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Apparati, tecniche, oggetti dell’agire diplomatico (secc. XIV–XIX)

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Published/Copyright: November 22, 2024

Nei giorni 21 e 22 settembre 2023, presso il DHI di Roma, si è svolto un seminario relativo al progetto di ricerca dal titolo „Apparati, tecniche, oggetti dell’agire diplomatico (secc. XIV–XIX)“, primo appuntamento di un ciclo di incontri organizzato dai professori Alexander Koller (DHI Roma), Gérard Poumarède (Università Michel de Montaigne di Bordeaux) e Stefano Andretta (Università di Roma Tre). Il progetto – focalizzato sui temi della diplomazia e della figura dell’ambasciatore, osservati da una prospettiva multifocale e di lungo periodo che va dal Medioevo alla fine dell’Età moderna – mira a indagare dinamiche e aspetti più prosaici delle istituzioni diplomatiche allo scopo di fornire un contributo innovativo a questo fertile e complesso settore d’indagine storiografica. Nell’ultimo decennio, infatti, si è riscontrato un significativo rinnovamento degli studi riguardanti sia le origini e gli sviluppi della funzione diplomatica in senso lato, sia la fisionomia e le attività dei soggetti impegnati nelle relazioni internazionali.

Il progetto „Apparati, tecniche, oggetti dell’agire diplomatico (secc. XIV–XIX)“ si colloca proprio all’interno di questo stimolante dibattito storiografico, configurandosi come ulteriore approfondimento e sviluppo di precedenti piste di ricerca intraprese dagli organizzatori e da alcuni dei partecipanti al suddetto seminario. Il pioneristico volume „Paroles de négociateurs. L’entretien dans la pratique diplomatique de la fin du Moyen Âge à la fin du XIXe siècle“ (a cura di Stefano Andretta, Jean-Claude Waquet e Christian Windler, Roma 2010) incentrato sull’analisi delle polimorfiche modalità di svolgimento dell’incontro diplomatico che ha esaminato gli sviluppi della trattatistica sull’ambasciatore e il più recente contributo „Esperienza e diplomazia. Saperi, pratiche culturali e azione diplomatica nell’Età moderna (secc. XV–XVIII)“ (a cura di Stefano Andretta, Lucien Bély, A.lexander Koller e Géraud Poumarède, Roma 2020) – volto a indagare l’attività diplomatica in rapporto a competenze e interessi culturali degli stessi ambasciatori – costituiscono un insieme di studi collegati tra loro da un filo rosso che, dunque, si estende alla presente iniziativa, finalizzata non solo ad approfondire le conoscenze sulle dimensioni storicizzabili della diplomazia ma, soprattutto, ad aprire nuove prospettive e ipotesi di ricerca su questo articolato e fecondo terreno d’indagine.

L’intervento di apertura di Stefano Andretta („Tecnica e memoria del viaggio diplomatico“) è servito da collante per le relazioni delle due giornate inquadrando, sui piani teorico e metodologico, obiettivi e modalità operative del progetto seminariale in questione nonché fornendo un quadro dettagliato sulle attuali prospettive di studio dell’istituzione diplomatica in senso lato. Dopo queste premesse, utili per fissare le coordinate di lavoro, Andretta ha esaminato il tema relativo al viaggio degli ambasciatori esplicitando in che modo possa costituire un settore d’indagine storiografica indipendente rispetto alle riflessioni svolte dalla letteratura odeporica. Difatti, il viaggio, concepito come esperienza diplomatica, presenta una significativa continuità tra Età medievale e moderna di cui alcuni studi recenti hanno riscontrato elementi di lunga durata che spaziano, ad esempio, dal ricorrente tema delle difficoltà finanziarie, alle problematiche logistiche e di approvvigionamento, alla precarietà dei mezzi di trasporto, etc. Le fonti a disposizione per lo svolgimento di questo percorso di ricerca risultano essere molteplici ed eterogenee perché – oltre a documenti classici come i dispacci, le relazioni e i rari manuali pratici – emergono i diari, una risorsa preziosa che conferma il valore del viaggio quale prisma interpretativo dell’esperienza diplomatica.

