Abstract
This essay publishes the preliminary findings of a study of the personal prelatures established in Rome between the seventeenth and eighteenth century by some cardinals belonging to the Genoese aristocracy. Of particular importance in this context are the Pallavicino and Spinola prelatures, respectively founded by cardinals Lazzaro Pallavicino (in 1679) and Gio. Battista Spinola ‚il giovane‘ (in 1707). These ecclesiastical positions were established by means of a bequest assigning a significant annual income (alongside the use of a prestigious residence, fully furnished and endowed with a library, in the case of the Spinola prelature) to the kinsman who in each generation showed most promise among those who had entered the clergy. Above all, Lazzaro and Gio. Battista desired the beneficiaries of the bequest to take up permanent residence at the Papal court, thereby establishing a firm connection between the family and the Curia. Personal prelatures thus appear to be a further part of the larger social, political, and cultural picture of the nationes in Rome. The Spinola prelature, in particular, responded to the more specific aim of establishing a Cardinal’s court as a site of diplomacy, with spaces suitable for socializing and political negotiation.
L’intento di queste pagine è rendere noti i primi esiti di una ricerca che specificamente concerne le prelature personali istituite a Roma, tra la fine del Seicento e l’inizio del secolo successivo, da alcuni porporati appartenenti alla nobiltà ‚vecchia‘ genovese – Spinola, Pallavicino – oppure esponenti di famiglie ‚nuove‘ che ormai vantavano legami di equivalente peso e intensità con la corte e con la Curia: Costaguta, Giustiniani.
Molti gli interrogativi che ancora circondano la nascita di queste istituzioni: un fenomeno del tutto inesplorato e ricco d’interesse, nel quadro dei rapporti politico-diplomatici, sociali ed economici tra la Repubblica di Genova e il Papato, ambito di ricerca che a sua volta risulta scarsamente frequentato.[1]
Questo caso di studio d’altro canto appare ottimamente predisposto a dialogare con un indirizzo ulteriore, dimostratosi invece molto prolifico e capace di garantire avanzamenti preziosi. Mi riferisco alla ricca messe di lavori sulla corte papale[2] e sul mosaico sociale, culturale e politico costituito dalle nationes di Roma.[3] Sappiamo che a partire dal secondo Quattrocento e almeno fino alla metà del Seicento il Papato perseguì „un progetto unitario“, finalizzato a „organizzare la presenza straniera … attraverso i collegi, gli ospedali, le chiese nazionali“; programma „che aveva un dichiarato segno religioso, ma evidenti ricaschi sul piano economico e culturale“; idea, insomma, di una „città policentrica“, costituita da una fitta „rete di ambasciate e di corti cardinalizie“.[4]
Sia pure con alcuni decenni di ritardo, le prelature personali in effetti divennero un tassello ulteriore di questo stesso mosaico. D’altra parte la comparsa di queste istituzioni nella Roma tardo-barocca sembrerebbe anzitutto rispondere alle specifiche necessità della Repubblica e del suo patriziato.
Il tuning point del 1644: il ‚partito della Repubblica‘ e le insegne di Genova sui palazzi dei cardinali
Andrea Spinola (1562?–1631), il più importante pensatore politico genovese d’età moderna, scrisse che i cardinali ‚nazionali‘ „non servon punto alla Republica, anzi la disservono … è pazzia creder che si possa aspettar buon servito da i nostri Cardinali“;[5] altre sue pagine giovano a chiarire l’assunto: „talvolta nuoce assai alla nostra Republica che li negoci publici siano trattati in Roma col mezzo de’ nostri prelati e cardinali. Perlopiù soglion esser immersi nelli interessi della corte et in molti, per il disegno de’ lor accrescimento, non ci è amor di patria che tenga“.[6] In altri termini Spinola, che ben conobbe Roma e la sua corte, si mantenne fedele alla tradizione repubblicana, convinto che ben meglio sarebbe stato „servirsi in Roma di alcun nostro cittadino, che fosse, come noi diciamo, di cappa corta e soggetto al nostro foro secolare“.[7] La prassi era appunto ben altra, è cioè „notissimo che i cardinali ‚della nazione‘ si occupavano spesso degli interessi politici …, facendo da intermediari presso il Pontefice e la Curia“,[8] e che „taluno assunse addirittura aspetto di agente del proprio governo“.[9]
