezionati, relativi alla figura del vescovo. Su fonti epistolari si fonda la relazione di Emanuele Curzel, Nicolò Cusano vescovo di Bressanone, 1450–1464, e Georg Hack vescovo di Trento, 1446–1465, pp. 171–184, per raccontare sia le differenze biografiche tra i due, sia le scelte compiute negli anni di governo e, grazie alle notizie registrate negli „Acta“, precisare i frequenti e stretti rapporti intercorsi. Ancora la ricchezza dei dati forniti dallo strumento al centro di questi contributi permette a Tobias Daniels, Die Acta Cusana als Quelle für das Verhältnis von Kurie und Region in den Brixner Jahren. Mit Notizen zu Heinrich Collis und dem Straßburger Mendikantenstreit, pp. 185–222, di precisare la vicinanza e l’importanza del vescovo Nicolò nella Curia; a Erika Kustatscher, Mikropolitische Aspekte der Herrschaft des Nikolaus von Kues als geistlicher und weltlicher Fürst in Brixen, pp. 223–246, di ricavare su una base statistica l’effettiva incidenza del suo potere nelle numerose vertenze e controversie disseminate durante l’episcopato. Thomas Woelki, Ein Schuman-Plan avant la lettre? Die Vorschläge des Nikolaus von Kues zu einer integrativen Tiroler Landesherrschaft, 1457, pp. 247–271, e Werner Maleczek, Nikolaus von Kues als reisender Bischof von Brixen. Innerhalb und außerhalb seiner Diözese, pp. 273–300, propongono il Cusano viaggiatore straordinariamente impegnato in una pastorale frenetica dentro e fuori dalla sua diocesi, spinto dalla volontà di riforma e anche dal desiderio di garantire una sicurezza politica al vescovado contro il sovrano asburgico. Alla terza sezione („Kommunikative Praxis und Bildungshorizonte“) appartengono articoli di varia natura, dal contributo di Johannes Helmrath su un fatto/finzione che procurò al prelato notevole apprensione e inquietudine („Nikolaus von Kues und die ‚Wiltener Affäre‘ Juni 1457. Ängste – Gerüchte – Wahrheiten“, pp. 303–336), a Clémence Revest, Johann Röttel et l’humanisme italien: autour d’un manuscrit de la bibliothèque épiscopale de Brixen, pp. 337–358, che cerca di dare voce al predecessore di Cusano (1444–1450) quasi totalmente dimenticato dalla storiografia, mentre Felix Melching, Vom Duzen und Ihrzen in den Briefen des Nikolaus von Kues, pp. 359–370, è attento alle forme di comunicazione attraverso l’esame dello scambio epistolare di Cusano con altri eminenti intellettuali. Un lungo excursus sulla raccolta libraria cusaniana, non solo circoscritta a Bressanone, è quello offerto da Marco Brösch, Der Bischof und seine Bücher. Studien zur Brixner Bibliothek des Nikolaus von Kues, pp. 371–423, mentre Giovanna Murano presenta l’interessante testimone della Collectio Toletana, ricondotto alla biblioteca di Niccolò V con postille di Cusano e poche note di Pico („Niccolò da Cusa, Giovanni Pico della Mirandola ed il ms. Vat. lat. 4071“, pp. 425–435). Chiude il vol. la rassegna di letteratura popolare sul cardinale proposto da Hans Gerhard Senger, Nikolaus von Kues in der belletristischen Literatur. Die Brixener Jahre, pp. 437–478, seguita dai sempre utili indici.+TABRE+Mariarosa Cortesi
Jasmin Hauck, Ehen mit Hindernissen. Verwandtschaft, Recht und genealogisches Erinnern im Florenz der Renaissance, Tübingen (Mohr Siebeck Verlag) 2022 (Spätmittelalter, Humanismus, Reformation/Studies in the Late Middle Ages, Humanism, and the Reformation 133), XX, 703 S., ISBN 978-3-16-161780-5, € 159.
Die Arbeit stellt eine leicht überarbeitete Fassung einer Promotion des Jahres 2019 an der Katholischen Universität Eichstätt-Ingolstadt sowie der Università Roma Tre dar. Sie widmet sich der Ehegerichtsbarkeit in der Erzdiözese Florenz. Damit hat sie ein äußerst fruchtbares Feld aufgetan, nicht nur aufgrund der schon bestehenden Forschungsliteratur zur Ehegerichtsbarkeit in den Pönitentiariequellen (Ludwig Schmugge) und in Florenz (Christiane Klapisch-Zuber, Anthony Molho, Thomas Kuehn), sondern auch aufgrund der Datenmasse: Zu ihrem Gegenstand hat die Autorin aus dem Zeitraum von ca. 1455 bis 1540 eine beeindruckende Menge an Quellen aus dem Archiv der Apostolischen Pönitentiarie (Dispense), aus dem erzbischöflichen Archiv (Dispense und Gerichtsakten) und dem Staatsarchiv Florenz (Notariatsimbreviaturen) zusammengetragen, die in einem umfangreichen Anhang mit lateinisch- und italienischsprachigen Regesten und Editionen in großer Anzahl veröffentlicht werden. Die Arbeit ist nicht nur eine Studie zu Florenz und Rom in diesem Zeitraum, sondern auch eine präzise Abhandlung zu vielfältigen kirchenrechtlichen Problematiken (wie Verwandtschaft und Ehebruch), Dispensrecht, praktischen und überlieferungstechnischen Aspekten der Ehegerichtsbarkeit in der Vormoderne (u. a. zum Zeugenbeweis), die in Kap. 2 bis 5 sachkundig vorstellt werden. Die insgesamt 568 Ehedispense (518 von ihnen aus der Pönitentiarie – 36 lokal überliefert!) werden zunächst in ihrer Relevanz für Netzwerkbildung, Ehre, Aussteuerzahlungen ausgewertet und mit den bisherigen Befunden zu anderen europäischen Fallstudien verglichen – u. a. kommt die besonders nahe Familienheirat heraus – (Kap. 6), dann wird das Verhältnis von Gerichten in Florenz und Rom u. a. im Hinblick auf die Kompositionszahlungen eruiert (ein Fall lässt hier gar einen Briefwechsel Michelangelos in einem neuen Licht erscheinen, S. 260 f.) (Kap. 7). Ein weiterer Aspekt betrifft das Auftreten vor Gericht, persönlich, durch Prokuratoren oder Zeugen – bei letzterem Punkt ist besonders die Auswertung der sog. „genealogischen Zeugen“ für Arbeitsverhältnisse, Geschlechter- und Altersstrukturen hervorzuheben (Kap. 8). Auch sind den Prozessakten kleinere Familiengenealogien im Rahmen von Arbores consanguinitatis zu entnehmen, die vor allem aus dem 16. Jh. vorliegen (Kap. 9). Die Schlussbetrachtung liefert ein starkes Plädoyer dafür, dass auf diesem Feld im europäischen Bereich große Aktenbestände für ähnliche Untersuchungen zur Verfügung stehen, welche Rom und die Regionen in eine vergleichende Untersuchung bringen können. Die minutiös recherchierte, vorbildlich erarbeitete Studie zeigt die bekannte Nähe von Florenz und Rom nochmals beeindruckend auf, die Verfahren in Windeseile zu einem Abschluss bringen konnte. Die Arbeit lässt in ihrem analytischen Teil ein deutlich ausgeprägtes rechtsgeschichtliches, prozess- und verfahrensrechtliches Interesse erkennen. Es sei indes nachdrücklich darauf hingewiesen, dass der für sich allein genommen schon knapp 230 Seiten zählende Regesten- und Editionsteil eine wahre Fundgrube darstellt, vor deren Hintergrund mancher Aspekt der Florentiner Geschichte vertieft oder neu interpretiert werden kann, nicht nur angesichts der Masse der hier erscheinenden Familiennamen und -verbindungen. Wenn man etwa davon liest, dass im Juni 1474 ein Salviati und eine Pazzi verheiratet werden, und dies durch päpstliche Dispens legitimiert wird (A87, S. 420 f. und C1, S. 541), ist zu bedenken, dass diese beiden Familien zu jener Zeit die Verschwörung gegen die Medici vorantrieben; bemerkenswert ist auch, dass im Falle der bedeutenden Heirat zwischen Piero di Lorenzo deʼ Medici und Alfonsina Orsini, deren Vertrag mit exorbitanter Mitgift durch Florentiner Gesandte vorbereitet und am 25. Februar 1487 in Neapel geschlossen wurde (nach Pieros Tod wohnte Alfonsina im heutigen Palazzo Madama), schon am 16. Dezember des Vorjahres eine in Neapel ausgestellte Dispens die Verbindung absicherte (A155, S. 439). Die Gebrüder de Besalù, die eine „Doppel-Dispens“ für Ehen mit zwei Töchtern eines magister secretus camere regie Sicilie erhielten, waren als katalanische Kaufmänner eine wichtige Verbindung der Medici in das Königreich Neapel und als solche spezielle Protegés Lorenzos, dessen Bank denn auch die Aussteuer überwies (A170, S. 443, weiterführend Lorenz Böninger, Politics, Trade and Toleration in Renaissance Florence. Lorenzo deʼ Medici and the Besalú Brothers, in: Villa I Tatti 9 [2001], S. 139–172, hier S. 156); die Heirat mit Maddalena Salviati – einer „figura chiave della repubblica post-savonaroliana“ (Francesca Klein, Strozzi, Matteo, in: DBI, Bd. 94, Roma 2019, S. 435–438, hier S. 435) –, für die ebenfalls Dispens erlangt wurde (A246, S. 465), ermöglichte Matteo Strozzi einen Gutteil seiner Laufbahn; auch römische Verbindungen werden immer wieder deutlich, beispielsweise in der Ehedispens für Luigi Rucellai und der Dianora della Casa (A386, S. 502), aus deren Verbindung Orazio und Kardinal Annibale Rucellai hervorgingen, die von dem bekannten Gelehrten Giovanni della Casa erzogen wurden. Die wenigen Beispiele zeigen die Bedeutung des Materials, für dessen Erschließung in seiner ganzen Fülle die Forschung Jasmin Hauck nur dankbar sein kann.+TABRE+Tobias Daniels
Ciro Giacomelli (a cura di), Aristotelis Libellus de admirandis in natura auditis Antonio Beccaria interprete, Firenze (SISMEL. Edizioni del Galluzzo) 2022 (Il ritorno dei Classici nell’Umanesimo. 3. Edizione nazionale delle traduzioni dei testi greci in età umanistica e rinascimentale 13), VIII, 206 S., Abb., ISBN 978-88-9290-213-8, € 44.
Die einschlägige Reihe „Edizione nazionale delle traduzioni dei testi greci in età umanistica e rinascimentale“ (vgl. dazu die Rez. zu Bd. 11 in: QFIAB 102 [2022], S. 689 f.) wurde in rascher Folge fortgesetzt. Der vorliegende 13. Bd. präsentiert den pseudo-aristotelischen Text „De mirabilibus auscultationibus“, der freilich schon seit dem 2. nachchristlichen Jh. dem Aristoteles zugeschrieben wurde, in der Übersetzung des Veroneser Humanisten Antonio Beccaria (ca. 1400–1474). Der Hg. präsentiert den bekannten Humanisten, der allerdings nicht zu den absoluten Protagonisten zählte, in einem ausführlichen Einleitungskap. (S. 3–9): Beccaria war nach dem Studium bei Vittorino da Feltre in Mantua zunächst einige Jahre im Umfeld des päpstlichen Hofes tätig. Auf Vermittlung des päpstlichen Nuntius Pietro Del Monte zog er wohl Ende 1438 nach England und fand Aufnahme im Literatenkreis von Humphrey, Duke of Gloucester. Nach dessen Verhaftung und Tod (1447) war er wohl in Frankreich, dem Monferrato und in Mantua tätig, bevor er in den frühen 50er Jahren unter dem humanistischen Bischof Ermolao Barbaro senior wieder in seine Heimatstadt Verona zurückkehrte, wo er sich verstärkt literarischen Übersetzungstätigkeiten widmete und bis zu seinem Tod blieb. Auch wenn die Übersetzung von „De mirabilibus auscultationibus“ nicht eindeutig datiert werden kann, ist die Datierung von Giacomelli auf den Zeitraum zwischen 1455 und 1465, basierend auf der Interpretation des titulus der einzigen überlieferten Hs. der Übersetzung (Firenze, Riccardiano 932), sehr überzeugend (S. 16–25, bes. S. 18). Die Aufnahme der Übersetzung in die Inkunabel mit gesammelten Aristoteles-Übersetzungen (Prepositiones ex omnibus Aristotelis libris philosophie, Venetiis, per Ioannem et Gregorium de Gregoriis, 1493) machte das Werk weiteren Kreisen bekannt, wobei insbesondere die Passagen zu phönizischen Entdeckungen im Atlantik eine rege Rezeption erfuhren. Die weiteren Kap. der Einleitung widmen sich der griechischen Vorlage (S. 25–34) und der Übersetzungstechnik Beccarias (S. 34–53): Bei seiner Übersetzung könnte Beccaria direkt auf die Hs. Marc. gr. IV 58 (Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana) zurückgegriffen haben, natürlich ist aber auch die Nutzung einer (verlorenen) Abschrift dieses Textzeugen möglich, seine Übersetzungstechnik ähnelt mehr einer interpretativen Paraphrase (vor allem in linguistischer und rhetorischer Hinsicht) als einer Wort-für-Wort-Übertragung. Durch ausgewählte Beispiele kann der Hg. zeigen, wie sich Beccaria bei dem schwierigen griechischen Text, der auch in aktuellen Ausgaben durch zahlreiche hapaxlegomena und cruces gekennzeichnet ist, zwischen einer (seltenen) emendatio und der (häufigeren) „Hilfskonstruktion“ der Übernahme unklarer griechischer Wörter in seinen lateinischen Text bewegte. Sprachlich sind, im Unterschied zu zeitlich späteren Humanisten ersten Ranges, zahlreiche spätmittelalterliche Formen nachweisbar: „… ancora pieno di incrostazioni medioevali …“ (S. 53). Das folgende umfangreiche Kap. „Nota al testo“ (S. 57–84) stellt die Überlieferungslage, die Abhängigkeitsverhältnisse und die Editionskriterien vor. Wie üblich wird der Übersetzungstext selbst (S. 85–143) entsprechend der Notwendigkeit einer doppelten Textkonstituierung von einem umfangreichen textkritischen Apparat begleitet, der wichtige Einblicke in die Entstehung und Überlieferung der Übersetzung bietet. Zusätzliche Informationen zur frühhumanistischen Übersetzungspraxis liefert der nützliche Anhang „Leonzio Pilato traduttore del De mirabilibus“ (S. 155–167). Wohl bereits 1360 fertigte Leontius Pilatus im Auftrag Boccaccios eine Übersetzung von „De mirabilibus auscultationibus“ an, möglicherweise – wie auch seine weiteren Übersetzungen – in der Form eines interlinearen lateinischen Textes verbum ad verbum, der nach zeitgenössischen Berichten dann von Boccaccio stilistisch überarbeitet wurde. Leider ist diese Übersetzung, die bis ins beginnende 16. Jh. benutzt wurde, nicht mehr erhalten. Durch die detaillierte Zusammenstellung zahlreicher Testimonien in Boccaccios „Genealogia deorum gentilium“ und „De montibus“ sowie Domenico Silvestris „De insulis et earum proprietatibus“ bietet der Hg. wichtige Einblicke in die Rezeption der Übersetzung des Leontius. Eine umfangreiche Bibliographie (S. 169–184) und mehrere Indizes runden die Veröffentlichung ab. Zweifelsohne richtet sich diese gelungene Studie in erster Linie an Philologinnen und Philologen sowie an Übersetzungswissenschaftlerinnen und -wissenschaftler. Darüber hinaus kann aber die Renaissance-Forschung großen Gewinn ziehen: Ohne den Kulturtransfer der Übersetzer wäre die kulturelle Entwicklung dieser Epoche nicht möglich gewesen.+TABRE+Thomas Hofmann
Giovanna Casagrande/Maria Luisa Cianini Pierotti/Amilcare Conti/Pierantonio Piatti (a cura di), La santa delle due città. Colomba tra Rieti e Perugia nel contesto europeo, Città del Vaticano (Libreria Editrice Vaticana) 2022 (Atti e documenti. Pontificio comitato scienze storiche 62), 2 Bde., 1544 S., ISBN 978-88-266-0736-8, € 120.
Die Dominikanerterziarin und Mystikerin Colomba von Rieti (1467–1501) gehört zu denjenigen mystisch „begabten“ Frauen, die im späten Mittelalter als „sante vive“ hoch angesehen waren und großen Einfluss ausübten. Geboren wurde sie als Angela Guadagnoli, und ihre soziale Herkunft hätte eher eine bescheidene Zukunft als Ehefrau und Mutter erwarten lassen. Sie war knapp über 20 Jahre alt, als sie in Perugia einen Kreis gleichgesinnter Gefährtinnen um sich scharte, um mit ihnen ein Leben im Geiste Katharinas von Siena zu führen. Der strenge Lebenszuschnitt und die Ernsthaftigkeit ihrer Absichten beeindruckten. Durch Visionen und mystische Ekstasen machte sie von sich reden. Im Alter von nur 34 Jahren starb sie. Ihre Seligsprechung durch Urban VIII. erfolgte 1625. Vorliegende Aufsatzsammlung umfasst in zwei schwergewichtigen Bde. 31 Beiträge, die vier Themenschwerpunkten zugeordnet werden: I. Storia; II. Agiografia; III. Culto; IV. Iconografia. Inhaltliche Überschneidungen kommen dabei häufiger vor, sind insgesamt aber verschmerzbar. Alle Artikel bewegen sich auf hohem Niveau, spiegeln den aktuellen Stand der Forschungen wider und bilden in toto eine Art Summe all dessen, was über Colomba und die Welt, in der sie sich bewegte, bekannt ist. Bemerkenswert ist die Fülle an bisher unbekanntem, hier zum ersten Mal zum Abdruck gelangtem Quellenmaterial. Einiges sei explizit herausgegriffen. In vielen Beiträgen taucht ein Name neben demjenigen Colombas mit steter Regelmäßigkeit auf: derjenige des Dominikaners Sebastiano Angeli (1447–1521), der von 1494–1497 als Beichtvater Colombas, später bis zu ihren letzten Lebensmonaten als geistlicher Berater fungierte. Nach ihrem Ableben am Himmelfahrtstag 1501 verfasste er eine lateinische Vita, die er in den Jahren zwischen 1507–1521 in die Volkssprache übersetzte. Colomba wird darin – ihrem großen Vorbild Katharina von Siena folgend – zur sequela Christi. Laura Andreani bietet Prolegomena zu der kurz vor dem Druck stehenden kritischen Edition der „Legenda beate Columbe de Reate“ („La tradizione manoscritta della Legenda beate Columbe“, S. 247–275), während Alessandra Bartolomei Romagnoli diese „Legenda“ in das große Ganze der hagiographischen Produktion in Mittelitalien einordnet („La ‚Legenda‘ della Beata Colomba al crepuscolo dell’agiografia medievale“, S. 277–307). Ein abgeschottetes Leben hinter den Mauern der Klausur war die Sache Colombas nicht. Sie verteidigte ihr Konzept eines „offenen Klosters“, für das ein soziales Engagement conditio sine qua non war. In ihrer Auffassung von einem gelungenen geweihten Leben stand nicht mehr die fuga mundi, sondern eine Art fuga in medio mundi im Vordergrund. Giovanna Casagrande und Maria Luisa Cianni Pierotti sagen das dazu Nötige („Vita attiva e vita contemplativa nell’esperienza religiosa di Colomba da Rieti“, S. 309–344). Es ging dabei nicht nur um die Sorge für die Armen und Kranken, sondern auch um die Vermittlung zwischen verfeindeten Gruppen innerhalb der Stadt. Im Falle Perugias waren das die einflussreichen Familien der Michelotti und Baglioni, deren Konkurrenz das politische Gefüge häufiger großen Belastungen aussetzte. Maria Grazia Nico und Stefania Zucchini widmen sich diesem Aspekt („La chiesa perugina nel Quattrocento“, S. 3–28). Dem Verhältnis von Dominikanerobservanz und Tertiarinnenexistenz spüren gleich mehrere Beiträge nach. Während es Isabella Gagliardi wichtig ist, in diesem Zusammenhang die autonome Stellung der Frauen zu betonen („I domenicani dell’Osservanza, le suore e le terziarie“, S. 29–45), beschreibt Francesca Guiducci die „spartiacque per il movimento femminile domenicano delle nuove Caterine“ (S. 51), die mit dem Eintreffen Colombas in Perugia 1488 einsetzte („Le domenicane a Perugia“, S. 47–53). Bereits in ihrer ersten Station in Rieti, wo sich Colomba gegen den Willen ihrer Eltern drei Jahre zuvor für eine (semi-)monastische Existenz entschieden hatte, hinterließ sie deutliche Spuren, von denen Ileana Tozzi berichtet („La beata Colomba e il monastero reatino delle domenicane di Sant’Agnese“, S. 55–99). Colombas Kloster in Perugia florierte, was nicht zuletzt auch einigen Frauen aus der städtischen Führungsschicht zu verdanken ist, die sich zum Eintritt entschlossen. Finanzielle Zuwendungen der „großen“ Familien ließen Bauprojekte großen Zuschnitts möglich werden. Ohne das Charisma der spiritus rectrix wäre diese Erfolgsgeschichte aber nicht möglich gewesen. Aspekten dieses Charismas spürt Isabella Farinelli nach (S. 139–244), die dazu die Aussagen im Zuge des Kanonisationsverfahrens auswertet und eine „Visione dela beata Columba“ abdruckt, deren einzig erhalten gebliebenes Exemplar (ohne Angabe von Autor, Druckort oder -jahr) sich heute in Sevilla im Bestand der Biblioteca Colombina befindet (S. 176–178). Der Kultpromotion widmen sich einige weitere Beiträge. Erstaunlich ist dabei die bedeutende Rolle, die Colomba in den Schriften des Heinrich Institoris (Kramer) einnimmt. Tamar Herzig analysiert Kramers Bewertung der mystischen Erfahrungen Colombas in den in Olmütz 1501–1502 veröffentlichten Werken (S. 365–385), während Maria Luisa Cianini Pierotto Aspekten der Kultpromotion vor allem in Perugia nachspürt (S. 515–550) und Paolo Renzi den Blick in Richtung Gesamteuropa weitet (S. 707–788). Kein Kult ohne Heiltum. Mit den Reliquien Colombas befasst sich Sonia Merli (S. 551–663), mit ihrem Wunderwirken post mortem Mauro Papalini (S. 665–706). Aus weiteren Beiträgen, etwa demjenigen von Giuseppe Chiaretti (S. 1039–1056) wird deutlich, wie stark der Kult Colombas auch gegenwärtig noch in Mittelitalien verankert ist. Kein Kult ohne ikonographisches Programm. Allein sieben Beiträge spüren einzelnen Aspekten der ausdifferenzierten Colomba-Ikonographie nach. Eine Fülle umfangreicher und sorgfältig gearbeiteter Indizes (leider ohne einen index rerum) erschließt einen ebenso sorgfältig lektorierten Bd., der sicherlich wegweisend auch in der Behandlung weiterer sante vive sein wird. Das Pontificio comitato di scienze storiche ist zu der Entscheidung zu beglückwünschen, dieses Werk in seiner eigenen Publikationsreihe aufzunehmen. Seinen Wert wird es auf lange Sicht hin behalten.+TABRE+Ralf Lützelschwab
Lo statuto del Comune di Roma del 1469 emanato da papa Paolo II, traduzione degli Statuta Urbis dall’incunabolo di Ulrich Han (Roma, post 1470 – ante 1474), saggi introduttivi di Mario Ascheri et al., a cura di Anna Modigliani/Sandro Notari, traduzione di Silvano Stanzione, Roma (Roma nel Rinascimento) 2023 (RR inedita 103, saggi), XVI, 413 S. + 1 CD-ROM, ISBN 978-88-85800-30-4, € 60.
Der aus dem venezianischen Adel stammende Paul II. Barbo (1467–1471) galt unter seinen römischen Untertanen als dem Popolo Romano besonders zugetan, war er es doch, der seine prächtige Kardinalsresidenz zu Füßen des Kapitols als Papst beibehielt und den römischen Karneval mit höfischem Glanz bereicherte. Weniger bekannt ist, dass der Pontifex 1469 die Statuten der Tiberstadt revidieren ließ. Herauskam allerdings ein Text, der weitgehend der Version der Stadtstatuten von 1360–1363 folgte, worauf gleich einzugehen sein wird. Im Zuge des in den letzten Jahren in Italien gestiegenen Interesses an den kommunalen Statuten, haben Anna Modigliani und Sandro Notari eine italienische Übersetzung des Textes von 1469 herausgebracht. Diese stützt sich auf den lateinischen Text des leider mitunter fehlerhaften Erstdrucks (gemäß der Inkunabel 22, der Sektion „Statuti“ der Biblioteca del Senato della Repubblica). Es gibt auch keine kritische Edition, auf die die Übersetzung hätte aufbauen können. Die daraus resultierenden gelegentlichen Imperfektionen schmälern aber das löbliche Unterfangen nicht, den auf weiten Strecken spröden Text einer breiteren Leserschaft zugänglich zu machen. Der von Silvano Stanzione verantworteten Übersetzung sind eine Einführung von Mario Ascheri in den historischen Kontext, eine Würdigung Pauls II. im Lichte der römischen Stadtgeschichte von Anna Modigliani, ein historisch-juristischer Überblick zu den Statuten von Sandro Notari, eine Analyse der Inkunabel und einer allerdings erst von 1486 stammenden korrekteren handschriftlichen Fassung der Statuten von 1469 (Archivio Storico Capitolino, cred. IV, t. 88) von Alessandro Pontecorvi sowie ein Vergleich der römischen Statuten von 1469 mit denen anderer Städte in Latium von Alessandro Dani vorangestellt. So gut vorbereitet erkennt man bei der Lektüre des Statutentextes die vielen Übernahmen aus dem 14. Jh., zumal, wenn von den milites vel cavallarocti und populares die Rede ist, die sich bekanntlich schon zur Zeit Cola di Rienzos von den Magnaten, sprich den großen Baronalfamilien wie Colonna, Orsini und Savelli, abgegrenzt haben. Die Änderungen von 1469 betrafen vor allem die Mechanismen für die Wahl zu den höchsten Ämtern, des Senators, des Stadtkämmerers sowie der drei Konservatoren der Camera Urbis, die nun direkt oder indirekt vom Papst kontrolliert wurden. Immerhin kann man feststellen, dass das Ende der kommunalen Autonomie nicht dazu führte, dass die kommunale von der päpstlichen Gerichtsbarkeit absorbiert wurde. Formell ließ Paul II. die Statuten noch von den Bürgervertretungen approbieren und garantierte den Römern auch die Rechenschaftsprüfung der ausscheidenden Senatoren und deren auf Zeit berufenen Richter. So pittoresk das tägliche Leben aus den Statutentexten hervorzugehen scheint, so bleibt doch das methodische Problem, ob die weitgehend aus den Vorlagen des 14. Jh. geschöpften Normen überhaupt noch den Gegebenheiten des 15. Jh. entsprachen. Was die materielle Seite angeht, so ist die Inkunabel aus der Werkstatt des Ulrich Han hervorgegangen. Die um mehrere Zusätze normativen Inhalts angereicherte Manuskriptfassung von 1486 stammt von Oddo de Beka, einem Berufsschreiber, der sich selbst als „alamanus de Brabantia“ bezeichnete (S. 52). Die zwischen 1470 und 1474 hergestellte Inkunabel, die möglicherweise den ältesten Druck eines italienischen Statutentexts schlechthin darstellt (S. X), wäre gewiss die Zierde deutscher Handwerkskunst gewesen, wenn sie nicht schon den Zeitgenossen aufgrund ihrer vielen typographischen Fehler ein Ärgernis geworden wäre. Was die praktische Nutzung der Übersetzung angeht, ist es zu bedauern, dass der lateinische Vergleichstext nicht mitabgedruckt ist, was auch nicht durch die beigefügte CD-ROM ausgeglichen werden kann. Die Kommentierung fällt sehr sparsam aus. Bei vielen oft komplexen Sachverhalten sind die Leserinnen und Leser auf sich allein gestellt. Natürlich gibt es viel zu erfahren. So ist es interessant zu sehen, dass der eher auf eine repräsentative Rolle beschränkte Senator oft im Verein mit den drei Konservatoren erwähnt wird, die de facto den Senator an der Spitze der Ämterhierarchie abgelöst hatten, und deren vornehmste Rolle darin bestand, den Senator zu überwachen und nicht zu mächtig werden zu lassen. Bezüglich des Waffentragens ist es vielsagend, dass in den Statuten von 1363 40 soldi provisini für ein solches Vergehen vorgesehen waren, während in der Inkunabel die Strafe auf einen Dukaten festgesetzt ist: ein deutliches Zeichen für eine Verschärfung der Strafe unter dem ob der gestiegenen Gewaltbereitschaft in Rom besorgten Paul II. (S. 220, Anm. 128). Dass unter den Bestimmungen gegen die Magnaten mitunter noch Namen aus dem frühen Trecento tradiert wurden, erstaunt nach dem oben erwähnten langen Entstehungsprozess der Statuten nicht mehr (S. 266 f.). Aufgelockert wird die Lektüre mitunter mit Informationen wie diese, dass 1471 Sixtus IV. dem römischen Volk die allbekannte bronzene Wölfin, das Symbol der päpstlichen Gerichtsbarkeit, schenkte und sie vom Lateran auf das Kapitol bringen ließ: eine bedeutende Geste der symbolischen Unterwerfung der römischen Gemeinde unter das Papsttum (S. 231, Anm. 146). Die Zwillinge der kapitolinischen Wölfin wurden erst nachträglich hinzugefügt, in der Eingangsinitiale der Inkunabel sind sie schon über dem S. P. Q. R.-Stadtwappen zu sehen.+TABRE+Andreas Rehberg
Margaret Meserve, Papal Bull. Print, Politics, and Propaganda in Renaissance Rome, Baltimore (Johns Hopkins University Press) 2021 (Singleton Center Books in Premodern Europe), 456 S., Abb., ISBN 978-1-4214-4044-6, US$ 62.
Eine übergreifende Studie zur päpstlichen Nutzung des Buchdrucks in der Inkunabelzeit mochte bisher als Desiderat erscheinen. Meserve, Autorin u. a. einer Monographie zur humanistischen Konstruktion des Osmanenbildes in Europa und einer profunden Studie zur Verbreitung von Nachrichten im Buchdruck anlässlich der Eroberung von Negroponte (Euböa) durch die Türken (in: Renaissance Quarterly 59 [2006], S. 440–480), hat nun eine Monographie mit den Eckdaten 1470–1520 vorgelegt, die einen solchen Überblick verschafft. Gefragt wird nach den politischen, kirchlichen und kulturellen Nutzungen der neuen Technik durch eine erklärtermaßen „autokratische Institution“ (S. 12) und der Fokus wird explizit auf die produzierten Werke und ihre pragmatischen Kontexte gelegt (S. 19). Sie beginnt mit einer kurzen Charakterisierung Roms als öffentlichem Raum seit der Verschriftlichung der Statuten 1363 und gibt einen synthetischen Überblick über die Mechanismen der Veröffentlichung päpstlicher Bullen und ihrer Materialität, zu ritueller Kommunikation sowie Orten der Anbringung von Bullen in Rom und im Kirchenstaat (Kap. 1). Sodann werden mit Negroponte und den Ereignissen um die angebliche Ermordung des Simonino von Trient durch Juden zwei frühe Fälle von medial unterlegten Kampagnen vorgestellt (Kap. 2). Der Pontifikat Sixtusʼ IV. wird zu Recht als erster erkannt, in dem ein Papst die volle Durchschlagskraft der Presse zur Führung von „Federkriegen“ nutzen konnte und dabei sowohl Bullen als auch Pamphlete drucken ließ, die durch die jeweilige Gegenseite beantwortet wurden, sei es im Zuge der Pazzi-Krise oder im Ferrarakrieg und der damit verbundenen Krise des Papsttums um Andrija Jamometić in Basel (Kap. 3 und 4). Eher dem Bereich des Pilgerwesens und der stadtrömischen Liturgie sind Drucke der Veronica-Bilder zuzuordnen, die mit Holz- bzw. später mit Kupferschnitten versehen wurden, wobei die Entwicklung der bildlichen Darstellung deutlich gemacht wird (Kap. 5). Der Anreicherung der Heiligen Stadt Rom mit Reliquien oder Pseudo-Reliquien – etwa dem „Wahren Kreuz“, der „Heiligen Lanze“, dem „Kopf des hl. Andreas“ durch Pius II. (hierzu ein wichtiger Aufsatz von Achim Thomas Hack, Pius II. und der Empfang des heiligen Andreas 1462 in Rom [mit einem editorischen Anhang], in: Frühmittelalterliche Studien 48 [2015], S. 325–388) – und der Entstehung des Kultes um das Sanctuarium von Loreto mit seiner päpstlichen Patronage seit der zweiten Hälfte des 15. Jh. widmet sich Meserve ebenfalls, wobei die Drucker ein substantielles Geschäft nur in letzterem Fall witterten (Kap. 6). Ein Seitenblick wird auf gedruckte Obödienzreden in den Pontifikaten Innozenzʼ VIII. und Alexanders VI. geworfen (Kap. 7). Den Schlusspunkt der Darstellung bilden die (u. a. durch Silvana Seidel-Menchi, Christine Shaw und Massimo Rospocher analysierten) drastischen publizistischen Auseinandersetzungen des Julius II. in seinen oberitalienischen Kriegen, die auch den „Julius Exclusus“ hervorbrachten, und die Drucke, welche im Pontifikat Leos X. das Laterankonzil flankierten (Kap. 8). Schlussendlich konstatiert Meserve, der Buchdruck müsse den vielen medialen Äußerungen und Instrumentalisierungen des Papsttums als Kunstform zur Seite gestellt werden (S. 350). Wie erwähnt, handelt es sich bei dem Buch um eine Synthese. Die Spezialforschung wird in der Tat in dieser Monographie wenig Neues finden, doch alles in allem bietet sie eine schwungvolle Zusammenfassung, die auch durch ein „Germanica leguntur“ positiv hervorsticht (Kap. 4 etwa basiert fundamental auf den Forschungen von Jürgen Petersohn). Die Entscheidung, sich auf einige prominente Fälle der politischen und religiösen Kommunikation zu beschränken, bringt einige Vorteile mit sich, allerdings kommen dadurch andere Faktoren etwas kurz. So ist zu der technischen und ökonomischen Seite der Unternehmen kaum etwas zu erfahren: Wo kamen die Materialien her? Wo und wie wurden sie verfertigt, verkauft, zu welchen Preisen? Wer in Rom besaß welche Drucke? Wer rezipierte außerhalb Roms die Drucke (es gibt mehrere Exemplare gedruckter päpstlicher Bullen, die Marginalien aufweisen)? Überhaupt muss gesagt werden, dass am Papsthof durch die Päpste und viele weitere Akteure sehr viel mehr gedruckt wurde, als aus diesem Überblickswerk erkennbar wird. Gerade die Entscheidung, die Sozialgeschichte des Buchdrucks weitgehend auszuklammern, lässt einige für Rom charakteristische Aspekte leider etwas unterbelichtet, so etwa die Tatsache, dass die frühen Buchdrucker in Rom sehr oft durch päpstliche Pfründen versorgt, in römischen Bruderschaften Mitglieder und damit praktisch Hofleute waren, die sich an neuralgischen Punkten wie dem Campo deʼ Fiori geradezu tummelten, um zu verkaufen – was für ihre Produktion vor Einführung der päpstlichen Druckprivilegien selbstredend eine Bewandtnis hatte (hierzu besonders die Arbeiten von Arnold Esch). Dies sind alles Aspekte, die außerhalb des gewählten Zuschnitts liegen, doch aufs Ganze betrachtet hätten sie die Argumentation bereichert. Dennoch sei abschließend betont, dass es sich hier um eine gute englischsprachige Einführung handelt, die auch weitere Spezialforschungen anregen kann.+TABRE+Tobias Daniels
Marian Chachaj, Mikołaj Kopernik. Czasy studenckie. Kraków, Bolonia, Rzym, Padwa i Ferrara (1491–1503). Miejsca – ludzie – książki, Toruń (Wydawnictwo Naukowe Uniwersytetu Mikołaja Kopernika) 2023 (Nicolaus Copernicus), 310 S., Abb., ISBN 978-83-231-5006-0, zł 39.
Der 550. Jahrestag der Geburt von Nikolaus Kopernikus führte zu einer Flut von Veröffentlichungen. Dennoch waren seine Studien bisher nicht Gegenstand einer gesonderten Monografie. Die hier vorgelegte Arbeit versucht diese Lücke zu schließen. Sie ist Teil der Reihe „Nikolaus Kopernikus“, die von der Nikolaus-Kopernikus-Universität in Toruń herausgegeben wird, und zu der u. a. die englische Übersetzung des mittlerweile klassischen Werks von Ludwik Antoni Birkenmajer sowie die englische und deutsche Übersetzung des Buchs von Krzysztof Mikulski über das soziale Umfeld und die Jugend von Kopernikus gehören. Dank seiner langjährigen Beschäftigung mit Bildungsreisen in der Neuzeit konnte Chachaj einen Forschungsfragebogen erstellen und die von anderen Forscherinnen und Forschern vorgelegten Quellen und Argumente kritisch analysieren. Die Argumentation stützt sich auf drei Hauptelemente – Orte, Menschen und Bücher –, die den Kontext für die Ausbildung des Astronomen aus Toruń darstellen und es ermöglichen, die spärlichen Informationen aus offiziellen Quellen zu ergänzen. Bei dem Versuch, den Verlauf der Studien von Kopernikus zu rekonstruieren, mussten die Forscher auf Hypothesen und manchmal überinterpretierte Quellen zurückgreifen. Insbesondere die Zeit vor seiner Immatrikulation an der Universität Krakau ist Gegenstand zahlreicher Spekulationen gewesen. Zu den bekanntesten gehört die von Jeremy Wasiutyński aufgestellte Hypothese, dass ein Diener namens Nicholo, der von Kallimach in seinen Briefen aus den Jahren 1485–1488 erwähnt wird, mit Kopernikus gleichzusetzen sei. Chachaj erkannte, dass der Astronom seine erste Ausbildung an der Pfarrschule von Toruń erhalten haben könnte, und charakterisierte deren Bildungsprofil. Wie der Autor zeigt, erlauben die Quellen keine eindeutige Bestätigung der Hypothese über die Ausbildung an der Kathedralschule in Włocławek oder an der Schule der Brüder vom Gemeinsamen Leben in Chełmno. Anhand der Zahl der Toruner, die an bestimmten Universitäten studierten, oder des Prozentsatzes der Studenten, die in der zweiten Hälfte des 15. Jh. einen Abschluss an der Universität Krakau erwarben, hat Chachaj die Typizität der Bildungsentscheidungen von Kopernikus aufgezeigt. Im Falle der von ihm besuchten italienischen Universitäten in Bologna, Padua und Ferrara wurde die Gruppe der dort anwesenden Studenten aus Polen genauer charakterisiert. Bei dem Versuch, das Studienprogramm von Kopernikus zu rekonstruieren, war der Autor gezwungen, sich durch ein Dickicht von Hypothesen zu bewegen. Die handschriftlichen Notizen des Astronomen zu den Drucken, die Teil seiner Büchersammlung waren, erlauben nur eine teilweise Rekonstruktion des Verlaufs seiner Studien. Daher wird eine breitere Palette möglicher Dozenten von Kopernikus vorgestellt. Anhand von Profilen möglicher Kommilitonen von Kopernikus wies Chachaj darauf hin, dass es in Ermangelung eindeutiger Quellenberichte nicht möglich ist, allein aufgrund der Tatsache, dass sich eine Person zur gleichen Zeit in derselben Stadt aufhielt, mit Sicherheit auf die Zugehörigkeit zum Bekanntenkreis des berühmten Astronomen zu schließen. Nur in wenigen Fällen lassen die Quellen einen solchen Schluss zu, wie etwa im Fall der in Bologna für Erhard Truchsess von Wetzhausen ausgestellten Notariatsurkunde, bei der Nikolaus Kopernikus und sein Bruder als Zeugen auftraten. Ein besonders wertvoller Beitrag des Buches ist die Erörterung der umstrittensten Elemente im Zusammenhang mit Kopernikusʼ Studien, wie sein Aufenthalt in Rom im Jahr 1500, seine Studien in Padua und die Frage des Erwerbs des Grades des Magister Artium und des Doktors in Medizin. Bei der Analyse der verschiedenen Kopernikus-Biografien, die in der Neuzeit verfasst wurden (vier davon sind im Anhang enthalten), versuchte der Autor zu zeigen, wie bestimmte Erwähnungen zur Grundlage für immer weitergehende Behauptungen wurden. Die 1542 von Jerzy Joachim Retyk übermittelte Information, dass Kopernikus Zeuge astronomischer Beobachtungen gewesen sein soll, die Domenico Maria Novara um 1500 in Rom gemacht hatte, führte später zu der Meinung, dass Kopernikus an der Stadtuniversität La Sapienza Astronomie lehrte. Aufgrund mangelnder Quellenbelege stellt der Autor die von einigen Wissenschaftlern aufgestellte Hypothese in Frage, dass Kopernikus im Jahr 1500 an der Kurienuniversität unterrichtet habe. Obwohl alle von Chachaj verwendeten Quellen den Forschenden bereits bekannt waren, besteht das große Verdienst der vorliegenden Publikation darin, dass sie Ordnung in den bestehenden Forschungsstand bringt und neue Interpretationen präsentiert. Gleichzeitig werden Quellen genannt, die möglicherweise neue Informationen liefern könnten, wie etwa ein Manuskript (Biblioteca dell’Osservatorio astronomico di Roma, Manoscritti, III C 28) mit juristischen Begriffen, die vermutlich im Zusammenhang mit Kopernikusʼ Studien in Bologna stehen. Die Veröffentlichung ist beim genannten Verlag auch in englischer und deutscher Übersetzung beziehbar.+TABRE+Anna Horeczy
Frühe Neuzeit
Zeiten bezeichnen. Frühneuzeitliche Epochenbegriffe: europäische Geschichte und globale Gegenwart/Labelling Times. The „Early Modern“ – European Past and Global Now, hg. von Andreas Mahler/Cornel Zwierlein, Wiesbaden (Harrassowitz Verlag) 2023 (Wolfenbütteler Forschungen 177), 388 S., Abb., ISBN 978-3-447-12072-2, € 74.