„La difesa delle ambasciate. Alle origini degli addetti militari“ è il titolo della relazione tenuta da Giampiero Brunelli (Roma). In linea con la sua pregressa attività di studio, Brunelli analizza un tema pressoché assente nella trattatistica indagando il rapporto tra ambasceria e mondo militare per comprendere la genesi e l’implementazione del corpo armato preposto alla tutela dei diplomatici. La Repubblica di Venezia, attenta alla sicurezza dei propri rappresentanti già nel XIII secolo, si rivela essere un caso peculiare rispetto al panorama europeo della prima Età moderna come sottolinea, tra gli altri, Catherine Fletcher nel volume „Diplomacy in Renaissance Rome. The Rise of the Resident Ambassador“ (Cambridge 2015). Presentando alcuni specifici casi di studio relativi a furti e incidenti in cui era coinvolto personale diplomatico mediceo, spagnolo e francese, Brunelli sottolinea sia la porosità tra dimensione interna ed esterna delle residenze degli ambasciatori – realtà molto più permeabili di quanto si possa credere – sia la tendenza dei diplomatici stessi ad arruolare guardie o, soprattutto, ad armare la propria familia principalmente a fronte di necessità immediate, come attestano, anche, i noti fatti verificatisi a Roma nell’agosto del 1662, quando la guardia corsa si era scontrata con la familia dell’ambasciatore francese Carlo III duca di Créquy incrinando pericolosamente i rapporti tra Luigi XIV e papa Chigi. Ancora in piena Età moderna, dunque, le spese per i costi militari dell’istituzione diplomatica risultano di rado sostenute dalle corti europee costringendo i propri rappresentanti ad appoggiarsi sul loro seguito, sempre più inteso e percepito come estensione della persona stessa dell’ambasciatore.

Carlo Campitelli (Roma) si è occupato di esaminare le difficoltà materiali e personali che i diplomatici si trovano ad affrontare quando la città in cui risiedono subisce un assedio. Il caso di studio presentato dallo storico – intitolato „Difficoltà, espedienti ed aspetti pratici della missione di un ambasciatore veneziano a Firenze durante l’assedio della Repubblica (1529–1530)“ – riguarda l’ambasciata svolta dal veneziano Carlo Cappello a Firenze tra il 1529 e il 1530 quando il Cappello fu l’unico rappresentante di uno Stato estero a rimanere in città durante l’offensiva mossa dal fronte asburgico-pontificio per rovesciare il governo repubblicano e restaurare l’autorità medicea. Quello analizzato da Campitelli costituisce un caso peculiare non soltanto per i fatti che hanno visto protagonista il nobile veneziano ma, anche, per quanto riguarda le stesse fonti di studio dell’istituzione diplomatica, poiché sono piuttosto rare le testimonianze dirette lasciate da ambasciatori costretti a vivere un assedio durante la loro missione. La determinazione manifestata da Carlo Cappello – nel voler rimanere a Firenze per i dieci lunghi mesi di svolgimento delle operazioni militari – è espressione sia della volontà personale del rappresentante veneto, che sfruttò questo incarico come trampolino di lancio della sua carriera politico-diplomatica, sia degli interessi geopolitici della Serenissima, preoccupata dall’affermarsi dell’egemonia di Carlo V sulla penisola. Dalla corrispondenza di Cappello emerge un quadro dettagliato delle criticità che il diplomatico si trovò a gestire rappresentate, in primo luogo, dalle comunicazioni con la Repubblica di San Marco, rese difficoltose a causa del controllo nemico di strade e sentieri. L’azione del veneziano, tuttavia, non si limitò a trovare soluzioni ingegnose per informare il doge e il Senato ma, come evidenziato da Campitelli, si esplicitò, altresì, nel supporto tattico e materiale fornito agli assediati che, a loro volta, dimostrarono stima nei confronti di Carlo Cappello invitandolo ai consigli cittadini anche dopo la rottura dei rapporti tra Firenze e Venezia. Una ulteriore nota di interesse è rappresentata dall’osservazione degli ingenti costi personalmente sostenuti dal Cappello tanto per lo svolgimento del suo incarico ufficiale quanto per soddisfare interessi e passioni personali, come quella per i cavalli.