Nel 1644, con la morte di Urbano VIII – con il tramonto dell’età barberiniana, stagione particolarmente prospera per i Genovesi[10] – questo quadro di rapporti ulteriormente mutò, crebbe cioè il peso politico complessivo dei ‚nazionali‘: „la Repubblica decise di non mandar più ambascerie collegiali di obbedienza“,[11] Roma, insomma, non fu più continuativamente „sede di un ambasciatore“ e „per gran parte del ’600“ i rappresentanti dei Collegi, furono semplici agenti o ministri residenti.[12] Genova, inoltre, non era sede di nunziatura (e saggio fu, nel parere di Andrea Spinola, non richiederne l’istituzione).[13] Sempre all’inizio del pontificato Pamphilj (1644–1655) venne meno anche la figura del cardinale protettore di nazione, bisognerà cioè attendere cinquant’anni (il 1695) per un nuovo incarico di protettorato.[14] Nel 1644 la delega a svolgere alcune funzioni proprie del protettore venne per l’esattezza affidata a monsignor Giacomo Franzone, non un cardinale, appunto (elevato alla porpora nel 1658), bensì il governatore di San Giovanni Battista, ospedale e confraternita dei Genovesi di Roma.[15] Nel settembre del 1645, mentre sfumava anche la candidatura di cardinal Virginio Orsini (titolare della Commenda genovese di San Giovanni di Pre’, nei confronti del quale la Repubblica aveva avuto „attentioni, e riguardi soliti a pratticarsi con Signori Cardinali nostri Patrizij“)[16], i Collegi chiesero ai prelati nazionali di collocare „le armi della Republica sopra la porta“[17] dei rispettivi palazzi romani. Monsignor Franzone aderì per primo.[18] Pochi anni più tardi, nell’aprile del 1651, Lazzaro Maria Doria, inviato straordinario dei Serenissimi, auspicò che i „Nationali“ costituissero quanto prima il „partito della Republica“, fazione cardinalizia tesa a sopperire alla mancanza di un protettore e a vigilare su San Giovanni Battista, nonché a „opperare … gran mutatione in questa Corte dell’estimatione … della Repubblica“: ad attivarsi „ne conclavi“ per „vantaggiare di gran longa la conditione“.[19]
La nascita delle prelature
Costaguta, Spinola e Pallavicino, famiglie che tutte si dotarono di una prelatura personale in Roma, significativamente espressero anche un considerevole numero di protettori di nazione e di governatori di San Giovanni Battista.[20] Particolarmente notevole il caso di Giulio Spinola, probabile promotore dell’omonima prelatura (istituita alcuni decenni più tardi dal nipote Gio. Battista), il quale fu governatore (1638–1643) e nel 1643 brevemente protettore supplente (proprio come, un anno più tardi, monsignor Franzone).[21] Lazzaro Pallavicino, fondatore della più antica fra queste istituzioni, fu a sua volta governatore di San Giovanni Battista (1649–1650).
La nascita di queste strutture, con particolare riferimento alle prelature che ebbero in dotazione spazi di rappresentanza, non riguarderebbe, dunque, solo il piano delle strategie familiari (l’utile derivante dall’avere un porporato ‚in casa‘); inoltre casati che erano già ben radicati a Roma e nello Stato pontificio, come dice la mole dei rispettivi investimenti immobiliari e finanziari. La temperie entro cui si colloca la comparsa di queste istituzioni non è insomma il florido Cinquecento, non corrisponde alla stagione che in assoluto fu più capace di attrarre i capitali genovesi.[22] In rapporto alle singole vicende familiari, la fondazione di una prelatura personale corrisponderebbe, semmai, a un grado di radicamento ulteriore.