Der vorliegende Sammelbd. dokumentiert die Gründungstagung des Wolfenbütteler Arbeitskreises Frühneuzeitforschung, der die schon lange bestehenden Arbeitskreise für Renaissance- und für Barockforschung zusammenführt. Aus diesem Anlass fragt der Bd. nach dem „Bezeichnen von Zeiten“, nach theoretischen und historischen Problemen der Periodisierung. Insgesamt, dies wird schnell deutlich, ist ein Bd. mit vielen interessanten Beiträgen entstanden, die aber inhaltlich in (zu) viele verschiedene Richtungen gehen. Denn der Bd. diskutiert Periodisierungsfragen in den verschiedenen Fächern, die sich mit der Epoche von ca. 1400 bis 1800 befassen – von der Geschichtswissenschaft über die Philologien bis zur Kunst- und Musikgeschichte (dass die theologische Kirchengeschichte hier fehlt, fällt auf). Gleichzeitig soll die globalgeschichtliche Erweiterung zu ihrem Recht kommen – es geht also auch um die Frage, ob und wie der Begriff der Frühen Neuzeit für außereuropäische Regionen sinnvoll benutzt werden kann. Metahistorisch wird diskutiert, was Periodisierung generell überhaupt soll, und welche Probleme sie stellt: Gibt es Epochen? Wenn Epochenbegriffe nur gedankliche Konstrukte sind, wie homogen müssen, dürfen, können sie sein? Und schließlich interessiert sich der Bd. für frühneuzeitliche Periodisierungsmodelle, beschäftigt sich also zum Beispiel mit der querelle des anciens et des modernes. Auch wenn die Hg. versuchen, all diese unterschiedlichen Denk- und Forschungsrichtungen aufeinander zu beziehen (indem die Frühe Neuzeit bestimmt wird als die Zeit, in der Modelle der Zeiteinteilung komplexer und selbstreflexiver wurden, weshalb sie sich für eine generelle Diskussion über Periodisierungsprobleme besonders anbietet), entsteht doch der Gesamteindruck großer Heterogenität. Man bekommt zwar einen guten Einblick in verschiedene, oft fachspezifische Periodisierungsdebatten und vieles mehr, aber das Gesamtkonzept des Bd. kann nicht ganz überzeugen. In diesem Sinne kann man ihn an die Seite zweier älterer Sammelbde. stellen, die mit ähnlichen Schwierigkeiten zu kämpfen hatten und über die der vorliegende Bd. nicht grundsätzlich hinausführt (gemeint sind die Beihefte 35 und 49 der Historischen Zeitschrift, „Eigene und fremde Frühe Neuzeiten. Genese und Geltung eines Epochenbegriffs“, hg. von Renate Dürr/Gisela Engel/Johannes Süßmann, München 2003, und „Die Frühe Neuzeit als Epoche“, hg. von Helmut Neuhaus, München 2009). Wenn ich im Folgenden bestimmte der Beiträge herausgreife, dann spiegelt das weniger ein inhaltliches Urteil als ein subjektives Interesse. Hilfreich, wenn auch kaum originell, ist Daniel Woolfs Überblick über Gründe und Wege des Periodisierens; Woolf kommt zu dem Schluss, dass der Akt des (oft auch themenspezifischen) Periodisierens unausweichlich ist, auch wenn damit die Epochendiskussion nie beendet sein kann. Einige der Beiträge zeigen in diesem Sinne auf, welche intellektuellen Operationen beim Geschäft des Periodisierens eigentlich gefragt sind (Andreas Mahler), dass Periodisierungen epistemologisch wie narrativ, heuristisch wie didaktisch hilfreich sind (Thomas Martin Buck) oder dass es sinnvoll sein kann, Epochen als in sich heterogen zu konzipieren, gerade mit Blick auf die je epochenspezifischen Bezugnahmen auf Vergangenheit und Zukunft (Achim Landwehr). Die Frühe Neuzeit erscheint in den Beiträgen als Epoche, in der der Zukunftshorizont sich öffnet (Stefan Willer); dies ist aber nicht nur Ausdruck eines programmatisch neuen Zeitverständnisses, sondern auch Effekt zum Beispiel einer seriellen Literatur (hier vorgeführt an Grimmelshausen). Die Frühe Neuzeit erscheint überdies als Zeit, in der zunehmend das Neue emphatisch bejaht wird (Florian Klaeger) und in der die Figur des „Zeitgenossen“ erstmals konzipiert wird (Susan Richter). Globalhistorisch wird eine lateinamerikanische Frühneuzeit vorgestellt, die gerade durch den globalen Kulturkontakt und seine Folgen entsteht, und zwar unter Mitwirkung europäischer wie indigener Akteure (Martin Gabriel). An der europäischen Diskussion über China zeigt Cornel Zwierlein, dass der kulturvergleichende Blick auf China und die Debatte über Stadienmodelle menschlicher Entwicklung die europäische Diskussion über Epochen, wie sie im 18. Jh. geführt wurde, komplexer und selbstreflexiver machte. Gerade das zuletzt angesprochene Thema der zeitgenössischen Periodisierung und ihres Wandels erscheint mir besonders interessant; die Öffnung des Zukunftshorizontes (die komplexer ist, als man dies bei Koselleck und Hölscher nachlesen kann), die zunehmende Neuheitsemphase, das Gefühl von Zeitgenossenschaft und die aus dem Kulturvergleich resultierende Verunsicherung sind Aspekte, die man sich breiter ausgeführt wünschte. Denn die Frage danach, wie die frühneuzeitliche historische Selbsteinordnung (Vierreichelehre, historia magistra vitae etc.) „modern“ wurde, ist nach wie vor kaum umfassend untersucht. Doch auch die anderen Themen, zu denen der Bd. Beiträge bietet, sind für sich genommen spannend – auch wenn die generelle Diskussion über die Frage, ob und wie man periodisieren sollte, inzwischen ein bisschen in die Jahre gekommen ist. Dennoch bietet der Bd. gute Einblicke in mehrere mehr oder wenig eng zusammenhängende Themenfelder und regt so zum Weiterdenken an.+TABRE+Matthias Pohlig
Marco Albertoni, Storia delle colonne infami. Giustizia e memoria in età moderna, Napoli (Bibliopolis) 2023 (Identità e alterità nell’Europa moderna 5), 358 pp., ill., ISBN 978-88-7088-708-2, € 30.
Per i lettori italiani – ma non solo – la definizione „colonna infame“ di un manufatto presente in numerose città richiama alla mente la tragica vicenda manzoniana della condanna di Gian Giacomo Mora e Guglielmo Piazza, accusati di aver sparso per Milano malefiche unzioni che causarono la peste del 1630. La storia della colonna infame manzoniana è presente nel denso studio di Albertoni, ma non è certo l’unica. Ad essa, riproposta recentemente in una edizione critica a cura di Adriano Prosperi, che inquadra la vicenda nel dibattito illuministico e nella mai sopita paura del complotto, si accompagnano in questo libro numerose altre colonne infami, erette non solo negli stati italiani, ma in Europa, o almeno in gran parte di essa fra il Cinquecento e il tardo Settecento. L’autore indaga, in un’ottica comparata, il fenomeno complesso dalle premesse e dagli esiti contraddittori, secondo coordinate geografiche e cronologiche. Dai tre corposi capitoli (I. „Congiure, intrighi e fazioni“, pp. 35–172; II. „Autonomie, rivendicazioni, rivolte: centro e periferie“, pp. 173–270; III. „Crimini ‚atrocissimiʻ: confini e giurisdizioni“, pp. 271–317, ai quali si aggiungono le conclusioni: IV. „Una pietra sopra? Un passato che non passa“, pp. 319–335) emerge una lettura secondo la quale le colonne infami sarebbero state erette per dannare la memoria di chi, da solo o con altri, aveva minacciato l’autorità dello ‚stato moderno‘ – concetto da tempo dibattuto e rivisto dalla storiografia – fosse una repubblica, come Genova e Venezia, o una monarchia, come Francia, Spagna o Danimarca. Le rivolte considerate nel primo capitolo sono prevalentemente urbane, hanno però spesso radici più lontane, nel dominio, ma esplodono nel contesto cittadino grazie a personaggi, soprattutto nobili, capaci di creare disordine e minacciare le autorità. Tutti gli episodi narrati con un’indagine condotta su fonti inedite e su una ricca storiografia (in alcuni casi, come quello spagnolo, un po’ datata) si configurano come delitti di lesa maestà, che turbavano e ledevano la sacralità del potere, l’ordine sociale, la giustizia sovrana. La condanna del crimen maiestatis aveva radici lontane, nel diritto romano – Lex Julia Maiestatis (8 a. C.) e Lex quisquis, CT. 9.14.3 (397 d. C.) – irrobustite nel corso del Medio Evo dal diritto canonico e dal diritto comune, come aveva ben dimostrato Mario Sbriccoli in un suo fondamentale studio. Le colonne infami, da non confondere, come precisa l’autore con le colonne o cippi davanti ai quali si punivano i rei e si esponevano alla gogna, diventarono la materializzazione della giustizia sovrana e al contempo dell’infamia di chi aveva attentato ad essa. Non è certo – forse non è ben documentato, anche se qui si fa riferimento ad avvenimenti veneziani del XIV secolo – se nel Medio Evo fosse diffuso erigere monumenti d’infamia. Certo è che rappresentino, almeno in età moderna, il punto di arrivo di un rituale praticato dalle autorità per dannare la memoria e impedire, con la distruzione della casa del reo e lo spargimento di sale sulle fondamenta, che fosse edificato nello stesso luogo. Là doveva sorgere, appunto, la colonna infame. Su di essa era apposta un’iscrizione in latino o in volgare. Non era una differenza da poco: l’idioma usato rinviava ad un preciso progetto di fruizione da parte di osservatori, ad un monito per chi poteva intendere il latino, la nobiltà, soprattutto, e per chi aveva accesso solo al volgare e magari attraverso la mediazione. In alcuni casi, la colonna infame e l’epigrafe erano diffuse attraverso immagini destinate a veicolare il messaggio e a proporre un modello, anche stilistico, in spazi più ampi. L’analisi comparata di rivolte e disordini al centro e nelle periferie dell’impero spagnolo, nei territori del Sacro Romano Impero o nella Confederazione Elvetica condotta nel secondo capitolo fa emergere le difficoltà di confrontare contesti statali e sociali in cui le giurisdizioni criminali erano assai diverse. Talvolta erano istituiti tribunali speciali per giudicare i rivoltosi, come nei Paesi Bassi, in cui la nobiltà compatta, e non solo una parte di essa, guidò la rivolta contro il duca d’Alba e l’inquisizione (pp. 180–185). Spesso, come viene opportunamente osservato, la decisione di erigere una colonna infame era riservata all’arbitrium iudicis, anche a fronte di norme previste dal diritto comune. La tipologia della colonna infame poteva rivelarsi controproducente per l’autorità: l’esempio di Napoli qui descritto (pp. 187–203) – il monumento che esponeva in teche le teste dei rivoltosi condannati, in una evidente inversione simbolica di monumenti devozionali diffusi nelle chiese non solo partenopee (p. 196) – divenne meta di pellegrinaggio trasformando i criminali in eroi. La sua distruzione, così come molte altre, mostra come il monumento di infamia potesse assumere un valore diametralmente opposto a quello per cui era stato eretto. Seguendo la storia della distruzione, spesso controversa e causa di contrasti e disordini, emerge infatti il significato, mutevole nel tempo, di fama e memoria e del loro uso nei diversi contesti – politici, culturali – non solo italiani. In questo policromo quadro delineato dall’autore emergono però alcune significative assenze. Se l’Inghilterra non è considerata per l’ordinamento giuridico di common law (sarebbe una ricerca interessante da compiere), lo Stato Pontificio viene escluso per la presenza dei tribunali inquisitoriali all’interno di esso che avrebbero, per così dire, monopolizzato la repressione di crimini atroci e dei gravi delitti di lesa maestà, divina e umana, quali l’eresia e l’apostasia. Però tribunali inquisitoriali erano presenti anche in altri stati qui considerati come Genova, Ducato di Savoia, Regno di Napoli. A proposito poi dei rapporti centro e periferie, la metà del Cinquecento è segnata nello Stato Pontificio da rivolte nobiliari, cittadine, banditismo: nessuna colonna infame fu eretta come monito per chi alimentava le forze centrifughe? Ma non è la sola assenza: non si considera infatti la Toscana medicea, attraversata, almeno fra gli anni ’30 e ’60 del Cinquecento, da disordini e minacce al potere di Cosimo I e segnata, anche in seguito, da crimini atrocissimi che meritavano l’infamia materializzata da colonne che ne conservassero la memoria negativa. È, insomma, quella di Marco Albertoni una ricerca originale che suggerisce numerosi spunti per approfondire un tema complesso, che interseca la storia della giustizia e delle sue istituzioni con la storia culturale in tutte le sue molteplici declinazioni.+TABRE+Irene Fosi
Andreea Badea/Bruno Boute/Marco Cavarzere/Steven Vanden Broecke (Eds.), Making Truth in Early Modern Catholicism, Amsterdam (Amsterdam University Press), 2021 (Scientiae Studies 1), 334 pp., ill., ISBN 978-94-6372-052-6, € 117.
Quello della „verità“ è un tema classico degli studi di modernistica, perennemente portatore di sviluppi e ricerche innovative, e declinabile in metodologie di ricerca differenti tra loro. Monografie classiche come „A Social History of Truth. Civility and Science in Seventeenth-Century England“ (1994) di Steven Shapin, e più recenti, debitrici in particolare della metodologia di ricerca della History of Knowledge o Wissensgeschichte, hanno contribuito nel tempo ad avviare e poi arricchire il filone di ricerca costituito dallo studio della verità e di una delle sue controparti, l’errore (cfr. per esempio „Errors, False Opinions and Defective Knowledge in Early Modern Europe“, a cura di Marco Faini/Marco Sgarbi, Firenze 2023). Non stupiscono perciò le numerose suggestioni e le numerose piste di ricerca in cui si diramano i contributi del vol. curato da Andreea Badea, Bruno Boute, Marco Cavarzere e Steven Vanden Broecke che è oggetto di queste pagine. Riflessioni sull’evoluzione storica del concetto di verità appaiono particolarmente attuali di fronte alla proliferazione di alternative verità scientifiche, teorie cospiratrici e „fatti alternativi“. Fenomeni di questo tipo generalmente sono interpretati come cifra della post-modernità; tuttavia è importante essere consapevoli della costante soggettività della nozione di verità e dei tentativi di manipolazioni e alterazioni che essa ha subito già in tempi a noi molto lontani. Il vol. è diviso in tre sezioni: „Accomodating“ (poiché, emerge bene da molti contributi, pratiche accomodative non erano assolutamente esclusive dei gesuiti, ma parte della mentalità del cattolicesimo post-riformato), „Performing“, e „Embedding“. Gli incontri con altre culture e l’ampliamento delle differenze confessionali all’interno dell’Europa stessa posero nuove sfide all’interno della definizione di verità esattamente come, notoriamente, dettero la spinta per progressi sul fronte della tolleranza religiosa o alla necessità di concepire nuovi approcci nella ricerca comparata (penso per esempio alle „Cérémonies et coutumes religieuses de tous les peuples du monde“, pubblicate tra il 1723 il 1743 da Jean Frederic Bernard e Bernard Picart). Eterogeneità circa le autorità religiose di riferimento, diversità corporee tra le popolazioni e molti altri fattori posero improvvisamente nel XVI secolo problemi più attuali che nei secoli precedenti, imponendo una ridefinizione dei termini di „verità“ e „fiducia“. Su questo sfondo Rudolf Schuessler propone nel suo contributo al vol. una rivalutazione delle controversie scolastiche sulle opinioni probabili e in particolare sulla questione del „disaccordo ragionevole“ che emerse in particolare nel diciassettesimo secolo, sia nel senso di una loro contestualizzazione in una necessità più ampia di regolamentazione di verità parimenti „probabili“ da parte della scolastica dell’epoca, sia come strumento interpretativo che si possa estendere anche alle discussioni attuali nell’ambito delle discipline filosofiche. I giuramenti contrattuali nel contesto di commercio internazionale (e inter-religioso) indagati da Marco Cavarzere offrono invece un’occasione di sperimentare nuove possibilità della casistica e della legge morale cristiana: un voto è egualmente vero se si basa su „falsi“ dei? I giuranti sono tutti egualmente suscettibili di fiducia? Si trattava di questioni essenziali in un mondo post-riformato in cui, per la prima volta, anche all’interno della religione cristiana si presentava la necessità di distinguere la fiducia personale, politica o commerciale dalla fede religiosa. La chiesa cattolica risolse il problema sancendo la validità giuridica dei giuramenti sui „falsi dei“. Il conflitto tra la pretesa di verità sul corpo umano avanzata rispettivamente dalle autorità mediche e secolari e da quelle ecclesiastiche è approfondito da Brendan Röder. Queste verità „alternative“ si basavano sul conflitto tra sostanza e apparenza, tra l’approccio della nuova medicina sperimentale che rifiutava osservazioni basate sul senso della vista e la percezione popolare, che poteva ad esempio fondare le sue valutazioni su uno scandalum a cui secondo la Chiesa bisognava fare riferimento come elemento importante di valutazione di casi di epilessia. Bruno Boute tratta di un caso di improvvisa censura da parte dell’Inquisizione Romana, nel 1682, di stampe di natura didattica recanti sette articoli di fede che circolavano già da tempo nei Paesi Bassi Asburgici. Questa censura è interpretabile come pratica di „preservazione della verità“ (saving truth) messa in atto dai teologi romani per dissimulare le ormai sempre più frequenti controversie sul sacramento della confessione, all’epoca caratterizzato da una forte dimensione pubblica-performativa: ovviamente la questione della verità entra in gioco in modo esponenziale in occasione delle procedure per santità (cfr. l’articolo di Birgit Emich), poiché implica un’assunzione di responsabilità riguardo alla „realtà“ dei miracoli attribuiti alla persona e investe in maniera più pronunciata che in altri casi la questione dell’universalità. Anche in questo, come in altri casi affrontati in questo vol., si trovò una soluzione di compromesso. Distinguendo due livelli (beatitudine e santità), Urbano VIII riuscì a introdurre maggiore flessibilità nella procedura di santificazione, a controllare meglio i rapporti con i contesti „periferici“ e a venire incontro alle loro specifiche esigenze e situazioni locali; di conseguenza, il Papa concepì attraverso una variabile di tipo procedurale e legale uno strumento di ‚aggiustamento‘ della verità e di negoziazione con i contesti più lontani. Un altro esempio di complessità post-riformata e di casi non risolvibili da una prospettiva puramente dogmatica è la cosiddetta Benedectina del 1741 (cfr. l’articolo di Cecilia Cristellon), che sancì nei Paesi Bassi la validità di matrimoni misti contratti senza le formalità prescritte dal concilio di Trento. Anche a livello storiografico si creavano conflitti tra una parzialità di visione del passato inevitabile nelle discipline e nel metodo di ricerca storico e la pretesa di verità e universalità della chiesa romana, come dimostra nel suo contributo Andreea Badea. La curia, da questo punto di vista, non poteva permettersi un ruolo attivo: l’assenza di uno storiografo ufficiale preveniva il problema di dover poi sottoporre all’esame della repubblica delle lettere e agli effetti del normale trascorrere del tempo i propri metodi storiografici. Pratiche come ignorare e cancellare gli avversari, commissionare in segreto confutazioni sono tuttavia traccia di una partecipazione indiretta della curia romana alla produzione di sapere storico della prima età moderna. Come argomenta in modo convincente Leen Spruit, anche nell’ambito della lotta all’eresia si può parlare di un reset avuto luogo nella prima età moderna, non solamente in riferimento agli eventi più noti ed eclatanti, come l’introduzione cinquecentesca della Congregazione dell’Inquisizione e dell’Indice; si avviò anche un processo complesso di mutua interazione a adattamento tra visioni psicologiche ortodosse e quelle estranee all’orizzonte della scolastica. Questo intreccio, talvolta conflittuale e talvolta più o meno collaborativo, tra teologia e filosofia è oggetto del contributo di Maria Pia Donato, che pone meritoriamente l’accento sul carattere performativo dell’attività romana di controllo dottrinale, in primo luogo in riferimento al dibattito sull’Eucarestia e sull’atomismo.Vittoria Fiorelli aggiunge una dimensione più specificamente politica al vol.: la manipolazione di categorie intellettuali dai contorni all’epoca piuttosto vaghi, come epicureismo e ateismo, per raggiungere obiettivi politici nella Napoli di età moderna. Come la categoria dell’ateismo, in particolare, si prestasse bene nel contesto napoletano a svolgere il ruolo di freno delle istanze di rinnovamento politico e intellettuale emerge a partire dal caso di studio di una procedura inquisitoriale svoltasi tra il 1688 e il 1697 contro presunti atei, un gruppetto di giuristi novatores in questioni di filosofia naturale.Questo iter processuale innescò il conflitto tra autorità politiche spagnole, corte papale ed élite urbana e dunque dinamiche trilaterali tra poteri diversi, in fondo non molto dissimili da quelle che entravano in gioco a Venezia tra Doge, Curia romana e ramo veneziano dell’Inquisizione. Nel complesso, „Making Truth in Early Modern Catholicism“ è un vol. ricco di spunti, felice nella scelta dei singoli contributi e nella loro organizzazione, che soddisferà sia lettori e lettrici alla ricerca di informazioni e case studies riguardanti specifici contesti geografici e/o sociali sia chi rivolge maggiormente il suo interesse alla base teoretica su cui si appoggia il vol. Questa emerge molto bene non solo nei singoli contributi, ma soprattutto nell’introduzione della curatrice e dei curatori e nell’ultimo testo, in cui Rivka Feldhay propone una riflessione di ampio respiro sui confini disciplinari e la loro interdipendenza, ricorrendo tra le altre cose al concetto di contact zone proposto per la prima volta da Mary Louise Pratt.+TABRE+Riccarda Suitner
Giovanni Pizzorusso, Propaganda Fide. I. La congregazione pontificia e la giurisdizione sulle missioni, Roma (Edizioni di Storia e Letteratura) 2022 (Temi e Testi 209), pp. 427, ISBN 978-88-9359-596-4, € 48.
Ricorrendo il quarto centenario della nascita della Congregazione de Propaganda fide, vede la luce il primo di due voll. dedicati a questa istituzione. La lunga frequentazione degli archivi romani ha permesso a Giovanni Pizzorusso di addentrarsi nei meccanismi della congregazione pontificia deputata al governo delle missioni, divenuta ben presto uno dei principali organismi della Curia romana. La nascita della nuova struttura avvenne in un momento in cui l’amministrazione pontificia era giunta a un buon grado di maturazione: il sistema facente capo al papa e al cardinale nipote, composto dalla Segreteria di Stato e dalle congregazioni, permetteva una visione ampia di quanto avveniva nelle terre conosciute. Propaganda nacque con struttura e attribuzioni ben definite, integrata negli organismi esistenti. Ne sono un esempio la distribuzione delle competenze geografiche assegnate ai nunzi e ai patriarchi, avvenuta fin dagli esordi, e l’avvio di un fitto epistolario intrattenuto con gran numero di corrispondenti in ogni parte del globo. Il vol. è strutturato in quattro parti che si propongono di analizzare i meccanismi istituzionali e di governo. Si riconsidera dapprima il lungo iter di proposte, tentativi e soluzioni provvisorie percorso prima di giungere a una soluzione stabile, che tenesse conto dello stato della propagazione della fede, affidata alle potenze iberiche, e degli sviluppi della riforma protestante nei territori europei, compresa la penisola italiana. La seconda parte si occupa delle persone e dei metodi di governo: la congregazione si avvaleva dell’opera dei cardinali membri e dei segretari, tra cui emerge il primo di essi, Francesco Ingoli, che durante il suo lungo mandato diede forma a un metodo destinato a segnare gli anni dell’Antico Regime, e aveva tra i principali informatori ed esecutori delle sue disposizioni i nunzi apostolici, il cui raggio di azione si estendeva ben oltre il territorio del sovrano presso il quale erano inviati. Propaganda assunse diverse competenze spettanti in precedenza al Sant’Ufficio, ad esempio la giurisdizione sui missionari apostolici, e allo stesso tempo stabilì con la prima congregazione un’agile forma di cooperazione, sulla base del comune interesse per i contenuti della predicazione e della condivisione del lavoro tra esponenti della Curia. Importante, già fin dall’inizio, la modalità di finanziamento delle iniziative, sostenute nel corso del tempo da donazioni e investimenti. La terza sezione si sofferma sul quadro giuridico. Da una parte i missionari si muovevano al di fuori o in parallelo con l’organizzazione diocesana, che dall’antichità aveva definito la struttura della Chiesa, mentre nei territori controllati da Spagna e Portogallo si evidenziava il tema del patronato, ovvero di un riferimento ai sovrani più marcato rispetto al rapporto con il papa, dando origine al fenomeno della doppia fedeltà e a contrasti giurisdizionali. Questa nuova situazione portò alla creazione di una prassi e di un diritto missionario, che si venne ad affiancare alle codificazioni medioevali. Ai religiosi, che furono la longa manus di Propaganda, è dedicata la quarta e ultima parte. Furono essi, più che il clero secolare, i protagonisti dell’evangelizzazione nei più diversi ambiti, facilitati dal fatto di appartenere a organismi fortemente strutturati, ma non legati al rigido sistema beneficiale tipico della rete diocesana e parrocchiale. Si trattò di una collaborazione dialettica, in quanto con frequenza le direttive di Propaganda non coincidevano con le politiche dei singoli istituti, come neppure gli orientamenti dei vari ordini religiosi potevano dirsi convergenti. Basti pensare alle controversie sui riti malabarici e cinesi, su cui Roma tardò a pronunciarsi, all’Università Carolina di Praga o al contrasto tra secolari e regolari nei Paesi Bassi. Notevoli anche le situazioni di collaborazione/concorrenza con i cristiani delle Chiese orientali che si verificarono in Medio Oriente, in Egitto, in Etiopia e nell’Europa dell’est, dove il riconoscimento dell’autorità pontificia da parte di gruppi appartenenti al rito orientale, iniziato al tempo del concilio di Firenze (1439), fu gestito non senza difficoltà a causa anche delle sue implicazioni politiche. Il vol. mette a frutto lavori già in precedenza pubblicati, ampiamente rivisitati e aggiornati in modo da integrarsi pienamente nel nuovo progetto. Preceduto da un’opera sintetica, pubblicata dallo stesso autore („Governare le missioni, conoscere il mondo nel XVII secolo. La congregazione pontificia de Propaganda Fide“, Viterbo 2018), nel suo ambito costituisce una messa a punto e un necessario aggiornamento, secondo le ricerche più recenti, dei voll. curati da Josef Metzler in occasione dei 350 anni di Propaganda.+TABRE+Silvano Giordano
Chiara Petrolini/Vincenzo Lavenia/Sabina Pavone, Sacre metamorfosi. Racconti di conversione tra Roma e il mondo in età moderna, Roma (Viella) 2022 (La storia. Temi 104), LXIII, 578 S., Abb., ISBN 979-12-5469-006-2, € 59.
Dass Rom eine Weltstadt ist, stellt eine Binsenweisheit dar; und doch ist das für die Frühe Neuzeit selten so eindrücklich und anschaulich gezeigt worden wie in diesem Buch, das zurecht als Standardwerk zu bezeichnen ist. Quellengesättigt und mit beeindruckender Charakterdichte sowie geografischer Weite wird hier ein globales Gesamttableau an von Missionaren nach Rom geschickten Konversionserzählungen sowie solchen entfaltet, die in Rom selbst verfasst worden sind: „Roma divenne la città delle conversioni per eccellenza“, schreiben die Autorinnen und Autoren, „un teatro di passaggi di fede, ma anche la sede del giudizio sui modi dell’evangelizzazione“ (S. XXXII). In Einleitung, Analyse und Textauswahl heben Chiara Petrolini (Bologna), Vincenzo Lavenia (Bologna) und Sabina Pavone (Neapel) die beeindruckende Vielfalt, Komplexität und Unterschiedlichkeit der historischen Erfahrungskontexte hervor, die mit solchen Konversionen einhergingen. Insbesondere die Einleitung ist reich an historiographischer Diskussion. Der umfangreiche Bd. wird zweifelsfrei seinen Platz als Standardwerk in der historischen und interdisziplinären Konversionsforschung, Missions-, Missionierungs- und Kirchengeschichte sowie insbesondere zur frühneuzeitlichen Globalgeschichte einnehmen. Darüber hinaus hält er aber auch wesentliche Einsichten zur Kolonialgeschichte des frühneuzeitlichen Katholizismus bereit; mit so erfrischend aufrichtigen und klaren Stellungnahmen wie: „Il papato aveva contribuito a quel processo di espansione coloniale“ (S. XIV) oder „in molte di queste narrazioni è difficile distinguere il piano dell’evangelizzazione da quello della colonizzazione“ (S. XXXIX). Die geografische Reichweite der katholischen Expansionsgeschichte sowie auch der Umfang, in dem diese persönliche Lebenswirklichkeiten weltweit beeinflusste, durchbrach und neu definierte, wird anhand der sorgfältig ausgewählten Quellen jedenfalls zweifelsohne deutlich. Überlegungen zum „teatro apostolico globale“ (S. XXVI) werden mit aufschlussreichen Ausführungen zu Schreibkontexten frühneuzeitlicher Konversionserzählungen sowie „la natura intrinsecamente narrativa delle conversioni nel cristianesimo“ abgerundet (S. XLIV). Der Zugriff der Autorinnen und Autoren ist textgeschichtlich und weniger definitorisch (S. XLVII), und wird gerade deshalb der Tragweite des Phänomens gerecht. Konversionserzählungen werden hier als lebensgeschichtlicher Versuch untersucht, sich einzuschreiben; als Bedeutungszuschreibungen frühneuzeitlicher Akteurinnen und Akteure, die nach dem Zeichenhaften suchten. Als Quellen werden die Konversionsgeschichten sorgfältig historisch kontextualisiert. Der Titel des vorliegenden Bd. etwa bezieht sich auf „Sacre metamorfosi, overo conversioni segnalate d’idolatri, turchi, ebrei et eretici convertiti alla fede cattolica“, Girolamo Bascapès vierbändige, in Neapel 1680 bis 1684 hg. Sammlung an Konversionsgeschichten. Umso deutlicher wird deshalb herausgestellt, dass das Verfassen, Archivieren und Edieren solcher Texte Teil dessen war, was religiöse Orden im frühneuzeitlichen Rom als Erfolgsgeschichte zu verkaufen suchten: „Le fonti ecclesiastiche della prima età moderna sono intessute di racconti di conversione e così i testi a stampa che raccontano i successi missionari dei diversi Ordini religiosi.“ (S. XXXV) Es ist daher nur folgerichtig und begrüßenswert, dass sich die Autorinnen und Autoren für einen akteurszentrierten Zugriff im Aufbau des Bd. entschieden haben. Die über 60 Quelleneditionen werden in insgesamt neun Kapiteln präsentiert, die verschiedene Typen und Themenzusammenhänge hervorheben: Sklaven; Konvertiten von Herrscherhäusern; Hochstapler; Gesandte und Soldaten; Kinder; zum Tode Verurteilte; Märtyrer und Wunderseher; Gelehrte und Dolmetscher; und schließlich ein Kapitel zu Gruppenkulturen. Die jeweils mit einleitenden Vorbemerkungen versehenen, sehr gut kontextualisierten Editionen machen den Bd. auch für Studierende und eine breitere Leserschaft zugänglich. „Sacre metamorfosi“ ist zudem reich illustriert. Es handelt sich um ein Standard- und zugleich auch für die Lehre sehr gut geeignetes Übersichtswerk, dem eine weite Leserschaft und Rezeption auch über die disziplinären Grenzen der Geschichtswissenschaften hinaus zu wünschen ist.+TABRE+Stefan Hanß
Cristina Dondi/Dorit Raines/Richard Sharpe (Eds.), How the Secularization of Religious Houses Transformed the Libraries of Europe, 16th–19th Centuries, Turnhout (Brepols) 2022, 720 S., Abb., ISBN 978-2-503-59392-0, € 98.
Der vorliegende Bd. untersucht in vergleichender Perspektive – gestützt auf die Expertise ausgewiesener Forscherinnen und Forscher – die Auswirkungen der Aufhebung von Klöstern und Konventen auf den Buchmarkt und die (öffentlichen) Bibliotheken Europas. Er geht auf eine an der Universität Oxford 2012 veranstaltete Tagung zurück, auf der dem Phänomen in europäischem Maßstab nachgespürt wurde – von Portugal und Spanien im Westen über Polen und die Ukraine im Osten bis hin zu Finnland und Schweden im Norden und Rom und Neapel im Süden. 30 Beiträge werden dabei sieben Rubriken zugeordnet: 1. „The Territorial and Temporal Map of the Dissolved Collections“; 2. „State Policy toward Book Collections“; 3. „Sequestration, Redistribution, or Contribution to the Foundation of Public Libraries“; 4. „Impact on Book Trade and the Emergence of Private Collections“; 5. „Migration of Books, Access to New Publics“; 6. „Destruction of Books, Spoils of War, and Clandestine Exportation“; 7. „Tools for Research“. Zwischen dem 16. und 19. Jh. kam es immer wieder zu politisch bzw. religiös motivierten Aufhebungen von Klöstern. Heinrich VIII. von England machte mit seiner Politik ab den 1530er Jahren den Anfang, wozu Richard Sharpe das Nötige sagt (S. 39–66). Zeitgleich wurden Klöster auf dem Kontinent Opfer der protestantischen Reformbewegung. Säkularisierungstendenzen, zu deren ersten Opfern stets auch Klöster gehörten, setzten sich in der Folge fort. Die Konsequenzen für die betroffenen Klosterbibliotheken waren unterschiedlich. Einige (wenige) Hss.- und Inkunabelsammlungen verblieben en bloc vor Ort, andere wurden aufgelöst und verschleudert, wieder andere in neue kulturelle Zusammenhänge (Staats-, Stadt-, Schulbibliotheken) überführt und für die Allgemeinheit nutzbar gemacht. Die Beiträge zeigen, dass Unterschiede zwischen Säkularisierungsereignissen in unterschiedlichen Epochen keinesfalls größer waren als diejenigen, die zeitgleich in unterschiedlichen Ländern stattfanden. Ein gutes Beispiel liefern die reformatorischen Ereignisse im 16. Jh., die völlig unterschiedliche Ergebnisse in England, Deutschland, der Schweiz, den Niederlanden und Skandinavien zeitigten. Das gilt auch für die Klosteraufhebungen, die in katholischen Ländern im 18. und 19. Jh. stattfanden. Angesichts der Büchermassen, die Anfang des 19. Jh. aufgrund der napoleonischen Aufhebungspolitik vor allem in Italien auf den Markt kamen, ging man dazu über, Hss. und Inkunabeln als wichtige Teile des kulturellen Erbes bevorzugt zu behandeln. Ihnen kam besonderer Schutz zu, während die Masse an Druckwerken insbesondere des 17. und 18. Jh. häufiger der Vernichtung anheimfielen. „Scarto“ war das Zauberwort. Frömmigkeitstheologische und vermeintlich „erbauliche“ Literatur wurde der Zerstörung preisgegeben: zum Kilopreis verkauft, von Händlern zum Einwickeln ihrer Waren verwendet, als „Hygienepaper“ missbraucht. Dorit Raines demonstriert dies anschaulich am Beispiel Venedigs (S. 163–194), wo nicht allein die napoleonischen Besatzer nach den Klosteraufhebungen eine Neuordnung der Bibliothekslandschaft durchsetzten. Bereits zuvor, ab 1767, hatte der Senat in dem verzweifelten Bemühen, die Schuldenlast der Serenissima zu reduzieren, die Schaffung einer Deputazione ad pias causas angeregt, der es obliegen sollte, das gesamte monastische Patrimonium zu sichten und für die Republik nutzbar zu machen. Bücher gehörten dazu. Das, was als wertvoll und bildungspolitisch nützlich galt, wurde nicht nur in Venedig zunächst den sich neu konstituierenden öffentlichen Bibliotheken einverleibt, gelangte aber bald auch auf den Antiquariatsmarkt und bereicherte die privaten Bibliotheken von Sammlern oder öffentliche Bibliotheken in der Neuen Welt. Vincenzo Trombetta demonstriert dies am Beispiel Neapels (S. 195–221), Marina Venier für Rom (S. 313–324). Dominique Varry liefert erste Bausteine zu einer Tiefenerschließung des französischen Antiquariatsmarkts, der nach den revolutionären Verwerfungen ab 1789 geradezu geflutet wurde (S. 359–370). Marino Zorzi demonstriert dies am Beispiel des venezianischen Buchmarkts im 19. Jh., wo hochgebildete Buchhändler die Wünsche einer anspruchsvollen Klientel zu befriedigen suchten (S. 371–388). William P. Stoneman zeigt, in welchem Umfang Buchbestände im 20. Jh. aus Europa nach Amerika verschoben wurden, wo es zunächst vor allem an europäischen Universitäten ausgebildete Amerikaner waren, denen der Ausbau „ihrer“ Bibliothekslandschaft am Herzen lag. Hauptvertreter des Gilded Age, Andrew Carnegie, John P. Morgan und Henry Edwards Huntington, setzten in der Folge ihre nahezu unerschöpflichen Finanzmittel dazu ein, umfangreiche und wertvolle Bibliotheken immer wieder en bloc anzukaufen und in die Neue Welt zu verlagern. Buchbesitz steigerte die eigene Respektabilität – die Huntington Library mit ihrem immensen Inkunabel-Bestand legt davon bis heute ein beredtes Zeugnis ab. Deutlich wird in nahezu allen Beiträgen, dass literarische Texte (zumal die der klassischen Antike) bei Aufhebungsprozessen deutlichen Vorzug vor Theologica, Liturgica und Juridica genossen, die als „veraltet“ sehr leicht ausgeschieden wurden. Dies erklärt, weshalb sich in den Regalen der Spezialsammlungen heutiger öffentlicher Bibliotheken Inkunabeln und Hss. mit antiken Texten in hoher Zahl finden, während man sich bemühen muss, liturgische Texte von ihrem Schattendasein als Einbandpapier zu befreien und der Forschung wieder zugänglich zu machen. Die Wanderwege von Hss. und Inkunabeln sind nicht immer einfach nachzuvollziehen, die bereits bestehenden gedruckten Recherchemittel werden inzwischen aber ergänzt durch leistungsstarke elektronische Ressourcen. Darauf geht James Willoughby am Beispiel der digitalen Ressource „Medieval Libraries of Great Britain“ (MLGB3) (S. 521–527) ebenso ein wie Cristina Dondi, die die Datenbank „Material Evidence in Incunabula“ (MEI) vorstellt (S. 529–547). Die Leistungsfähigkeit von MEI wird ausgesprochen eindrucksvoll am konkreten Beispiel des Inkunabelbestands der Benediktiner von San Giorgio Maggiore in Venedig demonstriert (S. 567–656). Von großem Interesse ist der Blick auf das Management der Klosteraufhebungen. Zwar überzeugt das Bild von den „geordneten Verhältnissen“ in Venedig, von denen Dorit Raines spricht, nicht ganz, doch verglichen mit dem Chaos in Katalonien zeigten sich die mit den Büchertransfers betrauten napoleonischen Behörden durchaus kenntnisreich und organisiert. Der Bd. macht auf eine Vielzahl von Forschungsdesideraten aufmerksam, zu denen etwa die Frage gehört, welche Unterschiede zwischen Klosteraufhebungen bestanden, denen religiöse Konflikte zugrunde lagen und solchen, die aufgrund säkular-politischen Drucks zustande kamen. Wurde der Untergang von klösterlichen Büchersammlungen als hinzunehmender Kollateralschaden begriffen? Globaler gefragt: welcher Stellenwert kam Bibliotheken in diesen Prozessen überhaupt zu? Die 30 Beiträge liefern hierzu einige, aber noch längst nicht alle Antworten. Am Ende bleibt die Hoffnung, dass die Rede von nutzlosem Wissen, transportiert in nutzlosen Büchern, der Vergangenheit angehören möge. Hugo von S. Victor sagte es einst so: „Omnia disce, postea videbis nihil esse superfluum.“ Und Richard Ovenden brachte es 2020 folgendermaßen auf den Punkt: „The preservation of knowledge is ultimately … about having faith in the future.“ Und der Rezensent ergänzt: „Nullus liber superfluus.“+TABRE+Ralf Lützelschwab
Eva Marie Lehner, Taufe – Ehe – Tod. Praktiken des Verzeichnens in frühneuzeitlichen Kirchenbüchern, Göttingen (Wallstein) 2023 (Historische Wissensforschung 22), 375 S., Abb., ISBN 978-3-8353-5380-0, € 34.