Angela De Maria (San Marino/Bordeaux) ha chiuso la prima sessione di interventi occupandosi del frastagliato tema riguardante la rete dei collaboratori segreti utilizzati dalla diplomazia europea a Costantinopoli, come specificato dal titolo della sua relazione: „Dragomanni, medici, religiosi, consoli e mercanti. La rete ‚confidenzialeʻ degli ambasciatori europei a Costantinopoli (secc. XVII–XVIII)“. Il principale caso preso in esame dalla storica concerne la figura dei dragomanni, una categoria sociale composita che presenta stretti legami con la professione medica e precise caratteristiche. De Maria si è concentrata sull’analisi della famiglia Timone, di origine genovese e saldamente insediata presso la Sublime Porta, sottolineando quanto e come il radicamento nel tessuto sociale ottomano, l’appartenenza a specifiche categorie professionali – principalmente medica e mercantile – e la conoscenza di diverse lingue fossero fattori chiave nell’approdo all’attività di spia o collaboratore per i diplomatici europei. Si riscontra, infatti, la presenza di tradizioni familiari che agevolano, in linea generazionale, la carriera di agente al servizio di differenti corti e signori a tal punto che si può parlare di vere e proprie dinastie nelle quali la duplice professione di medico e di dragomanno si eredita di padre in figlio. Anche i mercanti rappresentavano una risorsa preziosa a disposizione delle corti euro-cristiane ed erano principalmente adoperati come informatori dei diplomatici o, talvolta, insigniti del titolo consolare, pratica frequente da parte veneziana. La figura del mercante, quindi, costituiva un nodo nevralgico per la circolazione verbale e materiale di informazioni e presentava caratteristiche funzionali allo svolgimento di molteplici incarichi al servizio degli apparati diplomatici, come testimonia il caso, osservato da Angela De Maria, di alcune famiglie marsigliesi radicate a Costantinopoli e dedite all’attività mercantile e dragomannale. Clientelismo, fedeltà e plurilinguismo erano i connotati strutturali di queste categorie sociali poste a cavallo tra Europa cristiana e mondo islamico-ottomano e tali tratti venivano preservati e incentivati anche attraverso precise scelte matrimoniali che avevano favorito l’intreccio fra popolazioni e realtà socioculturali differenti.

La relazione di Camille Desenclos (Amiens) „La cryptographie, langue universelle de la diplomatie?“ ha aperto i lavori pomeridiani analizzando un aspetto tecnico relativo all’istituzione e all’attività diplomatiche. L’intervento, presentato come una proposta di ricerca, ha evidenziato in che modo e a quale livello lo sviluppo dei sistemi criptografici sia proceduto parallelamente all’evoluzione dei diversi apparati diplomatici tra XV e XVI secolo. Il ricorso alla crittografia, difatti, risulta sistematico sia da parte di agenti e rappresentanti ordinari e straordinari sia ad opera delle varie cancellerie europee che si impegnano nell’ideazione di molteplici codici di comunicazione cifrata nonché nella realizzazione di tavole per la decriptura e cifratura. Accanto agli usi politico-diplomatici, dunque statuali, della crittografia, Desenclos osserva che vi sono vari casi di ricorso a linguaggi criptografici per esigenze private o, addirittura di tipo culturale, come dimostra l’analisi effettuata su numerose comunicazioni cifrate relative alla Francia del Cinquecento e Seicento. Il perfezionamento delle pratiche di crittografia e decriptura si è mantenuto costante per tutta l’Età moderna confermando il loro stretto rapporto con lo sfaccettato sistema dell’attività diplomatica e i suoi frastagliati sviluppi.