Partendo dal piano storico-giuridico, quali le origini di queste istituzioni?[23] Il Concilio di Trento concepì le prelature personali „per provvedere a necessità concrete insorgenti sia a livello di Chiesa universale che di Chiese particolari“,[24] non si pose il problema della loro natura „né sotto l’aspetto teologico né sotto quello canonico“, non mirò a creare „degli organi giurisdizionali gerarchici paralleli alle diocesi“, fu al contrario attento a recepire quanto emergeva dalla stessa assemblea. Molti padri conciliari erano appunto contrari alla loro istituzione „temendo che potessero sorgere difficoltà di relazioni tra il clero incardinato in esse e gli Ordinari dei luoghi“.[25] Le disposizioni tridentine chiarirono che i presbiteri titolari di prelatura personale avrebbero dovuto esercitare il loro ministero „sempre all’interno di una diocesi e al servizio di questa“.[26] Il Concilio deliberò, in sostanza, la nascita di nuovi „organi amministrativi“ (concepiti per „incardinare del clero secolare, che abbia una formazione adatta, specialmente per iniziative apostoliche da attuarsi in condizioni difficili per l’evangelizzazione“) da non intendersi come chiese particolari dotate di propria giurisdizione,[27] tantomeno come benefici ecclesiastici.[28]
La nascita delle prime prelature personali in Roma, ad opera della nobiltà di seggio partenopea – ai Carafa spetterebbe il primato (prima metà del ’600),[29] segnalo inoltre il caso dei Caracciolo (1687)[30] e dei Ruffo (1738)[31] – attesta che alcune aristocrazie non tardarono ad assegnare ben altro valore a questo istituto, a immaginarlo sostanzialmente affine a un beneficio,[32] strettamente funzionale alla loro ascesa sociale e politica. Nel „Dizionario“ di Gaetano Moroni (XIX sec.) la definizione di prelatura personale è significativamente la seguente:
„diverse famiglie magnatizie per fondazione di qualche illustre individuo delle medesime posseggono prelature con apposite rendite, che sono del genere dei legati pii, ed inalienabili senza il beneplacito apostolico; le quali rendite si fruiscono da quel parente o altri, secondo le disposizioni dell’istitutore della prelatura, che viene nominato prelato. Il possessore di questa rendita domanda al Papa, che per la via di giustizia o di grazia sia annoverato fra i prelati. Alcune di queste istituzioni prescrivono che nella vacanza della prelatura le rendite si rinvestino in aumento de’ fondi della prelatura stessa, altre che siano godute dalla famiglia. Una delle ultime istituzioni di questo genere la fece Pio VIII.“[33]
L’atto di nascita di una prelatura personale era appunto un legato testamentario, mediante il quale un vescovo o un porporato trasmetteva una parte del suo patrimonio a un altro ecclesiastico, facente parte della sua più stretta parentela. Di generazione in generazione ne avrebbe beneficiato il consanguineo giudicato più idoneo, in base ai criteri fissati nell’atto istitutivo. Per questa strada una prelatura diventava strumento per garantire prestigio alla famiglia, per ancorarla saldamente ai vertici della Curia e preservarne il patrimonio: una ‚primogenitura in favore di un prelato di Casa‘,[34] in effetti, un istituto perpetuo, equivalente a un fedecommesso.
In questo quadro si colloca l’istituzione delle prelature ideate dai cardinali Lazzaro Pallavicino (1679), con ogni probabilità per il nipote Opizio,[35] e Gio. Battista Spinola ‚il giovane‘ (1719), per il nipote Carlo e quasi certamente in ottemperanza a quanto già diposto dallo zio, cardinale Giulio (1612–1691).[36] Sempre a cavallo tra Sei e Settecento vennero istituite anche le prelature dei Pamphilj-Pallavicino e dei Cibo, la prima per volontà di Flaminia Pamphilj-Pallavicino, cognata del suddetto cardinale Lazzaro,[37] la seconda ad opera di cardinal Alderano (1700 ca.), a favore del pronipote, futuro cardinale Camillo (1729), figlio di Carlo II Cibo Malaspina e di Teresa Pamphilj.[38] Istituzioni evidentemente accomunate anche dai vincoli di parentela ad esse sottesi.