Die Verwendung von Kirchenbüchern als Quelle für wissenschaftliche Forschungen reicht bekanntlich von frühen demographischen Schriften bis zur historischen Sozialforschung der zweiten Hälfte des 20. Jh. Selbstverständlich hat auch die ältere biographische Forschung Matriken immer wieder als wertvolle Quelle herangezogen. Verhältnismäßig wenig Augenmerk wurde jedoch auf die Verzeichnispraktiken gelegt, sieht man von bloßen Auflistungen, welche auswertbaren Merkmale bestimmte Matriken beinhalten, einmal ab. Gegenstand der vorliegenden Monographie sind diese Praktiken am Beispiel der Anfänge der Kirchenbuchführung im Süden des Alten Reiches. Zur Analyse ausgewählt wurde ein Sample von 68 Kirchenbüchern aus dem lutherischen Bayern, den Bistümern Würzburg und Regensburg, dem Erzbistum München und Freising, dem Pfarrarchiv der Christuskirche Sulzbach-Rosenberg, dem Zentralarchiv der evangelischen Kirche der Pfalz und dem Stadtarchiv Zweibrücken. Repräsentiert sind vorreformatorische ebenso wie lutherische, nachttridentinische katholische und reformierte Bücher. Die Auswahl dieser frühen Matriken ergibt sich aus dem Erkenntnisinteresse an der schrittweisen Normierung einer schließlich in allen Konfessionen etablierenden Bürokratisierungspraxis. Die Ergebnisse der Studie erlauben freilich nicht nur und vorrangig Rückschlüsse auf die Konfessionalisierung und Sozialdisziplinierungsthese. Vielmehr kann Lehner zeigen, wie sehr die kulturelle Praxis der Kirchbuchführung in vielfältiger Weise in das Alltagsleben der Untertanen eingriff und dieses veränderte. Frühes Hauptmotiv für die Einführung der Kirchenbücher war der Kampf gegen Konsensehen, dazu die durch die Reformation ausgelöste Verunsicherung bei Bevölkerung und Obrigkeit über die „rechte Ehe“. Durch das rasche Ausgreifen der Reformation sahen sich daher zunächst Landes- und Stadtherren, die sich zur Reformation bekannten, herausgefordert. Bekanntlich zog die nachtridentinische katholische Kirche erst ab den 1570er Jahren nach. Eines der erstaunlichen Ergebnisse der Studie ist jedoch, dass sich die Verzeichnispraktiken der drei Konfessionen nicht wesentlich unterschieden. Zwar gab es theologisch begründete Differenzen etwa beim Verzeichnen ungetaufter Kinder, aber auch wieder große Ähnlichkeiten, etwa wenn es darum ging, Nottaufen von Laien zu tolerieren, um Seelen zu retten, oder aber bei der Stigmatisierung von Illegitimität. Allen Konfessionen gemein war die Herstellung einer christlichen Gemeinschaft durch die möglichst frühe Taufe, in scharfer Abgrenzung zu den Wiedertäufern – ein weiteres Motiv für das Aufkommen von Kirchenbüchern. In diese Gemeinschaft konnten auch jüdische oder muslimische Konvertiten aufgenommen werden, doch blieben sie zumindest in der ersten Generation „verdächtig“, wie entsprechende heraushebende Vermerke in den Büchern illustrieren. Diese liefern aber auch noch ganz andere Informationen, die mit dieser Quellengattung nicht unbedingt in Verbindung gebracht werden. So finden sich Selbstzeugnisse von Pfarrern, Kommentare zur „Unzucht“ mancher Teile des Kirchenvolks, aber auch Beweise für die Zusammenarbeit von Gemeinde und Pfarrer bei der Dokumentation von Geburt, Ehe und Tod. Eine enge Zusammenarbeit entwickelte sich jedoch auch und im Besonderen zwischen weltlichen Behörden und den Kirchen. Der Informationsfluss ging dabei in beide Richtungen. So wurden weltliche Strafen im Eheeintrag mitverzeichnet und damit auch archiviert. Überhaupt erfuhr die Verzeichnispraxis der kirchlichen Amtsträger eine rasche Akzeptanz bei größeren Teilen der Bevölkerung, weil sie so etwas wie Rechtssicherheit vermittelte, etwa wenn es darum ging, Eheversprechen oder eheliche Geburt zu dokumentieren. Es war nun gerade auch die Bündelung von kirchlichem und obrigkeitlichem Wissen in Bezug auf sexuelle „Vergehen“, die einer gewandelten Sexualmoral zum Durchbruch verhalf. Wie Lehner an zahlreichen Beispielen belegt, unterschied sich diese aber durchaus noch erheblich von bürgerlichen Vorstellungen des 19. und frühen 20. Jh. Die ja nicht nur von der Autorin getroffene Einschätzung einer neuen Geschlechterordnung durch Konfessionalisierung wird man daher vielleicht etwas relativieren müssen. Über die Analyse von Verzeichnispraktiken in den frühen Kirchenbüchern des 16. und 17. Jh. gelingt es der Autorin jedenfalls sehr gut, wenn auch mit manchen Redundanzen, die damit verbundene Bürokratisierung von Geburt, Ehe und Tod zu vermitteln. Wie gezeigt wird, beruhte die Umsetzung dieses Prozesses auf dem Umstand, dass nicht nur Herrschende, sondern auch Beherrschte daraus Vorteile für sich ableiten konnten.+TABRE+Andreas Weigl
Juan Carlos d’Amico/Alexandra Danet, Charles Quint. Un rêve impérial pour l’Europe, Paris (Editions Perrin) 2022 (Biographies), 750 pp., ISBN 978-2-262-04336-0, € 29.
Per quanto oggetto di una copiosa ed eterogenea riflessione storiografica, inaugurata dall’opera ancora paradigmatica di Karl Brandi e recentemente innovata, tra gli altri, dai lavori di Elena Bonora („Aspettando l’imperatore. Principi italiani tra il papa e Carlo V“, Torino 2014), di Denis Crouzet („Charles Quint. Empereur d’une fin des temps“, Paris 2016), di Geoffrey Parker („Emperor. A New Life of Charles V“, New Haven-London 2019) e di Heinz Schilling („Karl V. Der Kaiser, dem die Welt zerbrach“, München 2020), la figura dell’imperatore sui cui domini non tramontava mai il sole continua a stimolare interrogativi alimentati da nuove prospettive d’indagine e dall’osservazione critica di consolidate tradizioni storiografiche. Il vol. „Charles Quint. Un rêve impérial pour l’Europe“, di Juan Carlos d’Amico e Alexandra Danet, si inserisce proprio in questo ambito mirando, con successo, a restituire un’interpretazione originale di Carlo V, volta ad indagare „le phénomène européenne“ (p. 8) incarnato dall’Asburgo, mettendo in discussione sia l’immagine stereotipica dell’imperatore come individuo „brouillé avec son temps“ (p. 8) sia giudizi storiografici di impostazione nazionale che, spesso, hanno letto il personaggio in questione entro coordinate troppo riduttive. L’opera si articola in 34 capitoli raggruppati in quattro sezioni le quali – supportate dall’analisi di un’ampia varietà di fonti conservate, tra gli altri, negli archivi di Simancas e Siena, negli Archives nationales, nella Biblioteca Apostolica Vaticana e nelle biblioteche nazionali di Francia e di Madrid – sono unite dal filo rosso rappresentato dalla prospettiva con cui i due studiosi sostengono l’aderenza e la coerenza dell’Asburgo rispetto alle dinamiche e alle logiche del suo tempo, respingendo l’idea che l’imperatore fosse il colpo di coda di un’epoca storica aliena alle nuove direttrici dell’età moderna. Dopo aver osservato la genesi della figura di Carlo d’Asburgo, svolgendo una premessa di lungo periodo sulle sue complesse vicende familiari per inquadrare le molteplici anime che contribuirono a forgiare la peculiare fisionomia di Carlo quale „prince destiné“, i due studiosi, nella seconda sezione, esaminano l’ascesa del giovane principe prestando un’attenzione specifica alla costruzione del suo progetto politico. Gli ambiziosi obiettivi di Carlo – sottomettere l’Italia settentrionale, impedire l’espansione francese, riformare la Chiesa e imporre l’egemonia della Casa d’Austria nel contesto euro-mediterraneo conseguendo la pax Christianitatis e la vittoria contro gli infidelis – trovarono una sintesi organica nel disegno della monarchia universale elaborato da Mercurino Arborio di Gattinara. Di questo snodo cruciale, nel processo di sviluppo del „phénomène“ Carlo V, d’Amico e Danet esaltano il valore innovativo, non riducibile a un paradigma medievale, di un progetto capace di coniugare eterogenei elementi sociopolitici, amministrativi, economici e culturali, intrecciando piano ideologico e materiale attraverso la ricerca di un complesso equilibrio tra prospettiva locale e universale. Verificando in che modo, nella logica dell’imperatore, il modello tracciato da Gattinara fosse sopravvissuto alla sua stessa morte, in linea con alcune riflessioni di Manuel Rivero Rodríguez, gli autori scardinano le stringenti definizioni attribuite dalla storiografia angloamericana all’assetto politico-istituzionale dei domini dell’Asburgo. Proprio in opposizione alle immagini di monarchia composita, di confederazione o di agglomerato geopolitico, alimentate da lavori illustri quali il saggio „Imperial Spain (1469–1716)“ di John H. Elliot, i due studiosi sottolineano l’originalità delle soluzioni politiche messe in atto dal governo asburgico definendo l’impero di Carlo V un autentico „laboratoire de la politique moderne“ (p. 167). Il progetto, propugnato da Gattinara e rielaborato dall’imperatore, viene indagato all’interno della terza sezione del volume, dove d’Amico e Danet, osservando i molteplici fattori che avevano ostacolato gli intenti dell’Asburgo, analizzano la dimensione ideologica e gli esiti materiali della strategia carolina, proiettata alla formazione di uno Stato sovranazionale, unito sotto l’autorità asburgica e amalgamato da un moderno apparato amministrativo-diplomatico, il cui obiettivo era l’unità della Respublica christiana. In tal senso, l’analisi del trionfo celebrato da Carlo V dopo l’impresa di Tunisi, è un passaggio nevralgico dell’opera perché esplicita concretamente i propositi dell’Asburgo, non riducibili all’utopia o all’anacronismo ma espressione di istanze ed esigenze radicate nella logica coeva e confluite in una precisa strategia in cui idealità e realtà erano inscindibilmente intrecciate. L’imperatore, dunque, incarnava davvero „ce nouveau héros chrétien capable de redonner tout son lustre à l’Empire romain, dicter de nouveau ses lois au monde entier et accomplir le triomphe de la religion chrétienne“ (p. 375). D’altro canto, gli autori hanno ben delineato la natura ossimorica del disegno carolino, diviso tra anelito pacificatore e costante ricorso alla guerra in una continua tensione che, soprattutto con la pace di Augusta, avrebbe segnato „la défaite du projet politique de Charles“ (p. 556). Nell’ultima sezione, infatti, l’analisi dei principali passaggi del noto testamento politico, lasciato dall’imperatore al futuro Rey prudente, evidenzia i limiti della prospettiva politica di Carlo V tracciando un bilancio della parabola carolina in cui, non a caso, le vicende di Carlo e Filippo vengono presentate entro una cornice antitetica. Il tramonto del disegno dell’Asburgo non compromette, però, l’immagine di „prince machiavélien“ attribuitagli da Juan Carlo d’Amico e Alexandra Danet per i quali il fenomeno Carlo V, dunque, è diretta espressione del suo tempo poiché capace di tradurre aspettative e necessità condivise all’interno del mondo euro-cristiano rinascimentale. Non si trattò affatto „d’un homme surgi du passé“ (p. 623) ma di un individuo coerente con la sua epoca, una figura complessa, tormentata e spesso contraddittoria proprio come lo furono alcune sue scelte, a loro volta espressioni della continua ed esasperata ricerca di un equilibrio tra un obiettivo preciso e le contingenze, tra dimensione ideale e fattuale.+TABRE+Giulio Merlani
Uwe Baumann (Hg.), Martin Luther und die Reformation. Traditionen, Kontexte, Umbrüche, Bonn (Bonn University Press) 2023 (Super alta perennis 24), 265 S., Abb., ISBN 978-3-8471-1580-9, € 50.
Wie zahlreiche weitere Publikationen entstand auch der Sammelbd. „Martin Luther und die Reformation. Traditionen, Kontexte, Umbrüche“, hg. von Uwe Baumann, im Zuge einer gemeinsam vom Centre for the Classical Tradition/Centrum Classicorum Traditionis (CCT) und dem Studium Universale der Rheinischen Friedrich-Wilhelms-Universität Bonn organisierten Ringvorlesung zum Reformationsjubiläum 2017/2018. Wieso nun also ein weiterer Sammelbd., der sich mit dem Leben und Werk des Reformators auseinandersetzt? Baumann sieht die Stärke des Sammelbd. in den heuristischen Zugängen, die als Begriffs-Trias auch Eingang in den Untertitel gefunden haben: Traditionen, Kontexte, Umbrüche. Diese sind die Eckpunkte eines „mentalen Dreiecks“ (S. 8), in dem sich alle acht Beiträge verortet wissen. Zielsetzung des Sammelbd. ist es, sich anhand der genannten heuristischen Zugänge „dem vielschichtigen Phänomen Martin Luther über exemplarische und zugleich repräsentative Schlagwörter anzunähern“ und ihn nicht bloß als „Reformator, Reformer und Neuerer“ zu betrachten, sondern ihn vielmehr „vor dem Hintergrund und im Kontext seiner Zeit“ (S. 7) zu konzeptualisieren. Dem „Bild Martin Luthers“ (S. 7) wollen sich die Autorinnen und Autoren kaleidoskopisch annähern, was sich in der Vielfalt an zum einen traditionellen sozial- und kulturgeschichtlichen Fragestellungen zeigt, andererseits durch Beiträge der Rezeptions- und Theatergeschichte ergänzt wird. Im ersten inhaltlichen Beitrag bestätigt Michael Herkenhoff zwar die breit rezipierte These von Bernd Moeller, „Ohne Buchdruck keine Reformation“ (S. 49), betont allerdings, dass der Buchdruck neben der Predigt, dem Bild, dem Lied und dem Schauspiel „nur eines von mehreren wirkungsmächtigen Medien“ war. Herkenhoff stützt seine Argumentation auf eine breite Quellengrundlage vornehmlich des VD 16 und des USTC, deren Auswertung er in mehreren Darstellungen aufbereitet und dadurch anschaulich die Entwicklungen des Buchmarktes „bis zum Augsburger Religionsfrieden als eine ‚Fieberkurve der Reformation‘“ (S. 27) aufzeigt. Andreas Pangritz untersucht Luthers Stellung zu Juden und Muslimen und gelangt nach der Analyse zahlreicher Lutherschriften, von den „Dictata super Psalterium“ (1513–1515) bis zur „Vermahnung wider die Juden“ kurz vor seinem Tod 1546, zu der Feststellung, dass die Juden- und Muslimfeindschaft „im Zentrum seiner Theologie verankert“ (S. 66) ist, und zwar bereits in seinen frühen Werken. Aus rechtshistorischer Perspektive analysiert Mathias Schmoeckel das kanonische Recht und die Lehren der frühen Reformatoren in Hinblick auf die theologische Auseinandersetzung mit der Frage der Guten Werke. Luther, so argumentiert Schmoeckel, sah ab 1520 zwischen Gesetz und Evangelium immer deutlicher eine Dichotomie, die ihn „den Wert des Gesetzes immer stärker in Frage … stellen“ ließ (S. 86). Im Bauernkrieg 1525 sieht Schmoeckel eine Zäsur im Ordnungsverständnis der frühen Reformatoren, was er mit Hilfe ausgewählter Schriften Philipp Melanchthons und Johannes Bugenhagens zeigen kann. Claudia Wich-Reif bietet eine ausführliche Darstellung zur Wirkung und Nachwirkung von Luthers Bibelübersetzung. Dabei rekonstruiert sie mit zahlreichen Quellenbelegen Luthers Übersetzungsprinzipien sowie insgesamt den Übersetzungsprozess. Zudem analysiert sie die Zusammenhänge zwischen dem (Verkaufs-)Erfolg von Luthers Übersetzung und dessen sprachlichen Einflüssen auf das Neuhochdeutsche. Uwe Baumann, dessen Beitrag die anderen Artikel im Umfang aufgrund einer mehr als ausführlichen Bibliografie um ein weites überragt, untersucht das englische Verhältnis zu Luther und der Reformation von den frühen 1520er Jahren bis zum Ende der Tudorherrschaft Elisabeths I. Dabei zeigt er, dass, abgesehen von den Streitschriften Heinrichs VIII., Luthers und Thomas Morus mit ihrer teils äußerst derben Auseinandersetzung in den frühen 1520er Jahren, auch bei einer inhaltlichen Annäherung der Positionen erstaunlich wenige direkte Rückverweise auf Luther und sein Werk in England zu finden sind. Den Blick nach Rom richtet Guido Braun, indem er Pietro P. Vergerios Nuntiaturberichte im Kontext von Normativität und Individualität analysiert und zum Schluss kommt, dass die Berichte mehr über die römischen Normenvorstellungen aussagen, insbesondere welche Berichterstattung über die Reformation als zulässig angesehen wurde. Stefan Tilg bietet eine umfassende Analyse der Figur Luthers im protestantischen wie katholischen neulateinischen Drama, indem er Theaterstücke der unmittelbaren Zeitgenossen, aber auch des 16. und 17. Jh. in Bezug zueinander setzt. Abschließend zeigt Bernd Roling anschaulich anhand einiger protestantischer Autoren, wie Luther im Kontext konfessioneller Polemik und der konstruierten Negativfolie des „Dunklen Mittelalters“ zum Überwinder des „Verkommenen“ stilisiert wurde. Auch wenn die Referenzen auf die drei Leitbegriffe teilweise etwas unterbestimmt bleiben, schafft es dieser interessante Sammelbd., einen schlaglichtartigen Überblick der wichtigsten Forschungsrichtungen zu geben sowie über bereits Bekanntes hinauszugehen.+TABRE+Valentino Verdone
Saniye Al-Baghdadi, Die Repräsentation der Savoyer im 16. und 17. Jahrhundert, Petersberg (Michael Imhof Verlag) 2023, 256 pp., ill., ISBN 978-3-7319-0923-1, € 39,95.
Anche i duchi di Savoia hanno un proprio mito fondativo: è una delle „genealogie incredibili“ con cui la storiografia dell’età moderna si è familiarizzata in Italia a partire dagli studi di Roberto Bizzocchi. Incredibili per noi, credibili e necessarie per chi le poneva in essere, per fondare la propria ideologia politica il più lontano possibile nel tempo: per i Savoia, questo fondamento era il Sacro Romano Impero, di cui il ducato era parte. A inizio Quattrocento, il cronista di corte Cabaret creò la figura di Beroldo di Sassonia, nipote dell’imperatore Ottone III: Beroldo sarebbe stato il padre del primo conte di Savoia noto, Umberto Biancamano. La teoria delle origini sassoni sarebbe servita sino alla Restaurazione, a dire che i Savoia, di sangue imperiale e tedesco, erano i più naturali rappresentanti dell’Impero in tutta la zona adiacente alle Alpi occidentali, e avevano diritto di precedenza sugli altri principi italiani. L’argomento non è storiograficamente nuovo in Italia, ma è seriamente frequentato dagli anni Ottanta del Novecento da diversi studiosi piemontesi (almeno dal catalogo della mostra „I rami incisi dell’Archivio di Corte“, tenutasi a Torino nel 1981), nel quadro più ampio degli studi sulla regalità dei Savoia e sulle sue componenti politiche, simboliche, religiose, figurative e architettoniche. Così storici del diritto, dell’età moderna, della Chiesa, dell’arte e dell’architettura, archivisti, facenti capo all’Università di Torino, al Centro Studi delle Residenze Reali Sabaude, all’Archivio di Stato (tra cui, solo per citarne alcuni, Elisa Mongiano, Robert Oresko, Andrea Merlotti, Paolo Cozzo, Clara Goria e chi scrive) hanno pubblicato negli anni una notevole congerie di immagini e testi. Certo, si tratta di lavori scritti in italiano, e quindi poco conosciuti fuori dai confini della penisola; si aggiunga il fatto che in Italia lo Stato sabaudo è considerato periferico e – a torto – estraneo alla storia politica italiana, cosicché fuori dal Piemonte la comunità degli storici s’interessa poco ai Savoia. Un primo merito del bel libro di Saniye Al-Baghdadi è quindi di far circolare a Nord delle Alpi i risultati di questo filone storiografico altrimenti poco conosciuto: filone nel quale lei stessa si è ben inserita sin dal 2012, partecipando al convegno „Stato sabaudo e Sacro Romano Impero“, tenutosi alla Reggia di Venaria (all’origine di un vol. dallo stesso titolo, curato da Marco Bellabarba e Andrea Merlotti, Bologna 2014). Il presente libro – nato dalla dissertazione dell’autrice tenuta nel 2018 presso la Ruhr-Universität di Bochum – è incentrato sugli anni che vanno dal periodo in cui il duca Emanuele Filiberto combatteva al servizio di Carlo V contro i francesi sino alla seconda metà del Seicento. In questo contesto il duca recupera la leggenda delle origini sassoni stabilendo con i Wettin relazioni diplomatiche, ma anche storiografiche. La dinastia sabauda e la sua nuova capitale, Torino, si avvalgono di una storiografia rinnovata, opera dell’umanista e antiquario Filiberto Pingone, che facendo ulteriormente risalire la genealogia a Vitichindo (Widukind) re dei Sassoni, e prima di lui a Sigueardo (Sieghart), recepisce la produzione dei suoi omologhi di Dresda, come Georg Agricola. Produzione rispecchiata anche dal nuovo stemma adottato da Emanuele Filiberto per dirsi „ain rechter und gueter Theutscher“. Su questi temi s’incentra l’intera decorazione del Salone della Guardia Svizzera (già delle Glorie Sassoni) del Palazzo Reale di Torino, negli anni 1660, che l’autrice legge anche in relazione alle rivendicazioni dei Savoia nei confronti dei Gonzaga (altri pretesi discendenti dalla Casa di Sassonia, per il tramite dei Paleologi) intorno al ducato di Monferrato. I capitoli successivi sono dedicati all’invenzione delle tradizioni dinastiche sabaude, in specie in rapporto alla „Sakralisierung der Dynastie“ attraverso la beatificazione del duca Amedeo IX, la venerazione della Sindone e il culto „imperiale“ di san Maurizio; alla „Monumentalisierung“ della storia dinastica nell’„Histoire généalogique de la Royal Maison de Savoye“ di Samuel Guichenon (Lyon 1660) col ricorso a „documenta“ e „monumenta“. Nel capitolo conclusivo, l’autrice sintetizza la cultura della rappresentazione sabauda, definendola a ragione una „Erfolgsgeschichte“. Grazie alla sua padronanza delle fonti tedesche, Sanyie Al-Baghdadi ha saputo collocare il discorso delle origini sassoni dei Savoia nel contesto più ampio della politica simbolica della dinastia, di cui offre un utile quadro generale, costantemente posto a confronto con il mondo germanico: un confronto che finora sfuggiva in gran parte, e che è il vero punto di forza di questo libro ricco di contenuti e magnifiche illustrazioni. La sua innovazione sta nel non aver isolato la narrazione genealogica sui vari Vitichindo e Beroldo, limitandola alla versione sabauda, ma nell’averla messa in rapporto con quello che succedeva al di là delle Alpi con la storiografia dinastica dei Wettin, nel quadro dei rapporti tra le due corti, evidenziandone a fondo la portata politica.+TABRE+Luisa Gentile
Jean Sénié, Entre l’aigle, les lys et la tiare. Les relations des cardinaux d’Este avec le royaume de France (1530–1590), Firenze (Firenze University Press) 2021 (Premio Istituto Sangalli per la storia religiosa 11), 355 S., 8 Abb., ISBN 978-88-5518-518-9, € 18,90.
Die Studie untersucht die diplomatischen und religiösen Aktivitäten der Kardinäle aus dem Hause Este. Ihr Erkenntnisziel liegt in der Aufdeckung ihrer verschiedenen Handlungsebenen und deren geopolitischer Grundlagen. Dabei wird insbesondere die Rolle der Kardinäle als – politische und kulturelle – Vermittler zwischen Italien und Frankreich fokussiert. Im Mittelpunkt stehen die Akteure Ippolito II., der zweite Sohn Herzog Alfonsos I. von Ferrara, und sein Neffe Luigi dʼEste, Sohn von Ercole II. und Renée de France, deren gestaltende Beteiligung an den politischen Ereignissen und an der Bewältigung der Herausforderungen des 16. Jh. der Vf. analysiert. Unter Berücksichtigung ihrer vielfältigen Aktivitäten und materiellen Präsenz auf der Apenninenhalbinsel und der internationalen politischen und höfischen Bühne legt die Studie eine sich herausbildende katholische Identität offen, deren Ausdrucks- und Darstellungsformen im transalpinen Austausch mannigfaltigen Anpassungen unterworfen waren. Im Anschluss an eine fundierte Einleitung, in der die Protagonisten und ihre Handlungsrahmen nebst den einschlägigen Quellengrundlagen vorgestellt und prägnant in den internationalen Forschungskontext eingeordnet werden, gliedert sich die Darstellung, die sich methodisch an Konzepten einer neuen Geschichte der Außenbeziehungen und religiöser Praktiken, der Analyse von Verflechtungen und Rollenvielfalt in der Diversität sozialer Interaktionen orientiert, in sechs Kapitel. Die ersten drei Kapitel wenden sich in chronologischer Ordnung Ippolito II. zu, wobei Kapitel I seinem Aufenthalt am französischen Hof und in Frankreich in den Jahren 1536 bis 1549 gewidmet ist. Während Kapitel II seine Rolle in den letzten Italienkriegen 1549 bis 1559 in den Blick nimmt, wendet sich Kapitel III seinen Aktivitäten im Dienste des Papsttums, des Herzogtums und des französischen Königs in Italien zwischen dem Frieden von Cateau-Cambrésis 1559 und seinem Tod 1572 zu. Die Kapitel IV und V analysieren in systematischer Weise zwei Handlungsräume der Kardinäle: In Kapitel IV werden Hof und höfisches Leben untersucht; dabei wird der Blick erstens auf die – nicht zuletzt materielle – Gestaltung der Residenzen gelegt, zweitens auf Spiel, Divertissements sowie Tafelfreuden und drittens auf die Zirkulation kultureller Modelle und Praktiken zwischen Frankreich und Italien. Kapitel V liefert eine detaillierte Erschließung der kirchlichen Pfründe beider Kardinäle, ihrer Verwaltung und des finanziellen Anteils sowie (kirchen-) politischen Gewichts der Einkünfte aus französischen Quellen. Kapitel VI wendet sich schließlich der Neuausrichtung der Beziehungen zu Frankreich im römischen Aktionsradius Luigis zwischen 1577 und 1586 zu. Zwar reproduziert das Übergewicht der dem Onkel gewidmeten Kapitel die traditionelle Zurücksetzung seines Neffen in der Historiographie und ist der Wechsel zwischen chronologisch und thematisch angelegten Kapiteln auf den ersten Blick nicht eingängig; da die Lesenden aber von der Einleitung an mit den grundlegenden Informationen versorgt werden, Luigis Aktivitäten und Rollen weitaus differenzierter entschlüsselt werden als in der älteren Forschung und auch die chronologisch zugeschnittenen Kapitel in weiten Teilen strukturellen Fragestellungen folgen, erweist sich die Argumentation als nachvollziehbar und überzeugend. Ein Fazit konturiert die Ergebnisse des Buches prägnant, während ein Anhang eine instruktive Übersicht über die Akteure im Umfeld der beiden Kardinäle nebst Quellenbelegen bietet und Quellen- und Literaturverzeichnisse sowie ein Register das Werk abrunden. Die breite Grundlage archivalischer Quellen – insbesondere französischer, vatikanischer und italienischer, aber auch englischer Provenienz – verdient eine besondere Würdigung. Umfangreiche Bestände des französischen Nationalarchivs, der Nationalbibliothek, des Archivs des Außenministeriums, von sechs Departements-Archiven und weiterer Bibliotheken mit ihren Hss.-Beständen, der Vatikanischen Bibliothek, des Apostolischen Vatikanischen Archivs, der Staatsarchive und Bibliotheken in sechs italienischen Städten bieten neben den ergänzend konsultierten englischen National Archives und der British Library eine beeindruckende Materialdichte dar, von der wichtige Teile durch die ältere Forschung vernachlässigt worden waren. Es gelingt dem Vf. darzulegen, dass die politischen Aktivitäten der Kardinäle nicht getrennt von ihrer kulturellen Rolle und insbesondere ihrem Kunstmäzenatentum zu bewerten sind, sondern beides in ihrem durch die Pole Ferrara, Rom und Frankreich, dessen Protektoren die beiden Kardinäle von 1548 bis zu Luigis Tod Ende 1586 waren, generierten autonomen sozialen Handlungsraum eng miteinander verwoben ist.+TABRE+Guido Braun
Riccarda Suitner, Venice and the Radical Reformation. Italian Anabaptism and Antitrinitarianism in European Context, Göttingen (Vandenhoeck & Ruprecht Verlage) 2023 (Refo 500 Academic Studies 101), 272 pp., ISBN 978-3-525-50019-4, € 100.
The engaging volume by Riccarda Suitner delves into Venetian and Paduan non-conformism, which peaked in the 1550s and 1560s but was nearly eradicated by the Inquisition by 1582. While not extremely numerous (Suitner suggests that it may have had at least a thousand adherents over the course of the sixteenth century), the movement exerted a substantial impact on European intellectual and religious history, yet its full significance remains underestimated. In the second half of the twentieth century, Aldo Stella was among the first to provide a comprehensive introduction to Venetian Anabaptism and Antitrinitarianism. He offered insights into the dynamics of the movement he called the Italian Hutterists, drawing from materials of the Venetian inquisition stored at the Archivio di Stato di Venezia. The contributions of Carlo Ginzburg, Paul F. Grendler, Andrea Del Col, and other scholars remain noteworthy in exploring Venetian Inquisition sources, mechanisms, contexts, and individual trials. Most recently, two new monographs have appeared discussing the key roles of physicians at this religious movement, including Girolamo Donzellini, who was put to death, and Niccolò Buccella, who continued his activities in exile. Suitner’s perceptive and comprehensive volume presents the most consistent general assessment of the movement, making it a recommended first choice for modern readers encountering the topic of early modern Italian heterodoxy. The book comprises an introduction along with five chapters: the picture and dynamics of sixteenth-century Venice dissent; the doctrinal way of Italian Antitrinitarianism and Anabaptism; the role of the University of Padua, particularly its medical studies, in relation to the movement; the interconnections of the Radical Christian doctrine with Judaism and Islam; and the eventual end of the movement, which continued to transform into Socinianism and laid the groundwork for the Enlightenment. From these topics, Suitner generates an intriguing discourse on the Venetian radicalism, conducting a deep contextual analysis. On the one hand, she regards the movement as the „embryonic state“ of Antitrinitarianism and Socinianism emerging in East-Central Europe (Transylvania, Lithuania, Poland and Moravia) from around the 1570s. Conversely, the author treats it as a separate religious phenomenon – one of the main offshoots of European Anabaptism – arguing against its assimilation with the Socinianism as misleading. The author combines the exploration of genuine texts with the documentation of Inquisition, which remains crucial for reconstructing the clandestine social networks and portraying figures along with their heterogeneous teachings. She depicts how the new lifestyle and social ethics involved Venetian medical practitioners, sfratati, craftsmen and nobiles in the Anabaptist community of brethren. By discussing the exclusive validity of baptism received as an adult and pacifism as a uniform platform of German and Italian Anabaptism, Suitner demonstrates how the term ‚Anabaptism‘, thought to be used by contemporaries, did not correspond to the new born baptismal doctrines, which dealt not with a second baptism but rather with a single baptism in adulthood. Indeed, it is characteristic of the majority terms applied to the exponents of the Reformation, starting with ‚Lutherans‘, which were introduced by the opponents who neglected the new hermeneutics of the reformers. On the other hand, within the context of mid-sixteenth century theological uncertainty, Suitner extracts key ideas from the Venetian dottrina nuova, which was articulated by a Venetian Anabaptist council in September 1550 and testified by survived documents. The author addresses these controversial questions of the doctrine as the cornerstone aspects of Venetian Anabaptism and deconstructs its polygenetic nature. The fundamental approach of the Italian „brothers“, conceiving mortality for sinners and immortality for the righteous, not only explains the other doctrinal aspects but also elucidates their stoic approach to death, as demonstrated by some of their famous martyrs, including Giulio Gherlandi and Francesco della Sega. Suitner’s book provides valuable insights for further studies on the dynamics of the transfer of Italian Anabaptism across East-Central Europe prior to the 1570s. The processes of Venetian movement and the development of heterodoxy in East-Central Europe were not simply consecutive but rather parallel, with Venetian Anabaptism and East-Central European heterodoxy being interconnected from the 1550s onwards. This was primarily due to the Polish and Lithuanian students at Padua (i. e. Peter Gonesius from Lithuania in 1555), as well as network created by Giorgio Biandrata, which started to develop particularly during his second exile in 1553 from Venice to Geneva, then to Poland and Lithuania in 1558, and finally to Transylvania in 1563. The operational dynamics of the network connecting early Venetian Anabaptism with its proponents in East-Central Europe would supplement this fascinating episode of early modern Christendom.+TABRE+Dainora Pociūtė
Stefan Hanß, Narrating the Dragoman’s Self in the Veneto-Ottoman Balkans, c. 1550–1650, London-New York (Routledge) 2023 (Life Narratives of the Ottoman Realm. Individual and Empire in the Near East), 324 S., 35 Abb., ISBN 978-0-367-23369-3, GBP 135.
Ausgangspunkt der vorliegenden Monografie ist der sechs Folii umfassende Reisebericht des Dragomans Genesino Salvago (Edition S. 271–283), der über vier Jahrzehnte als Übersetzer im Dienste der an der Hohen Pforte tätigen venezianischen diplomatischen Gesandten stand. Zwischen März und Mai des Jahres 1618 unternahm Genesino in geheimer Mission eine Reise, die ihn von Konstantinopel aus quer durch den Balkan führte – durch die Gebiete der heutigen Länder Türkei, Bulgarien, Serbien, Kosovo, Bosnien und Herzegowina sowie Kroatien – und schließlich in Venedig endete. Seine Aufgabe bestand darin, für den neu ernannten venezianischen Bailo Francesco Contarini (Doge 1623–1624) aktuelle und verlässliche Informationen über einen größtenteils unbekannten Landstrich zu sammeln und zu prüfen, ob die Anreise des Bailo über diese Reiseroute sicher sei. Das Manuskript blieb über 200 Jahre im Familienbesitz der Contarini und wurde schließlich von Rawdon Lubbock Brown gekauft, dem Hg. des „Calendar of State Papers and Manuscripts Relating to English Affairs Existing in the Archives of Venice and Northern Italy“. Nach seinem Tod im Jahr 1883 vermachte er seine Manuskriptsammlung dem British Public Record Office, wo der Reisebericht bis heute aufbewahrt wird. Dem Autor gelingt es, durch die Einbeziehung umfangreichen zusätzlichen Quellenmaterials, die Lebensgeschichte Genesino Salvagos zu rekonstruieren und seinen Reisebericht in einen umfassenden historischen Kontext einzuordnen. Das Buch fügt sich in eine Reihe zahlreicher Publikationen ein, die in den letzten Jahren erschienen sind und sich mit diplomatischen Akteurinnen und Akteuren der zweiten Reihe befassen. Insbesondere Dragomane, mit ihren teilweise abenteuerlichen Lebenswegen, stellen hierbei ein äußerst faszinierendes Untersuchungsobjekt darf. Im ersten Kapitel (S. 28–63) werden Genesinos Familiengeschichte und seine Biografie thematisiert. Er wurde im frühneuzeitlichen Konstantinopel in eine Familie Genueser Herkunft geboren, die sich im Laufe des 16. Jh. zu einer der „Dragomenen Dynastien“ entwickelt hatte. In diesen Familien war Vielsprachigkeit die Norm. Praktiken des Übersetzens und weitere wichtige Kenntnisse für eine erfolgreiche Dragomanenlaufbahn wurden von Generation zu Generation weitergegeben. Die Salvagos dienten den venezianischen Baili aber nicht nur in sprachmittlerischen Tätigkeiten, sondern waren auch wichtige Informationsbeschaffer, wie im zweiten Kapitel (S. 70–104) dargelegt wird, das Struktur, Inhalte und Erzählstrategien des Reiseberichtes ins Zentrum stellt. Die hohe Wertschätzung Genesinos als Dragoman und Informant zeigt sich unter anderem daran, dass er, obwohl er seit seiner Geburt eine körperliche Beeinträchtigung hatte und hinkte, mit der anspruchsvollen Reise durch den Balkan beauftragt wurde. Der Bericht enthält Informationen über die Infrastruktur des Reisens (Beschaffenheit der Straßen, Brücken, Übernachtungs- und Versorgungsmöglichkeiten), Landschaften und das Durch- sowie Überschreiten von Grenzgebieten bei Klis, Split und Trogir. Im dritten Abschnitt (S. 108–189) wird detailliert auf die zeitgenössischen politischen, diplomatischen und wirtschaftlichen Bedingungen Südosteuropas mit einem erweiterten Blick auf den Mittelmeerraum eingegangen. Schließlich ordnet Hanß im letzten Teil des Buches (S. 194–258) den Reisebericht in das weitläufige Spektrum anderer zeitgenössischer Textsorten wie Übersetzungen, Bittschriften, Korrespondenzen, Berichte und zeitgenössische Literatur ein, mit denen Genesino zu tun hatte. Durch das Verfassen eines Selbstzeugnisses in Form eines Reiseberichtes gelang es Genesino, stärker Präsenz zu zeigen, aus der Unsichtbarkeit der klassischen Übersetzungsarbeit hervorzutreten und so die über Generationen erarbeitete Position seiner Familie auch für die Zukunft zu stärken. Zwischen den einzelnen Kapiteln sind kürzere Texte eingefügt (S. 65–69, 105–107, 191–193, 259–263), in denen Hanß über seinen Forschungs- und Schreibprozess berichtet, der auch darin bestand, einen Teil von Genesinos Reiseroute 400 Jahre nach dessen Reise zu erkunden. Hanß reflektiert dabei seine Rolle hinsichtlich der Strukturierung des Textes und der Erzählentscheidungen und lässt so die Leserinnen und Leser am Entstehungsprozess des Buches teilhaben. Diese Abschnitte sind aufschlussreich und fügen sich hervorragend in das Gesamtkonzept des Buches ein. Die hier vorgestellte, exzellent geschriebene Studie verdeutlicht eindrücklich, dass eine nur wenige Seiten umfassende Quelle Ausgangspunkt und Inspiration für einen umfangreichen Themenaufriss sein kann. Das Buch stellt vor allem, jedoch nicht ausschließlich, eine große Bereicherung für Historikerinnen und Historiker dar, die sich mit der frühneuzeitlichen Geschichte des Mittelmeerraums, den venezianisch-osmanischen Beziehungen, diplomatischen Akteurinnen und Akteuren der zweiten Reihe sowie mit Selbstzeugnissen aus einer transkulturellen Perspektive auseinandersetzen.+TABRE++TABRE+Elisabeth Lobenwein
Il Cardinale. Maurizio di Savoia, mecenate, diplomatico e politico (1593–1657), a cura di Jorge Morales/Cristina Santarelli/Franca Varallo, Roma (Carocci) 2023 (Studi Storici 406. Studi sabaudi 13), 2023, 511 pp., ISBN 978-88-290-1526-9, € 57.