„Gli impegni di ‚spesaʻ del nunzio Graziani: soldati, armi e reliquari nel carteggio veneziano (1596–1598)“ è il titolo dell’intervento di Marcella Marsili (Roma) che si è occupata di esaminare il ruolo e l’attività svolti da Antonio Maria Graziani in qualità di nunzio ordinario a Venezia. Nello specifico, l’operato di Graziani – la cui carriera ecclesiastica era debitrice della protezione ricevuta dal cardinale Giovanni Francesco Commendone – viene esaminato in rapporto a due momenti centrali del pontificato Aldobrandini: la devoluzione di Ferrara, in seguito alla morte di Alfonso II d’Este, e la guerra contro i turchi in corso nei territori ungheresi. Su questo duplice e critico fronte, il nunzio si trova impegnato in prima linea per realizzare gli obiettivi della politica perseguita da Clemente VIII, dimostrando competenza e ingegno nel fronteggiare le diverse criticità in cui erano incorsi i propositi papali. L’analisi di Marcella Marsili evidenzia come il Graziani si fosse mosso lungo molteplici canali ufficiali e ufficiosi, ad esempio, per sopperire alla carenza di armi che affliggeva le truppe pontificie, ricorrendo persino al contrabbando, o, ancora, per consentire lo spostamento di soldati dal fronte ungherese alla penisola italiana, dimostrando abilità nell’interazione con il tessuto sociopolitico veneziano. Gli sforzi del nunzio, tuttavia, non erano diretti soltanto a tutelare gli interessi della politica estera di Roma ma, anche, a soddisfare esigenze personali dei suoi superiori, come verificatosi durante l’insediamento a Ferrara del cardinale Pietro Aldobrandini. Per il legato a latere di Clemente VIII, infatti, Graziani si era occupato, tra le altre cose, degli arredamenti della sua residenza, dell’approvvigionamento alimentare e dell’acquisto di cristalli di rocca e reliquie. Un ultimo aspetto significativo, messo in evidenza da Marcella Marsili, riguarda le fonti adoperate per questo studio, basate su documentazione in buona parte inedita custodita presso il ricchissimo archivio della famiglia Graziani, trasferito a Vada dal 1996.

L’intervento di Ivan Parisi (Valencia), intitolato „L’uso dei sistemi cifrati nelle corrispondenze diplomatiche della fine del XV secolo“, entra nel vivo di aspetti pratici e tecnici dell’attività diplomatica approfondendo il tema del linguaggio cifrato di cui aveva trattato Camille Desenclos. Parisi ripercorre genesi ed evoluzione della crittografia, antichissimo strumento di comunicazione, sottolineandone il successo senza precedenti ottenuto in età rinascimentale, soprattutto in Italia. È proprio in conseguenza delle complesse e conflittuali dinamiche politico-diplomatiche e militari vissute dalla penisola italiana tra fine Quattrocento e primo Cinquecento che le tecniche di cifratura e decriptura conoscono uno sviluppo senza precedenti. Osservando alcuni documenti manoscritti, Parisi esamina i vari sistemi di ideazione criptografica, dai modelli monoalfabetici a quelli polialfabetici, nonché i diversi cifrari corrispondenti mostrando per quali ragioni e in che modo le regole della cifratura mutassero all’interno delle cancellerie. Anche in questo ambito, la Repubblica di Venezia si dimostra all’avanguardia rispetto al panorama euro-cristiano, ricorrendo a complessi linguaggi crittografici già in pieno Medioevo e prevedendo che il proprio corpo diplomatico venisse istruito sulle tecniche di cifratura. L’Italia del XV secolo, dunque, si è dimostrata un laboratorio fondamentale per i successivi sviluppi della crittografia quale strumento essenziale dell’attività diplomatica a livello globale. Per questa ragione, conclude Ivan Parisi, è essenziale che la storiografia adotti una prospettiva d’indagine più sensibile nei confronti delle tecniche e dei linguaggi di cifratura.