Infine il caso delle prelature fondate dai Giustiniani – i quali, in richiamo alla figura di cardinal Benedetto (1554–1621), a tal fine costituirono un’ottima dotazione patrimoniale[39] – e dei Costaguta,[40] con molta probabilità attuatori delle disposizioni di cardinal Vincenzo (1612–1660).[41]
A fronte della documentazione individuata per lo studio delle prelature Pallavicino e Spinola, le fonti primarie di cui dispongo per le restanti sono ancora esigue. Mi soffermerò pertanto sulle prime due vicende, al fine di delineare i tratti essenziali (origine, sviluppi ed epilogo), ritenendole esemplificative di una più lata dinamica. Il legato dei Pallavicino ben rappresenta il caso di prelature che non ebbero una dotazione immobiliare, l’istituzione ideata dagli Spinola illustra invece il modello nettamente prevalente: quello di un prelato assegnatario di una rendita annua e a un tempo di cospicui beni ed ‚effetti‘. Una ricerca in itinere, torno a precisare, che ad oggi essenzialmente poggia su tre nuclei documentari: l’Archivio Spinola di Pellicceria di Genova, l’Archivio privato Pallavicino di Roma e il Fondo Rospigliosi dell’Archivio Apostolico Vaticano. Nei primi due casi, una documentazione sostanzialmente inesplorata; d’altro canto le unità archivistiche specificamente relative al tema in esame non sono numerose e consentono di ricostruire soprattutto il patrimonio, la contabilità e i contenziosi legali. Conseguentemente ne risulta un’immagine non solo ancora parziale, anche piuttosto statica. Questa ricerca si prefigge invece di giungere a ricostruire le vicende sociali e politiche che ruotarono attorno a tali strutture, specie nei casi di prelature che ebbero in dotazione spazi di rappresentanza. Sul piano documentario e metodologico, si tratterà pertanto di ultimare lo spoglio dei suddetti fondi archivistici (la cui consultazione non è agevole, i cui inventari sono molto sommari) a partire dall’esame dei carteggi e di eventuali memorie. Si tratterà quindi di far dialogare queste fonti con quelle relative alle altre prelature genovesi (le cui vicende patrimoniali, finanziarie e legali possono essere ricostruite grazie alla documentazione conservata presso l’Archivio storico del Fondo Edifici di Culto), oltreché con i fondi Archivio segreto, dell’Archivio di Stato di Genova (sezioni Lettere Cardinali e Lettere Ministri) e Segreteria di Stato, dell’Archivio Apostolico Vaticano (sezioni Particolari e Cardinali).
Arrivando pertanto al caso delle prelature Pallavicino e Spinola, chi furono i rispettivi promotori e quali le loro finalità? Quale la dotazione di queste istituzioni? Esse furono effettivamente in grado di svolgere il ruolo per il quale erano state concepite (qui limitatamente ai dichiarati intenti dei fondatori)?
La prelatura Pallavicino
Lazzaro Pallavicino, nato a Genova nel 1602, figlio del marchese Niccolò e nipote del doge Agostino (1637–1639),[42] si addottorò in utroque (1632)[43] e conseguì numerosi incarichi curiali.[44] In qualità di governatore di San Giovanni Battista de’ Genovesi (1648–1650), si adoperò per ovviare ai gravi „disordini“ di quell’ospedale, in sinergia con i diplomatici della Repubblica.[45] Elevato alla porpora da Clemente IX (1669), sebbene privo degli ordini minori,[46] ottenne da Clemente X (da lui sostenuto in conclave) il titolo di S. Maria in Aquiro (commutato in quello di S. Balbina, l’anno in cui divenne decano della Camera apostolica, 1677). Ricevette quindi sostanziose prebende e la nomina di legato a Bologna, accompagnata da ampli poteri.[47] Tornò a Roma nell’autunno del ’73, e nel ’76 partecipò al suo secondo conclave, ottenendo da Innocenzo XI ulteriori concessioni, fra cui quella di poter testare „in forma amplissima“[48] e „proseguire contratti di cambio della Casa Pallavicini“ (1679).[49] Pur a fronte dei suoi molti uffici curiali, Lazzaro in effetti mai smise di coadiuvare il fratello nelle lucrose attività da questi gestite: trasferitosi stabilmente a Roma (1669), Stefano Pallavicino fu agente della Repubblica[50] e da Roma condusse „una notevole attività bancaria, gestendo affari in diverse parti del mondo e lasciando alla sua morte (avvenuta nel 1687) la cospicua eredità di oltre due milioni di scudi“.