Figure di porporati protagonisti della politica non solo romana, servitori di dinastie europee, mecenati sono stati al centro di numerose ricerche non solo di storici italiani. Al ruolo cardinalizio nelle sue molteplici declinazioni è stata anche dedicata una sintesi richiamata nel corposo volume in cui si pubblicano gli atti del convegno: „Maurizio di Savoia. Cardinale, principe e mecenate tra Roma e Torino“, svoltosi nel capoluogo piemontese il 23–25 settembre 2021. Articolato in sette parti (1. „Il Cardinale e il mondo religioso e intellettuale“, pp. 37–99; 2. „Il Cardinale e la diplomazia europea“, pp. 103–150; 3. „L’azione politica del Cardinale“, pp. 153–197; 4. „Architettura e identità culturale“, pp. 201–237; 5. „Mecenatismo e arti figurative“, pp. 241–311; 6. „Feste, cerimonie, spettacoli e spazi artistici“, pp. 315–397; 7. „Il Cardinale e la musica“, pp. 401–478), è preceduto dall’introduzione dei curatori („Le ragioni di un convegno e di un volume“, pp. 11–17) e dalla prolusione di Paolo Cozzo, „Maurizio di Savoia, una ‚figura del baroccoʻ. Note di storia e storiografia“ (pp. 19–33). I curatori opportunamente sottolineano come la storiografia sul Piemonte sabaudo, pur arricchitasi di ricerche recenti e originali, abbia sostanzialmente trascurato di considerare le molteplici sfaccettature della figura di Maurizio di Savoia proiettandola nel quadro politico e diplomatico, non solo italiano, ma europeo, per privilegiare piuttosto gli aspetti della committenza artistica e del generoso mecenatismo. Le pagine di Paolo Cozzo analizzano invece, in modo critico ed esaustivo, il quadro storiografico generale che ha determinato e condizionato la posizione marginale della figura di questo cardinale principe, a partire dal Seicento. Proprio „Il pregiudizio sul Seicento“, secolo di ferro e di „decadenza“, sarebbe stato mitigato solo in parte dall’attenzione alle arti del „secolo barocco“ e dagli studi sulla corte. In questa apertura storiografica, avrebbe trovato spazio soprattutto l’attenzione per la committenza del cardinale sabaudo. Anche gli studi sulla dinastia sabauda avrebbero contribuito a metter da parte una figura così policroma e complessa come quella di Maurizio. Soprattutto dalla metà dell’Ottocento, infatti, essa doveva diventare la protagonista di un progetto di unificazione nazionale ed aveva quindi bisogno di altri personaggi della sua storia da erigere ad eroi. Filofrancese, protettore del regno di Francia (1621–1637), dopo il felice esito della trattativa per il matrimonio del fratello Vittorio Amedeo con Cristina di Francia, Maurizio non aveva infatti esitato a mostrare inclinazioni verso la Spagna. Alla morte del cardinale Dietrichstein (1636), divennero chiare le sue „aderenze“ verso gli Asburgo, fino ad essere dichiarato „protettore di Germania, e Pensionario di Spagna“ (1637). Se questi passaggi avevano segnato negativamente la sua immagine agli occhi della storiografia ottocentesca, le doppie o plurime lealtà sono invece considerate negli studi recenti sulla corte e sulla diplomazia un elemento caratterizzante figure di spicco della prima età moderna, in particolare cardinali nelle loro funzioni di protettori delle monarchie. I saggi, ampi e ben documentati, raccolti nelle sezioni dedicate alla diplomazia, sottolineano la proiezione europea della figura di Maurizio, l’inscindibile rapporto fra il papato, la corte romana e il ducato nel mosso panorama delle alleanze in un tournant della storia europea segnato dalla guerra dei Trent’anni e delle sue appendici italiane, e in particolare nell’area padana. Erano già note agli studiosi le qualità di mecenate del cardinale, sia in ambito letterario – basti ricordare l’Accademia dei Desiosi – che nel campo delle arti. I contributi raccolti nelle parti 5–7 del presente volume completano con la ricca e originale documentazione aspetti essenziali della committenza, sia a Roma che nel ducato sabaudo di un indiscusso protagonista del „Seicento ritrovato“. In particolare, emerge con chiarezza come anche per il cardinale principe Maurizio la scena romana fu il luogo privilegiato per l’ostentare la costosa magnificenza. Così, anche la ricerca di reliquie nella Roma seicentesca fu usata dal porporato per proporsi da segmento ineludibile per arricchire e marcare le pratiche devozionali e la loro manifestazione, anche artistica, nel ducato. Il linguaggio simbolico di feste, apparati effimeri e la committenza musicale divennero anche per lui un inscindibile aspetto del linguaggio politico. La residenza romana di Maurizio – il palazzo Orsini di Montegiordano, nel cuore della Città Eterna – si propose come il centro della „prodiga liberalità e del raffinato mecenatismo“ che non doveva parlare solo alla città, al papato, al ducato sabaudo ma a tutta l’Europa.+TABRE+Irene Fosi
Anna Lisa Schino, Batailles libertines. La vie et l’œuvre de Gabriel Naudé, traduction de l’italien de Stéphanie Vermot-Petit-Outhenin, Paris (Honoré Champion) 2020 (Libre pensée et litterature clandestine 76), 342 pp., ISBN 978-2-7453-5301-6, € 55.
Erudito, libertino ed antidogmatico, il medico e bibliotecario francese Gabriel Naudé (1600–1653) può essere annoverato tra i maggiori rappresentanti del libertinismo erudito seicentesco. Anna Lisa Schino è una delle più importanti studiose del bibliotecario francese, a cui ha dedicato diversi contributi nel corso degli anni. In questo importante vol., che è la traduzione francese di un libro pubblicato in Italia nel 2014 con il titolo „Battaglie libertine. La vita e le opere di Gabriel Naudé“, Schino ripercorre la vita e le opere del bibliotecario di Mazzarino e con accuratezza storica ne ricostruisce il pensiero tracciando le varie tendenze culturali che lo hanno influenzato. Il libro si compone di otto capitoli. Nel primo capitolo l’autrice ricostruisce la vita di Naudé enfatizzando in particolar modo l’importanza degli anni formativi trascorsi in Italia tra Padova e Roma. Nei capitoli seguenti, Schino delinea il programma razionalista di Naudé per poi concentrarsi sulla concreta applicazione di tale programma (la critica ai rosacrociani e la demistificazione della magia) e sul bagaglio culturale che maggiormente ha influenzato il bibliotecario francese (l’aristotelismo padovano in filosofia e il machiavellismo in politica). Due grandi progetti contraddistinguono l’esperienza intellettuale di Naudé: 1) la costruzione di una grande biblioteca aperta a tutti i dotti, 2) una critica sistematica di miti e superstizioni. L’impiego come bibliotecario prima sotto Richelieu e poi sotto Mazzarino gli consente di allestire una delle biblioteche più prestigiose d’Europa. Su direttiva del cardinale Mazzarino, Naudé trascorre anni in cerca di libri e manoscritti rari. Schino sottolinea che la critica del sapere non si concretizza mai in un progetto unitario. Pur affrontando questioni e problemi diversi tra loro, il minimo comune denominatore dell’approccio di Naudé può essere riscontrato in una critica serrata alla metafisica considerata come una forma di conoscenza inattingibile per le capacità conoscitive umane. La metafisica, secondo Naudé, dovrebbe lasciare spazio agli studi storici (p. 92). La critica della metafisica è certamente un retaggio della formazione padovana di Naudé. A Padova, infatti, il futuro bibliotecario è allievo di Cesare Cremonini, filosofo aristotelico che non teme di contrastare il potere della chiesa post-tridentina. Un „Pomponazzi redivivus“ lo definisce Naudé in virtù delle posizioni di Cremonini contro l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio (p. 18–26). Per Naudé – sottolinea Schino – l’aristotelismo è „una lezione di empirismo“, la consapevolezza che l’unica forma di conoscenza attingibile dall’uomo è quella naturale (p. 230). Sin dalla seconda metà del Quattrocento, la rivalutazione della magia proposta da filosofi neoplatonici ed ermetici come Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola aveva suscitato enormi polemiche. Seguendo le orme di Pomponazzi, Naudé tenta di far rientrare la magia nell’alveo dei fenomeni naturali e demistifica le credenze in demoni e nei loro presunti rapporti con gli esseri umani. Egli si mostra anche profondamente scettico del Sabbath, la riunione notturna delle streghe. Nel loro tristemente celebre manuale per la caccia alle streghe, il „Malleus Maleficarum“, Heinrich Kramer (1430–1505) e Jacob Sprenger (1436–1495) sostengono la veridicità dei Sabbath e, di conseguenza, la necessità di scovare e giustiziare le streghe. Naudé nega l’esistenza dei Sabbath e spiega i casi di confessione come una forma di immaginazione o autosuggestione da parte delle donne che sostenevano di aver partecipato agli incontri notturni con il Diavolo e i suoi demoni. Tale posizione gli vale l’accusa di ateismo da parte del cardinale Orazio Giustiniani (pp. 37–39). Da un punto di vista filosofico, Naudé nega l’esistenza di corpi materiali separati dal corpo. Tale prospettiva non implica soltanto che i demoni non esistono, ma – sulla scia di Pomponazzi e Cremonini – mette in discussione la veridicità del dogma cristiano dell’immortalità dell’anima (p. 238). L’autrice evidenzia che l’approccio antimetafisico di Naudé ha evidenti ripercussioni per la sua visione politica. Grande ammiratore di Machiavelli, Naudé considera lo Stato come necessario ed insostituibile. Il compito dell’autorità statale, secondo Naudé, era quello di porre un freno agli istinti irrazionali della folla e, in tal modo, di consentire la coesistenza pacifica tra gli individui (pp. 263–265). Soffermandosi sull’atteggiamento di Naudé nei confronti di Pietro Pomponazzi, l’autrice riesce far emergere ed analizzare accuratamente l’approccio antidogmatico di Naudé. Pur apprezzando profondamente la lezione del filosofo padovano da cui è così profondamente influenzato in merito alla questione demonologica, Naudé non lesina di criticare Pomponazzi per la sua negazione del libero arbitrio. Pomponazzi si era fatto sostenitore di una lettura deterministica di Aristotele. Naudé, attingendo da Alessandro di Afrodisia, rivendica l’esistenza del libero arbitrio (pp. 236–239). Schino ricostruisce la personalità poliedrica di Naudé e ne traccia con successo le influenze culturali rivendicando il ruolo centrale di Naudé nei dibattiti della prima età moderna. Il libro rappresenta un contributo indispensabile per gli studi sul libertinismo erudito seicentesco.+TABRE+Giovanni Tortoriello
Noria K. Litaker, Bedazzled Saints. Catacomb Relics in Early Modern Bavaria, Charlottesville-London (University of Virginia Press) 2023 (Studies in Early Modern German History), 273 S., 52 Abb., ISBN 978-0-8139-4994-9, US$ 35.
Die Verbreitung römischer „Katakombenheiliger“ über ganz Europa und in Übersee stellt ein frühneuzeitliches Frömmigkeitsphänomen erster Ordnung dar und ist nach der Pionierleistung von Ernst Alfred Stückelberg („Geschichte der Reliquien in der Schweiz“, 1902–1908) in den letzten Jahrzehnten wiederkehrend untersucht worden. Mehr als an den großen Tagungsbd. der École française de Rome („Reliques romaines“, hg. von Stéphane Baciocchi und Christophe Duhamelle, 2016) erinnert die hier anzuzeigende, aus einer historischen Diss. der University of Pennsylvania hervorgegangene Untersuchung an das Buch von Hansjakob Achermann, der schon 1979 die zeitgleiche Aufnahme römischer Heiltümer im Bodenseeraum bearbeitet hatte. Litakers Bd., der sich sehr schön durch das Abbildungsmaterial in Paul Koudounarisʼ eher populär gehaltenen „Heavenly Bodies“ (2013) ergänzen lässt, liegt ein geduldiges Archivstudium zugrunde. Es hat der Autorin ermöglicht, annähernd 400 zwischen 1590 (vermehrt seit 1648) und 1803 aus Rom nach Bayern überführte Skelette vermeintlicher Märtyrer beiderlei Geschlechts nachzuweisen. Etwa die Hälfte davon befindet sich noch heute auf ihren angestammten Altären. Zwar kam die Allianz der Wittelsbacher mit dem Papsttum der neuentfachten Reliquienbegeisterung entgegen, doch ging die Initiative für deren Erwerb in der Regel von den Klöstern und Gemeinden aus. Wenn Litaker ihre Untersuchung auf die Translation mehr oder minder vollständiger Skelette konzentriert („der gantze Leib“, wie es in den Bittgesuchen heißt), so deshalb, weil erst sie die spezifische Form der Reliquienpräsentation ganzer, mit „Klosterarbeit“ verzierter Knochengestalten in gläsernen Schreinen mit sich brachten. In ihnen kulminierte der Autorin zufolge die schon im hohen und späten Mittelalter sich anbahnende Schaufrömmigkeit auf einmalige Weise. Die „Verlebendigung“ der Märtyrer fiel hier sehr viel intensiver aus, als ein vereinzelter Knochen es ermöglicht hätte, weshalb die an einem einzigen Platz bewahrten und gerade nicht – wie vormals üblich – auf mehrere Orte verteilten Heiligen denn auch eine besonders innige Beziehung von Schutz und Verehrung mit den Gemeinschaften, die ihre Überreste bewahrten, entstehen ließen. Die an das Material gerichteten Fragen sind ansonsten jene, die schon Achermann gestellt hatte, und man mag es ein wenig bedauern, dass seine Ergebnisse nicht öfters vergleichend herangezogen werden: Auf welchen Wegen und mittels welcher Verbindungen gelangten die heiligen Leiber in die bayrischen Kirchen? Mit welchen Festlichkeiten hat man sie dort empfangen? Wie wurden sie künstlerisch auf ihre öffentliche Ausstellung vorbereitet, und in welchen Inszenierungen bekamen die Gläubigen diese milites Christi zu Gesicht? Aufgrund eingehender Autopsien und unterstützt durch die Reliquienrestauratorin Uta Ludwig kann Litaker an ausgewählten Beispielen anschaulich machen, wieviele der Knochen an einzelnen Skeletten durch Holz, Wachs und Pappmaschee ersetzt worden sind, und welche Metallscharniere nötig waren, um ihre besonderen Körperhaltungen zu gewährleisten. Dem Bemühen, den weitgehend anonymen Heiligen eigene Viten nachzureichen, den Motiven ihrer Verehrung und der späten Blüte ihrer Wertschätzung im 19. Jh. sind weitere Abschnitte gewidmet. Wann und aus welchen Gründen die Anbetung zusammen mit dem Phänomen der „Katakombenheiligen“ insgesamt am Ende fragwürdig wurde, kommt hingegen nicht zur Sprache. Vielmehr suggeriert die Autorin ihr Weiterleben in der Volksfrömmigkeit bis auf den heutigen Tag. Anders als Achermann will Litaker hinter den Märtyrertranslationen aufgrund ihrer topografischen Streuung über die einzelnen Regionen Bayerns und der Pfalz keinen dezidiert anti-protestantischen Impetus erkennen, eher sei es hier um die „expression of an affermativ Catholic faith“ (S. 13) gegangen. Natürlich mag man einwenden, wer oder was diese Selbstversicherung notwendig gemacht hatte, wenn nicht die Erschütterung durch Reformation und Glaubenskriege. Über Achermann geht die Autorin vor allem dort hinaus, wo sie in den Altargestaltungen einen engen theologischen Bezug des in der Messe sich wiederholenden Opfers Christi zum Tod der Märtyrer nachweisen kann. Ihr unübersehbar zur Schau gestelltes, häufig ebenfalls aus Rom übermitteltes „Blut“ deutet auf das Blut Christi und zugleich auf die eucharistische Wandlung. Zu fragen gewesen wäre allerdings, welchen liturgischen Status die vermeintlichen Heiligen in Bayern erlangten, und welche Art von Festen ihnen, zumal wenn sie nicht im „Martyrologium Romanum“ nachzuweisen waren, was für die Mehrzahl von ihnen galt, zugestanden wurde. Dass die „Katakombenheiligen“ in der Hierarchie liturgischer Festkalender aus römischer Sicht zumeist nur als Reliquien zweiter Klasse zählten, ist ebenso bekannt wie der Umstand, dass man sich in den Regionen nördlich der Alpen gern über die römischen Vorgaben hinwegzusetzen pflegte. Leider sind die hierzu vorgelegten Ergebnisse von Andrea Polonyi („Wenn mit Katakombenheiligen aus Rom neue Traditionen begründet werden“, 1998) der Autorin unbekannt geblieben. Sie hätten ihr Thema um eine bedeutende Dimension erweitert.+TABRE+Ingo Herklotz
Rita Foti, I graffiti delle Carceri segrete del Santo Uffizio di Palermo. Inventario. Progetto e cura di G. Fiume, Palermo (Palermo University Press-Unipapress) 2023, 626 pp., ISBN 978-88-5509-485-6, € 20 (cartaceo)/€ 30 (digitale).
A pochi passi dalla rada di Palermo, il complesso monumentale di Palazzo Chiaramonte, che si apre su piazza Marina, custodisce una „Sistina della disperazione“, realizzata da anonime mani sofferenti sulle pareti di quello che fu un luogo di segregazione. Dal 1603 fino alla fine del Settecento, infatti, il palazzo fu la sede del Tribunale del Sant’Ufficio della Suprema Inquisizione, che negli anni immediatamente successivi al suo insediamento in loco fece costruire una serie di edifici carcerari: in attesa del processo e della pena, vi furono rinchiusi uomini e donne accusati di eresia e di devianza. Alcuni di essi, malgrado le condizioni terribili della prigionia, l’angoscia per le dolorose torture, la sofferenza per il proprio stato e per la propria famiglia, esposta al pubblico ludibrio, lasciarono segni della loro permanenza fra quelle mura, oggi eloquenti. Le pareti di queste stanze sono, infatti, un palinsesto di sconcertante meraviglia per le decine e decine di scritte e raffigurazioni scoperte per caso (una prima parte nel 1906 da Giuseppe Pitrè, una seconda parte negli anni Sessanta da Leonardo Sciascia e un’ultima parte durante i lavori degli anni Duemila). Si tratta di un patrimonio ineguagliabile, fragile e prezioso come una reliquia, che il tempo sta lentamente inesorabilmente cancellando e che rischia di scomparire, se non gli vengono prestate le cure necessarie. Innanzitutto per questo è più che meritorio il progetto di salvaguardia promosso da Giovanna Fiume, che da anni si spende affinché questo luogo e le testimonianze che esso custodisce siano adeguatamente trattate e valorizzate. Il vol. dedicato a quest’opera parietale da Rita Foti non è un catalogo – una lista di quanto scritto e raffigurato sui muri delle prigioni – ma un autentico inventario, reso possibile dall’utilizzo dei più avanzati mezzi tecnologici, delle diverse componenti del corpus, graffito ma più spesso dipinto con mezzi di fortuna. Si tratta di una fonte „archivistica“, che ha l’intonaco a calce come pergamena, un „fondo miscellaneo“, che raccoglie una serie quanto mai varia di testi e disegni (264 i primi, 297 i secondi, realizzati nell’arco di un secolo circa, dai primi del Seicento ai primi del Settecento), che sono stati accuratamente individuati, fotografati, descritti o trascritti. In latino o in volgare (italiano, siciliano, inglese, castigliano, ebraico), talvolta bilingui, in prosa o in versi, espressi da grafie altisonanti e accurate o con mano inesperta, autonomi o legati alle composizioni figurative, brevi o lunghi, i testi sono quanto mai vari: notazioni estemporanee, composizioni poetiche, passi sacri, preghiere, invocazioni, invettive. Altrettanto variegati sono i soggetti iconografici: figure sacre (il Cristo patiens, ma anche triumphans, la Vergine, angeli, santi, la Trinità, l’incarnazione, l’eucarestia, oggetti liturgici) e immagini profane (dame e cavalieri, animali reali e fantastici, scudi, stemmi, cuori, cornucopie, navi – le tante imbarcazioni presenti a Lepanto –, carte geografiche). Con un poderoso lavoro di scavo, reso più difficoltoso dal fatto che l’archivio del tribunale palermitano venne dato alle fiamme dopo la sua chiusura nel 1782 dal viceré Caracciolo, Foti tenta di attribuire la paternità di scritte e immagini. Tuttavia, al di là di questo sforzo – compiuto ricorrendo alle più diverse fonti di informazione del tempo, sia scritte che manufatte, e alla bibliografia che si è addensata nel corso del tempo –, particolarmente interessante appare l’interpretazione che emerge dal suo studio. A proposito dei cicli decorativi rintracciati sulle pareti, Foti immagina che la partizione dello spazio bidimensionale e il riquadramento ai fini della profondità prospettica „… siano stati realizzati su mura appena imbiancate come una finestra sull’esterno che permette ai prigionieri di andare al di là delle strette mura del carcere e di duplicare la realtà attenuando il peso della reclusione e che successivamente siano diventati delle scene per la rappresentazione di santi e sante o per contenere i testi che spesso racchiudono o incorniciano“ (p. LIII). Il segno, grafico o pittorico, non è, o non è solo, quindi, l’espressione immediata di un disagio e un dispositivo consolatorio, ma il frutto di una progettualità e dell’affermazione di una dignità. Uomini e donne ai quali la prigionia inquisitoriale strappava ogni cosa e condannava, oltre che a una pena corporale, alla damnatio memoriae, nel segreto della detenzione si ribellano al loro destino disumanizzante. E non è un caso, forse, che molte delle immagini siano di natura religiosa: tramite esse e tramite le preghiere e le invocazioni trascritte, prigionieri e prigioniere di un tribunale ecclesiastico rivendicavano il loro diritto di coltivare quel sentimento religioso del quale venivano giudicati indegni, mantenendo – in un luogo tenebroso – „tenaci concetti“, chiarezza di intenti e lucidità.+TABRE+Nicoletta Bazzano
Paolo V Borghese (1605–1621). Arte e politica a Roma, in Europa e nel mondo, a cura di Francesca Cappelletti/Elena Fumagalli, Milano (Skira) 2022 (Progetto collezionismo in Galleria Borghese), 127 pp., ill., ISBN 978-88-572-4899-8, € 30.
Nel 2021, a quattrocento anni dalla morte di papa Paolo V Borghese, la Galleria Borghese di Roma ha voluto ricordare l’avvenimento con diverse iniziative, tra le quali figura la giornata di studi, tenutasi il 13 dicembre di quell’anno, da cui trae origine il presente vol., che vuole offrire, come affermano le curatrici nell’introduzione, „uno sguardo aggiornato e complessivo dei progetti di Paolo V nel campo delle arti e del loro intreccio con la visione universalistica che il suo agire rese concreta“ (p. 6). I sette saggi pubblicati esplorano i diversi ambiti nei quali si espresse la sensibilità di papa Borghese. La visione universalistica del papa, sotto l’aspetto politico ed ecclesiastico, è studiata da Alexander Koller (p. 10–21), il quale mostra come durante il periodo di relativa tranquillità che va dalla pace di Vervins (1598) alla defenestrazione di Praga (1618), quasi sovrapponibile al pontificato borghesiano, Roma si confermò come un centro di iniziative politiche e diplomatiche destinate a rafforzare il cattolicesimo in Europa, in collaborazione con i sovrani e le istituzioni ecclesiastiche locali. I rapporti con paesi lontani, quali il Giappone, la Persia, l’Etiopia o il Congo, intrattenuti mediante ambascerie e progetti di evangelizzazione, anticiparono la visione globale successivamente gestita dalla Congregazione de Propaganda Fide. Sulla scia dei suoi predecessori, Paolo V curò lo sviluppo urbano di Roma. Augusto Roca De Amicis (pp. 22–35) analizza a questo proposito la vicenda di tre piazze, Piazza Borghese, Piazza Campitelli e la scomparsa piazza antistante Santa Maria della Consolazione, che permette di verificare i criteri seguiti dal papa, il quale si valse di sinergie tra iniziativa pubblica e privata per modellare e consolidare il tessuto urbano. Fernando Loffredo illumina la figura di Pietro Bernini (p. 36–59), in parte messa in ombra dal più celebre figlio Gian Lorenzo, chiamato a Roma per scolpire la pala di marmo dell’Assunzione, destinata ad essere collocata all’esterno della Cappella Paolina di Santa Maria Maggiore. Abile nell’eseguire grandi sculture, trovò nei cantieri delle basiliche Liberiana e Vaticana un campo di lavoro confacente alle sue attitudini e rispondente ai personali progetti del papa. Quest’ultimo aspetto, ovvero la peculiarità delle scelte progettuali di Paolo V, è studiato da Elena Fumagalli (pp. 60–77), che evidenzia l’originalità e l’indipendenza del papa nei tre principali cantieri attivi durante il suo pontificato: San Pietro, Quirinale, Santa Maria Maggiore, particolarmente rispetto alle scelte decorative, che corrispondono al suo disegno politico-ecclesiastico: le relazioni con i paesi lontani in funzione evangelizzatrice, il recupero del cattolicesimo nei territori dell’Europa centrale e la devozione mariana, concretizzate da artisti chiamati direttamente dal papa e coordinati da persone da lui designate. Di prima importanza è la Cappella Paolina situata nel palazzo del Quirinale, studiata da Steven F. Ostrow (pp. 78–97), nata per ospitare le solenni celebrazioni alle quali prendeva parte il collegio cardinalizio. Paolo V elesse il palazzo di Montecavallo come sua residenza e lo dotò degli spazi necessari a svolgervi le cerimonie liturgiche e gli atti pubblici di governo, ovvero la cappella e la sala regia, strettamente legate dalla contiguità spaziale. Lo studioso si sofferma sul rilievo raffigurante la „Lavanda dei piedi“, opera del fiorentino Taddeo Landini, collocato nella Sala Regia sopra il portale che introduce nella cappella. Il Mandatum, così chiamato dalle parole evangeliche che accompagnavano la cerimonia del giovedì santo, è uno dei fondamenti dottrinali del titolo pontificio Servus servorum Dei e un’esaltazione del primato petrino. Lo studio analizza inoltre un elemento iconografico progettato ma non realizzato, la „Caduta degli angeli ribelli“, che allude all’eresia protestante. La cura che Paolo V rivolse alla cappella da lui voluta in Santa Maria Maggiore per la sua sepoltura è visibile anche sotto l’aspetto musicale, come afferma Arnaldo Morelli (pp. 98–109). Papa Borghese nel 1615 dispose che davanti all’immagine di Maria salus populi romani fossero cantate le litanie lauretane, unendo la devozione alla Santa Casa di Loreto ai gesti di venerazione per l’infanzia di Gesù presenti nella cappella costruita sul lato opposto della navata dal papa marchigiano Sisto V, che vi aveva collocato le reliquie della culla di Gesù e il presepe di Arnolfo di Cambio. Completa il vol. lo studio di Aldo Roma (pp. 110–125), che si sofferma sul teatro a Roma nei primi due decenni del Seicento, un genere espressivo spesso osteggiato dai papi del secondo Cinquecento, ma, sembra, tacitamente incoraggiato da Paolo V. L’autore esamina la prassi del teatro promossa dalla Compagnia di Gesù nel quadro del suo programma pedagogico espresso nella Ratio studiorum, promulgata sul finire del Cinquecento. L’elegante vol., che ben si addice alla prestigiosa casa editrice, arricchito da numerose illustrazioni e completato da un indice dei nomi, sintetizza in modo efficace e visibile le idee e la prassi di Paolo V, che esercitò il governo nel momento forse più sereno per il pontificato romano nel periodo moderno.+TABRE+Silvano Giordano
Markus Laufs, „In viam pacis“. Praktiken niederländischer und päpstlicher Friedensvermittlung auf den Kongressen von Münster (1643–1649) und Nimwegen (1676–1679), Göttingen (Vandenhoeck & Ruprecht Verlage) 2022 (Veröffentlichungen des Instituts für Europäische Geschichte Mainz 268), 598 pp., ISBN 978-3-525-31144-8, € 90.
Il vol. si presenta già nella sua struttura generale con una notevole densità che attesta, da parte dell’autore, una consapevolezza critica e una sicura assimilazione dei risultati storiografici più recenti circa le caratteristiche dell’istituzione diplomatica, dei suoi apparati e dei suoi uomini. Egli definisce sin da subito e con chiarezza il suo approccio metodologico ritenendo necessaria una riflessione sul concetto stesso di mediazione, tanto più per affrontare lo studio delle pratiche negoziali tra due realtà così diverse, come la Curia papale e l’universo riformato delle Province Unite olandesi. Soprattutto in considerazione di una diversità confessionale (e talvolta anche sociologica) dei soggetti impegnati nelle trattative in contesti così complessi e – per certi aspetti originali – come il laboratorio vestfalico e successivamente i lavori di pacificazione a Nimega. Eventi negoziali che impegnarono diverse diplomazie europee per più di dieci anni nel corso del XVII secolo rispettivamente dal 1643 al 1649 e dal 1676 al 1679. Per avere un’idea dell’ampio respiro analitico dell’autore sulla questione egli dedica un quarto del suo libro ponendosi domande intelligenti su termini quali interposizione, buoni uffici, arbitrato, e ovviamente mediazione. Nel considerare quest’ultima e analizzandola nei suoi significativi precedenti, dopo una rapida carrellata sui casi di mediazione di pace dal XIV al XVI secolo, si sofferma più diffusamente sulla pace di Vervins come potenziale paradigma di pratiche di intermediazione nelle quali si può riconoscere un’eredità e una premessa comportamentale nelle trattative più tardi poste in campo a Münster, Osnabrück e Nimega (pp. 127–138). Così come sul piano strettamente teorico vengono considerati precedenti importanti le elaborazioni derivanti dalla letteratura giuridica applicate alle relazioni internazionali e gli accorgimenti per creare un materiale informativo indispensabile all’azione diplomatica per il raggiungimento degli accordi. Una seconda parte entra nel merito soggettivo proponendo una prosopografia, si potrebbe dire personale e relazionale, degli attori papali della mediazione nella sede di Münster e Nimega (Fabio Chigi e Luigi Bevilacqua) e degli ambasciatori olandesi; e nello stesso tempo nella reciproca costruzione delle premesse del dialogo inevitabilmente intrecciato con le altre delegazioni presenti, in particolare con i rappresentanti principali delle trattative appartenenti al blocco francese e a quello ispano-imperiale. Un’operazione preliminare che troverà poi uno sbocco particolarmente positivo nelle pratiche normative di regolamentazione come terreno „neutro“, e in fondo condiviso, per continuare la ricerca di soluzione all’interno di quella che viene definita, con un termine davvero felice, una sorta di complessa „società congressuale“ (Kongressgesellschaft), per analizzare la quale l’autore introduce una serrata categorizzazione delle forme e delle maniere diplomatiche e di intermediazione. Una lunga parte è poi dedicata alle pratiche più propriamente caratterizzanti le funzioni negoziali e i problemi di comunicazione nei contesti diplomatici presi in considerazione. Con un’esposizione di notevole originalità e acume analitico si trasferisce il discorso dalla fissazione degli obiettivi concreti delle trattative, a cominciare dal principale che consisteva nel raggiungimento del „cessate il fuoco“ agli espedienti utilizzati nelle specifiche funzioni di vera e propria mediazione. E dopo un’incursione nelle successive occasioni di confronto diplomatico a Rijswijk, Karlowitz e Passarowitz propone una riflessione di bilancio sulle diversità e sulle similitudini riscontrabili nelle mediazioni olandesi e papali. Rispetto alle prime, le pratiche negoziali differirono, con maggiori o minori divergenze, nell’ambito delle traduzioni e nell’uso delle lingue, nel governo dello spazio ma soprattutto nella partecipazione diretta, come parte in causa, ai conflitti da risolvere – che non era attribuibile ovviamente alla diplomazia pontificia – e infine nella concreta autorevolezza discorsiva e colloquiale nel corso delle trattative. Di contro, alla mediazione papale andava riconosciuta una sorta di autorità morale super partes che poteva divenire assai importante soprattutto nella complessità delle procedure cerimoniali tipiche delle relazioni internazionali della prima età moderna. Altresì decisivi, per indagare la diversità delle pratiche, vengono considerati lo spessore applicativo e la sovente difforme natura delle istruzioni e delle deleghe che condizionavano gli attori nel loro pragmatismo negoziale. Un pragmatismo che si accompagna ad un grado di crescente secolarizzazione seicentesca, che viene giustamente sottolineata, che si traduceva in una progressiva attenuazione della rigidità confessionale in entrambe le tradizioni cattolica e calvinista. Sotto l’ombrello di questa affermazione preliminare si possono così enumerare le affinità: olandesi e papali si avvicinano nel formulare modelli simili di proposte conciliative specie di fronte al rischio obiettivo di interruzione dei pourparlers e delle trattative, nella ricerca di tregue e di interruzione delle ostilità, nel merito delle osservazioni, dei commenti e dei suggerimenti strategici per incoraggiare e facilitare la pace tra i contendenti, nell’inevitabile intreccio tra interessi pubblici e personali ecc. In conclusione, il libro di Laufs è accurato nella bibliografia e nelle citazioni e testimonia, riguardo al tema trattato, una conoscenza approfondita della letteratura storica di riferimento. È un suggestivo viaggio nelle pratiche mediatrici di età moderna (e non solo) e rappresenta nella sua composizione un ottimo viatico per nuovi studi. Contiene una pregevole intuizione metodologica estensibile ad altre diplomazie impegnate in un nuovo modo di immaginare e di lavorare come mediatori all’interno di congressi di pace, del resto in via di radicale trasformazione dalle paci vestfaliche in poi. Nonostante i richiami non manchino, questo studio potrebbe costituire infatti un incoraggiamento a scavare ulteriormente le caratteristiche delle pratiche spagnole, francesi, veneziane, svedesi e della pletora di nuove entità giuridiche e statuali che formavano l’Impero. E come auspicio finale, prendendo come base le suggestive categorie analitiche qui proposte, il lavoro potrebbe consentire anche la possibilità di mettere in comparazione i termini sovente richiamati di mediazione, comunicazione, arbitrato con altre realtà. Ad esempio con le pratiche ad est dell’Elba: ovvero ai modi di agire diplomatico delle società polacca e moscovita, e – perché no? – ad altri ancora in contesti pressoché ignoti, alieni e più lontani, come quelli praticati nei mondi ottomani ed estremo-orientali.+TABRE+Stefano Andretta
Florian Bock, Pastorale Strategien zwischen Konfessionalisierung und Aufklärung. Katholische Predigten und ihre implizite Hörer-/Leserschaft (circa 1670 bis 1800), Münster (Aschendorff) 2023, 411 S., 15 Abb., ISBN 978-3402-24828-7, € 64.
Die kirchengeschichtliche Forschung zur Frühen Neuzeit steht weiterhin vor der wichtigen Aufgabe, den grundsätzlich pluralen nachtridentinischen Katholizismus genauer zu konturieren. Neue Erkenntnisse auf diesem Gebiet liefert Florian Bock, der sich der Zeit zwischen Konfessionalisierung und Aufklärung anhand gedruckter Predigten aus dem weit verstandenen süddeutschen Raum annähert. Quellengrundlage der Untersuchung sind deutschsprachige Predigten aus dem Bestand der ehemaligen Zentralbibliothek der Bayerischen Kapuzinerprovinz in Altötting. Im einleitenden Kapitel unterstreicht der Vf. unter anderem die Rolle der posttridentinischen katholischen Predigten als „performative Akte …, die – adressiert an einen virtuellen Hörer/Leser – eine Theologie ‚von unten‘ widerspiegeln“ (S. 42). Dem Vf. ist es gelungen, die Arbeit sehr gut zu strukturieren, sodass die Lesenden seinen Gedanken gut folgen können. Im zweiten Kapitel arbeitet er die Grundzüge von Konfessionalisierung respektive Barock, Jansenismus und katholischer Aufklärung als den drei für den Untersuchungszeitraum charakteristischen Frömmigkeitsphänomenen heraus, die sich auf inhaltliche sowie formale Gestaltung der Predigten auswirkten. Dabei erinnert er daran, dass „die in den Predigten vorzufindenden Strategien [nicht] vorschnell als ‚barock‘, ‚jansenistisch‘ oder ‚aufgeklärt‘“ etikettiert werden sollten (S. 63). Im dritten Kapitel werden die Kapuziner der Bayerischen Provinz als „Agenten der Konfessionalisierung“ vorgestellt, die sich um ein den bestehenden pastoralen Bedürfnissen angepasstes Angebot bemühten, zugleich aber das kontemplative Element ihrer Ordensidentität nicht verlieren wollten. In der normativen Offenheit des Trienter Konzils bezüglich des Predigtamtes sowie in einer dynamischen und kreativen Rezeption der Konzilsvorgaben sieht der Vf. einen wichtigen Grund für die vielfältige Predigtproduktion im Untersuchungszeitraum (Kap. 4). Neben dem in den Kanzelreden entfalteten Predigerbild und der Figur des Predigers als Autor kommen in Kapitel V auch einige Aspekte der Predigtrezeption in den Blick. Den eigentlichen Kern der Studie bildet das sechste Kapitel, in dem „exemplarisch Themenfelder der untersuchten Predigten vorgestellt [werden], um an ihnen pastorale Strategien und ihre Rhetorik, auch in ihren argumentativen Querbezügen und Vernetzungen untereinander, sichtbar zu machen“ (S. 146). Ein besonderes Augenmerk gilt dabei den sich im Laufe der Zeit wandelnden stilistischen Anforderungen an die Predigt. Wenn der Vf. einerseits von einer fortschreitenden Verinnerlichung des Glaubens und einer Intensivierung der Betonung der rechten inneren Gebetshaltung ab den 1720er Jahren spricht, so weist er andererseits darauf hin, dass man in den Predigten immer wieder auch auf die Hervorhebung äußerer Frömmigkeitsübungen stoße. Im Zusammenhang mit seinen Beispielen vom Ende des 18. Jh. erinnert er zu Recht an das Phänomen der Gegenaufklärung. Im Hinblick auf das zentrale Thema der Christusfrömmigkeit wird auf die allmähliche Verlagerung des Schwerpunkts vom äußeren Leiden Jesu auf seine innere Haltung hingewiesen, deren Betrachtung ethische Konsequenzen für Gläubige nach sich zieht. Weitere Themen der Predigten, die in der Studie behandelt werden, sind die katholische Festpraxis, die Familie, das soziale Engagement und Nichtkatholiken. Im siebten Kapitel fasst der Vf. drei wesentliche Forschungsergebnisse zusammen: die Existenz einer Vielfalt von Frömmigkeitskulturen, die Rolle der Prediger als Vermittler zwischen Hochtheologie und christlichem Alltag und schließlich die prinzipielle Vorrangstellung des Dorfes vor der Stadt als in den Predigten des Untersuchungszeitraums thematisierte Lebenswelt. Die Studie von Florian Bock leistet zweifellos einen wichtigen Beitrag zur Erforschung der katholischen Predigt in der Frühen Neuzeit, auch wenn die Forschungslücke vor allem im Hinblick auf das 18. Jh. kleiner ist, als der Vf. glaubt (S. 38). In den letzten Jahren sind mehrere Studien zu deutschsprachigen Dominikanerpredigten erschienen, etwa von Jakub Zouhar (2015) und Jana Marošová (2017) zu Cyril Riga, dessen Predigten Bock selbst zitiert. Der Befund einer selbständigen Thematisierung der Stadt als Lebensumfeld der Christen erst in der zweiten Hälfte des 18. Jh. kann zumindest an einem Beispiel relativiert werden: Es handelt sich um eine 1734 in Wien gehaltene, wenn auch erst 1754 im Druck erschienene Predigt Rigas, in der er Zustände in der kaiserlichen Residenzstadt anprangerte. Die Predigt des Jesuiten Franz Neumayr von 1759 (S. 218–221) hätte der Vf. theologischgeschichtlich besser einordnen können, wenn er die von Hilarius Barth 1974 publizierte Studie zum Augsburger Probabilismusstreit herangezogen hätte. Abschließend sei jedoch ausdrücklich betont, dass die (kirchen-)geschichtliche Erforschung der Frühen Neuzeit von Bocks Buch profitieren wird.+TABRE+Viliam Štefan Dóci
Valeria Manfrè, Isole e città del Mediterraneo. Immagini cartografiche e ingegneri in Sardegna e Sicilia nel Settecento, Palermo (Edizioni Caracol) 2023 (Frammenti di Storia e Architettura 25), 200 pp., ISBN 978-88-32240-60-3, € 22.
Il vol. è una prima ricognizione su un tema che, come sottolinea a più riprese la stessa autrice, Valeria Manfrè, necessita ancora di ulteriori approfondimenti. Tuttavia, esso non è privo di interesse, in quanto presenta ai lettori alcuni corpora cartografici fino a questo momento inediti. Si tratta della produzione elaborata nel pieno della guerra di Successione spagnola e della guerra della Quadruplice alleanza, nel primo ventennio del Settecento, quando il Mediterraneo diviene uno dei quadranti bellici di maggiore importanza fra le potenze europee in guerra fra loro. Sicilia e Sardegna, infatti, isole fino a quel momento sicuri e indiscussi possedimenti della Monarchia spagnola, si trasformano in poste in gioco importanti sia come basi militari sia come domini su cui basare inediti equilibri di potenza, una volta conclusi i trattati di pace. L’ingresso a pieno titolo nel conflitto che la Spagna di Filippo V di Borbone affronta per difendere il suo diritto all’ascesa al trono di Madrid conduce sia la Sardegna che la Sicilia a essere oggetto di attenzione, di cui la cartografia è indizio eccellente. Soprattutto per quel che riguarda la Sardegna, che fino a quel momento non aveva potuto vantare un album cartografico degno di rilievo, l’intenzione del cardinale Alberoni di strappare l’isola al contendente austriaco che l’ha guadagnata con i trattati di Utrecht dà luogo alla realizzazione di una serie di disegni delle tre città più importanti dal punto di vista strategico – Cagliari, Alghero e Castellaragonese (l’odierna Castelsardo) – insieme ai loro dintorni. Si tratta di materiale che oggi costituisce una preziosissima fonte per la conoscenza storica di un territorio altrimenti inattingibile e che per molto tempo è rimasto nascosto nei depositi perché concepito per essere utilizzato e secretato. Impossibile identificare gli autori di un corpus tanto prezioso, ma è sicuro che essi, attraverso un’attenta ricognizione territoriale e una altrettanto cautelosa opera di spionaggio, collaborarono quanto e forse più delle forze in armi per riuscire nel 1718 a riconquistare la Sardegna ai Borbone. Altrettanto preziose sono le produzioni cartografiche dedicate alla Sicilia, luogo che poteva vantare all’inizio del Settecento un’antica tradizione cartografica e un ricco patrimonio di testi ascrivibili al genere della „geografia descrittiva“. Tuttavia, rispetto alla produzione cinque-secentesca generalmente dedicata alla rappresentazione delle città costiere, nel corso del primo ventennio del Settecento, quando vengono prodotte le ventisette carte che compongono la raccolta del marchese di Lede, oggi conservate all’Archivo General de Simancas, la tipologia cartografica cambia notevolmente. Lo sguardo dei cartografi, forse adusi all’ars apodemica (l’arte del viaggio, che indica come articolare la descrizione di un territorio sconosciuto), si indirizza verso le zone interne: la loro rappresentazione, fino a questo momento inedita, è determinata – in sintonia con i desideri della committenza – a riproporre sulla carta le particolarità del terreno, dislivelli, pendenze, caratteristiche, vie di comunicazione e opere di fortificazione, in modo da garantire il successo delle manovre militari. Madrid e Vienna sono i luoghi dove queste, e altre carte che vengono riproposte nel vol., sono custodite. Si tratta di una produzione che, nell’ambito della storia della cartografia, segna l’addizione alla rappresentazione cartografica a scopo celebrativo di quella più analiticamente e geometricamente concepita. Singolare e splendida sintesi delle due tendenze è la carta della Sicilia conservata a Vienna e realizzata da Samuel von Schmettau, frutto di un lavoro collettivo di perlustrazione del territorio isolano durato circa un anno: la carta, riccamente decorata, appare allo stesso tempo ricca di informazioni e innovativa dal punto di vista cromatico, in modo da far cogliere le specificità geofisiche al suo spettatore. Altro ricco ritrovamento valorizzato nel vol. è quello costituito dalla „Colección“ del marchese de la Mina. Si tratta di disegni di città costiere sarde e siciliane, conservati a Madrid, che è necessario leggere in parallelo con le „Memorias“, scritte dallo stesso marchese: una fatica che l’autrice si ripromette di compiere al più presto, per chiarire gli stretti legami fra segno e parola nella produzione del sapere geografico e cartografico del passato.+TABRE+Nicoletta Bazzano
Alessandro Cont, Le marquis de Cavalcabò. Un grande avventuriero nell’Europa del Settecento, Trento (Provincia autonoma di Trento, Soprintendenza per i beni culturali, Ufficio beni archivistici, librari e Archivio provinciale) 2021, XX, 268 pp., ISBN 978-88-7702-507-4 (URL: https://www.cultura.trentino.it/content/download/666062/25391541/file/Cont_Le%20marquis%20de%20Cavalcab%C3%B2.pdf; 30.4.2024).