Olivier Poncet (Paris), nella sua relazione „Les dépenses de l’abbé Giovanni Bandini, chargé d’affaires par intérim en France de 1598 à 1599“ si è concentrato su aspetti prosaici dell’istituzione diplomatica mostrando quanto e come la documentazione relativa alle nunziature apostoliche costituisca una fonte ampia e dettagliata per lo studio di una cultura materiale della diplomazia. Il caso specifico, preso in esame dallo storico, riguarda la reggenza della nunziatura di Francia affidata da Roma all’abate Giovanni Bandini dopo che il cardinal legato Alessandro de’ Medici, siglata la pace a Vervins, era rientrato in Italia. Bandini era stato proposto per questo incarico dallo stesso porporato di Casa Medici per ragioni di natura pratica: conosceva la lingua francese, era ben inserito negli ambienti della corte d’oltralpe, aveva dimostrato ingegno in diverse occasioni ed era fratello di un cardinale (Ottavio Bandini). Esaminando l’approccio adottato da Giovanni Bandini nello svolgimento delle mansioni affidategli dalla Curia, Poncet rileva quanto l’abate manifesti una tendenza crescente all’auto-esaltazione cercando di mostrarsi sempre più sfarzoso e munifico, come attestano le fonti indagate dallo storico, nello specifico la corrispondenza del Bandini e la relativa documentazione della Camera Apostolica. Difatti, la rendicontazione delle attività finanziarie, aggiornata dall’abate Bandini a cadenza giornaliera, riporta un fitto elenco di voci in cui le spese, ordinarie e straordinarie, sostenute in qualità di rappresentante pontificio sono alternate a quelle, non meno onerose, effettuate per soddisfare esigenze personali o bisogni non sempre necessari ai fini del proprio incarico. Il quadro analitico, tratteggiato da Olivier Poncet, oltre a esplicitare la passione di Giovanni Bandini per manoscritti, cavalli, carrozze lussuose, pietanze ricercate, etc., fornisce dati precisi sul rapporto tra attività diplomatica e ambizioni personali della figura dell’ambasciatore.

La giornata successiva, venerdì 22 settembre, è stata aperta da Renzo Sabbatini (Siena) con un intervento intitolato „Allestimento e dismissione della sede diplomatica lucchese a Madrid (1734–1738) e a Vienna (1751–1759) nelle carte private dell’ambasciatore Sardini“. Sabbatini ripercorre attività e problematiche della rappresentanza diplomatica svolta dal nobile lucchese Giovanni Battista Sardini a Madrid e a Vienna interrogando, in termini comparativi, carte ufficiali e, soprattutto, private del Sardini. Per queste missioni, infatti, risultano particolarmente interessanti, oltre ai dispacci, il diario tenuto dal Sardini e la sua corrispondenza con il fratello, una preziosissima fonte di informazioni che, per il caso viennese, copre l’intera durata dell’incarico fornendo uno sguardo più realistico sull’operato dell’ambasciatore. Ciò che emerge dallo studio di entrambe le missioni diplomatiche è l’attenzione quasi maniacale del lucchese verso i suoi beni materiali e l’insofferenza per la scarsità di fondi a disposizione, vero e proprio topos del mondo diplomatico. I registri di conto e gli inventari, puntualmente stilati da Sardini, offrono un quadro preciso dei bagagli, delle spese e del personale dell’ambasciatore lucchese che conduce uno stile di vita sfarzoso anche per ragioni di personale esaltazione sociale. Infine, Renzo Sabbatini, sottolineando la discrepanza tra la documentazione ufficiale e quella privata prodotta da Sardini, avvalora l’esigenza di sondare entrambe le tipologie di fonti al fine di poter svolgere uno studio preciso e dettagliato dell’istituzione diplomatica.

Pierre Saux-Escoubet (Paris) ha tenuto una relazione dal titolo „Venise, Rome et la mémoire d’Alexandre III: Une querelle gravée dans le marbre (1628–1644). Objets, symboles et actions diplomatiques d’une république parmi les princes“. In questo peculiare caso di studio, viene esaminato un contenzioso politico-diplomatico tra la Serenissima e la Sede Apostolica scaturito dalla presenza di un’iscrizione in marmo nella Sala Regia del Vaticano che comprometteva l’autorità giurisdizionale sul Mar Adriatico tradizionalmente rivendicata da Venezia sulla scorta del soggiorno di papa Alessandro III nella città lagunare, avvenuto nel 1177 dopo che i veneziani avevano sostenuto il pontefice contro l’imperatore Federico Barbarossa. Messa in pericolo nelle basi ideologiche della sua stessa identità statuale, la Repubblica di San Marco aveva reagito attivando la sua macchina diplomatica a Roma e avviando rigorose indagini documentarie per difendere la validità delle sue pretese. L’intervento di Saux-Escoubet, dunque, mostra in che modo e con quali esiti la dimensione della materialità possa pesare nella costruzione e nello sviluppo del discorso diplomatico influenzando persino i rapporti politici tra gli Stati di Età moderna.