[51] La stretta sinergia tra i due fratelli è testimoniata anche dall’acquisto dei feudi di Gallicano (già Ludovisi) e di San Cesareo (già Colonna), elevati a principato e assegnati in dote a Maria Camilla (1643–1710), figlia di Stefano, convolata a nozze con Gio. Battista Rospigliosi, nipote di Clemente IX (1670).[52] Un matrimonio frutto della tenacia di cardinal Lazzaro,[53] dichiaratamente intenzionato a „fondare un ramo della famiglia con sede a Roma, al quale affidare i suoi beni“.[54] Quale appunto il suo patrimonio? „Tenuto il più ricco signore di Roma“[55] – e la morte del nipote Niccolò (1679) avrebbe fatto ulteriormente lievitare le sue sostanze[56] – Lazzaro possedeva vasti e multiformi cespiti d’entrata,[57] numerosi immobili, pregiate e già famose collezioni d’arte.[58] Nella quadreria[59] si erano condensate passioni sue proprie (per la pittura romana e bolognese) o trasmessegli dal padre.[60] Dipinti raccolti in palazzo vecchio Barberini ai Giubbonari (la ‚Casa Grande‘), edificio acquistato da Stefano (1674) al solo fine di concederlo in uso al fratello. Ivi Lazzaro morì, il 21 aprile 1680, ivi prese accurate disposizioni per la sua „pingue“ eredità.[61] Un patrimonio che complessivamente superava il milione di scudi, in base alla stima post mortem,[62] pari a „1 253 000 scudi“ (con „l’annua rendita di 51 000 scudi“), in base a una stima ottocentesca.[63] Beni che Lazzaro vincolò quasi interamente al fedecommesso in favore di Niccolò, secondogenito della nipote Maria Camilla, „infante di anni tre“,[64] obbligandolo ad assumere cognome, stemma e titoli dei Pallavicino.[65] I „quadri della Galleria, essendo di mano di autori celebri“, essendo opere cui si legava l’identità e il prestigio del casato, furono invece „lasciati per commodo de’ chiamati nella sua Primogenitura“.[66] Non era di particolare pregio la ,libreria‘, costituita da 729 volumi, i quali non furono vincolati al fedecommesso, bensì trasmessi direttamente all’erede.[67]
Parte integrante delle disposizioni di Lazzaro era anche il legato istitutivo della prelatura Pallavicino in perpetuum, ideato in favore di „un Prelato della vera Casa, e sangue Pallavicino“, a beneficio del candidato che, di generazione in generazione, fosse parso il più idoneo, purché „addottorato unitamente in filosofia, Teologia, e Lege“ e con preferenza per i discendenti del nipote Simone.[68] Al prescelto sarebbero spettati „scudi mille l’Anno“ e nel caso in cui vi fosse stato „un Cardinale del vero sangue Pallavicino di Genova“, questi avrebbe ricevuto un vitalizio di valore doppio („scudi duemila l’anno“). Qualora vi fossero stati „nel medesimo tempo il Prelato, et il Cardinale, non si dia cosa alcuna al Prelato“, stabiliva Lazzaro, „ma soltanto al Cardinale … et il Prelato habbia li scudi mille, morto che sarà il Cardinale“.[69] I beneficiari dovevano inoltre essere nella condizione di dimorare stabilmente a Roma e, fra le righe, di rimanere in stretto contatto con il titolare della primogenitura, idealmente la sede di quest’ultima era insomma la dimora del patrono. I tesori di Lazzaro (dipinti, libri, mobili, argenti) infine confluirono nell’attuale Palazzo Pallavicino-Rospigliosi al Quirinale; Lazzaro così motivò il vincolo di residenza per i prelati pro tempore: „perché voglio che stiano a servire la Santa Sede Apostolica in Roma“, e precisò che il beneficiario non avrebbe potuto essere „né vescovo, né Arcivescovo, se non quando fosse, o fosse stato Nunzio Apostolico … che non havesse obligo di residenza fuori di Roma“.[70]