Alessandro Cont ricostruisce, anche attraverso l’analisi di fonti inedite o finora poco studiate, la vita di Giorgio Giuseppe Andrea Baroni Cavalcabò (Sacco presso Rovereto, 1717 – Parigi 1799). Il celebre avventuriero settecentesco fu al servizio di Caterina II di Russia presso Malta, uno dei tanti agenti impiegati dell’Imperatrice per favorire l’espansione commerciale russa nel Mediterraneo. Come ricordato anche nella prefazione a firma di Elena Smilianskaia, la penetrazione russa, per essere efficace richiedeva la raccolta di informazioni e saperi legati alla navigazione e ai centri portuali mediterranei. Il libro di Cont, tuttavia, va oltre questa più nota parentesi della complessa vicenda di Cavalcabò per restituirne un ritratto a tutto tondo e studiarne l’intera, avvincente parabola, di avventuriero d’Antico regime o come dice lo stesso Cont „cosmopolita seducente, enigmatico, spregiudicato e audace“ (p. 2), seguendo peraltro l’archetipo del chevalier de fortune settecentesco disegnato da Alexandre Stroev nel suo studio del 1997 („Les aventuriers des Lumières“). Il vol. si articola in quattro capitoli, con ricche appendici documentarie, che seguono un taglio diacronico e per così dire odeporico, ripercorrendo i viaggi nel tempo e nello spazio di Cavalcabò, dal Trentino fino a Parigi. Il primo („Dal villaggio all’Europa“) prende le mosse dal borgo di Sacco, nell’allora Pretura di Rovereto, nel Settecento dinamico centro manifatturiero e commerciale, soprattutto grazie alle sue filande e alle sue vigne. Qui a inizio secolo nasceva e cresceva Giorgio, da una famiglia dell’élite produttiva cittadina, di piccola nobiltà non titolata, nonostante i molteplici tentativi di vantare un’ascendenza dai marchesi Cavalcabò di Viadana. La ricostruzione di Cont prosegue poi con la tappa successiva, l’Università di Innsbruck, dove Giorgio, ultimogenito di una famiglia benestante di provincia, pareva destinato ad una carriera ecclesiastica. L’improvvisa morte del padre, costrinse tuttavia Giorgio ad interrompere gli studi. Anche le tracce documentarie si fanno in questa fase più nebulose con cenni ad una frequentazione dell’Università di Bologna di semplice uditore non immatricolato, fatto, come Cont ricostruisce anche per prossimità attraverso casi noti, affatto inconsueto all’epoca. Sono poi le carte d’archivio che consentono di ritrovare Cavalcabò, ormai giovane uomo, a Vienna, nella mutata veste di premier gentilhomme della principessa Anna Vittoria di Sassonia-Hildburghausen, nipote del principe Eugenio di Savoia-Soissons. Cont guida i lettori alla scoperta dell’ambiente di corte viennese della prima metà del XVIII secolo, attraverso gli occhi di Cavalcabò e attraverso la fitta rete da lui intessuta (che spaziava da Muratori a Firmian) anche per rinverdire le rivendicazioni familiari sul titolo di marchesi. Con il trasferimento della principessa a Torino, Giorgio passava al servizio della potente famiglia Dietrichstein, accompagnando i contini Johann Karl e Franz in un viaggio di formazione, che si dipanò negli stati tedeschi del Nord, nelle Sette Provincie Unite, nei Paesi Bassi austriaci e in Italia fino a Roma e Napoli. Il secondo capitolo, dal significativo titolo „Il cortigiano si trasforma in un avventuriero“ segna una svolta in quella che finora era stata una vicenda ordinaria, attraverso cui leggere gli stili di vita delle élites europee del XVIII secolo. Terminato l’incarico con i Dietrichstein, Giorgio, infatti, non riuscì ad assicurarsi altre posizioni di rilievo. Lo ritroviamo così nel 1753 viaggiatore in Italia, prima a Napoli, e poi a Firenze. Infine, nel 1755, ricevette da Giuseppe d’Assia-Darmstadt, principe vescovo di Augusta, la nomina a maresciallo di corte. Voci e dubbi sull’autenticità dei titoli di Giorgio, che ormai usava abitualmente quello di marchese di Cavalcabò, presto avvelenarono il clima ad Augusta e causarono l’allontanamento del cortigiano che iniziò ad assumere i tratti dell’impostore e dell’avventuriero. Fino al precipitare degli eventi che, nell’intricato quadro della Guerra dei Sette Anni, lo portò in esilio, insieme al fratello Melchiorre, funzionario e militare, anch’egli caduto in disgrazia nell’universo asburgico, a Neuchâtel e di lì poi in Prussia. Il capitolo terzo („Nel nome di Caterina II, imperatrice di tutte le Russie“) si sofferma invece sulla più conosciuta fase in cui Giorgio fu alle dipendenze di Caterina II, in qualità di diplomatico di stanza a Malta. Il crepuscolo della vita di Giorgio, come descritto nel capitolo quarto („Tramonto in Francia“), si svolse a Parigi, a partire dagli anni Ottanta del Settecento. Anni non tranquilli, in cui Giorgio si trovò travolto da uno scandalo finanziario che innescò un fiorire di pamphlet e libelli che lo accusavano di essere un „sedicente marchese“, inserendolo in una scia di avventurieri che avevano agitato l’opinione pubblica francese, da Ivan Trevogin a Cagliostro. È in questa querelle giudiziaria che venne prodotta una delle fonti più rilevanti su Giorgio, una „Memoria“ difensiva a firma dell’avvocato Honoré-Nicolas Duveyrier, che non gli evitò la condanna, ma che oggi ce ne restituisce un ritratto. Amante dell’arte, ma non letterato, Cavalcabò, differentemente da altri avventurieri come Casanova, infatti, ha lasciato poco di suo pugno, conducendo un’esistenza non lineare e vagabonda, al contempo eccezionale e paradigmatica del secolo che ha attraversato. La minuziosa ma ariosa ricostruzione di Cont si muove con sicurezza nell’intrico delle fonti, incerte e talvolta lacunose, e non perde mai la messa a fuoco sul protagonista, ma sa nondimeno aprirsi a vasti panorami che delineano gli ambienti politici, economici, culturali da lui attraversati, restituendo attraverso Giorgio Cavalcabò il riflesso e le tensioni di un’intera epoca.+TABRE+Giulia Delogu
19.–21. Jahrhundert
Golo Maurer, Heimreisen. Goethe, Italien und die Suche der Deutschen nach sich selbst, Hamburg (Rowohlt) 2021, 540 S., ISBN 978-3-498-001-48-3, € 28.
Das Buch beginnt mit einer Reminiszenz des Autors an seine erste Romreise. Noch nicht einmal 15 Jahre alt, kauft er sich am Münchner Hauptbahnhof Goethes „Tagebuch einer Reise nach Italien“, das vorerst allerdings ungelesen bleibt. Am Ziel seiner Fahrt erlebt er als privilegierter Zaungast einen kuriosen Ortstermin in Goethes ehemaliger Wohnung am Corso, die gerade zu einem Museum der Bundesrepublik, der Casa di Goethe, umgebaut wird. Der Dichter Wilhelm Deinert, Ehrengast der Deutschen Akademie Villa Massimo, identifiziert mit einer Wünschelrute Goethes ehemaliges Schlafzimmer. Zwölf Jahre später erwirbt Golo Maurer bei einem erneuten Romaufenthalt antiquarisch Goethes „Italiänische Reise“ in einer Ausgabe von 1840. Der recht mitgenommene Bd. wird wie eine Reliquie auf der ersten Farbtafel des hier besprochenen Buchs präsentiert. Der Besitzer der Reliquie hat seine lange Italienliebe als Kunst- und Kulturhistoriker in eine wissenschaftliche Produktivkraft verwandelt und ist beruflich am Ziel seiner Träume angekommen. Er hat ausgiebig zu deutschen Italienbildern und -wahrnehmungen publiziert und steht seit bald einem Jahrzehnt, um ein von ihm in einem anderen Kontext verwendetes Bild zu zitieren, einem deutschen Tempelschatz in Italien, der Bibliothek des Max Planck Instituts für Kunstgeschichte in Rom, vor. „Heimreisen“ hat somit seinen Sitz im Leben des Autors. Das Buch ist kenntnisreich, elegant geschrieben, voller Aperçus und auf die erzählerische Verführung seiner Leser und Leserinnen angelegt. Geboten wird, so Maurer, eine Geschichte, „so abgedroschen und ausgelutscht, so neu und so spannend, dass man sie immer wieder von neuem und immer wieder etwas anders erzählen kann“ (S. 152). Für die fast 550 Seiten umfassende, leichtfüßige Erkundung hält Maurer eine pointierte These bereit: Goethe erfindet mit seiner Italienreise, die mit den Konventionen der Kavalierstour bricht, einen neuen, modernen Typus bürgerlichen Reisens, die den Reisenden in seine wahre „Heimat“ führt und damit in einer Lebenskrise therapeutische Wirkung entfaltet, ein kulturelles Modell, das zum Vorbild wird für das Italienerlebnis von Generationen bürgerlicher Goethe- und Italienverehrer und mit dem Goethekult insbesondere nach der Reichsgründung als „geistigem Klebstoff seiner Eliten“ (S. 15) quasi kanonischen Charakter angenommen habe: „Goethe wurde Nationaldichter, Italiensehnsucht Nationalgefühl“, eine „durch und durch bürgerliche Leistung“ (S. 15), für Maurer „eine der folgenreichsten – aber auch folgenschwersten – Konstruktionen der deutschsprachigen Geistesgeschichte“ (S. 11). Goethe habe mit dieser Form der „therapeutischen Reise“ eine „epochale Gewichtsverschiebung vom Topographischen ins Autobiographische“ vorgenommen. Das Thema sei somit nicht Italien, sondern Goethe (S. 107). „Heimreisen“ besteht in erster Linie aus biographischen Erkundungen, in denen man wenig über Italien, jedoch viel über die Befindlichkeiten der Protagonisten und Protagonistinnen erfährt. Die erste Hälfte ist Goethe gewidmet, die zweite Goethes „Nachreisenden“, die in einer, man möchte sagen, subjektiven Auswahl präsentiert werden, in der in der Italienliteratur bekanntere und bekannte Namen wie Johann Gottfried Herder, Ingeborg Bachmann, Hans Werner Henze oder Rolf Dieter Brinkmann neben weniger beachteten Persönlichkeiten wie dem Kunsthändler Ludwig Pollak, dem Romanisten Karl Eugen Gass oder dem Journalisten und Publizisten Joachim Fest erscheinen. Maurer liefert durch das Prisma der Goethe- und Italienverehrung Blicke auf Aufstieg und Auflösung des deutschen Bildungsbürgertums und lässt dabei mit leiser Ironie deren Ambivalenzen und problematische Seiten aufscheinen: den bewusst selektiven, tendenziösen Charakter der Italienaneignung – in den Worten Goethes etwa, das traurige und saure Geschäft, „das alte Rom aus dem neuen herauszusuchen“ (S. 131) –, den elitären Zug, die national(istisch)e Aufladung, die unpolitische Attitüde, die nur zu oft eine reaktionäre Haltung maskierte, das Ineinander von der Idealisierung des Sehnsuchtslandes und seiner Verachtung bis hin zur „Italienwut“, eine Mischung, die sich schon bei Goethe selbst beobachten lässt. Mit seiner Leitthese von der „therapeutischen“ (Heim-)Reise und der quasi verabsolutierten Geltung der Goetheschen Italienschriften nimmt der Autor freilich Engführungen vor, die die Varianten und Vieldeutigkeiten bürgerlicher Italienaneignungen im deutschen Sprachraum zurechtschneiden und verkürzen und nur bedingt über den weit gespannten zeitlichen Rahmen von zwei Jahrhunderten tragen. Man kann das Buch wohl auch als eine Art Selbsttherapie seines Autors lesen, der mit nostalgisch gefärbter Ironie eine wirkungsmächtige Verheißung gelingenden Lebens rekapituliert, die heutzutage allenfalls noch in Schwundstufen nachklingt. Und man kann sich fragen, ob deren Ende neue, unbefangene Blicke auf Italien und sein kulturelles Erbe freisetzt, oder ob nach der Goetheschen Bildungsemphase nur die Optionen von Vergessen, Desinteresse oder massentouristischem Konsum bleiben.+TABRE+Martin Baumeister
Maria Malatesta, Storia di un’élite. La nobiltà italiana dal Risorgimento agli anni Sessanta, Torino (Einaudi Editore) 2022 (Piccola biblioteca Einaudi. Nuova serie 783), 338 S., ISBN 978-88-06-21797-6, € 26.
Über die Frage des Abstiegs oder die Persistenz des europäischen Adels im 19. und 20. Jh. ist in letzten Jahrzehnten immer wieder debattiert worden. In ihrer auf einer enormen Quellenbasis beruhenden Studie schlüsselt Maria Malatesta die Geschichte des Adels Italiens differenzierend auf, indem sie seinen gesellschaftlichen Wandel (im Anschluss an Monique de Saint Martin) als einen Prozess der Rekonversion ökonomischen, sozialen, kulturellen und politischen Kapitals interpretiert. Der italienische Adel steigt demnach nicht einfach ab, sondern behauptet sich als eine Elite unter einer Vielzahl von Eliten. Die Studie geht vom Adel der zweiten Hälfte des 19. Jh. aus und untersucht in der longue durée, wie die adlige Elite Italiens auf den Strukturwandel der liberalen Politik, das Aufkommen der Massendemokratie, die Weltkriege, die Bewegung und das Regime des Faschismus, die Resistenza und schließlich das Ende der Monarchie reagierte, um sich dabei immer wieder neu zu erfinden. Im Zentrum steht der „Adel des Staates“ (S. 40), eine prosopographisch konstruierte Positionselite, zu der Malatesta jene Familien zählt, die über Jahrzehnte hinweg Senatoren stellten, führende Ämter in der Diplomatie, der Justiz oder der Verwaltung innehatten. Geopolitisch dominierten in der nobiltà di stato die Regionen Piemont und Latium, aus denen in der Mehrzahl jene 187 Familien stammten, die Malastesta als „super-élite“ (S. 47) des Staatsadels bezeichnet. Diese Familien vermochten ihre diversen Kapitalsorten auf geschickte Art zu konvertieren und damit sogar über die Epoche des Faschismus hinaus ‚oben‘ zu bleiben, auch wenn sich ihre Stellung in Politik und Gesellschaft massiv änderte. Wie die Studie nachweist, war der Adel schon in der Epoche des Risorgimento eine heterogene Schicht, die große regionale, soziale und ökonomische Unterschiede aufwies und von politischen Konfliktlinien durchzogen war. Insofern stellen die nobiltà di stato und die super-élite auch nur einen Teil des Adels dar, dem tatsächlich die einflussreichsten Familien und Verwandtschaftsverbände angehört haben dürften, doch werden durch die methodisch durchaus einleuchtende Fokussierung auf diese Positionselite etwa jene Adligen und casate ausgeblendet, die vornehmlich als Unternehmer wirkten und damit ökonomische Strategien der Kapitalrekonversion bevorzugten. Gleichwohl bietet das Buch ein einleuchtendes Profil des italienischen Adels, mit dem Malatesta Maßstäbe für zukünftige Studien setzt und nicht zuletzt durch ihre Erzählweise überzeugt. Die Transformationsprozesse werden anhand von einzelnen Familien und Biographien anschaulich präsentiert und mit statistischen, sozialhistorischen Befunden untermauert. Auch geschlechtergeschichtliche Aspekte werden systematisch berücksichtigt und beispielsweise die adligen Frauen am Hof der Savoyer oder deren Engagement während des Ersten Weltkriegs untersucht. Ebenso wie andere gesellschaftliche Schichten musste sich der Adel den Herausforderungen des gesellschaftlichen Wandels stellen. Der politische Einfluss ging ihm sukzessive verloren, obwohl es der super-élite insbesondere in den Jahren der Historischen Rechten noch gelang, bei Hofe, in den Parlamenten und Regierungen, in der Verwaltung und im diplomatischen Korps Schlüsselstellungen zu bewahren. In den folgenden Jahrzehnten fügte sich der Adel mehr und mehr in die Formation der grundbesitzenden Elite der Notabeln ein, ohne freilich seine Konturen vollends zu verlieren. Einen drastischen Einschnitt bedeutete der Erste Weltkrieg, an dem viele Adelige aktiv als Offiziere teilnahmen (und litten). Der Aufstieg der modernen Massenbewegungen nach dem Krieg ließ sich mit den politischen Mitteln und Strategien der adligen Eliten nicht mehr steuern. Während des Faschismus gelang es dennoch vielen adligen Familien, durch eine „faschistische Rekonversion“ (S. 164) und durch die Nähe zum Regime wieder vermehrt politischen Einfluss zu gewinnen. Dass der Adel politisch nicht einheitlich agierte, zeigte sich allerdings im Antifaschismus und der Resistenza, an der viele Adlige teilnahmen, obwohl Figuren wie der kommunistische Conte Ranuccio Bianchi Bandinelli eher eine Randerscheinung blieben. Das Ende der Monarchie forcierte den Bedeutungsverlust des Adels, der über die Institution der Familie, Heiratsstrategien und die Mobilisierung seines kulturellen Kapitals trotzdem seine Identität und einen gewissen Einfluss zu wahren wusste. Darauf verweist das überaus lesenswerte letzte Kapitel des Bd., in dem Malatesta anhand so unterschiedlicher Figuren wie Giuseppe Tomasi di Lampedusa oder Luchino Visconti veranschaulicht, dass Adeligkeit und Adel nicht zuletzt im Kulturbetrieb der Republik relevant blieben. So erscheint am Ende der Lektüre des anregenden und richtungsweisenden Bd. von Malatesta weniger der Wandel als vielmehr die Kontinuität des Adels erstaunlich.+TABRE+Thomas Kroll
Maximiliane Rieder, Die Deutsch-Italienische Handelskammer 1921–2021. Eine historische Ortsbestimmung/La Camera di Commercio Italo-Germanica 1921–2021. Un inquadramento storico, traduzione di Mauro Cantino, Loveno di Menaggio (Villa Vigoni) 2023, 334 S., ISBN 978-88-946987-5-6, € 24,78.
Anlässlich ihres einhundertjährigen Bestehens zieht die Deutsch-Italienische Handelskammer in Mailand Bilanz. Dem im Vorwort von Christiane Liermann-Traniello und Jörg Buck geäußerten Wunsch, das in Zusammenarbeit mit der Villa Vigoni entstandene Werk möge eine breite Leserschaft erreichen, kommen die Zweisprachigkeit und die moderate Preisgestaltung des Bd. entgegen. Wichtig für die Umsetzung der ebenfalls bekundeten Absicht, keine selbstbezogene Chronik der Kammer vorlegen, sondern ihren Ort im größeren historischen Zusammenhang bestimmen zu wollen, war die Beauftragung einer der derzeit besten Kennerinnen deutsch-italienischer Wirtschaftsverflechtung mit der Abfassung des Werks. Wie Maximiliane Rieder einleitend deutlich macht, folgt ihre Darstellung politischen Zäsuren, da sich die Ortsbestimmung aus der Anpassung der Kammerpolitik an die wechselnden Rahmenbedingungen und dem möglichen Einfluss, den die Kammer selbst auf diese hat ausüben können, ergibt. Für die Zeit von vor 1945 verfügt die Außenhandelskammer (AHK) Italien über kein Archivmaterial, weshalb die Autorin neben dem Bulletin des Verbandes auf externe Quellen zurückgreift. Die bestehende Forschungsliteratur über den Deutschen Industrie- und Handelstag und die Auslandskammern, die wichtige Informationen über den Kontext liefert, hat bislang nur punktuelle Hinweise zur AHK Italien geboten. Mit der hier vorgelegten Studie wird dem Desiderat Abhilfe geschaffen. Das erste Jahrzehnt der Kammer war vor allem von den Wechsellagen im von Reparationsauflagen und Hyperinflation bedrängten Deutschen Reich bestimmt. Ihre Gründung wurde aus dem beiderseitigen Interesse heraus angebahnt, die im Krieg zerstörten Handelsbeziehungen neu zu beleben. Wohlwollend begleitet von der Diplomatie riefen Ende 1921 Vertreter am Italiengeschäft interessierter deutscher Unternehmen in Mailand „eine der ersten bilateralen Kammern im Ausland“ ins Leben (S. 35). Nach einer Phase wirtschaftlichen Aufschwungs in der zweiten Hälfte der 1920er Jahre, in der deutsche Kreise der vom Faschismus proklamierten korporativen Wirtschaftsordnung „großes Interesse“ entgegenbrachten (S. 41), sahen sich die Dienstleistungen der Kammer in der Weltwirtschaftskrise durch den Übergang zu bürokratisch geregelten Einfuhrbeschränkungen, Schutzzöllen und Devisenbewirtschaftung wachsender Nachfrage ausgesetzt. Nach Hitlers Machtantritt wurden die Auslandskammern in den staatlich-korporativen Umbau der Verbände einbezogen und zum Nachteil einer bilateralen Ausrichtung sukzessive nazifiziert und germanisiert. Beim Übergang beider Regime zur Autarkiepolitik erwuchs der Mailänder Kammer mit dem Clearingabkommen und der Festlegung bilateraler Handelskontingente ein neuer Dienstleistungsbereich. Nach dem deutschen Überfall auf Polen drängte Berlin auf „den wirtschaftlichen Kriegseinsatz der Kammern im Ausland“ (S. 76). Während der Nonbelligeranza fiel der Mailänder Kammer die Aufgabe zu, die über Italien abgewickelten deutschen Geschäfte mit Drittländern zu begleiten. Der Bedarf an Beratung für Unternehmen im bürokratischen Dickicht der Kriegswirtschaft wuchs im Zweiten Weltkrieg weiter. Nach der Errichtung der Repubblica Sociale Italiana im Herbst 1943 setzte die Kammer in Zusammenarbeit mit den für die Mobilmachung der norditalienischen Wirtschaft zuständigen deutschen Stäben „ihre Tätigkeit in Mailand bis April 1945 fort“ (S. 83). Bereits im November 1946 wurde die in der Nazizeit umbenannte Kammer unter ihrem ursprünglichen, den bilateralen Aspekt betonenden Namen neu gegründet. Dies kam auf das Betreiben des früheren nationalsozialistischen Geschäftsführers zustande, der für weitere 26 Jahre die Geschäfte leiten sollte, nachdem er „1942 in gleicher Funktion in die Kammer eingetreten war“ (S. 88). In den Jahren des Wiederaufbaus stand das Interesse der Unternehmen am jeweils anderen Markt einer noch großen Anzahl von Kontrollbestimmungen gegenüber, weshalb die Wiederbelebung von Messen und Handelsbeziehungen nur schrittweise vorankam. Mit der sukzessiven Konsolidierung der politischen Strukturen sowie dem Marshallplan, schließlich dem Beginn der europäischen Integration und dem Wirtschaftsaufschwung der fünfziger Jahre erreichte die bilaterale Wirtschaftsverflechtung in Handel und Investitionen ein höheres Niveau sowie eine ausgeglichenere Struktur dank des Voranschreitens der italienischen Industrialisierung. „Zwischen 1949 und 1957 verdoppelte sich nahezu die Mitgliederzahl der Deutsch-Italienischen Handelskammer“ (S. 108). Mit der Erleichterung von Arbeitsmigration und Devisenverkehr sowie der vertraglichen Lösung offener Vermögens- und Reparationsfragen in den sechziger Jahren vertiefte sich die Integration beider Wirtschaften im Zuge der EWG-Integration und des bis Anfang der 1970er Jahre anhaltenden Wirtschaftswachstums weiter. Die Kammer „wurde dank ihrer Vermittlungs-, Beratungs- und Auskunftsdienste in der Bundesrepublik immer bekannter. In der deutschen und italienischen Wirtschaftspresse bezog sie zur Wirtschaftsentwicklung Stellung“ (S. 118). Nach dem Ende der Konvertibilität des US-Dollars und dem Ölpreisschock waren die siebziger und achtziger Jahre zwar von wirtschaftlichen und politischen Turbolenzen gekennzeichnet, doch erhielt die Zusammenarbeit mit der Einrichtung des Europäischen Regionalfonds und der Verbesserung der transalpinen Verkehrswege auch neue Impulse. Die deutsch-italienische Wirtschaftsverflechtung erreichte nach 1990 mit dem Wegfall stationärer Grenzkontrollen, dem EU-Binnenmarkt und der Schaffung der Eurozone ein zuvor unbekanntes Niveau. Die Mailänder Kammer, die in den 1990er Jahren italienische Unternehmen für Investitionen in Ostdeutschland bewarb, ergriff nach der Jahrtausendwende Initiativen zur dualen Ausbildung und zur Digitalisierung, bündelte nach 2008 ihren Service in einer Tochtergesellschaft und erfuhr eine „Umstrukturierung, die den bilateralen Wirtschaftsverband als offizielle Auslandshandelskammer zum integralen Bestandteil der deutschen Außenwirtschaftsförderung machte“. Rieder sieht in dieser neuerlichen Veränderung eine „Reaktion auf die rasch steigenden Auslandsinvestitionen“ in der Globalisierung (S. 146). Eingebettet in solch größere Zusammenhänge werden die organisatorischen und personellen Veränderungen der Kammer, auf die hier im Einzelnen nicht eingegangen werden konnte, überzeugend dargelegt. Die Autorin zieht das Fazit, dass die markantesten Einschnitte ihrer Geschichte politisch bedingt waren und sie jeweils zur Anpassung zwangen. Zugleich habe die Kammer ihrerseits aktiv „die deutsch-italienische Handelspartnerschaft und Wirtschaftsintegration angestoßen und gefördert“ (S. 312).+TABRE+Rolf Petri
Giacomo Girardi, I beni degli esuli. I sequestri austriaci nel Lombardo-Veneto (1848–1866), Roma (Viella) 2022 (I libri di Viella 430), 303 S., Abb., ISBN 979-12-5469-009-3, € 30.
Die Forschungen zu den italienischen Exilanten nach den Revolutionen von 1820–1821, 1830–1831 und 1847–1849 erfreuen sich seit rund zwanzig Jahren einer sehr guten Konjunktur. Giacomo Girardi bearbeitet in seiner Studie ein Kapitel, das bisher vernachlässigt wurde: die Beschlagnahmung des Besitzes der politischen Exilanten im Königreich Lombardo-Veneto. Derartige Maßnahmen, um den politischen Gegner zu ruinieren, waren keine Novität. Schon während der Französischen Revolution wurden Güter der geflohenen Royalisten sequestriert. In seiner Studie konzentriert sich Girardi vor allem auf die venezianischen Archive, aufgrund der hervorragenden Überlieferungssituation. Das bisher nicht benutzte, reiche Archivmaterial erlaubt Rückschlüsse auf soziale, ökonomische, kulturelle und politische Fragen. Ein Ziel der Arbeit ist es, den Opfermythos der Exilanten zu hinterfragen. In zahllosen Egodokumenten berichteten sie von den Mühen und Opfern während des Exils, umso größer war die Ehre, wenn sie wieder ins Vaterland zurückkehrten. Wie prekär war ihre Situation im Ausland tatsächlich? Auf jeden Fall trug die Propaganda im Exil dazu bei, dass liberale Staaten sich zunehmend für die Nationalstaatsidee Italiens einnehmen ließen, und legitimierte den berühmten „Grido di dolore“ (Schmerzensschrei) von Viktor Emanuel 1859, den Opfern der österreichischen Herrschaft zu Hilfe zu eilen, und begründete so den Kriegseintritt im selben Jahr. Die Gesetzesgrundlage für den Sequester bildete ein königliches Patent aus dem Jahr 1832. Anwendung fand es jedoch erst im Februar 1853, nachdem Giuseppe Mazzini abermals einen erfolglosen Aufstandsversuch in Mailand angezettelt hatte. Das Resultat waren 15 Tote, 300 Festnahmen und rasche Todesurteile. Schon nach der Revolution von 1848 zielte Generalgouverneur Radetzky mit einer Revanchepolitik vor allem auf die adligen und bürgerlichen Rädelsführer ab. Nun nutzte er die „Drahtzange“ vor allem gegenüber den adligen Eliten. Es wurden Sequestermaßnahmen eingeleitet auch gegenüber denjenigen, die sich 1853 nachweislich nicht an dem Aufstand beteiligt hatten, weil sie sich schon im Exil befanden. Zuvor wurde der Sequester jahrelang nur angedroht. Die härtesten Repressionen fielen also in eine Zeit, als Radetzky seine Übermacht allmählich verlor. Auf jeden Fall unterminierten sie sein öffentliches, internationales Ansehen. Die Sequestermaßnahmen wurden Thema der europäischen Kabinette und es waren die Exilanten, die das Problem des italienischen Nationalstaates in Europa auf das offizielle Parkett brachten, noch vor Cavour. Das Ziel des österreichischen Staates war es, die Finanzierung von weiteren Aufständen seitens der Exilanten zu unterbinden. Der Verwaltungsaufwand für die Maßnahmen war enorm. Involviert waren die Provinzdelegationen, Militärs, der Appellationsgerichtshof, die Büros der Hypothekenregister, Pfandleihhäuser und die Distriktskommissare. Es wurde eine Kommission aus Militärs und Zivilbeamten einberufen. Der häufig sehr umfangreiche Besitz musste erfasst werden mit allen Pächtern, Bauern und Schuldnern und Gläubigern, kurz alle, mit denen die Verurteilten geschäftliche Beziehungen unterhielten. Das Personal wurde behalten, allen voran Familienväter. Verkauft werden durfte nichts. Es wurden sogar noch Grundstücke hinzugekauft, um den Besitz zu arrondieren. Zahlungen oder übliche Leistungen (Getreide, Wein oder Holz) an geistliche Institutionen oder Kleriker liefen fort, häufig gab es dazu nichts Schriftliches, doch diese auf Gewohnheitsrechten beruhenden Ansprüche wurden von den Kommissionen akzeptiert. Da die meisten Exilanten noch sehr jung waren, zwischen 24 und 32 Jahren, verfügten sie noch über keinen Besitz, sie wurden wieder von den Listen der Verurteilten gestrichen. Insgesamt wurde der Besitz von 72 Personen unter Sequester gestellt. Während nach 1821 vor allem reiche Adlige ins Exil gingen, waren es nach 1848 nicht die Eliten, die gingen. Der Prozentsatz der Sequestrierten ist klein, verglichen mit der Gesamtgruppe der Exilierten. Im Königreich Lombardo-Veneto migrierten nach der gescheiterten Revolution 1324 Flüchtlinge, davon 284 aus Venetien. Daniele Manin, der die Revolutionäre in Venedig anführte, stand nicht unter Sequester, er musste sogar seine Bibliothek verkaufen, um seinen Aufenthalt in London zu finanzieren. Als Verwalter der Güter wurden häufig Verwandte der Verurteilten eingesetzt und überhaupt spielten die Familien eine ausschlaggebende Rolle für den Schutz des Besitzes. Während wir über die Frauen im Exil vergleichsweise gut unterrichtet sind, wissen wir bisher wenig über die Frauen, die zu Hause blieben. Herrschte bisher ein stereotypes Bild von der weinenden und Trost spendenden Mutter und Gattin vor, so zeigt Girardi hier eine neue Facette. Sie übernahmen als Verwalterinnen eine zentrale Rolle, verteidigten den Besitz zäh und vermittelten zwischen dem Staat und dem Verurteilten. Sie versorgten die Kinder. Ihnen wurde ein standesgemäßes Leben garantiert, Töchter bekamen eine angemessene Mitgift. In dieser neuen Position wurden Frauen nun ebenfalls zum Subjekt polizeilicher Beobachtung. Lebten die Exilanten bis 1853 bequem von ihren Einkünften, so zwang der Sequester viele zurückzukehren. Ihnen wurde in der Auslandspresse gerne „Verrat“ vorgeworfen. Nun mussten sie den Kaiser um Gnade bitten und wurden fortan rigoros überwacht. Motiviert war die Rückkehr meist aufgrund der komplexen familiären Besitzsituation, so dass Familienmitglieder ebenfalls von den Maßnahmen betroffen waren und in Not gerieten. Ende 1856 wurde Radetzky abgesetzt, und nach der Reise des Kaisers Franz Josef durch Lombardo-Venetien setzte eine Versöhnungspolitik ein und der Sequester wurde aufgehoben. Die Frauen mussten ihre Führungsrolle wieder abgeben an die heimgekehrten Männer. Die Eliten hofften nun auf mehr Föderalismus. Die halsstarrige, harte Militärpolitik hatte Österreich nichts gebracht, die Verletzung des Eigentumsrechts wurde international als schreiendes Unrecht bewertet, nicht nur in London, sondern sogar in St. Petersburg. 1861 setzte nach dem Abfall der Lombardei in Venetien eine neue harte Repression ein, die aber noch erforscht werden muss. Girardi kann zeigen, dass die Opferrolle von vielen elitären Exilanten überzeichnet wurde. Paradoxerweise befanden sich nicht wenige Güter nach dem Sequester in einem wirtschaftlich besseren Zustand als zuvor, die österreichische Verwaltung hatte ganze Arbeit geleistet. Die sehr gut lesbaren Ausführungen werden durch Listen der Verurteilten und Portraits der Berühmtesten unter ihnen ergänzt. Dem innovativen Buch ist eine breite Rezeption zu wünschen, es erweitert unsere Kenntnisse, aufgrund tiefgründiger Archivrecherchen bei gleichzeitiger Ausschöpfung der umfangreichen Literatur, über die ökonomische und private Situation vor allem der adligen Exilanten ganz erheblich.+TABRE+Gabriele B. Clemens
Winfried Baumgart (Hg.), Europa und die Türkei 1856–1857. Geheime Dokumente aus den Kanzleien der europäischen Großmächte/Europe and Turkey 1856–1875. Secret Documents from the Chancelleries of the European Great Powers/L’Europe et la Turquie 1856–1875. Documents secrets tirés des chancelleries des Grandes Puissances Européennes, Paderborn (Brill/Schöningh) 2023, XIV, 1164 S., ISBN 978-3-506-79286-0, € 169.
Winfried Baumgart, der bereits vier Aktenreihen über Großbritannien, Frankreich, Preußen und Österreich zur Geschichte des Krimkriegs und mehrere Arbeiten zur Orientalischen Frage veröffentlicht hat, sucht mit seiner Edition die Politik der europäischen Großmächte bis zur nächsten großen Krise, der Orientkrise von 1875–1878, darzulegen und damit eine Lücke zu füllen, da die nicht zu einem größeren Krieg führenden Probleme von 1856 bis 1875 bisher nur punktuell, aber nicht kontinuierlich behandelt wurden. Der Vertrag von Paris 1856 löste nicht die Orientalische Frage, d. h. die allmähliche Vertreibung des „kranken Manns am Bosporus“ aus Südosteuropa, Asien und Nordafrika. Schwierigkeiten bereiteten die von den Großmächten beschlossene Trennung der Donaufürstentümer, da die Bojaren in der Moldau und der Wallach sie unter einem Fürsten vereinen wollten, die Unabhängigkeitsbestrebungen des Khediven in Ägypten und die Unruhen im westlichen Balkanraum. Dies lag unter anderem an den fünf oder sechs europäischen Großmächten – Piemont-Sardinien wurde gelegentlich nicht dazugerechnet –, da lediglich Großbritannien die Integrität des Osmanischen Reichs halbwegs unterstützte, weil es sonst seine Verbindung über das Mittelmeer nach Indien gefährdet sah. Österreich trat zwar grundsätzlich für den Erhalt ein, um so einen großen slawischen Staat an seiner Südgrenze zu unterbinden, wog aber ab, ob es wegen der verlorenen Kriege gegen Piemont-Sardinien und gegen Preußen seine zukünftige Bestimmung nicht im westlichen Balkanraum suchen sollte. Frankreich hatte nicht am Krimkrieg teilgenommen, um die Existenz des Osmanischen Reichs zu sichern, sondern um ein russisches Vordringen nach Konstantinopel zu verhindern (Napoleon III.). Das Zarenreich suchte weiterhin über die Unterstützung der Christen das Osmanische Reich zu destabilisieren und eine Aufhebung der Schwarzmeerklausel (Verbot russischer Kriegsschiffe im Schwarzen Meer) zu erreichen. Preußen verfolgte zwar vordergründig keine eigenen Interessen im Orient, Bismarck war aber geneigt, Teile Südosteuropas als Verhandlungsmasse zwischen seinen beiden Verbündeten aus dem Dreikaiserabkommen anzusehen. Piemont-Sardinien hatte sich am Krimkrieg mit einem kleinen symbolischen Truppenkontingent beteiligt, um die italienische Frage voranzutreiben. Da dieses Problem in Paris nicht behandelt wurde, verhielt es sich zurückhaltend oder, wie ein englischer Delegierter sich äußerte, es kamen keine substantiellen Beiträge von dieser Seite. Lediglich wenn ihr Großmachtstatus von den übrigen Mächten nicht berücksichtigt wurde – etwa bei der eher untergeordneten syrischen Frage – intervenierte die Regierung. Da aber Frankreich, um die eigene Machtbasis zu erweitern, den Kontinent revolutionieren wollte, unterstützte es dessen Forderungen, z. T. militärisch, aber auch diplomatisch: Napoleon, aber auch die englische Regierung erwogen, der Regierung in Turin Geld zu leihen, damit es vom Sultan Bosnien und die Herzegowina kaufen und dafür im Tausch Venetien erlangen sollte. Der Prinz Napoleon überlegte sogar, Österreich durch Schlesien zu entschädigen. Später stand auch der Erwerb der Donaufürstentümer als Kompensationsobjekt zur Debatte, entweder als direkter Territorialgewinn oder über einen Erzherzog aus dem Hause Habsburg als Fürst. Baumgart nimmt an, zumindest die österreichische Regierung sei einem solchen Plan nicht ganz abgeneigt gewesen, aber er übersieht Kaiser Franz Joseph, dessen Ehre es zwar zugelassen hätte, Venetien nach einem verlorenen Krieg aufgeben zu müssen, aber nicht durch einen Schacher. Der Hg. berücksichtigt die Vorstellungen Piemont-Sardiniens dazu nicht. Dies liegt auch an der Auswahl der ungedruckten Quellen: Er hat keine aus italienischen Archiven aufgenommen, sondern ledig bereits publizierte Dokumente, so etwa aus den „Documenti diplomatici italiani“ (DDI). Überhaupt sind von den 1177 Nummern und einem Anhang ca. die Hälfte aus vorherigen Publikationen übernommen und in ausführlichen, aber z. T. Wertungen enthaltenden Regesten dargelegt. Hinzu kommen Fehler: Bei Nr. 1160 und 1165 (Baumgart) verweisen die Regesten auf falsche Bandangaben bei der Seconda Serie der DDI (dritter statt sechster Bd.) und bei Nr. 1165 verwechselt er außerdem das Datum (2. November statt 2. Dezember 1875; die Seitenangaben sind korrekt, aber ohne Nr. aus den DDI). Gravierender ist ein anderer Irrtum: Aus einer österreichisch-ungarischen Militärkonferenz wird eine gemeinsame Ministerratskonferenz (Nr. 1146). Das Buch wird durch ein tiefgestaffeltes Register erschlossen, das etwas besser hätte vernetzt werden sollen: So tauchen Italien und Sardinien als eigene Stichpunkte ohne einen Verweis aufeinander auf.+TABRE+Franz-Josef Kos
Roberta Biasillo, Una storia ambientale delle Paludi pontine. Terracina dall’Unità alla bonifica integrale (1871–1928), Roma (Viella) 2023 (I libri di Viella 462), 221 pp., ill., ISBN 979-12-5469-368-1, € 26.