Con un intervento dal titolo „Articolazione tra condizioni materiali e rappresentazione diplomatica del papato (metà del XVII secolo)“, Julien Régibeau (Liège/Roma) ha analizzato alcuni aspetti materiali della diplomazia romana nella prima metà del XVII secolo per comprenderne gli effetti e il valore simbolico rispetto all’attività di mediazione svolta dai rappresentanti pontifici stessi. Attraverso una prospettiva di comparazione, Régibeau esamina due casi significativi dell’azione diplomatica del Papato, cioè le paci di Vervins e di Münster, rapportandoli alla funzione di Pater communis, assunta dall’autorità petrina nel corso del XVI secolo, al fine di verificare in che modo e con quali esiti si espliciti e sviluppi l’attività pacificatrice del Papato nella prima Età moderna. Sottolineando la stretta connessione tra il ruolo di mediatore internazionale, rivendicato dai pontefici, e le condizioni materiali della sua applicazione, lo storico mostra come la figura del „padre comune“ si riveli articolata e flessibile declinandosi in una molteplicità di forme e simboli funzionali ai diversi contesti in cui interviene lungo un arco cronologico che va dal 1598 al 1648. Nel caso dei negoziati di Vervins, la posizione di equilibrio super partes assunta dal Papato è ben rappresentata dall’organizzazione degli spazi di mediazione diplomatica che trovano nella figura del legato pontificio Alessandro de’ Medici il loro asse centrale attorno al quale si strutturano le posizioni franco-spagnole. La centralità materiale del rappresentante pontificio esplicita il ruolo nevralgico svolto dal cardinal de’ Medici il cui successo nel disegno di pacificazione sigla il trionfo di Clemente VIII. Diversa è la situazione di Fabio Chigi il quale, durante i negoziati westfalici, è costretto a continue involuzioni diplomatiche e alla costante ricerca di soluzioni innovative, come l’affissione alle proprie finestre di slogan inneggianti alla pace, per ribadire l’autorità del pontefice Pater communis, pacificatore e guida della Cristianità.

„I familiari e la pace. Segreteria, uditore e maggiordomo della nunziatura papale al congresso di Nimega (1676–1679)“ è il titolo della relazione conclusiva delle due giornate seminariali. In questo intervento, Markus Laufs (Berlin) si è occupato di esaminare con quali modalità ed esiti alcuni membri della familia del nunzio Luigi Bevilacqua abbiano contributo alla realizzazione della delicata missione pontificia presso la città „eretica“ di Nimega. L’incarico affidato al nunzio straordinario da un pragmatico Innocenzo XI Odescalchi – che aveva dato priorità alla tutela del ruolo pontificio di Pater communis – aveva costituito uno dei momenti più complessi e delicati della storia politico-diplomatica del Papato. Analizzando la funzione e le attività concrete svolte da Agostino Pinchiari, Lorenzo Casoni e Paolo Merizzani – rispettivamente uditore, segretario e maestro di camera di Bevilacqua – Laufs cerca di evidenziare il significativo ruolo diplomatico avuto dai coadiutori del nunzio straordinario inviato, contro la sua volontà, nella calvinista città olandese da Innocenzo XI. Difatti, dall’analisi della documentazione emerge un quadro dettagliato di come e quanto i tre collaboratori del rappresentante pontificio fossero risultati indispensabili nelle relazioni e nelle attività diplomatiche riguardanti la mediazione papale, occupandosi dei pagamenti e dell’assunzione di personale, ad esempio, o arrivando persino a sostituire Luigi Bevilacqua in diversi incontri sia informali sia ufficiali. L’iniziativa, la competenza e la sinergia dimostrate dai familiares del nunzio straordinario, attestano la loro capacità di giocare un ruolo di primo piano nella delicata missione affidata da Roma a Luigi Bevilacqua e offrono una prospettiva più ampia e precisa attraverso la quale studiare fisionomia e funzionamento dell’istituzione diplomatica in Età moderna.

Published Online: 2024-11-22
Published in Print: 2024-11-18

© 2024 bei den Autorinnen und den Autoren, publiziert von De Gruyter.

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