Il vol. offre una lettura originale delle vicende pontine in epoca liberale, non come insieme di fallimenti e occasioni mancate ma come un periodo di possibilità storiche diverse e in certa misura alternative alla logica della bonifica integrale fascista. Agli sguardi, alle percezioni e ai progetti di soggetti esterni all’ambiente sociale delle Paludi è dedicato il primo capitolo. L’immagine di territorio desolato e grandioso data dai viaggiatori si sovrappone con le prospettive offerte dai „pittori della palude“ che restituivano un’immagine più viva e dinamica di un’area interessata da flussi migratori stagionali dalla Ciociaria e dall’Abruzzo. Indice, questo, dell’attrattività che l’area esercitava per gruppi sociali marginali. Articolati tra le diverse area della palude, infatti, tra la Selva montuosa, la Selva marittima, laghi, pantani, radure, si estendevano 20 000 ettari di territorio in cui vigevano usi civici di pascolo, semina, legna e pesca, da secoli „una forma di messa a valore della palude che apriva la società a rapporti commerciali di scambio su breve e medio raggio“ (p. 51). Territorio ricco e povero allo stesso tempo, affetto dalla malaria e dalla cattiva amministrazione del territorio da parte del comune di Terracina, sotto la cui giurisdizione ricadeva gran parte delle Paludi e delle Selve pontine. Una città nota alle autorità dello stato unitario per „la sua ingovernabilità“ (p. 70), condizionata da una cronica gestione privatistica da parte dei maggiori proprietari locali i quali tentarono in tutti i modi di opporsi alla modernizzazione liberale. In questo senso si spiegano i limitati interventi per migliorare la qualità dell’ambiente urbano e la mancata connessione alla linea ferroviaria Roma-Napoli. Alle vicende del comune di Terracina è dedicato il secondo capitolo. La retorica, l’ideologia, e gli impulsi dello stato liberale durante i primi decenni post-unitari puntavano sulla liberalizzazione dei beni. In questo quadro il comune di Terracina fu chiamato a rivendicare il possesso dei propri beni attraverso indagini conoscitive degli usi civici, dei diritti relativi, e a liquidarli o ad imporre un’amministrazione economicamente più redditizia. Alle carenze di documentazione attestante i diritti del comune si sovrapponevano gli interessi consolidati di privati, ben rappresentati in seno all’amministrazione comunale, che nella opacità giuridica sul possesso dei beni avevano fondato la propria fortuna (pp. 85–92). L’opacità del diritto e l’inazione municipale erano anche il frutto di una scelta politica ben precisa dei proprietari Terracinesi che in questo modo poterono continuare ad appropriarsi dei beni comunali e sfruttarli in proprio od offrirli alla speculazione privata. L’intreccio tra interessi privati e casse comunali da risanare mise la Selva marittima, formalmente vincolata per ragioni igieniche, alla mercè di speculatori internazionali e locali che, a partire dal 1880, iniziarono a dissipare „il legname più pregiato della selva“ (p. 100). A questa appropriazione privatistica si sovrappose la rivendicazione collettivista dei contadini riuniti nell’Università agraria di Terracina, sulle cui vicende è incentrato il terzo capitolo. A partire dal periodo 1888–1894 si aprì una nuova fase nell’approccio dello stato centrale verso gli usi civici, più aperto alla gestione da parte di enti collettivi. L’opposizione del municipio e dei proprietari locali però, intralciò il funzionamento dell’ente che poté esercitare la sua azione solo a partire dal 1918, quando il Ministero di Agricoltura gli assegnò d’ufficio 430 ettari di terreni „generalmente inondati“ per prosciugarle e metterle a coltura (p. 136). Nonostante gli incoraggianti risultati ottenuti nel primo triennio di attività il tentativo fu troncato dal repentino cambio di politica nei confronti degli usi civici che avvenne nei primi anni del fascismo e l’Università agraria venne soppressa nel 1925. I proprietari terrieri riuniti nel consorzio di bonifica pontina sono l’oggetto del quarto capitolo, in cui l’autrice ripropone più dettagliatamente il quadro di proprietari locali estranei alla logica dell’agricoltura capitalistica, votata agli investimenti e all’incremento delle rese. Non solo il Consorzio non promosse nuove opere di bonifica idraulica, ma a causa dei bassi stanziamenti fece fatica a mantenere in buono stato le opere della bonifica tardo-settecentesca. La conflittualità interna tra consorziati e tra imprenditori locali ed esteri, rallentò ulteriormente l’opera del Consorzio. Le spinte ad una gestione centralizzata del territorio divennero sempre più forti nel dopoguerra e nonostante il superamento della palude e della sua economia non sembrasse „una necessità, o perlomeno una priorità delle comunità locali“ (p. 191), l’avvento del fascismo rovesciò per sempre il quadro imponendo il passaggio da Paludi pontine ad Agro pontino. Il vol. si fa apprezzare per la ricchezza documentaria e l’originalità di certi spaccati sull’organizzazione economica ruotante intorno la palude, come lo sfalcio dei canali operato tramite bufali (pp. 179–184). L’interpretazione di fondo non è del tutto convincente. L’autrice propone la formula „conflitti senza trasformazione“(p. 195) per descrivere un equilibrio tra le parti in lotta che avrebbe consentito la conservazione della palude. Se è indubbio che le vicende del periodo liberale potevano condurre l’area verso un’evoluzione differente da quanto avvenne successivamente con il progetto fascista di bonifica integrale, sembra difficile conciliare la trasformazione speculativa della palude, già in atto nel periodo preso in esame, con la conservazione della stessa.+TABRE+Salvatore Valenti
Monica Fioravanzo, Lina Merlin. Una donna, due guerre, tre regimi, Milano (Franco Angeli) 2023 (Collana della Fondazione di studi storici Filippo Turati 54), ISBN 978-88-351-4733-6, € 27.
Dass Lina Merlin es verdient hat, im Rahmen einer Biografie untersucht und gedeutet zu werden, steht außer Frage. Als Mitglied des Partito Socialista Italiano gehörte sie zu den ersten Politikerinnen, die im italienischen Parlament vertreten waren – in der zweiten Legislaturperiode der Ersten Republik als einzige Frau des Senats unter 242 Männern. Dies hat nicht nur zu Einträgen in Enzyklopädien wie etwa dem „Dizionario Biografico degli Italiani“ geführt, sondern auch zur Veröffentlichung ihrer Autobiografie, ihrer Parlamentsreden, einzelner Monografien und Artikel sowie eines Tagungsbd. Monica Fioravanzo zufolge habe der Fokus der Forschung dabei jedoch allzu sehr auf zwei Hauptpunkten ihres Wirkens gelegen: die Mitarbeit in der verfassunggebenden Versammlung und die Schließung der staatlich lizenzierten Bordelle durch das von Merlin eingebrachte Gesetz. Ziel der vorliegenden Studie sei es, die Rezeption Lina Merlins aus dieser Engführung zu befreien, um dieser ihre Vielschichtigkeit und Tiefe zurückzugeben. Abgesehen von der kurzen Einführung samt Literaturbericht besteht die Studie aus drei Kapiteln: biographische Skizze, Beziehung zur Partei und Engagement in der Frauenfrage. Es folgen fünfzig Seiten Anhang, das heißt, ein Viertel des Buchs besteht aus Dokumenten. Obwohl der Aufbau anderes befürchten lässt, gelingt es Fioravanzo zumeist, überflüssige Wiederholungen zu vermeiden. Der erste Abschnitt kann die Fragen der thematisch angelegten Abschnitte selbstverständlich nicht vollends ausklammern, aber die Vf. setzt hier die Schwerpunkte anders, sodass Partei und Feminismus nur als einzelne Mosaiksteine im Lebensbild der Protagonistin erscheinen. Thematisiert werden – neben einiger Auskünfte zum Privatleben – Merlins Rolle in der Matteotti-Krise, ihre Verbannung während des Faschismus, die Mitarbeit im Widerstand, ihr Engagement für die Herkunftsregion Polesine sowie Ämter, Aufgaben und Initiativen im Parlament. Im zweiten Abschnitt wird zunächst die ursprüngliche Verbundenheit Merlins zum PSI hinterfragt und festgestellt, dass diese weniger aus theoretischen Überlegungen oder sozialistischer Ideologie herrührte, als vielmehr aus einem generellen humanistischen Anspruch. In der Auseinandersetzung um den Parteiausschluss eines Abgeordneten wird dann bereits deutlich, dass sich Merlin nicht einfach der Parteilinie unterordnete, sondern unterschiedliche Sichtweisen im Rahmen des PSI toleriert wissen wollte. Taktische Spiele, um mit den Kommunisten potentielle Mandate vor der Wahl zu verteilen, lehnte sie ab, fand dabei aber wenig Unterstützung in der Führung. Im Laufe der Jahre empfand sich Merlin als zunehmend isoliert innerhalb des PSI, was 1961 in ihrem Parteiaustritt gipfelte. Der dritte Abschnitt untersucht Lina Merlins Wirken als Feministin. So war sie in der Costituente dafür verantwortlich, dass Artikel 3 der Verfassung die Gleichheit der Geschlechter festschrieb, und sorgte anschließend in Senat wie Kammer dafür, dass dieses Ziel nicht nur auf dem Papier existierte, sondern Niederschlag in der Gesetzgebung fand. Aus demselben Impetus heraus forderte sie, dass legitime und illegitime Kinder vor dem Gesetz gleichgestellt wurden. Am bedeutendsten aber war ohne Zweifel ihr Gesetzesentwurf, der auf die Abschaffung der staatlich lizenzierten Prostitution abzielte und diese 1958 auch erreichte. Dass Merlin mit dem klassischen Feminismus nicht immer auf einer Linie lag, wurde vor allem nach ihrer Zeit als Parlamentarierin deutlich, als sie Mitte der siebziger Jahre das Referendum gegen das Scheidungsrecht unterstützte und sich damit auf die Seite der Democrazia cristiana stellte. Alles in allem handelt es sich um eine solide Studie, die allerdings bisweilen darunter leidet, dass die Vf. zu sehr bemüht ist, neue Forschungsergebnisse zu präsentieren. Anders lässt sich nicht erklären, warum zum Beispiel die Noten aller Abiturprüfungen aufgezählt werden oder im Anhang die Französischklausur aus dem Studium ungekürzt abgedruckt wird. Da sich das Buch absetzen will von bisherigen Untersuchungen, finden sich im Anhang keine Dokumente zur Legge Merlin oder ihrem Einsatz in der Costituente. Stattdessen werden Interviews abgedruckt, die für die einstige Politikerin nicht gerade vorteilhaft sind – etwa wenn sie in fortgeschrittenem Alter von über 83 Jahren ihren Gesprächspartner permanent mit „Silenzio“, „Mi lasci parlare“ oder „Zitto“ abwürgt. Obwohl das bunte Potpourri des Anhangs überrascht und unterhält, wirkt es unausgewogen, da der Schwerpunkt ihres Wirkens ausgeklammert wird. Auf den Haupttext trifft dieser Kritikpunkt nicht zu. Der Versuch, Lina Merlin ganzheitlich als Politikerin zu erfassen, kann als gelungen bezeichnet werden.+TABRE+Malte König
Hermann Goetz, Adami Tullu. Die Erinnerungen des Deutsch-Äthiopiers Hermann Goetz (1878–1970), hg. von Peter Cornelius Mayer-Tasch/Marina Mayer-Tasch, Wiesbaden (Springer VS) 2023, 444 S., ISBN 978-3-658-32599-2 (eBook), € 29,99.
Im Oktober 1935 begann das faschistische Italien, aus seinen Besitzungen „Eritrea“ und „Italienisch-Somaliland“ Äthiopien anzugreifen. Der Krieg endete nach sieben Monaten mit der Eingliederung Äthiopiens in den italienischen Kolonialbesitz am Horn von Afrika, der durch die Niederlage Italiens im Zweiten Weltkrieg wieder verloren ging. Von den Ereignissen war auch eine Anzahl von Europäern betroffen, unter ihnen der Siedler Goetz, dem die Hg. verwandtschaftlich verbunden sind. Sie publizierten die Memoiren von Goetz, beginnend mit seiner Schulzeit und Jugend in Deutschland, das er im Alter von 23 Jahren verließ, und in das er nie wieder zurückkehrte. 1901 ergriff Goetz die Gelegenheit, einen Freund nach Äthiopien zu begleiten, der aus geschäftlichen Gründen von seinem Vater, einem Bankier, dorthin geschickt wurde. In Äthiopien gründete und kultivierte Goetz die Straußenfarm „Adami Tullu“ (dt. „Kleiner Kaktushügel“). Das Land erhielt er von Kaiser Menelik II. Aus seiner Verbindung mit einer Verwandten von Menelik II. ging eine Tochter hervor. Ende Januar 1935 besuchte Kaiser Haile Selassie Adami Tullu, nahm aus Goetzʼ Bücherschrank Hitlers Buch „Mein Kampf“ heraus und sagte auf Deutsch: „Das ist ein großer Mann.“ (S. 381) Sieben Monate später begann der italienische Angriff auf Äthiopien. Im Mai 1936 wurde Adami Tullu von äthiopischen Freischärlern niedergebrannt, die angesichts der Niederlage gegen die italienischen Truppen plündernd und mordend auf Europäer Jagd machten. Goetz überlebte mit viel Glück. Nach der Konsolidierung der Verhältnisse errichteten die Italiener auf dem Gelände ein Verwaltungsgebäude. Goetz stand der italienischen Besatzung kritisch gegenüber. 1938 erlebte er z. B. eine italienische Parade vor dem Vizekönig Rodolfo Graziani in Addis Abeba, die er süffisant kommentierte: „… man hatte sich schon daran gewöhnt, vor jedem beposteten und beflaggten Haus den Hut zu ziehen, da nahm Graziani eine Parade seiner Getreuen auf der Piazza ab. Der Platz war gerammelt voll. Aus der ‚Strada Mussolini‘ ertönten dumpfe Trommelschläge wie bei einem Leichenbegräbnis. Jetzt kamen die Trommler in Sicht – gefolgt von einem Capitano. Ich traute meinen Augen nicht –, ist der Kerl besoffen?‘ fragte ich mich. Den Oberkörper weit nach hinten gestreckt, die Beine fast waagrecht in die Höhe werfend, so schritt dieser Homo sapiens – gefolgt von seiner genauso verrückt ihm nachfolgenden Soldatenbande – an uns vorüber. Jetzt kam die Fahne – die Faschisten brachen in wilden Jubel aus, Hüte wurden von den Köpfen gerissen und flatterten durch die Luft. ‚Capello … Capello …‘ riefen sie – und schneller als sonst brachte ich mein ‚Hütle‘ in Sicherheit. Das war also der deutsche Parademarsch ins Italienische übersetzt!“ (S. 395). Goetz hat sich auch konsequent den Aufforderungen von NS-Funktionären (gemeint ist wahrscheinlich das deutsche Konsulat in Addis Abeba) widersetzt, nach Deutschland zurückzukehren (Anhang, S. 422). Wie das allerdings angesichts seiner äthiopischen Verwandtschaft hätte vonstattengehen sollen, bleibt unklar. Nach der Kapitulation der Italiener erhielt Goetz von Kaiser Haile Selassie Adami Tullu zurück. Das Buch vermittelt einen guten Eindruck von den Mühen und Anstrengungen, die die europäischen Siedler in Äthiopien auf sich nehmen mussten, sowie von den Widrigkeiten, denen sie in diesem Land ausgesetzt waren. Besonders interessant sind die ethnographischen Beobachtungen. Die politischen Ereignisse und damit auch die kurze Phase des italienischen Imperiums werden zwar erwähnt, stehen aber nicht im Mittelpunkt der Ausführungen und bleiben auf interessante Facetten beschränkt. Die Datierungen sind ungenau und lückenhaft, weil Goetzʼ Manuskripte bei der Zerstörung seiner Farm im Mai 1936 vernichtet wurden. Für die sachkundige Strukturierung des Materials zeichnen die Hg. verantwortlich. Der äthiopische Prinz Asfa-Wossen Asserate hat dem Buch ein Geleitwort mitgegeben.+TABRE+Michael Thöndl
Daniela Luigia Caglioti, Stranieri nemici. Nazionalismo e politiche di sicurezza in Italia durante la Prima guerra mondiale, Roma (Viella) 2023 (I libri di Viella 440), 168 S., ISBN 979-12-5469-195-3, € 22.
In den letzten zwei Jahrzehnten hat sich Daniela Luigia Caglioti mit der Verfolgung von „feindlichen Ausländern“ während des Ersten Weltkriegs eingehend beschäftigt. Sie hat dazu wie kaum eine zweite italienische Historikerin international sichtbar publiziert und das Standardwerk zu diesem Thema „War and Citizenship. Enemy Aliens and National Belonging From the French Revolution to the First World War“ verfasst, das 2020 bei Cambridge University Press erschienen ist. Das italienische Buch, das hier besprochen werden soll, ist auch diesem Thema gewidmet, jedoch nicht im Rahmen eines international vergleichenden und diachronen Entwicklungen analysierenden Forschungsprojekts (wie das Cambridge-Buch), sondern „nur“ anhand einer Vertiefung des italienischen Falles während des Krieges und in den unmittelbaren Nachkriegsjahren. Nach einer Einführung, die Relevanz und Forschungsstand souverän skizziert, folgen vier inhaltliche Kapitel. Zunächst erläutert ein Kontextkapitel einerseits die realhistorischen Dimensionen des Problems „feindliche Ausländer“ in Italien, andererseits aber auch die nationalistische Propaganda und die konkreten Maßnahmen gegen Staatsangehörige der Mittelmächte, die die Regierung nach 1915 ergriff. Das zweite Kapitel bietet eine Vertiefung über die Bemühungen, die italienische Wirtschaft von dem angeblich dominierenden deutschen Kapital zu „befreien“. Dabei wird die Verfolgung der deutschsprachigen Community bzw. der deutschen Unternehmer in Neapel und Provinz fokussiert. Opfer der Repression wurden auch religiöse, wissenschaftliche und karitative Einrichtungen. Im Mittelpunkt des dritten Kapitels steht eine weitere Fallstudie über die chemisch-pharmazeutische Industrie und die heftige Polemik gegen die Abhängigkeit Italiens von Deutschland in dieser Branche. Federführend dabei waren norditalienische Ärzte bzw. medizinische Zeitschriften. Das vierte und letzte Kapitel nimmt die Internierung „feindlicher Ausländer“ und Ausländerinnen in den Blick. Die vier Kapitel sind als eigenständige Aufsätze bereits auf Englisch erschienen und werden hier übersetzt, neu sortiert und aktualisiert wieder veröffentlicht. Das Buch ist also in erster Linie für das italienische Publikum interessant bzw. für Leserinnen und Leser, die sich für die Geschichte des Ersten Weltkriegs in deutsch-italienischer Perspektive interessieren. Denn der Hauptfokus des Bd. liegt auf der Konstruktion des Feinbildes „deutsche Kultur“ und der zunehmend intransigenten Unterdrückung deutschsprachiger Personen sowie ihrer wirtschaftlichen und kulturellen Aktivitäten, wobei Caglioti feststellt, dass Italien im Wesentlichen Maßnahmen nachahmte, die die anderen Ententemächte bereits ergriffen hatten. Das Repertoire der Diskreditierung und Unterdrückung fiel zumindest bis zum Debakel von Caporetto Ende 1917 vergleichsweise milde aus. Das Proprium des italienischen Falls war somit eher die „Erfindung“ des Problems „feindliche Ausländer“, denn die deutsche Präsenz war vergleichsweise gering und die Dominanz des deutschen Kapitals südlich der Alpen bei Weitem nicht so erdrückend, wie die nationalistische Propaganda behauptete. Ein weiteres spezielles Merkmal der italienischen Repression war, dass Staatsangehörige der Mittelmächte nicht in Internierungslager gebracht, sondern auf süditalienische Inseln verbannt wurden, wo sie zwar sehr schlecht versorgt und Krankheitsrisiken ausgesetzt waren, gleichzeitig aber eine relative Bewegungsfreiheit genossen. Bemerkenswert ist hier vor allem, dass mit der Verbannung bzw. dem Zwangsaufenthalt („domicilio coatto“) die italienische Regierung ein „normales“ Repressionsinstrument einsetzte, das in den Jahrzehnten nach der Nationalstaatsgründung gegen „Briganten“, Sozialistinnen und Sozialisten und später auch gegen koloniale Untertanen ausgiebig verwendet wurde. So kann man bilanzierend feststellen, dass der italienische Fall insofern besonders interessant ist, weil, während in den meisten kriegsführenden Ländern neue, bis dahin unbekannte Regimes des Ausnahmezustands entstanden, in Italien hingegen eine Politik des Ausnahmezustands fortgesetzt wurde, die bereits in den Jahrzehnten der nationalen Integration und kolonialen Expansion nach 1861 zum Normalzustand geworden war.+TABRE+Amerigo Caruso
Matteo Millan, The Blackshirts’ Dictatorship. Armed Squads, Political Violence, and the Consolidation of Mussolini’s Regime, Abingdon-Oxon-New York (Routledge-Taylor and Francis Group) 2022 (Routledge Studies in Fascism and the Far Right), 248 S., ISBN 978-1-032-22446-6, € 97,50.
Hundert Jahre nach dem sog. „Marsch auf Rom“ erscheint die Übersetzung, Überarbeitung und Erweiterung der 2014 in italienischer Sprache vorgelegten Studie „Squadrismo e squadristi nella dittatura fascista“. Der Autor Matteo Millan fragt darin nach der Rolle der squadristi, der Schwarzhemden, in der Phase der Machtkonsolidierung und der Regimephase. Konkret geht es ihm darum, die Bedeutung und Funktion von Gewalt in der ersten Dekade nach der Machtübernahme herauszuarbeiten. Die Arbeit ist in sieben Kapitel unterteilt. Im 1. Kapitel thematisiert er u. a. die rechtlichen Veränderungen zur Integration des squadrismo in den Staat 1922/1923. Dazu zählten unter anderem die Gründung der faschistischen Miliz (MVSN) sowie die sog. Oviglio-Amnestie, die zu Freisprüchen von squadristi bei Delikten im Sinne der „nationalen Sache“ führte. Diese Maßnahmen dienten einerseits als Zeichen der Normalisierung und Einhegung, andererseits legitimierten sie Gewalt v. a. gegen politische Gegner. Gewalt, so Millan, blieb auch in der Phase der Konsolidierung ein wichtiger Stützpfeiler, um Dissens und Opposition mundtot zu machen. Das 2. Kapitel beleuchtet die Praxen der Gewalt der zumeist von der „unvollendeten Revolution“ enttäuschten squadristi, die weiterhin durch Schlägereien, Morde, Kidnapping, Erpressung, Raubüberfälle und Einschüchterungen von sich Reden machten und sich nicht durch die geschaffene Miliz einhegen ließen. Dass Terror und Gewalt nun auch in Gegenden getragen wurden, die bis zum „Marsch auf Rom“ weitestgehend davon verschont geblieben waren, thematisiert Kapitel 3. Millan nimmt hier besonders Turin, La Spezia, Florenz und Molinella in den Blick, um das gewaltsame Vorgehen der squadristi gegen die Opposition zu schildern. Dabei macht er deutlich, dass die Staatsführung bestens über die Gewaltakte informiert war, jedoch kaum dagegen einschritt. Im folgenden Kapitel untersucht Millan „low-intensity forms of violence“, alltägliche Formen der Gewalt, die – so Millan – multifunktional waren, indem sie einschüchternd und selbstzensierend wirkten, eine Komplizenschaft herstellten und zur Faschisierung/Schaffung einer neuen Ordnung beitragen sollten, die alternativlos schien und die Basis für den Konsens war. Dabei betont Millan: „[V]iolence and consensus are more like two complementary and self-perpetuating forces, than two opposite elements“ (S. 119). Kapitel 5 und 6 beleuchten das Vorgehen von Staat und Partei gegenüber anpassungsunwilligen squadristi nach der Matteotti-Krise. Im Jahre 1926 wurden das neue PNF-Statut erlassen, die Verbannung (confino) politisch Unzuverlässiger und das Spezialtribunal eingeführt. Diese Maßnahmen dienten u. a. dazu, die Macht der regionalen Squadristenführer (Ras) endgültig zu beschneiden und Mussolinis persönliche Herrschaft zu festigen. Millan stellt diese Säuberungsaktionen exemplarisch an den zu autonom agierenden Ras und ihren Anhängern in Genua, Mailand und Bologna dar, die teils ihre Parteimitgliedschaft verloren und in die Verbannung geschickt wurden. Dem in den Jahren durch Polizia Politica und OVRA immer weiter ausgebauten Repressionsapparat konnten altverdiente squadristi demnach ebenso zum Opfer fallen wie politische Gegner. Squadristi konnten Spitzel oder Bespitzelte werden, konnten in der Verbannung Häftlinge (Millan hat 89 confinati mit squadristischem Hintergrund identifiziert, bei insgesamt rund 16 000 confinati, S. 184, Anm. 23) oder Wachen sein. Bestraft wurden sie jedoch nicht für die verübte Gewalt, sondern für ihre mangelnde Anpassung und ihre Autonomiebestrebungen. Das Mittel der Verbannung diente demnach dazu, das Band der Loyalität mit dem lokalen Ras zu zerreißen und ein neues mit Mussolini zu knüpfen, an den die in Ungnade Gefallenen ihre Bitten um Entlassung und Haftverkürzung richteten. Auch in den Folgejahren konnten zahlreiche (zeitweise in Ungnade gefallene) squadristi dank ihrer Gewalterfahrungen in ihren neuen Aufgaben in den Kolonien, Kriegen oder der RSI reüssieren, wie auch das letzte Kapitel zeigt. Millan reiht sich mit seiner Studie in die Tradition von Lyttelton, Lupo, Corner, Ebner und den nicht zitierten Engelmann ein und verdeutlicht anhand zahlreicher regionaler und biographischer Fallbeispiele in den Regionen Nord- und Mittelitaliens, wie konstitutiv und multifunktional Gewalt auch nach dem „Marsch auf Rom“ war. Es wäre sicher lohnenswert, die im letzten Kapitel begonnenen Langzeituntersuchungen am Beispiel von zwei squadristi auszuweiten und den Einsatz gewalterprobter squadristi in der zweiten Dekade in den Kolonien aber auch faschistischen Kriegen zu untersuchen (siehe hierzu auch die Forschungen von Gian Luigi Gatti). Für ein besseres Verständnis zur Entwicklung von Gewalt in paramilitärischen Verbänden könnten vergleichend die zentralen Erkenntnisse etwa aus Daniel Siemens Studie zur Sturmabteilung (SA) und deren aktiver Rolle in der nationalsozialistischen Eroberungs- und Vernichtungspolitik herangezogen werden, und anknüpfend an die Studie von Sven Reichardt zu SA und squadri über die Bewegungsphase hinaus der Vergleich fortgeschrieben werden.+TABRE+Jana Wolf
Anna Lena Kocks, Geselligkeit vereinnahmen. Jugend und Freizeit als Agitationsfelder des italienischen und britischen Faschismus, Darmstadt (WBG) 2021, 520 S., ISBN 978-3-534-40637-1, € 68.
Trotz aller Kritik am sogenannten methodologischen Nationalismus bleibt der historische Vergleich eine anpassungsfähige Herangehensweise, welche die Untersuchung mehr oder minder synchroner, symmetrischer und konvergierender Fallstudien ermöglicht. Dabei erfordert sie wenige, dafür aber unabdingbarere Voraussetzungen: die klare Definition der Comparata, die Herauskristallisierung eines Tertium und, vor allem, die empirische Durchführung und schriftliche Besprechung des Vergleichs mit seinen Ergebnissen. Anna Lena Kocks’ Dissertationsschrift beabsichtigt, anhand vergleichender Verfahren „faschistische Agitationen“ im Bereich der Jugend- und Freizeitpolitik zu erforschen. Letztere konzipiert sie „als Vereinnahmungsprozesse und Versuche der Durchdringung des Privaten und der sozialen Interaktion“ (S. 15). Ob die Studie allerdings ihrem vergleichenden Anspruch und Erkenntnisinteresse gerecht wird, soviel sei vorweggenommen, bleibt fraglich. Die ersten drei empirischen Kapitel befassen sich jeweils mit der kontextualisierenden Zeichnung der Vergleichseinheiten, der Jugend- sowie der Freizeitpolitik. Lässt sich das erste Kapitel mit seinen über hundert Seiten als ein ausgedehnter und bei aller Detailfülle eher in das Thema und seine Vorgeschichte einführender Abschnitt verstehen, bilden die ebenso umfangreichen folgenden zwei Kapitel den analytischen Kern der Arbeit. Auch hier berichtet die Autorin in großer Ausführlichkeit über alle Einzelheiten der titelgebenden Vereinnahmung – eine analytische Gesamtdeutung bleibt sie der Leserschaft jedoch schuldig. Vielmehr begnügt sich die Arbeit mit einer Gegenüberstellung der Comparata, wobei die Abhandlung der definierten Agitationsfelder wie auch im Kontextualisierungskapitel streng dreigeteilt bleibt zwischen ihren Erscheinungsformen im italienischen Regime, den Fasci italiani all’estero und der British Union of Fascists (BUF). Eine zusammenhängende, konsequente Darlegung der Vergleichsanalyse mit ihren Ergebnissen ist somit nicht vorhanden. Dabei sind die zentralen Kapitel dank des Reichtums an eingearbeiteten Informationen aus Archivalien, zeitgenössischer und Forschungsliteratur keineswegs erkenntnisarm. Vielmehr hätte sich daran anschließend eine dem Erkenntnisinteresse förderliche Zusammenführung angeboten. Zu diesem Zwecke wäre eine Auswahl der besprochenen Einzelfälle notwendig gewesen. Scheint aber die Abhandlung zum einen bemüht, jede historisch gegebene Erscheinungsform faschistischer Politik im Jugend- und Freizeitbereich in den jeweiligen Vergleichseinheiten so detailliert wie möglich wiederzugeben, so thematisiert sie zum anderen kaum, inwiefern ein gegenseitiger Bezug erkannt und die sich daraus ergebenden Ähnlichkeiten und Unterschiede entweder für die Herauskristallisierung einer länderübergreifenden faschistischen Jugend- und Freizeitpolitik oder für das tiefere Verständnis beider Vergleichseinheiten genutzt werden können. Ungünstig verbindet sich zudem die ausufernde Informationsfülle mit einem Duktus, der trotz eines durchaus analytischen Blicks häufig in wiederkehrende Argumentationen verfällt, was nicht zuletzt für mehrfache Redundanzen sorgt. Das vierte, verhältnismäßig schmalere Kapitel setzt sich mit den transnationalen Beziehungen zwischen den besprochenen Vergleichseinheiten auseinander. Die hier thematisierte Transnationalität des Forschungsgegenstands wird berechtigterweise als Ergänzung und Bereicherung des vergleichenden Ansatzes eingesetzt (S. 20). So detailliert und erkenntnisreich diese Neurekonstruktion der meist paralleldiplomatischen Beziehungen zwischen PNF und BUF auf Grundlage italienischer und britischer Archivalien auch ist, umso deplatzierter erscheint sie in der Gesamtökonomie der Untersuchung, weil die dafür nötige Rückbindung an Jugend- und Freizeitpolitik nicht stattfindet. Zwar möchte die Studie hiermit „den zeitlich begrenzten gezielten Transfer“ im Jugend- und Freizeitbereich ansprechen (S. 435) und damit Vergleich und Transferanalyse nahtlos ineinanderfließen lassen. Die in transnationaler Perspektive entscheidende Frage, inwiefern die politische Beziehungsgeschichte beider Länder zur tatsächlichen Entstehung und Aufrechterhaltung einer Transferdynamik beitrug, bleibt jedoch unbeantwortet. Die Lektüre hinterlässt daher ein ausgesprochen ambivalentes Bild. Einerseits ist die Studie ausführlich recherchiert, detailreich und gewinnbringend in der thematischen Bündelung der besprochenen Felder in den jeweiligen Vergleichseinheiten. Andererseits führt sie diesen Reichtum zu keinem konsequenten Fluchtpunkt zusammen und verbleibt bei der eher totalitarismustheoretisch anmutenden Ausgangsthese der Besetzung und Instrumentalisierung des öffentlichen und privaten Raums durch faschistische Organisationen, ohne sich mit dem Themenkomplex der aktiven, konsensbezogenen und eigenmächtigen Mobilisierung „von unten“ ausreichend auseinanderzusetzen. Entsprechend wird der hierfür zentrale Simmelsche Begriff der „Geselligkeit“ nur in seiner selbstinszenatorischen oder symbolischen Dimension aufgegriffen, so dass das Zusammenkommen faschistisch gesinnter Akteure in Jugend- und Freizeitorganisationen im Sinne einer Anhängerschafts- oder Gesellschaftsmobilisierung anhand bestimmter Interaktionsformen, Praktiken und Beziehungsmuster unterbeleuchtet bleibt. Dies spiegelt sich auch in der Quellenauswahl wider, die überwiegend anhand zeitgenössischer Zeitungsartikel und Publikationen aus den untersuchten Organisationen operiert und somit vornehmlich das Selbstverständnis der Akteure untersucht. Zwar hinterfragt die Studie mit der gebotenen Kritik und Selbstreflexion die propagandistische Funktion solcher Narrative. Dadurch kann sie aber nur die diskursive Seite von Geselligkeit analytisch aufheben. Damit ist der Studie in ihren jeweiligen Einzelteilen ein Erkenntnisertrag auf empirischer Ebene nicht abzusprechen. Von einer tiefgründigeren Überarbeitung im Sinne einer Syntheseleistung und analytischen Schärfung hätte sie allerdings erheblich profitiert.+TABRE+Daniele Toro
Paola Trevisan, La persecuzione dei rom e dei sinti nell’Italia fascista. Storia, etnografia e memorie, prefazione di Michele Sarfatti, Roma (Viella) 2024 (La storia. Temi 116), 312 pp., ISBN 979-12-5469-407-7, € 29.
„Questo volume ricostruisce una storia poco nota, anzi spesso ignota: la storia di come i rom e i sinti furono perseguitati in Italia sotto il fascismo, e di come alcuni di essi furono deportati dall’occupante nazista. È il primo libro che offre un quadro completo di quegli eventi, dalle premesse in età liberale alle conseguenze in età repubblicana.“ Così lo storico Michele Sarfatti introducendo il libro di Paola Trevisan, ricercatrice presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales. Gli ‚zingariʻ (termine che qui si usa nel riferimento storico e nella consapevolezza della problematicità d’uso) sono una componente storica della società italiana da sempre vittima di una normativa ostile e soprattutto dell’ossessione discriminatoria da parte di altri italiani. Al termine della Prima guerra mondiale, in territori ex asburgici annessi all’Italia, vivevano comunità che il fascismo definiva „zingari girovaghi“; progressivamente fu ordinato il loro rastrellamento o il confino nell’Italia centro-meridionale, ad esempio tutte le famiglie di rom istriani furono confinate in Sardegna. I provvedimenti di confinamento si acuirono con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, non di meno i rom e i sinti di nazionalità italiana venivano arruolati e alcuni avrebbero in seguito affrontato l’internamento militare. Ma la persecuzione non ebbe inizio con lo spostamento dei confini dopo il 1918 né per l’entrata in guerra nel 1940; la questione si connette al modo in cui lo stato italiano, sin dalla sua nascita nel 1861, si era posto nei confronti dei rom e dei sinti che, da molti secoli, abitavano la penisola. Ai sinti si negava l’iscrizione nei registri della popolazione dei Comuni in cui erano nati, prevalentemente nelle regioni settentrionali; considerarli vagabondi dalle origini incerte consentiva di mettere in dubbio l’effettiva cittadinanza. Nell’Italia meridionale si tentò invece di contenere la mobilità dei rom, utilizzando l’ammonizione e il domicilio coatto, con limitazione delle loro attività economiche itineranti. L’autrice fa emergere progressivamente la specificità delle persecuzioni contro gli ‚zingariʻ durante il fascismo, uscendo dai generici e ricorrenti paragoni con lo sterminio compiuto nella Germania nazista. Per le persone definite dal regime fascista „zingari italiani“ era previsto l’internamento in località, detto internamento libero. Le località utilizzate a tale scopo furono numerose, le persone coinvolte non rilevanti, quindi limitata fu la produzione di documenti che l’autrice tuttavia ha recuperato in grande misura. Sia l’internamento in località, che quello nei campi di concentramento, avevano lo scopo di allontanare le persone, che il fascismo riteneva pericolose, dalla propria residenza, indebolirne i legami e la capacità di „nuocere“ alla nazione. L’internamento degli ‚zingariʻ si chiamava „profilassi sociale“: agli occhi del regime era il loro vagabondare a renderli pericolosi, favorendone sia l’irreperibilità che le attività di presunto spionaggio dopo l’entrata in guerra. Tre furono i campi di concentramento che il regime destinò specificatamente ai rom e ai sinti: Agnone e Bojano in Molise, Tossicia in Abruzzo, e oltre 50 località di internamento sparse in tutta la penisola. Lo stato nazional-razziale di Mussolini ridefinì l’appartenenza nazionale e la cittadinanza a cominciare dai figli di italiani e sudditi delle colonie. Nella legislazione antiebraica, la definizione giuridica di ebreo si basava su criteri eminentemente razziali. L’assenza degli ‚zingariʻ nei documenti ufficiali con cui il regime fascista esplicitò le sue politiche razziali ha creato più di un problema interpretativo nell’inquadrare le persecuzioni fasciste contro rom e sinti. L’autrice attribuisce tale assenza a un insieme di fattori, alcuni già emersi in epoca liberale. La supposta pericolosità degli ‚zingari‘ fu sempre gestita con le disposizioni di pubblica sicurezza già esistenti, senza che fosse necessario dare una definizione giuridica di ‚zingariʻ. Il fascismo non ebbe bisogno di trovare nuovi linguaggi per togliere diritti a questa parte della popolazione italiana, le misure persecutorie furono messe in atto senza il coinvolgimento della Direzione generale per la demografia e la razza (Demorazza). Gli ‚zingariʻ rimasero in carico alla Divisione di Polizia presso la Direzione Generale di Pubblica Sicurezza sino alla caduta del regime fascista che ne prevedeva il confino dal gennaio 1938, comunque frutto di un procedimento giudiziario, e l’internamento civile di guerra, dal settembre 1940, comminato con procedimenti molto più immediati. Dopo l’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre 1943, gli internati ‚zingariʻ riuscirono a fuggire dai campi di concentramento e dalle località di internamento; cercarono di nascondersi per non essere catturati dai nazifascisti. L’autrice ha ricostruito, con sapiente incrocio delle fonti, gli itinerari di deportazione di oltre 20 rom e sinti catturati prevalentemente nella Venezia Giulia, diventata parte del Reich dopo il settembre 1943. Dopo essere stati portati nelle carceri di Trieste, Udine e Gorizia vennero caricati nei treni che avevano come destinazione i campi di Dachau, Mauthausen, Ravensbrück, Bergen Belsen e Auschwitz. Per quanto riguarda rom e sinti italiani, le carte della Divisione di Polizia dei primi due decenni di vita della Repubblica mostrano una sorprendente continuità di linguaggio, attitudini e prassi rispetto al regime fascista. Negli anni a venire sarà introdotto nel linguaggio amministrativo e di polizia il termine ‚nomadiʻ affiancato a quello di ‚zingariʻ, rendendo esplicito, ancora una volta, che il nomadismo è ciò che li caratterizza a dispetto di ogni dichiarata volontà delle istituzioni repubblicane di pervenire a una più approfondita conoscenza di questa popolazione.+TABRE+Giovanna Grenga
Frank Schuhmacher, Benito Mussolini – Konsens durch Mythen. Eine Analyse der faschistischen Rhetorik zwischen 1929 und 1936, Paderborn (Brill) 2022, 416 S., Abb., ISBN 978-3-7705-6747-8, € 129.
Bereits 1997 hatte Lutz Klinkhammer im sogenannten „Resistenza-Mythos“ einen der zentralen Gründe dafür gesehen, dass im Nachkriegsitalien eine Auseinandersetzung mit der faschistischen Vergangenheit nur spärlich verfolgt wurde. Diese fehlende Aufarbeitung ist der Ausgangspunkt von Frank Schuhmachers Dissertationsschrift „Benito Mussolini – Konsens durch Mythen“, die an der Universität Tübingen vorgelegt und nun veröffentlicht wurde. Neben jenem „Resistenza-Mythos“ verweist Schuhmacher auf weitere Deutungen der Zeit des italienischen Faschismus, die während der Herrschaft Mussolinis entstanden und sich in der Nachkriegszeit etablierten. Laut einer dieser Sichtweisen sei das italienische Volk durch Mussolini schlicht verführt worden. Damit konnte sich das italienische Volk, so Schuhmacher, nach 1945 weitgehend in einem von Unschuld geprägten Selbstbild einrichten. Anstatt derlei Auslegungen jedoch einfach als falsch und verstiegen zu verwerfen, knüpft Schuhmacher an diese kritisch an: Tatsächlich sei es Mussolini mithilfe seiner Reden gelungen, die italienische Bevölkerung an sich zu binden. Schuhmacher vertritt dabei die These, dass er „seine Rhetorik auf Inhalte aus dem ‚Unbewussten der Italiener‘ aufbaute, d. h., dass er die Wünsche und Sehnsüchte seines Publikums bediente …“ (S. XV). Statt den Faschismus als etwas der Bevölkerung Äußerliches gegenüberzustellen, sei mit Schuhmacher für die Jahre 1929 bis 1936 vielmehr von einer „wechselseitigen Übereinkunft“ zu sprechen. Um dieser These nachzugehen, analysiert Schuhmacher die Rhetorik Mussolinis im genannten Zeitraum. Über vier Kapitel vollzieht er nach, wie die italienische Bevölkerung durch Rhetorik an den Faschismus gebunden werden konnte. Nach dem Forschungsstand und einer theoretischen Grundlegung der Arbeit (Kap. 1 und 2) entwickelt Schuhmacher zunächst ein „rhetorisches Porträt“ Mussolinis (Kap. 3). Überzeugend stellt er dabei die historischen Wurzeln von Mussolinis Reden dar, indem er Einflüsse aus dem Risorgimento, der sozialistischen und der neuen nationalistischen Strömung vor dem Ersten Weltkrieg nachvollzieht. Positiv hervorzuheben ist, dass Schuhmacher auf die gesellschaftlichen Verhältnisse rekurriert, in denen sich ein bestimmter Stil der Rede etablierte. So kontextualisiert er die nationalistische Rhetorik des frühen 20. Jh. in der sozialen Krise des liberalen Italiens, die sich für eine Charakterisierung von Mussolinis Reden als äußerst prägend erweist. Anschließend folgt der eigentliche Kern von Schuhmachers Dissertationsschrift (Kap. 4). Anhand der Reden Mussolinis arbeitet er für den Faschismus zentrale Mythen heraus, in denen die romanità, das Risorgimento und der Äthiopienkrieg eine besondere Rolle einnehmen. Seine Arbeit zeichnet sich hier dadurch aus, Mussolinis Aufgreifen bereits bestehender nationaler Mythen zu entschlüsseln. Als Beispiel sei Mussolinis Anknüpfen an die allgemeine Verehrung Giuseppe Garibaldis zu nennen. Der Nationalheld wurde von Mussolini in seinen Reden in eine Linie mit den Faschisten gestellt, wobei er Garibaldi auf einen moralisch integren, asketischen Patrioten reduzierte und seine republikanische Seite bewusst verschwieg. Garibaldis spedizione dei mille (Zug der Tausend) auf die von den Bourbonen beherrschte Insel Sizilien im Jahre 1860 verwandelte Mussolini in seinen Reden in eine marcia dei mille (Marsch der Tausend), sodass der „Marsch auf Rom“ schließlich als eine Vollendung von Garibaldis Expedition erscheinen konnte. Durch die detaillierte Darstellung von Mussolinis rhetorischen Umformungen vorhandener nationaler Mythen und der Rückbindung dieser an den historischen Kontext liefert Schuhmacher den Leserinnen und Lesern eine überzeugende Analyse Mussolinis Reden, ohne dabei in linguistischen Abhandlungen steckenzubleiben. Dennoch ist Schuhmachers Kerngegenstand die Rhetorik. Mit Bezug auf die Mythos-Theorie des Philosophen Giambattista Vico untersucht er die rhetorischen Tropen Mussolinis in der Annahme, dabei auch Rückschlüsse auf die gesellschaftliche Akzeptanz faschistischer Denkbilder ziehen zu können: „Der Grundgedanke dabei ist einfach: Wer auf etablierte Tropen zurückgreift, der formuliert sein Anliegen in kulturell akzeptierten … Codes.“ (S. 343) Deshalb liefert Schuhmacher kaum einen Einblick in die Rezeption der Reden durch die Zuhörerinnen und Zuhörer, obwohl solch ein Perspektivwechsel wünschenswert gewesen wäre. Dies mindert den Wert seiner Arbeit allerdings in keiner Weise. Schuhmacher hält ein, mit seinem Buch „eine Analyse der faschistischen Rhetorik“ vorzulegen, und darin liegt auch seine Stärke: „Benito Mussolini – Konsens durch Mythen“ kann als ein anschaulicher Beitrag nicht nur zur Rhetorik gelten, sondern liefert damit auch Einblicke in die Ideologie des Faschismus. Durch das Aufzeigen der Traditionslinien von Mussolinis Sprachbildern gelingt es Schumacher, den Faschismus in seiner Vorgeschichte des liberalen Italiens zu kontextualisieren und damit über sein Kernthema hinaus Erkenntnisse zu liefern.+TABRE+Moritz Schmeing
David I. Kertzer, The Pope at War. The Secret History of Pius XII, Mussolini, and Hitler, London (Penguin Random House UK, Vintage) 2022, 672 S., ISBN 978-0-8129-8994-6, US$ 22.
Im März 2020 öffnete der Vatikan seine Archivbestände aus dem Pontifikat Piusʼ XII. und machte damit bisher geheime Akten über die Kriegs- und Nachkriegszeit der Wissenschaft zugänglich. Unter Historikerinnen und Historikern wurde hierdurch die schon seit Jahrzehnten sehr kontrovers geführte Debatte zur Rolle der katholischen Kirche im Zweiten Weltkrieg und während des Holocausts neu belebt. Mit seinem Buch „The Pope at War“ legt der amerikanische Historiker und Pulitzer-Preisträger David Kertzer nun ein neues Standardwerk vor. Spätestens seit der Veröffentlichung von Rolf Hochhuths Theaterstück „Der Stellvertreter“ im Jahr 1963 sieht sich der Vatikan Vorwürfen ausgesetzt, die Verfolgung und Ermordung der Juden in Europa während des Krieges nie offen verurteilt zu haben. Darüber hinaus wurde der Kirche schon regelmäßig eine zu große Nähe zum nationalsozialistischen Regime in Deutschland und vor allem zum Faschismus in Italien unterstellt. Unter teils polemischen Titeln, wie „Hitler’s Pope“, arbeiteten Historiker sogar mit dem Begriff eines ‚Klerikalfaschismus‘. Im Gegensatz dazu betonten andere Forschende jedoch auch die Verdienste Piusʼ XII. und insbesondere die Rettung von Juden in römischen Klöstern und auf dem Staatsgebiet des Vatikans. Bereits seit 1965 läuft in der Katholischen Kirche ein Seligsprechungsverfahren für Pius XII. Vor diesem Hintergrund versucht Kertzer, den Leserinnen und Lesern eine nuancierte Gesamtdarstellung der Quellen aus der Kriegszeit zu bieten. Er nutzt hierzu nicht nur Dokumente aus dem Apostolischen Archiv, sondern auch aus staatlichen Archiven in Deutschland, Italien und anderen Ländern. Gleich zu Beginn stellt Kertzer dabei klar, dass Eugenio Pacelli keine persönlichen Sympathien für Adolf Hitler oder Benito Mussolini hegte. Im Gegenteil blickte er auf beide Diktatoren mit Angst und betrachtete ihre Regime als eine Gefahr für die Kirche. Besonders in der Ideologie des Nationalsozialismus sah er ein antichristliches Neuheidentum. Gerade in der Angst des Papstes vor den Diktatoren Europas liegt für Kertzer jedoch die Schwäche der vatikanischen Politik: Anstatt sich offen gegen die Unterdrückung zu stellen, versuchte Pius XII. vor allem den Einflussbereich der Kirche zu erhalten. In Deutschland ging es ihm vornehmlich darum, das Reichskonkordat von 1933 zu bewahren, das im nationalsozialistischen Staat Schritt für Schritt ausgehöhlt wurde. Kritik, die unter Pius XI. und insbesondere in der Enzyklika „Mit brennender Sorge“ noch offen geäußert wurde, gab es unter dem Pacelli-Papst nicht mehr in dieser Schärfe. Selbst in der Enzyklika, die Pius XII. einen Monat nach Kriegsbeginn im Oktober 1939 veröffentlichte, wurde der deutsche Angriff auf Polen nicht explizit verurteilt. David Kertzers Buch enthält – neben vielen bereits bekannten Beobachtungen – auch einige Überraschungen. Besonders beachtlich ist etwa die Rolle des nationalsozialistischen Politikers Philipp von Hessen in der diplomatischen Vermittlung zwischen Pacelli und Hitler. Als Urenkel Queen Victorias und Schwiegersohn des italienischen Monarchen Vittorio Emanuele III. war dieser „Nazi-Prinz“ prädestiniert für eine diskrete diplomatische Vermittlerrolle. Aufgrund seiner deutsch-italienischen Verbindungen sieht Kertzer den Protestanten Philipp von Hessen als eine Schlüsselfigur in der Dreiecksbeziehung zwischen Hitler, Pius XII. und Mussolini. In Rom und Castel Gandolfo kam es zu mehreren Treffen mit dem Papst, wodurch ein geheimer Draht zwischen Pius XII. und Hitler entstand. Mit Philipp von Hessen wurde dabei über die Schließung von katholischen Schulen und Priesterseminaren gesprochen. Vor allem aber signalisierte ihm Eugenio Pacelli sein Interesse an einer diplomatischen Lösung aller Konflikte zwischen Staat und Kirche in Deutschland. Ein Ende nahm Philipp von Hessens Vermittlertätigkeit, als der italienische König Mussolini im Juli 1943 verhaften ließ, weshalb Philipp und seine Ehefrau, Prinzessin Mafalda, in KZ-Haft gerieten. Grundsätzlich interpretiert David Kertzer die Sicht Piusʼ XII. auf den Weltkrieg als von zwei Phasen gekennzeichnet. Nach den Erfolgen der Wehrmacht in Polen, Skandinavien und Frankreich 1939 und 1940 musste der Vatikan mit einem deutschen Sieg rechnen und hoffte daher, durch diplomatische Zurückhaltung sein Bestehen auch in einer neuen, nationalsozialistischen Ordnung Europas zu sichern. Nach den Rückschlägen der Wehrmacht in Russland und Nordafrika 1942/1943 wurde die Wende im Kriegsgeschehen offensichtlich. Nun aber begann die Kirche eine kommunistische Herrschaft über Europa im Fall einer deutschen Niederlage zu fürchten. Demgegenüber schienen faschistische und nationalsozialistische Machthaber für die vatikanische Politik zumindest teilweise zugänglich und aus einem Standpunkt der Schwäche auch verhandlungsbereit. Abhängig von ihrer Haltung gegenüber der Kirche schien man im Vatikan zwischen „bösen und guten Faschisten“ zu unterscheiden. „Für jeden Farinacci gab es einen Ciano“, schreibt Kertzer, „und für jeden Ribbentrop einen Weizsäcker“ (S. 478). David Kertzer zeigt dabei auch, welche Informationen Pius XII. persönlich über den Holocaust durch Briefe und Berichte von Militärpfarrern an der Ostfront erhielt. Während sich der Papst in Italien dafür eingesetzt hatte, dass wenigstens getaufte Katholiken jüdischer Herkunft von Mussolinis Rassengesetzen ausgenommen werden sollten, fühlte er sich im deutschen Herrschaftsbereich machtlos. Auch als die jüdische Gemeinde Roms unter deutscher Besatzung am 16. Oktober 1943 deportiert wurde, gab es keinen öffentlichen vatikanischen Protest. „Als moralischen Führer“, lautet Kertzers hartes Urteil, „muss man Pius XII. als gescheitert betrachten“ (S. 480). Für ein über 400-seitiges wissenschaftliches Buch ist „The Pope at War“ sehr elegant und bisweilen fast literarisch geschrieben. Eine Vielzahl von klug ausgewählten Anekdoten machen das Buch für ein breites Publikum hochinteressant. Gerade durch die öffentliche Wirkung seiner Thesen wird sich Kertzer jedoch auch dem Widerspruch von Historikerinnen und Historikern ausgesetzt sehen, die sein Buch als zu kirchenkritisch empfinden. Die politischen Kontroversen um Pius XII. sind jedenfalls mit Sicherheit noch nicht zu Ende.+TABRE+Simon Unger-Alvi
Michelangelo Borri, „Quante cose avrei da dirti. Ma ora non si può“. La censura postale a Siena durante la Seconda guerra mondiale, Siena (Betti Editrice) 2022, 108 S., ISBN 978-88-7576-769-3 € 12.
Die italienischen Postzensurbehörden während des Zweiten Weltkriegs – ihre Arbeit, Funktionsweise und die von ihnen produzierten Dokumente – sind spätestens seit den 1980er-Jahren Gegenstand der italienischen Historiographie. Wegen ihres nationalen Zugriffs sind hier die Beiträge Loris Rizzis und Elena Cortesis besonders hervorzuheben, daneben auch die Lokalstudien Cortesis zu Forlì, Giuseppe Pardinis zu Lucca, Sandro Antoninis zu Genua, Ivo Dalla Costas zu Treviso, Amedeo Cignittis und Paolo Momigliano Levis zu Aosta zu nennen. An diese Forschungen knüpft Borris neue Arbeit zum sienesischen Fall an. Für seine Untersuchung hat er verschiedene Dokumente aus dem Archivio Centrale dello Stato und einen konsistenten Bestand des Archivio di Stato di Siena herangezogen. Der schmale Bd. gliedert sich neben einem Vorwort Pietro Clementes und einer Einführung Borris in zwei große Teile: Teil 1 erklärt die Funktionsweise der Postzensur in Siena, während Teil 2 eine Auswahl der Korrespondenz enthält, die der Kontrolle durch die Postzensurbehörde von Siena unterzogen wurde. In der Einführung fasst Borri zwar bekannte, aber wichtige Grundcharakteristika der Postzensur zusammen: Dabei schließt er sich der Interpretation Cortesis an, der zufolge das Briefeschreiben im „totalen Krieg“ durchaus eine Überlebensstrategie darstellte. Die bereits von Rizzi herausgestellte doppelte, d. h. repressive und informative, Funktion der Postzensur sowie das Problem der Selbstzensur werden erläutert. Schließlich zeigt Borri die Grenzen der Postzensur als Quelle auf, betont zugleich jedoch auch deren Potenzial: Einerseits seien die Schriftstücke durch den Selektionsprozess der Zensurbehörde deformiert worden; andererseits zeichneten sich die Dokumente aus durch eine „… pluralità delle voci, delle esperienze, delle notizie che riesce a riunire assieme, nello spazio di poche pagine, fornendo una panoramica generale dei pensieri e delle sensazioni di individui tra loro distanti e diversi“. (S. 21) Auch die Tatsache, dass die Briefe gleichzeitig zu den Ereignissen verfasst wurden und daher frei von späteren Revisionen sind, stellt für Borri ein Argument für die Verwendung der Postzensur als Quelle dar. Der anschließende Teil, der die Funktionsweise der Postzensurbehörde seit den ersten Plänen des faschistischen Regimes 1925 bis zu deren Ende im Jahr 1945 behandelt, ist vor allem in den Ausführungen zur Postzensur in der befreiten Provinz unter den Alliierten von Juli 1944 bis Mai 1945 innovativ. Interessant ist auch Borris Feststellung, dass zur Zeit der Republik von Salò die Zahl der zivilen Korrespondenz stark abnahm – ob dafür, wie Borri meint, tatsächlich jedoch eine angesichts der politischen Ereignisse häufigere Selbstzensur hauptverantwortlich war, ist insofern fragwürdig, als zeitgleich eine Verkleinerung des Kommunikationsraums erfolgte: es durften keine Briefe mehr in die befreiten Teile Italiens versandt werden. Im zweiten Teil des Buchs, in dem eine geringe Zahl von Briefen bzw. Briefauszügen abgedruckt ist, bleibt Borri seinen Leserinnen und Lesern es schuldig, die seiner Auswahl zugrundeliegenden Kriterien zu erläutern. Insgesamt überwiegen Briefe von Soldaten. Als besonders interessant erweist sich ein Brief Margherita Vivarellis vom 19. Mai 1944 – ihr Sohn, der Historiker Roberto Vivarelli, löste bekanntlich im Jahr 2000 mit der Veröffentlichung seiner Memoiren „La fine di una stagione“, in denen er auf ziemlich apologetische Weise seine Jugend als militärischer Freiwilliger der Republik von Salò erzählt, eine Debatte auf nationaler Ebene aus. Eine Analyse des Inhalts der Berichte der Postzensurbehörde und der Korrespondenz erfolgt nur sehr ansatzweise in den vorangegangenen Buchteilen. Borris Studie zur Postzensur in Siena ist informativ und auch für ein breiteres Publikum verständlich geschrieben. Der zweite Teil liefert zwar mehrere interessante Briefe, jedoch nur eine sehr begrenzte Auswahl, weshalb er Forschenden einen Gang ins Archiv nicht ersparen kann. Insgesamt kann der Autor den früheren Forschungen zur italienischen Postzensur während des Zweiten Weltkriegs nur einige (wenn auch interessante) „Fußnoten“ hinzufügen. Ein genaueres Lektorat hätte stellenweise Formatierungs- und Flüchtigkeitsfehler vermeiden können.+TABRE+Pascal Oswald
Raffaello Pannacci, L’occupazione italiana in URSS. La presenza fascista fra Russia e Ucraina (1941–43), Roma (Carocci) 2023 (Studi Storici Carocci 411), 312 pp., ISBN 978-88-290-1801-7, € 35.
Sulla Campagna di Russia è stato pubblicato moltissimo ma, paradossalmente, si è fatta poca ricerca. Questo giudizio di Thomas Schlemmer, autore del primo lavoro realmente innovativo sull’esperienza bellica fascista nell’Urss („Invasori, non vittime. La campagna italiana di Russia“, Roma-Bari 2005), riflette con sintetica chiarezza la situazione degli studi su questo importante aspetto della Seconda guerra mondiale. Fino all’inizio del secolo, infatti, la storia del CSIR (Corpo di spedizione italiano in Russia), trasformatosi poi nell’ARMIR (Armata italiana in Russia), si è principalmente incentrata sulle operazioni militari e poi sulla drammatica ritirata avvenuta all’inizio del 1943. Inoltre, molti degli studi hanno dato credito alle testimonianze dei testimoni, il maresciallo d’Italia Giovanni Messe in testa a tutti, che hanno dato una duplice visione dell’esperienza italiana nello scacchiere ucraino: da una parte una guerra quasi ‚pulita‘, nella quale i soldati italiani hanno combattuto in maniera corretta, dall’altra la tragedia della ritirata, nella quale gli alpini e i fanti sono stati travolti, vittime delle condizioni metereologiche estreme, dell’impreparazione, dei partigiani e del tradimento degli ex camerati tedeschi. In sintesi per decenni i militari italiani hanno propagandato un’immagine corretta della loro esperienza, purificata dalla tragedia della ritirata e dai terribili anni di prigionia di molti di essi. Pannacci ha cambiato completamente la prospettiva di ricerca. Tutto il libro, infatti, dopo una breve ricostruzione delle operazioni al fronte, cerca di rispondere ad una serie di domande su quale sia stato il rapporto tra i soldati italiani e la popolazione civile in quella che è stata una guerra di aggressione cominciata allo scopo di approfittare della prevista vittoria tedesca per sfruttare economicamente le spoglie dei territori conquistati. Dopo una corposa introduzione, che analizza la storiografia e le fonti memorialistiche, il testo si sviluppa attraverso nove capitoli che affrontano i problemi più trascurati dagli studi precedenti. Il primo capitolo affronta il tema delle motivazioni ed aspettative dei soldati e dell’opinione pubblica in Italia, alla luce degli scopi strategici e economici della campagna. Il secondo analizza la visione del nemico, a cui segue il terzo capitolo sul difficile tema della custodia dei prigionieri di guerra nelle mani del Regio esercito. Tutta la strategia antipartigiana viene descritta nel quarto capitolo, dove l’estrema brutalità delle forze armate italiane viene raccontata in profondità per la prima volta. I tre capitoli successivi ricostruiscono l’amministrazione di quella vasta zona (con oltre mezzo milione di persone) direttamente amministrata dall’ARMIR. L’amministrazione della popolazione civile, l’organizzazione della produzione, lo sfruttamento della manodopera locale, la propaganda, i progetti di penetrazione politica e finanziaria sono descritti con dovizia di particolari. Gli ultimi due capitoli sono infine dedicati ai rapporti personali dei soldati con „l’altro“, la società sovietica, gli ebrei, le donne, mediante percorsi di lettura che vanno dalla rappresentazione a fini propagandistici del „buono italiano“ allo shock culturale dovuto all’incontro con un territorio enorme, abitato da popolazioni e da culture totalmente estranee. L’intero testo è supportato da una conoscenza approfondita della bibliografia esistente, continuamente valutata e smontata con l’utilizzo di numerosissimi documenti provenienti da tutti gli archivi italiani più importanti. Una ricerca documentaria che ha impegnato l’autore per una decina di anni. Il quadro che esce dal lavoro di Pannacci stravolge la narrativa post bellica o la retorica nostalgico-buonista di parte della storiografia italiana. La politica complessiva delle autorità politiche e militari fu quella di sfruttare il più possibile il territorio occupato, a cui fece seguito un atteggiamento da „conquistatori“ delle truppe sul campo, che si comportarono spesso in maniera indegna e criminale nei confronti dei civili. Furti, stupri, incendi e rappresaglie furono il pane quotidiano dei soldati impegnati a controllare il territorio, che rappresentava una specie di „Far East“ dove tutto era possibile. Un quadro dove il tracollo morale dei militari italiani è reso evidente dalla corruzione dilagante tra gli ufficiali delle retrovie. Il libro di Pannacci è quindi uno strumento fondamentale per capire ciò che realmente è stata l’esperienza dei militari italiani nelle retrovie dei territori occupati durante la Seconda guerra mondiale, fondamentale non soltanto per l’enorme quantità di fonti utilizzate e citate, ma soprattutto per il metodo utilizzato dall’autore per scrivere una storia della guerra assolutamente innovativa per quanto riguarda la ricerca italiana.+TABRE+Amedeo Osti Guerrazzi
Mario Bussoni, L’odissea dell’ARMIR. Dal Don a Nicolajewka. La ritirata degli Alpini dalla Russia raccontata dai reduci, Parma (Archivio Storia) 2022 (Obiettivi 18), ISBN 978-88-85472-37-2, 212 S., € 20.
Anzuzeigen ist ein ebenso überflüssiges wie ärgerliches Buch – überflüssig, weil es für die Leserinnen und Leser nichts Neues oder gar Überraschendes bereithält, ärgerlich, weil der Autor es mit den Grundregeln wissenschaftlichen Arbeitens, die auch für historische Sachbücher gelten sollten, nicht so genau nimmt. Aber der Reihe nach: An vergleichbaren Büchern, die seit 1943 entstandene Narrative transportieren, fortschreiben oder gar verstärken, fehlt es nicht. Die politische und gesellschaftliche Funktion, die an der Wiege dieser Narrative stand, ist rasch genannt: der Versuch, möglichst rasch möglichst viel Distanz von den Angriffs- und Eroberungskriegen Mussolinis und Hitlers zu gewinnen, das Bemühen um einen möglichst weichen Übergang aus dem Lager der „Achse“ in das Lager der Alliierten und die Sehnsucht nach Sinngebung für individuelles Leiden und familiären Verlust. Damit traf sich der politische Minimalkonsens des postfaschistischen Italien mit dem weit verbreiteten Bedürfnis, der Vergangenheit positive Aspekte abzuringen und die Zukunft in positivem Licht erscheinen zu lassen. Dabei waren vier Aspekte besonders wichtig: Die italienischen Soldaten hätten, erstens, tapfer gekämpft und, zweitens, an allen Fronten einen „sauberen“ Krieg geführt; sie seien, drittens, von einer bis zur Lächerlichkeit inkompetenten politisch-militärischen Führung in einen aussichtslosen Krieg geführt und, viertens, von den ebenso brutalen wie verräterischen deutschen Verbündeten im Stich gelassen worden – zuerst in Nordafrika, und dann am Don. Dass die Forschung diese Narrative längst hinterfragt und dekonstruiert hat, ficht Mario Bussoni nicht an. Er ignoriert souverän die Forschungen der letzten drei Jahrzehnte zu den faschistischen Kriegen im Allgemeinen und Mussolinis Krieg in der Sowjetunion im Besonderen. Dies gelingt ihm insbesondere durch den Einsatz zweier zweifelhafter Instrumente: Zum einen schreibt er seine Geschichte vom Ende her, vom verzweifelten Kampf und vom ebenso heldenhaften wie tragischen Rückzug der italienischen Soldaten im Winter 1942/1943. Zum anderen bedient er sich einer für den Laien auf den ersten Blick undurchsichtigen Kollagetechnik. Bussoni reiht Zitat an Zitat, wählt dabei diejenigen aus, die in seine Argumentation passen, lässt andere links liegen, die ihm im Weg stehen würden, und hat kein Interesse an Entstehungszeit und Kontext. Seriöse Quellenkritik sieht anders aus, zumal es nur einen rudimentären wissenschaftlichen Apparat gibt, um die Argumentation des Autors zu überprüfen. Auf ein Literaturverzeichnis hat er gänzlich verzichtet. Wie tendenziös das ganze Unternehmen ist, das darauf hinausläuft, die italienischen Soldaten als ebenso unwissende wie gutwillige, aber tapfere Opfer darzustellen, zeigt der Abschnitt „Italiani brava gente?“ (S. 52–57). Auch Bussoni kommt nicht mehr umhin zu konzedieren, dass die italienischen Divisionen Teil der Invasionsstreitmacht gewesen seien. Aber er spricht die Soldaten des königlichen Heeres von jeder Schuld frei, denn schließlich hätten sie – von ganz wenigen Ausnahmen abgesehen – nach den Regeln des Völkerstrafrechts gekämpft, und wenn dies nicht der Fall gewesen sei, wie bei der sogenannten Bandenbekämpfung, seien sie von den Deutschen dazu gezwungen worden. Von den bösen Deutschen weiß Bussoni allerdings wenig, und das gilt für die logistischen Probleme der Wehrmacht an der Ostfront ebenso wie für strategische (Fehl-)Planungen oder die konkrete deutsch-italienische Kampfführung im Dezember 1942 und Januar 1943. Die Zitate aus dem Deutschen sind jedenfalls zum Teil grotesk entstellt; Bonvi hätte für die „Sturmtruppen“ seine helle Freude daran gehabt. Wer sich also seriös über die Campagna di Russia informieren möchte, gibt sein Geld lieber für andere Bücher aus als für Bussonis „L’odissea dell’ARMIR“.+TABRE+Thomas Schlemmer
Vito Antonio Leuzzi, 1943. La Puglia in guerra, Bari (Edizioni del Sud) 2023, 124 S., ISBN 978-88-7553-356-4, € 14.
Der Autor, Präsident des Istituto Pugliese per la Storia dell’Antifascismo e dell’Italia Contemporanea, ist als einer der führenden Experten zur Geschichte Apuliens im Zweiten Weltkrieg bereits durch mehrere Aufsätze und kommentierte Quellensammlungen zum Thema in Erscheinung getreten. Wer nun eine quellengesättigte, tiefgründige und umfassende Geschichte Apuliens im turbulenten Jahr 1943 auf Basis dieser Forschungen und weiterer Lokalstudien erwartet, wird leicht enttäuscht: Der schmale Bd. bietet neben einer Einleitung Anna Gervasios und einem Dokumentenanhang lediglich zehn locker angeordnete kurze Kapitel, die weitgehend der chronologischen Ordnung folgen. Insbesondere werden behandelt: die Entwicklungen an der „inneren Front“ vor dem Hintergrund der Bombardierungen, der Zensur und der Propaganda; Antisemitismus und Repressalien gegen den Antifaschismus, die sich in erster Linie gegen den Schriftsteller Tommaso Fiore richteten und im Mai/Juni 1943 in einer Reihe von Verhaftungen kulminierten; das nach der Regierungsübernahme durch Badoglio am 28. Juli in Bari von italienischen Militärangehörigen verübte Massaker an Demonstranten, von denen 20 getötet und über 30 verwundet wurden; die angloamerikanischen Bombardierungen vom August, die nach vorangegangenen Fliegereinfällen von Mitte Juli besonders Foggia ein zweites Mal hart trafen; die Landung der Alliierten bei Taranto nach der Verkündung des Waffenstillstands am 8. September („Operation Slapstick“); die deutsche Bombardierung Baris am 2. Dezember und die daraus resultierende Giftgaskatastrophe; die alliierte Besatzung Apuliens, der Zustrom von Flüchtlingen vielfach südost- und osteuropäischer Herkunft; die Versorgungsschwierigkeiten und schließlich das Ende der Kriegshandlungen in Apulien. Dem Rezensenten erschließt sich nicht, weshalb der Bombardierung Potenzas, der Hauptstadt der Basilikata, ein ganzes Kapitel gewidmet ist, während etwa die ebenfalls in dieser Nachbarregion Apuliens erfolgte „Insurrezione di Matera“ vom 21. September keine Erwähnung findet. Das dem Widerstand in Bari und Barletta und den nationalsozialistischen Massakern gewidmete Kapitel ist in der (vom Autor nicht zitierten) grundlegenden Arbeit Dino Tarantinos über Apulien 1943–1944 bereits detaillierter behandelt worden: Der hier besprochene Bd. stellt insbesondere die in Lokalstudien gut dokumentierten Vorgänge in Barletta nur kurz dar, wo sich u. a. auch von Leuzzi nicht erwähnte Plünderungen durch die lokalen Bewohner ereigneten, die deutsche Soldaten gewaltsam unterdrückten; außerdem fehlt jeglicher Hinweis auf die Vorgänge in Trani und in Ascoli Satriano, wo die Intervention der dortigen Bischöfe dazu beitrug, Massaker an der Zivilbevölkerung zu vereiteln. Interessant wären an dieser Stelle auch weiterführende vergleichende Überlegungen etwa zum Fall Kampaniens gewesen. Der Dokumentenanhang enthält zum Teil originelles Material wie angloamerikanische Fotografien und einen aus den Archives of New Zealand stammenden Auszug aus einem alliierten Krankenhausbericht über die Bombardierung Baris vom 2. Dezember; in anderen Fällen lässt sich darüber streiten, wie sinnvoll der Abdruck bereits veröffentlichter Dokumente ist. In formaler Hinsicht ist zu kritisieren, dass einige Zitate nicht klar belegt, bei bibliographischen Angaben in den Fußnoten wiederholt keine Seitenzahlen angegeben und Archivdokumente nicht immer präzise zitiert werden. Angesichts der erwähnten inhaltlichen Lücken und subjektiven Schwerpunktsetzungen bietet der Bd. keine erschöpfende Behandlung der Ereignisse in Apulien im Jahr 1943. Andererseits vermag Leuzzi insbesondere durch die Verwendung archivalischer Quellen punktuell neue Erkenntnisse auf lokalgeschichtlicher Ebene zu liefern, so etwa zum Massaker vom 28. Juli in Bari anhand des über 70 Jahre lang unzugänglichen Faszikels der „Procura militare del re imperatore“. Interessant sind auch die Ausführungen zu Castel del Monte auf Grundlage von Zeitungsartikeln der unmittelbaren Nachkriegszeit, wo es dem Kustoden gelang, die Kunstschätze vor einem deutschen Abtransport zu retten. Der Bd. zeichnet sich zudem dadurch aus, dass er nicht nur militärisch-politischen Aspekten Aufmerksamkeit schenkt, sondern auch sozial- und gesellschaftsgeschichtliche Elemente einer Geschichte „von unten“ enthält, indem er subjektive Erinnerungszeugnisse sowie die (bereits großenteils in einem anderen Aufsatz Leuzzis veröffentlichte) Briefauszüge verwendet, welche in den Berichten der Postzensurbehörde von Bari zitiert werden.+TABRE+Pascal Oswald
Giovanna D’Amico, Riparare i danni. I perseguitati dai fascismi in Austria, Francia, Germania, Italia. Sottrazioni, restituzioni, indennizzi, Milano (Mondadori Education) 2023 (Quaderni di Storia), IX, 248 S., ISBN 978-88-00-86419-0, € 23,50.
Die in Messina lehrende Vf. stellt sich einer großen Herausforderung, wenn sie die Wiedergutmachung – der Begriff ist laut Günter Hockerts unübersetzbar und tatsächlich verwendet D’Amico ihn oft in der Originalsprache – in vier Ländern vergleichend untersucht. Ihre Darstellung beruht natürlich nicht auf Archivstudien, sondern auf Auswertung der Literatur, dies allerdings in ungewöhnlich gründlichem Umfang. Sinnvollerweise ist das Buch nicht nach Ländern, sondern nach Gegenstandsbereichen gegliedert. Es sind deren drei: Rückgaben und Entschädigungen, Reintegration der Opfer von Säuberungen und Restitution arisierter Betriebe sowie der Umgang mit den „vergessenen“, weil erst ab den späten 1980er Jahren in den Blick geratenen Opfern, also Homosexuellen, Sinti und Roma und Zwangsarbeitern. Das ist natürlich nicht das gesamte Spektrum, aber zweifellos ein hinreichender Ausschnitt, um Parallelen und Unterschiede des Umgangs der vier Länder mit den Opfern nationalsozialistischer, faschistischer und autoritärer (Ständestaatliches Österreich, Vichy-Frankreich) Herrschaft zu verdeutlichen. Drei Grundannahmen strukturieren das Buch bzw. die Urteilsbildung. Zum ersten die naheliegende Feststellung, dass Art und Umfang von Verfolgung, Entrechtung und Beraubung später Formen und Reichweite der Wiedergutmachung weithin bestimmt hätten, was die auf den ersten Blick überraschend ausführliche Darstellung der Verbrechen erklärt. Zum zweiten ihre Beobachtung der wichtigen Rolle konservativer bzw. traditioneller Eliten bei der Verfolgung der Juden. Das „monarcho-faschistische“ Italien, wie D’Amico das Land zwischen 1922 und 1943 bezeichnet, der Austrofaschismus und Vichy-Frankreich sind bei allem Antisemitismus bekanntlich weit weniger brutal vorgegangen als der Nationalsozialismus oder die italienische Repubblica Sociale Italiana. Diskutabel ist der dritte Faktor: Zeit. Wo die Machteroberung rasch und uneingeschränkt erfolgte, seien Verfolgung und Entrechtung am brutalsten gewesen. Wichtigster Faktor war bekanntlich die Rolle der rassistischen Ideologie. Diese drei Grundannahmen erklären das Dickicht der in den Sachkapiteln dargestellten Wiedergutmachungsregelungen, die an dieser Stelle darum nur ausschnittsweise referiert werden können. Mit der in Kapitel 1 behandelten Rückerstattung geraubten Eigentums betrat man außer in Frankreich rechtliches Neuland. Ein Problem war dabei der gutgläubige Erwerb, ein anderes die aberkannte Staatsangehörigkeit, die die Rückerstattung außer in der Bundesrepublik, wo stattdessen die Ansässigkeit Bedingung war, vielen Geflohenen vorenthielt. Beim Thema Entschädigungen hätte man sich mehr zum Umstand gewünscht, dass nach dem Krieg auch Ausgebombte und Vertriebene, in Frankreich auch Angehörige der Résistance bzw. in Italien die Partisanen auf Versorgung Anspruch hatten, weshalb diese beiden Länder Juden zunächst keine Sonderrechte einräumen wollten. In drei Ländern waren die Regelungen dürftig. Die große Ausnahme war natürlich die Bundesrepublik, die im Grunde gar nicht anders konnte, als sich 1952 mit Israel und der Jewish Claims Conference auf Entschädigungszahlungen zu einigen; diesem Vertrag folgten zwischen 1959 und 1960 Globalabkommen mit elf westeuropäischen Staaten. Mit Säuberungen begann der Faschismus gleich 1922 und wurde damit vermutlich zum Vorbild autoritärer Regierungen und des Nationalsozialismus, die alle in mehreren Wellen aus „rassischen“ oder politischen Gründen zigtausende Beamtinnen und Beamte und Universitätspersonal, in Italien auch Beschäftigte von Bahn und Post, in Frankreich selbst Soldaten entließen. Das Recht auf Wiedereinstellung verstand sich für alle Nachkriegsregierungen von selbst, allerdings waren Deutsche und Österreicher vielfach geflohen und dachten kaum an eine Rückkehr. Wie die materiellen Leistungen beschaffen waren, erfährt man leider nicht. Etwas verwirrend ist, dass in Kapitel 2.3 noch einmal, aber jetzt systematisch, die Enteignung jüdischer Unternehmen und die Entschädigungspolitik behandelt wird. Dass in der Bundesrepublik die Alliierten hier bestimmend waren und jahrzehntelang die Aufsicht dabei hatten, ist für D’Amico eher nebensächlich. Deutschland findet sie jedenfalls vorbildlich, denn in Italien blieb der vor der Kapitulation am 8.9.1943 an Private übergegangene Besitz unangetastet und gutgläubiger Erwerb von Sachwerten ist selbst für die Zeit der Republik von Salò angenommen bzw. dekretiert worden. Ähnlich verhielt sich Österreich, wo etwa Mietshäuser – in ihnen wohnt bis heute die große Mehrheit der städtischen Bevölkerung – von der Restitution von vornherein ausgeschlossen blieben; außerdem war auch hier bis 1992 die österreichische Staatsbürgerschaft Voraussetzung. Am raschesten und geräuschlosesten wurden die Dinge in Frankreich geregelt. Das letzte Kapitel betrifft vornehmlich Deutschland, denn anderswo wurden Homosexuelle nicht verfolgt, gab es keine Zwangsarbeit und wurden Sinti und Roma nicht ermordet. Anschaulich erfährt der Leser, wie sich seit den 1980er Jahren (vermutlich europaweit) die sozialmoralischen Normen zu ändern begannen mit der Folge, dass die Opfer an die Stelle der politischen Gegner den Spitzenplatz im öffentlichen Gedächtnis einzunehmen begannen. Damit wurde der Weg frei, die nach 1945 weiterbestehenden Diskriminierungen zu beenden und die neuen Opfergruppen zu entschädigen. Ein besonderes Problem war der Umgang mit Zwangsarbeitern, von denen es im Dritten Reich insgesamt 13,6 Mio. gab (ganz überwiegend Ausländer) und für die nach den Nürnberger Prozessen zwei „Hauptkriegsverbrecher“ hingerichtet wurden. Trotzdem galt Zwangsarbeit weithin als Begleiterscheinung von Kriegen, und da die Masse der Opfer inzwischen hinter dem Eisernen Vorhang lebte und damit von Wiedergutmachungszahlungen ausgeschlossen war, schien das Thema erledigt. Die Wende kam aber tatsächlich mit der ‚Wende‘ von 1989/1990 und der Änderung der amerikanischen Rechtsprechung, die nun deutsche Firmen in den USA zu belangen drohte. So wurde 2000 die Stiftung „Erinnerung, Verantwortung und Zukunft“ gegründet und mit Geldern des Bundes und der deutschen Industrie – nicht jedoch der Landwirtschaft, obwohl dort ein erheblicher Teil der Zwangsarbeiter beschäftigt war – ausgestattet. Sie zahlte Entschädigungen in Höhe von 4,37 Mrd. Euro an 1,7 Mio. Personen. Die außerhalb Italiens kaum beachteten Italienischen Militärinternierten, denen NS-Deutschland den Status von Kriegsgefangenen vorenthalten hatte, erhielten erst aus dem 2009 eingerichteten Deutsch-Italienischen Zukunftsfonds, der angesichts der nur noch geringen Zahl überlebender Anspruchsberechtigter in erster Linie der Erinnerungsarbeit dient, eine bescheidene Entschädigung. Auch wenn Wiedergutmachung im Wortsinne natürlich unmöglich sei, könne man die Anstrengungen der einzelnen Länder im Blick auf das moralisch Gebotene miteinander vergleichen, schreibt D’Amico im Schlusskapitel. In vieler Hinsicht habe sich die Bundesrepublik „angemessen“ verhalten, während Italien die schlechteste Note erhält. Weiter beobachtete sie, dass die materielle Anerkennung der symbolischen weit vorausgegangen sei, und begründet das mit der Allgegenwart der Täter nach 1945. Deswegen sei nun mehr denn je die Arbeit an der Erinnerung geboten, schließt die Vf. ihr Buch.+TABRE+Christof Dipper
David Broder, Mussolini’s Grandchildren. Fascism in Contemporary Italy, London (Pluto Press) 2023, 240 pp., ISBN 978-0-7453-4802-5, GBP 17,99.
David Broder’s book provides a necessary overview of the connections between Italian neofascism of both the past and present, offering readers a journey into a recent past that Italy still struggles to critically confront. The author reconstructs the history and evolution of Italian neofascist right, starting from the Movimento Sociale Italiano and ending with Fratelli d’Italia, capturing the peculiarity of a multifaceted neofascist right capable of renewal while maintaining firm roots in history. Although there are many studies on the evolution of the Italian right (see works by Ignazi, Tarchi, Rosati, among others), the uniqueness of Broder’s work lies in the attempt to understand contemporaneity by looking to the past, demonstrating that a part of today’s political class is an expression of an „eternal fascism“ (Umberto Eco, „Il fascismo eterno“, Milano 2018) capable of changing and surviving. Broder recounts the internal tensions within the movement, the corporatist and, later, the traditional currents (Piero Ignazi, „Postfascisti? Dal Movimento Sociale Italiano ad Alleanza Nazionale“, Bologna 1994), which severely test the Movimento Sociale Italiano, and traces the process of institutionalization of the neofascist right in Italy, linked both to the Fiuggi turning point and to the choice of two important parties (Democrazia Cristiana first and Forza Italia later) to open up to the extreme and radical right, helping its full legitimization at the institutional level. From an electoral perspective, politological literature helps in understanding the slow and growing electoral success of neofascist right-wing parties, identifying strategies of adaptation, differentiation, and distinction (Alexander Dézé, „Between Adaptation, Differentiation and Distinction. Extreme Right-Wing Parties within Democratic Political Systems“, in: Roger Eatwell/Cas Mudde [Eds.], „Western Democracies and the New Extreme Right Challenge“, Oxfordshire 2004, pp. 19–40), or even through the theory of the coalitional political market (Laurent Kestel/Laurent Godmer, „Institutional Inclusion and Exclusion of Extreme Right Parties“, ibid.). Furthermore, I believe the value of this text lies in highlighting that history and symbols are a battlefield. Although today the area of the extreme and radical right is quite fragmented, history becomes a point of reunion and a battleground for political conflict. In Italy, commemorations of historical events (such as the events of Acca Larentia, the death of Sergio Ramelli, the foibe massacres) become moments of re-composition of the area but also an opportunity to propose and strengthen a revisionist reading of history. Although it is a necessary book and written in a way that is understandable for a broader audience as well as the more specialized one, I believe there are two main risks. One relates to the underestimation of the youthful ferment that characterized the area in the 1970s, but which we also find today, albeit in different forms. The ferment of ʼ68 and the entire movement of the ʼ70s, the political experiments that characterized the antagonistic and extra-parliamentary left, also involve the extreme right, which, emulating the extra-parliamentary left, adopts new forms of aggregation (the Hobbit camps), a more satirical and artistic way of communicating (with newspapers like „Eowyn“ and „La Voce dalla Fogna“; cfr. Marco Tarchi, „La rivoluzione impossibile. Dai Campi Hobbit alla Nuova Destra“, Firenze 2010), forms of action (the first right-wing occupations) (Domenico Di Tullio, „Centri sociali di destra. Occupazioni e culture non conformi“, Roma 2006), and later tactics such as entrismo (Elia Rosati, „CasaPound Italia. Fascisti del Terzo Millennio“, Sesto San Giovanni 2018). A final risk concerns one of the prominent aspects of the book. It seems that neofascism is defined solely based on recognition of Mussolini’s figure and the connection with historical fascism. This is partly true, but it is only one aspect. Emphasizing only this risks reducing neofascism to mere nostalgia for fascism, giving an erroneous image of the extreme right which has general characteristics found in all programs of neofascist extreme right (the idea of an organic state and society, corporatism, anti-democracy) and also in radical right-wing groups (authoritarianism and xenophobia) (Elisabeth Carter, „Right-Wing Extremism/Radicalism. Reconstructing the Concept“, in: „Journal of Political Ideologies“ 23,2 [2018], pp. 157–182). This simplification is one that we cannot afford and risks flattening a more complex evolution of the ideology and history of these formations, some of which are now in government.+TABRE+Federica Frazzetta
George Newth, Fathers of the Lega. Populist Regionalism and Populist Nationalism in Historical Perspective, London-New York (Routledge) 2023 (Routledge Studies in the Modern History of Italy), 224 S., ISBN 978-1-032-28565-8, GBP 130.
„[M]aking Turin great again and giving Piedmont back to the Piedmontese!“ (S. 176). Dieses aus dem Italienischen übersetzte Zitat, in dem die Polemik gegenwärtiger politischer Debatten anklingt, lässt im italienischen Kontext an den einstigen Sezessionskurs der Lega Nord denken – und stammt doch aus dem Jahr 1956. Die Autonomiebewegung Piemonts (Movimento per l’Autonomia Regionale Piemontese) erzielte damals zusammen mit dem Movimento Autonomista Bergamasco kleinere politische Erfolge, ehe ihr Führungspersonal in unterschiedlichen Parteien aufgehen sollte. Inwiefern diese Autonomiebewegungen, die der einstige Lega Nord-Vorsitzende Bossi als „Väter“ seiner Partei würdigen sollte, diskursive Muster des späteren leghismo vorprägten, stellt eine Forschungslücke dar, in welche die Arbeit des Politikwissenschaftlers George Newth stößt. Die Studie verortet sich so innerhalb der breiten interdisziplinären Forschung zu dieser Partei, bei der sich die Geschichtswissenschaft zuletzt intensiv mit deren Rolle bei der Verschiebung des Sagbaren beschäftigt hat. Während die Entstehung der Ligen-Bewegung bisher vorrangig aus dem soziopolitischen Kontext der 1980er Jahre erklärt wurde (einschlägig: Paolo Barcella 2022), entwirft Newth eine wichtige Gegenthese. Demnach hätten die bisher unterberücksichtigten Autonomiebewegungen der 1950er Jahre (kurz MRA) wegweisende „populistische, regionalistische Repertoires“ (S. 3) ausgebildet, an welche die Lega (Nord) bis heute anknüpfe. Newth zeichnet dabei keine simplifizierende Kontinuitätslinie, sondern arbeitet sorgfältig heraus, wie diese Partei in den unterschiedlichen Phasen ihrer Entwicklung solche diskursiven Muster an jeweils aktuellen gesellschaftlichen Konfliktlinien ausrichtete, dadurch bestimmte Semantiken entwertete oder mit gänzlich neuem Sinn versah. Die Arbeit operiert vor dem Hintergrund „dreier unterschiedlicher Perioden von Krisen und Transition“ (S. 249), die überzeugend begründet sind und neben der Phase der MRA und des leghismo auf die nationalistische Neuausrichtung der Lega ab 2012 rekurrieren. Wesentliches Erkenntnisinteresse ist daher, wie diese Bewegungen eine kollektive Identität als ‚Volk‘ konstruierten, wobei besonders die Abgrenzungsmechanismen zu einer ‚Elite‘ sowie zu rassistisch begriffenen ‚others‘ im Vordergrund steht (S. 5). Newth wählt hierzu einen Ansatz, der sich an der historischen Diskursanalyse orientiert und in dem die Ausrichtung der jeweiligen Bewegungen mithilfe von politikwissenschaftlichen Kategorien einordnet wird. Der Quellenkorpus ist für die 1950er Jahre mit den Presseerzeugnissen der MRA klar umrissen, für spätere Dekaden jedoch nur vage definiert. Die ersten beiden Kapitel legen den konzeptionell-theoretischen Ansatz des Buches dar und sollen historische Kontextualisierungen vorwegnehmen. Kapitel drei eröffnet die archivgestützte Analyse, in welcher Newth unter Rückgriff auf die sogenannte Abeyance-Theorie aufzeigt, wie bestimmte diskursive Grundmuster die rund zwanzig Jahre überdauerten, in denen keine populistisch-regionalistische Bewegung Erfolg hatte (S. 92). Dass er dabei wesentlich mit persönlichen Netzwerken argumentiert, kann angesichts der Vieldeutigkeit dieser Muster nicht ganz überzeugen. Kapitel vier und fünf stellt die gelungenste Analyseleistung des Buchs dar, da der politische Diskurs der Lega (Nord) während der 1990er Jahre auf (Dis)Kontinuitäten zu den MRA untersucht wird. Hinsichtlich der regionalistischen Kernbotschaft wird deutlich, dass die MRA zwar gegen die Eliten in Rom agitierten, anders als die Lega Nord sich aber eindeutig zur Verfassung sowie zum antifaschistischen Grundkonsens der Republik bekannten. Beide Bewegungen hätten positive Verweise auf „Europa“ beziehungsweise die EG/EU als Vehikel betrachtet, mit denen sie regionalistische oder sezessionistische Forderungen begründeten. In Bezug auf populistisch-nativistische Agitation zeigt Newth eindrücklich, dass die Anti-Immigrationsrhetorik der Lega Nord jene Fremd- und Feindbilder adaptierte, welche die MRA in Abgrenzung zu italienischen Binnenmigrantinnen und -migranten gestaltet hatten. Das letzte Kapitel untersucht demgegenüber den ethno-nationalistischen Diskurs der Lega unter Matteo Salvini auf (Dis)Kontinuitäten, wobei besonders die Rhetorik von „Bevölkerungsaustausch“ und „Invasion“ frappierende Ähnlichkeiten mit dem Diskurs der MRA darstellen (S. 223). Insgesamt gelingt es Newth zu zeigen, warum während der Entwicklung der Lega (Nord) zwar so diametrale Forderungen nach Sezession oder nach „Italy and Italians first“ (S. 201) möglich waren, ohne dass die grundsätzliche Ausrichtung der Partei, die Konstruktion und überhaupt die Notwendigkeit von starken Feindbildern beliebig ist. Zu kritisieren ist neben den zu lang geratenen Ausführungen zu Theorien und Kontext, die ihre Funktion der Vorentlastung nicht in vollem Umfang erfüllen, die Auswahl der Quellen. Der enge Fokus auf diese Bewegungen sowie ihrer Akteursgruppen birgt die Gefahr, deren Bedeutung überzubetonen und anzunehmen, dass jene diskursiven Entwicklungen von dort ihren Ausgang nahmen. Aspekte der Rezeption sowie des Zusammenspiels mit unterschiedlichen Medienformaten und deren Logiken kommen daher zu kurz, was wichtige strukturelle Vergleichshorizonte zu anderen (rechts)populistischen Bewegungen in Europa eröffnet hätte. Trotz dieser Kritikpunkte stellt „Fathers of the Lega“ einen klugen Impuls dar und ist ein wichtiger Beitrag für das bessere Verständnis der (historischen) Entwicklung der Lega (Nord).+TABRE+Christian Dengg
Eloisa Betti, Precarious Workers. History of Debates, Political Mobilization, and Labor Reforms in Italy, Budapest (Central European University Press) 2022 (Work and Labor. Transdisciplinary Studies for the 21st Century 4), 268 pp., ISBN 978-963-386-437-1, € 71.
In „Precarious Workers: History of Debates, Political Mobilisation, and Labor Reforms in Italy“, Eloisa Betti illustra la natura del lavoro precario e il modo in cui se ne è discusso in Italia negli ultimi settant’anni. Betti ci mostra che la precarietà non è adatta come diagnosi contemporanea, perché la visione ristretta degli sviluppi a breve termine non tiene conto del fatto che il lavoro precario è stato per lungo tempo la normalità e che il lavoro precario è molto più diffuso di quanto la coppia di termini „lavoratore“ contro „disoccupato“ suggerisca. In cinque capitoli, ciascuno dedicato a uno o due decenni dagli anni Cinquanta al 2020, l’autrice illustra una storia del radicamento sociale delle genealogie giuridiche, un’analisi discorsiva delle controversie sindacali e parlamentari e la storia della conoscenza di un concetto: il lavoro precario. Betti evidenzia la tensione centrale nella regolamentazione del lavoro precario: esso deve essere protetto e combattuto allo stesso tempo. Nel primo capitolo, Betti ci riporta agli inizi degli anni Sessanta, ricordati come „anni del Garantismo“ (p. 45). Contemporaneamente si vede la scoperta della precarietà tra i primi studi sul lavoro precario nel Mezzogiorno agricolo e la costruzione del lavoro stabile attraverso la legislazione e i dibattiti parlamentari. Il più grande cambiamento nel discorso degli anni Settanta riguarda gli attori che venivano descritti come precari: dai braccianti agricoli agli intellettuali delle università. Ma anche la presunta occupazione standard nelle fabbriche è stata attaccata negli anni di crisi dopo il 1973: licenziamenti, ridimensionamenti, esternalizzazioni verso aziende più piccole e decentramento verso il lavoro a domicilio hanno indebolito la posizione negoziale dei lavoratori. Dagli anni Ottanta, „l’arma miracolosa“ (p. 111) contro la recessione economica è stata la flessibilità. Una marea di nuove forme contrattuali, come i contratti di formazione, il lavoro a tempo parziale e a breve termine e gli stage, sono destinati a rivitalizzare il cosiddetto „mercato del lavoro rigido“ (ibid.). Benché la flessibilità simbolizza anche uno spirito in cui il lavoro a tempo pieno ha semplicemente perso il suo fascino. Le tendenze della flessibilizzazione si sono poi manifestate in ulteriori leggi negli anni Novanta, come il Pacchetto Treu del 1997 che introduce le agenzie di lavoro temporaneo e dei contratti di collaborazione continuativa. E solo sei anni dopo attraverso il job-on-call, il job-sharing e il lavoro accessorio nella legge Biagi. Nel corso del quarto e del quinto capitolo, Eloisa Betti affronta la precarietà come una condizione generale negli ultimi vent’anni che struttura e determina l’intera vita di coloro che ne sono colpiti. Livelli sconosciuti di autosfruttamento sotto forma di lavoro autonomo non retribuito come prerequisito per un successivo lavoro retribuito e il rapido aumento degli stagisti hanno cambiato il mondo del lavoro (p. 187). Inoltre, a causa dell’instabilità di molte aziende, si è diffuso un senso di precarietà, indipendentemente dalla situazione contrattuale personale. Crisi e precarietà sono diventati i frame principali dell’Italia post-2008, sulla base dei quali sono state applicate varie restrizioni nel diritto del lavoro, nella protezione contro il licenziamento e nelle prestazioni pensionistiche. Però la precarietà è diventata anche, basata su Guy Standing, centrale per una nuova organizzazione del „precario come classe“ (p. 206). Eloisa Betti richiama ripetutamente l’attenzione dei lettori sul ruolo delle donne in relazione alla precarietà. La sua lettura femminista mostra che la svalutazione delle aree di lavoro „femminili“ è evidente attraverso i decenni, ma anche che era costantemente presente il rifiuto di agire come forza lavoro di riserva, la quale non solo deprime i salari, ma ha soprattutto lo scopo di ammortizzare le fluttuazioni economiche. Rimane comunque una lacuna: la connessione tra migrazione e precarietà è quasi assente. I migranti compaiono solo in sei pagine e soltanto quando si parla dell’emigrazione a seguito della crisi del 2008 (pp. 197–200) e l’impiego illegale di migranti africani nell’agricoltura (pp. 211–213). Un collegamento tra i due temi sarebbe già proficuo negli anni ’60 e ’70 quando, tra i Gastarbeiterinnen e Gastarbeiter (lavoratori stranieri), il lavoro precario italiano e tedesco si intrecciavano. Nondimeno anche la precarizzazione multipla e intersezionale degli immigranti, che differisce dalla precarietà di coloro che hanno uno status di residenza permanente, rimane un argomento poco studiato. Nondimeno, lo studio di Eloisa Betti rappresenta un importante contributo alla storia del lavoro dalla fondazione della Repubblica Italiana. Il suo lavoro è un ottimo esempio di una sociologia giuridica che prende sul serio i discorsi sociali e traccia con attenzione come gli sviluppi economici e la loro costruzione di significato pubblico-discorsivo si traducano in leggi e come queste, a loro volta, strutturino l’economia.+TABRE+Francesca Barp
Giuliano Turone, Geheimsache Italien: Politik – Geld – Verbrechen, Wiesbaden (S. Marix. Verlagshaus Römerweg GmbH) 2023, 416 S., ISBN 978-3-7374-1205-6, € 29,90.
Im Frühjahr 2021 trug die wöchentliche Freitagsbeilage der italienischen Tageszeitung „La Repubblica“ den ominösen Titel „Loggia continua“. Das Erbe der Freimaurerloge „Propaganda 2“, zentrales Element eines der verworrensten und dunkelsten Kapitel der jüngsten italienischen Geschichte, schlussfolgerte hier die Journalistin und ehemalige Abgeordnete Sandra Bonsanti, bestehe noch heute fort, rund acht Jahre nach Licio Gellis Tod. Dies sei vor allem auf die unzähligen ungeklärten Umstände zurückzuführen, die noch heute die P2, ihre Mitglieder und Opfer umgäben. Dies ist keineswegs eine Neuigkeit, vielmehr ein Problem, mit dem sich nicht nur die breite Öffentlichkeit, sondern vor allem die italienische Justiz seit jenem schicksalhaftem Tag, dem 17. März 1981, an dem die Mailänder Finanzpolizei die berüchtigte Liste der P2-Mitglieder in einem unscheinbaren Büro des Unternehmens für Herrenbekleidung „Giole“ aufstöberte, konfrontiert sieht. Davon schrieb bereits 1984 Tina Anselmi in dem Abschlussbericht der unter ihrer Leitung stehenden parlamentarischen Kommission zur P2. Der Untersuchungsgegenstand, sprich die Verästelungen, Verzweigungen und Reichweite des P2-Netzwerks und seiner führenden Mitglieder, so Anselmi, betreffe „nicht nur die verschiedensten Bereiche des nationalen Alltags“ und weise dabei „Überschneidungen mit anderen parlamentarischen Ermittlungen auf“, sondern erstrecke sich außerdem „über einen mehr als zehnjährigen Zeitraum“. Die retrospektive Rekonstruktion der Umstände und Ereignisse, die an die Figur des ehemaligen Faschisten und Unternehmers Licio Gelli und die von ihm dominierte P2 gebunden waren, stellten damals selbst für die Mitglieder des Parlamentsausschusses eine scheinbar kaum zu bewältigende Herausforderung dar. Viele Fragen blieben unbeantwortet, Gelli flüchtete in die Schweiz. Auslieferungsbemühungen und Gerichtsprozesse folgten, doch viele der so heiß ersehnten Antworten nahm der Maestro venerabile 2015 mit ins Grab. Auch die Leserinnen und Leser von Giuliano Turones Buch „Geheimsache Italien. Politik, Geld, Verbrechen“, das nun erstmals auf Deutsch bei S. Marix (Verlagshaus Roemerweg) vorliegt und in Italien in Zweitauflage unter dem Titel „Italia occulta“ erschienen ist, werden sich jenes Gefühls der Unvollständigkeit und der Unbefriedigung nicht wirklich entledigen können, das bereits Tina Anselmi zu Beginn der 1980er Jahre heimsuchte. Dies ist jedoch sicherlich nicht auf einen Mangel an Bereitschaft zur akribischen Arbeit seitens Turone zurückzuführen. Auf über 400 Seiten rekonstruiert der emeritierte Richter des Mailänder Kassationsgerichtshofs, der selbst maßgeblich zur Entdeckung des P2-Netwerks und den darauffolgenden Ermittlungen beigetragen hat, minuziös anhand unzähliger Unterlagen aus Prozessakten und Untersuchungsberichten die dramatischen Vorgänge, die Italien in den sogenannten „bleiernen Jahren“ erlebte, von der Entdeckung des P2-Netzwerkes und dessen Verbindungen in die höchsten Sphären der italienischen Gesellschaft und Politik (Kapitel I) über die Entführung und Ermordung des Christdemokraten Aldo Moro (Kapitel II–IV) bis zur Kollusion Andreottis mit der sizilianischen Mafia (Kapitel VI–VII) und den rechtsterroristischen Anschlägen im Rahmen der sogenannten „Strategie der Spannung“ (Kapitel XIV–XIX). Die Verästelungen der an Gelli gebundenen P2 stellen hierbei stets den roten Faden der Analyse dar. Letztere wird den Anforderungen der historischen Methodik jedoch nicht wirklich gerecht, denn Turone bleibt im Grunde durch und durch ein Richter: dies lässt nicht nur das unkommentierte Anführen von Quellen, wie im Fall seitenlanger, in keiner Weise kritisch erläuterter Zeugenaussagen (u. a. S. 35–43, 193–197), sondern auch sein Fazit durchblicken, in dem er in einem Dante-Parallelismus Gelli als den „dreileibigen Wächter Geryon“ und Giulio Andreotti als „Luzifer selbst“ bezeichnet (S. 336). Und obgleich der Autor, wie im Fall der Ermordung Moros, die Existenz historiographischer Debatten durchaus zur Kenntnis nimmt (auf S. 62 spricht er „mehr oder weniger zugespitzte, selbst von renommierten Forschern für plausibel gehaltene Hypothesen“ an), fehlen in den Fußnoten jegliche Verweise hierzu. Den Leserinnen und Lesern wird schnell bewusst, dass dies einen guten Grund hat. Turone kennt die Ergebnisse der beschriebenen Ermittlungen bereits allzu gut, sein ‚Urteil‘ hat er schon vor dem Verfassen des Buchs gefällt. Zu bemängeln ist außerdem der Widerspruch zwischen der in der Einführung angekündigten Absicht Turones, „Geheimsache Italien“ der „jungen Generation“ widmen zu wollen, „ohne die Kenntnisse besonderer Umstände vorauszusetzen“ (S. 25), einerseits, und der zur Unübersichtlichkeit neigenden, oft unzureichend in den historischen Kontext eingebetteten Darstellung andererseits. So werden die Leserinnen und Leser beispielsweise in einer Passage zu Carlo Alberto Dalla Chiesas erstem Sizilien-Einsatz in den 1940er Jahren regelrecht mit unnötigen Details überflutet: insgesamt zwölf Namen auf knapp eineinhalb Seiten führt Turone hier an (S. 68 f.). Als passende Lektüre für ein junges Publikum ohne Vorkenntnisse, insbesondere des deutschsprachigen Raums, kann das Buch somit kaum gelten. „Geheimsache Italien“ ist ohne Zweifel ein spannendes Buch; dennoch, obgleich an verschiedenen Stellen jüngste justizielle Erkenntnisse (z. B. im Fall Gilberto Cavalli und der Ermordung von Piersanti Mattarella, S. 213–225) angeführt werden, zeichnet es ein grundlegender Neuigkeitswert nicht aus. Und auch wenn die zahlreichen juristischen Quellen von Interesse für die Geschichtswissenschaft sein mögen, liefert Turone – sicherlich unbeabsichtigt – mit seinem Buch eine weitere Antwort auf die Frage, warum sich nur wenige Historikerinnen bzw. Historiker auf dieses rutschige Terrain, sprich die detaillierte Rekonstruktion der Involvierung der P2, Licio Gellis und Giulio Andreottis in die Vorfälle der italienischen „bleiernen Jahre“, gewagt haben und dieses Feld vielmehr vom Journalismus dominiert wird: die fortdauernde undurchsichtige Quellenlage, die unvollständigen Ermittlungen und das hohe politische Spannungspotential machen es für die geschichtswissenschaftliche Arbeit nach wie vor unattraktiv.+TABRE+Sarah Lias Ceide
Thomas Biebricher, Mitte/Rechts. Die internationale Krise des Konservatismus, Berlin (Suhrkamp Verlag) 2023, 638 S., ISBN 978-3-518-43099-6, € 30.
Come teorico politico, Thomas Biebricher ha recentemente attirato molta attenzione con libri sulla svolta intellettuale e morale nella Repubblica federale („Geistig-moralische Wende“, Berlino 2018), sullo sviluppo del neoliberismo (Stanford 2019) e sulla nascita dell’austerità (Londra 2017, curato insieme a Frieder Vogelmann). L’autore, con forte presenza nei media, insegna a Francoforte sul Meno dall’agosto 2022, ha pubblicato l’anno scorso un nuovo libro di oltre 600 pp. È dedicato all’erosione contemporanea del conservatorismo nelle democrazie occidentali. Qui, Biebricher trascende il suo precedente campo di attività nella misura in cui argomenta esplicitamente in modo comparativo e storico (pp. 60–65). In secondo luogo, seleziona tre casi – Italia, Francia e Gran Bretagna – raramente trattati monograficamente in questa combinazione. L’autore li utilizza per esplorare il motivo per cui il centro-destra ha sempre più fallito nel suo ruolo storico di contenere „il populismo di destra, la democrazia illiberale e l’autoritarismo“ a partire dagli anni Novanta (p. 16). La scelta dei casi è convincente, poiché la storia recente di tutti e tre – nonostante le diverse condizioni iniziali – è caratterizzata da „turbolenze“, nel corso delle quali il conservatorismo „perde la sua egemonia sullo spettro a destra del centro“ (p. 65). Poiché Biebricher è interessato a schemi tipici di un’erosione globale, processo che collega al „destino della democrazia liberale“ (p. 17) e di cui individua i segni anche nella Repubblica federale (pp. 587–610), la sua narrazione si inserisce in una lunga tradizione che cerca di comprendere gli sviluppi politici della Germania guardando al di là delle Alpi, del Reno e della Manica, leggendo l’Italia in particolare come un presagio federale repubblicano. Per realizzare questo ambizioso obiettivo, Biebricher deve prima sviluppare un concetto di conservatorismo (pp. 18–54), poi utilizzarlo per esplorare il materiale storico (Italia: pp. 71–218) e infine riassumere i suoi risultati (pp. 551–586). Va notato che l’autore si basa esclusivamente su fonti pubblicate, cioè letteratura secondaria e articoli di stampa, e include solo scritti selezionati nella bibliografia (pp. 611–626). Limitando così a priori il valore di novità empirica del libro, ne trasferisce la forza innovativa all’argomentazione teorica. Ciò è istruttivo quando Biebricher attribuisce una „tragedia“ interna al conservatorismo: la sua separazione tra quello che vale la pena preservare, perché ha una „naturalezza normativa“ (p. 29), e quella parte dell’esistenza che può tranquillamente passare, è problematica in quanto si basa su criteri di giudizio sfumati. Questo porta – e Biebricher riprende così il classico argomento di Karl Mannheim – i conservatori a non difendere „ciò che appartiene alle pratiche e alle convenzioni indiscusse della vita quotidiana, ma piuttosto ciò che ha già perso questo status e … è concretamente in pericolo nella sua esistenza“ (pp. 30 sg.). Il tentativo di conservare quello che si sta trasformando, per lo più senza speranza, si traduce spesso in sconfitte, che consentirebbero tre reazioni conservatrici: „fatalismo e laconicità“ (p. 33), la „richiesta di ‚buon umore e compostezza‘“ dello storico tedesco Andreas Rödder (p. 34) e infine, nella misura in cui l’autodisciplina fallisce, „autoritarismo“ (p. 49). Biebricher identifica quest’ultima variante come il pericolo centrale delle democrazie liberali: qui emergerebbe un volontarismo brutalizzato, che trasformerebbe il conservatorismo nel suo opposto, nella misura in cui i suoi sostenitori vorrebbero ora „eliminare l’esistente da una prospettiva autoritaria“ per „creare ‚cose che vale la pena preservare‘“ (p. 50). In Italia, questo processo di erosione è iniziato con la transizione alla Seconda Repubblica. Dopo che Silvio Berlusconi ha de-demonizzato Alleanza Nazionale, quest’ultima ha adottato un „profilo socialmente conservatore“ e ha utilizzato schemi di legittimazione religiosa (pp. 120 sg.). In seguito, con la Casa della Libertà, si stabilì un „continuum tra il centro-destra e la frangia di destra“ (p. 161), che inizialmente sortiva l’effetto di contenere gli elementi autoritari. Tuttavia, quando il nuovo partito PdL è crollato durante la crisi dell’euro, è emersa una nuova forza politica sotto forma di Fratelli d’Italia, che non privilegiava né il fatalismo né la serenità, ma piuttosto la terza opzione, quella autoritaria. Biebricher ne delinea poi l’ascesa nella scia di Matteo Salvini e del governo tecnocratico di Mario Draghi (pp. 202–209). La sua diagnosi, sulla linea di Gianfranco Pasquino, è che in Italia si sono effettivamente formati dei „sistemi volatili, ad ampio respiro“, che „servivano all’esistenza della democrazia liberale molto meglio“ della sterile stabilità che i tedeschi di solito favoriscono (p. 215). Da allora, tuttavia, questi sistemi sono diventati sempre più destabilizzati, poiché il potere si è spostato all’interno della destra parlamentare. Un sistema partitico in crisi e lo spostamento del baricentro a destra avevano spinto i „rappresentanti del conservatorismo moderato in un’esistenza di nicchia …, mentre le forze autoritarie avevano chiaramente guadagnato l’egemonia sullo spettro politico a destra del centro“ (p. 218). Non si tratta di una novità in termini empirici ed è stata spiegata più dettagliatamente da altri autori – e l’autore non tenta mai di fingere il contrario –, ma ciò che è più interessante sono le conclusioni normative che Biebricher trae dalle sue analisi. Da una prospettiva tedesca, lui vede il caso italiano come un „punto di riferimento virtualmente centrale“ perché „molti sviluppi hanno luogo qui molto prima che in altri contesti“. Quindi, il „paese ha un modello ideale“ (pp. 555 sg.), anche per la Germania. Allora questo la dice lunga anche sull’immagine dell’Italia presso le élite tedesche, che probabilmente hanno letto parte del libro (ci sono state molte recensioni su vari quotidiani e altre riviste): Nonostante tutte le „anomalie“ che segnano importanti differenze tra i paesi a nord e a sud delle Alpi, temono che la Repubblica Federale si stia mettendo al passo con gli sviluppi in Italia, che si tratti di partiti, individui carismatici, l’immagine di nemici onnipresenti, euroscetticismo o lotte culturali (pp. 561–586). Guardare all’Italia sembra insegnare loro – a ragione o meno – a non meravigliarsi più, ma a spaventarsi. Però almeno stanno ancora guardando.+TABRE+Lars Döpking
Davide Vampa, Brothers of Italy. A New Populist Wave in an Unstable Party System, London (Palgrave Macmillan) 2023, 143 S., ISBN 978-3-031-26131-2, € 42,19.
David Vampas schmales Büchlein ragt nicht unbedingt aus dem Meer der Veröffentlichungen heraus, die zurzeit den fortgesetzten Erfolg der Fratelli d’Italia (FdI) kommentieren. Jedoch gibt der in Birmingham lehrende Autor einen fundierten Einblick in die Ideologie, Parteiorganisation, Machtstellung, Wählerschaft und Regierungspraxis der seit 2022 in Rom regierenden Postfaschisten. Seinen Ansatz zeichnen dabei drei Qualitäten aus: Einerseits pflegt der Autor einen angenehm-unaufgeregten Stil. Andererseits ordnet er mit vielen Verweisen seine Beobachtungen in das breite Literaturfeld ein. Schließlich vergleicht er die FdI systematisch mit anderen Parteien in Italien und Westeuropa und begreift sie zugleich als werdend: Auf statische Zuschreibungen verzichtet er konsequent. Seine Einleitung historisiert daher zunächst das Phänomen und rekonstruiert die Transmutationen der italienischen Rechten anhand klarer Schaubilder (S. 6). Ferner betont sie die Rolle Italiens für ein theoretisches Verständnis der zentrifugalen Kräfte, die liberale Demokratien unlängst erfasst hätten (S. 10). Das zweite Kapitel systematisiert sodann die ideologischen Positionen der FdI. Vampa argumentiert, dass „Nativismus“ und „Autoritarismus“ ihren Wesenskern ausmachen, der erst jüngst durch „Populismus“ ergänzt worden sei. Ein womöglich kurzweiliges Manöver, schließlich stehe dieser im Widerspruch zum dominanten Bezug auf traditionelle Normen und der Forderung nach ihrer strikten Geltendmachung. Zugleich erlaube er aber, diese Normen als „Willen des Volkes“ zu präsentieren und so zu popularisieren. „Souveränismus“ hebe als eigenständiger, vierter Aspekt diese Ausrichtung schließlich auf die internationale Ebene und unterfüttere dort das „Primat des nationalen Interesses“ (S. 16 f.). Der Autor ordnet sodann konkrete Inhalte in seine Systematik ein, die er Parteiprogrammen und der Einschätzung anderer Experten entnimmt. Er kann damit belegen, dass die FdI zwar populistischer wurde, um die Wählergunst zu erobern, sich aber gerade wirtschaftspolitisch von anderen rechten Kräften in Italien und Europa unterscheidet. Hier zeige sich das „soziale und etatistische Erbe“ des MSI (S. 22), welches Vampa ebendort eingehend rekonstruiert (S. 26–33). Er resümiert, dass die eigentümliche Präferenz für „Staatsintervention, Protektionismus und Zentralismus“ ein genuines Merkmal der FdI sei. Jener Zentralismus spiegele sich auch in ihrer Organisationsstruktur wider, die das dritte Kapitel untersucht. Gemeinsam mit einem ausgeprägten „Präsidentialismus“ trage dieser dafür Sorge, dass Giorgia Meloni die Partei seit ihrer Gründung auch intern persönlich dominiere. Bemerkenswert ist dabei u. a. Vampas Hinweis, dass bereits 2021 über 200 000 italienische Steuerzahlerinnen die FdI mit dem due per mille ai partiti fiskalisch unterstützten und den Bärenanteil des Parteibudgets stemmten (S. 47). Daneben vergleicht der Autor ebendort die Popularität italienischer Politiker sowie die Größe ihrer Anhängerschaft in den sozialen Netzwerken – ein nicht zu vernachlässigender Faktor, wollen Machtzuwächse erklärt werden (S. 53). Das vierte Kapitel fokussiert die Position der FdI als negativ integriertes Element des Parteiensystems. Sie hätte sich nach ihrer Gründung zunächst vom Zentrum entfernt, um sich später während der „konsensualen Technokratie“ (S. 70) Mario Draghis als Alternative zu präsentieren und sich schließlich wieder als zentristische Kraft aufzutreten. Vampa schildert eingehend den Wandel der Machtverhältnisse im rechten Lager und zeigt, mit welch fataler Verzögerung die Linke auf den Aufstieg der FdI reagierte. Im Ergebnis seien sie heute ein integraler Bestandteil eines Parteiensystems, das sie zugleich unablässig destabilisierten. Wie sie aus dieser Position die Mehrheit der Wählerinnen überzeugen konnte, schildert das fünfte Kapitel. Entlang der Fragen „Wo“, „Wie“ und „Wer“ führt Vampa den „kometenhaften Aufstieg“ (S. 82) der Partei von 2 % auf 26 % der Stimmen in weniger als 10 Jahren, erstens, auf räumliche Faktoren zurück: Die FdI sei im Gegensatz zur MSI keine Partei des Südens mehr und nun zudem jenseits der großen Städte erfolgreich. Zweitens hätte sie primär die Stimmen des rechten Lagers kannibalisiert und kaum PD und M5S-Wählerinnen überzeugen können. Drittens seien Männer in der Wählerschaft der Fratelli trotz ihrer weiblichen Spitzenkandidatin und im Gegensatz zu den anderen rechten Parteien in Italien überrepräsentiert. Darüber hinaus bliebe festzuhalten, dass weiterhin über 50 % der Arbeiterinnen und Arbeiter rechts wählen (S. 96). Bezeichnenderweise glichen Parlamentsfraktion und Regierungsmannschaft der FdI ihrer Wählerschaft. Im sechsten Kapitel schildert Vampa, wie ihre „männlichen, älteren und weniger gebildeten“ (S. 105) Repräsentanten die Institutionen des demokratischen Staates führen. Der Autor schätzt die Lage dabei zurückhaltend ein: Trotz aller Novitäten – erster Wahlsieg einer Rechtsaußenpartei in Westeuropa, erste weibliche Premierministerin des Landes, ideologisch am weitesten rechts verortete Regierung in Italien seit dem Ende des Zweiten Weltkriegs (S. 111) – habe sie bisher eine moderate Haltung eingenommen. Im finalen Kapitel destilliert Vampa aus seinen Beobachtungen zehn Lektionen, die über den italienischen Fall hinausreichen. So kehrt er etwa die Rolle subnationaler Dynamiken, transnationaler Kooperationen oder die Führungsrolle von Frauen in „Männerparteien“ (S. 128) heraus. Insgesamt hat Vampa damit ein klar gegliedertes, sachliches und überaus informatives Werk vorgelegt, dass in der weiteren Forschung seine Leserschaft finden wird – nicht zuletzt, um die politische Avantgarderolle Italiens besser zu verstehen.+TABRE+Lars Döpking
Mario Pianta (a cura di), Lʼinflazione in Italia. Cause, conseguenze, politiche, Roma (Carocci) 2023 (Biblioteca di testi e studi 1569), 136 pp., ISBN 978-88-290-2154-3, € 15.
Nonostante la diminuzione del tasso dʼinflazione in Europa e lʼorientamento del dibattito politico su altre tematiche, è cruciale comprendere il fenomeno dellʼinflazione, specialmente in contesti come lʼItalia, dove i salari sono fermi da molti anni mentre i costi della vita aumentano rapidamente. Il metodo utilizzato per calcolare il tasso dʼinteresse, che consiste nel confrontarlo con lʼanno precedente caratterizzato da un indice già più elevato, non riflette necessariamente una diminuzione effettiva dei prezzi, ma piuttosto una diminuzione relativa. La raccolta „L’inflazione in Italia. Cause, conseguenze, politiche“, curata da Mario Pianta, fornisce una panoramica accessibile dei processi sociali e politici che contribuiscono a questo fenomeno, spesso spiegato in termini puramente monetari, evidenziando la differenza tra la quantità di denaro in circolazione e la scarsità di beni. A differenza delle spiegazioni economiche tradizionali che attribuiscono alla banca centrale il ruolo principale nellʼinnesco e nella risoluzione dellʼinflazione, questa raccolta propone punti di vista completamente diversi. Attraverso sei capitoli, vengono esaminati vari fattori relativi allʼaumento generale dei prezzi: i conflitti distributivi, le cause dellʼinflazione nellʼanno 2023 (come ad esempio lʼincremento dei prezzi nel settore energetico e la sua dispersione nell’economia), le conseguenze dellʼinflazione e il suo impatto differenziato su diversi gruppi sociali, la contrattazione collettiva dei salari dal 1945 ad oggi, le politiche che influenzano la trasmissione dellʼinflazione e un confronto storico con gli anni Settanta e Ottanta, evidenziando la connessione tra inflazione e finanza. Questa selezione di argomenti consente una comprensione più approfondita dellʼinflazione, affrontandola principalmente come un fenomeno sociale e consentendo unʼanalisi su più livelli, sia quantitativi che storici, anche mediante lʼutilizzo di modelli di simulazione. Il filo conduttore che si ritrova costantemente in tutti questi capitoli è lʼenfasi sullʼinflazione come processo distributivo. Questo processo inizia con la sua origine, che può derivare, ad esempio, dallʼaumento dei profitti o dei salari negoziati tramite contrattazione collettiva, e si estende alle sue conseguenze. Diverse categorie di individui destinano una percentuale variabile dei loro redditi allʼacquisto di beni di consumo, i cui prezzi aumentano durante il processo inflazionistico. Lʼimpatto delle politiche volte a ridurre lʼinflazione, come ad esempio la limitazione dellʼaumento della domanda aggregata o dei profitti e dei salari, viene esaminato. Il primo capitolo prepara il terreno per le argomentazioni sviluppate nei capitoli successivi, introducendo concetti e aspetti della distribuzione in modo generale. Approfondisce inoltre la trasformazione dei modi di produzione nel contesto della globalizzazione, della digitalizzazione e della finanziarizzazione e il loro impatto sui prezzi. Secondo lʼautore, queste trasformazioni hanno favorito un aumento dei profitti per le aziende transnazionali e un conseguente incremento del valore nel settore finanziario, non rispecchiato da una crescita nellʼeconomia produttiva. La struttura del libro è particolarmente efficace, con ogni nuovo capitolo che amplia e completa le tematiche precedenti. Questa struttura può essere considerata quasi circolare, dato che lʼultimo capitolo ritorna alle tematiche distributive e al ruolo della finanza, già affrontate nel primo capitolo in maniera più generale, arricchendole con riferimenti storici. Tuttavia, un possibile svantaggio di questo approccio è la ripetitività, con alcuni capitoli che reintroducono argomenti e spiegano più volte la relazione tra inflazione e distribuzione. Allo stesso tempo, questa struttura consente al lettore di comprendere il testo anche aprendolo a caso. Sebbene il libro analizzi principalmente il contesto italiano e sia stato pubblicato in italiano, il suo ambito non si limita al pubblico italiano. Molti dei meccanismi di distribuzione discussi nel libro sono applicabili anche ad altri paesi europei e oltre. In tal senso, lʼItalia può essere vista come un caso estremo, che rende più evidenti i conflitti di interesse e i meccanismi di distribuzione, facilitandone lo studio e la comprensione. Pertanto, la raccolta di Mario Pianta rappresenta unʼeccellente introduzione a varie dinamiche economiche, trattate in modo interdisciplinare sotto il prisma dellʼinflazione, con una rilevanza che supera i confini geografici e tematici suggeriti dal titolo.+TABRE+Luca Kokol
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- Processi pontifici in partibus. La giurisdizione papale delegata nel XIII secolo: alcuni casi in Puglia
- Wofür und auf welche Weise Herzog Magnus II. von Mecklenburg 1487 von Papst Innozenz VIII. die Goldene Rose erhielt
- Una spia portoghese e la crociata all’indomani di Lepanto
- Die Korrespondenz des Kardinalnepoten Francesco Barberini mit P. Alessandro d’Ales, seinem Agenten am Kaiserhof (1634–1635)
- Konkurrenz um das kulturelle Gedächtnis?
- Il fascismo recensito
- Il rischio dei ‚Giusti‘
- „Die Steine zum Sprechen bringen“
- L’espansione del quadrante occidentale della Capitale negli anni Cinquanta e il complesso architettonico della Congregazione di Santa Croce oggi Istituto Storico Germanico di Roma
- Fantasma totalitario e democrazia blindata
- Per un catalogo delle opere di Luigi Nono, con „pochi dati e alcune idee vagabonde sulla diversa natura della ‚tradizione‘ delle opere di Nono in quanto ‚testo‘“ e una cronologia
- Forschungsberichte
- L’identità dello Stato beneventano
- Dall’edizione cartacea alla pubblicazione su piattaforma
- Tagungen des Instituts
- Administration in Times of Crisis. The Roman Papacy in the Great Western Schism
- Apparati, tecniche, oggetti dell’agire diplomatico (secc. XIV–XIX)
- Nuove prospettive di ricerca su stato di eccezione e di emergenza. Un dialogo italo-tedesco
- (De)Constructing Europe. Tensions of Europeanization
- Circolo Medievistico Romano
- Circolo Medievistico Romano 2023
- Rezensionen
- Verzeichnis der Rezensionen
- Leitrezensionen
- Ist das „Mittelalter“ am Ende?
- L’Italia dal Settecento a oggi: un Sonderweg?
- 1820 – Eine Weltkrise der politischen Souveränität?
- Allgemein, Mittelalter, Frühe Neuzeit, 19.–21. Jahrhundert
- Verzeichnis der Rezensentinnen und Rezensenten
- Register der in den Rezensionen genannten Autorinnen und Autoren
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