Il primo a conseguire „la nota Prelatura“ fu „monsignor Opizio Pallavicino“ (1632–1700),[71] protetto di Lazzaro a partire dai comuni anni bolognesi, quelli della laurea in utroque per Opizio.[72] Grazie al sostegno di Lazzaro, questi divenne referendario delle due Segnature (1657 ca.), nunzio a Colonia (1672), quindi in Polonia (1680) – ove apprese della sua elevazione alla porpora (1686) – vescovo di Spoleto (1689) e poi di Osimo (1691).[73] L’esplicito riferimento all’ufficio di nunzio apostolico, nel testamento di Lazzaro, lascia presumere che esistesse già, a quella data, un candidato ideale, che si trattasse appunto di Opizio, il quale d’altro canto aveva, in quel frangente (e prevalentemente continuò ad avere) obbligo di residenza lontano da Roma. Secondo titolare della prelatura fu Lazzaro Opizio (1719–1785) – pronipote di Opizio e nipote di Lazzaro – che a sua volta ottenne la porpora (1766) e ricoprì incarichi che lo obbligarono a risiedere lungamente lontano dalla Curia: fu nunzio a Napoli (1754–1760) e a Madrid (1760–1767), legato a Bologna (1768–1769),[74] infine segretario di stato di Clemente XIV e Pio VI e protettore della nazione genovese (1784–1785), sebbene unanimemente ritenuto „persona di poca capacità“.[75] In seguito la prelatura si trasformò in terreno di aspra contesa: nel 1785 la rivendicò monsignor Angelo Giuseppe, che non avrebbe posseduto i necessari requisiti;[76] si fece quindi avanti monsignor Alerame (1809–1867) che invece avrebbe „provato di essere della vera casa Pallavicini di Genova“,[77] contro il quale, però, „l’Ecc.mo Patrimonio Pallavicini“ si costituì in giudizio (1833). La causa si concluse un decennio più tardi con la vittoria di Alerame,[78] prelato di spicco, sebbene mai giunto alla porpora: discendente diretto di uno degli ultimi dogi (1789–1791), Maestro di Camera di Gregorio XVI, maggiordomo e prefetto del Sacro Palazzo (1846), arcivescovo di Pyrgi in partibus infidelium (1848).[79] Anche Alerame, ironia della sorte, non risiedette stabilmente a corte, venne infatti „autorizzato a rimanere fuori di Roma, onde attendere alla cura della sua salute“.[80]
Innumerevoli liti funestarono insomma i destini dell’eredità di Lazzaro: quelle connesse alla prelatura e così pure gli sviluppi delle dispute che avevano contrassegnato l’ultimo suo anno di vita (connesse ai beni pervenutigli dal nipote Niccolò).[81] Contenziosi in ragione dei quali il „Patrimonio Pallavicino“ subì „grande alterazione“.[82] „Tutte le indicate sinistre vicende“, si legge in un resumé redatto dalla famiglia, attorno alla metà del XIX secolo, „vennero a distruggere nella massima parte il Patrimonio Fidecommissario“. A tali guasti si aggiunsero i „forti gravami“ derivanti dalle „Leggi Repubblicane dell’Anno 1798“[83] e dalle „notissime Leggi Francesi“ del 1809. Il motu proprio di Pio VII del luglio 1816[84] obbligò il principe Luigi Pallavicino, ultimo patrono,[85] ad alienare le tenute fidecommissorie della „Pallavicina“ e della „Caffarella“,[86] mentre le imposizioni fiscali sancite dal chirografo del 1819 lo costrinsero a indebitarsi per 81 800 scudi.[87]
Le difficoltà finanziarie degli ultimi patroni certamente contribuirono a rendere sine die la vacanza della prelatura, tra la morte di Lazzaro a quella di Alerame, però (1680–1867), almeno un obiettivo, quello della continuità del rapporto tra i Pallavicino e i vertici della Curia, poteva dirsi soddisfatto: questa istituzione espresse un vescovo e due cardinali, uno dei quali protettore di nazione (sul far del tramonto della Repubblica genovese).
La prelatura Spinola
Veniamo ora all’istituzione fondata da Gio. Battista Spinola di Luccoli, la cui biografia è strettamente intrecciata a quello dello zio Giulio, anche per quanto attiene l’attuazione di quelle che con ogni probabilità furono le ultime volontà di quest’ultimo: la nascita di una prelatura destinata a divenire la più importante (sotto il profilo sociale, culturale, patrimoniale e politico) nella storia dei Genovesi di Roma. È dunque opportuno partire dal profilo di Giulio, in effetti rimasto alquanto in ombra, ha notato Graziano Ruffini, cui spetta il merito di averne intrapreso il recupero. Secondogenito di Gio. Battista q. Giorgio (che fu senatore) e di Isabella Spinola q. Niccolò (del ramo di San Luca),[88] Giulio si addottorò in utroque a Roma, „con universale plauso“[89] (1636) e nel mentre intrecciò alcune relazioni sentimentali, per voler credere a Gregorio Leti (1630–1701), noto ‚ritrattista‘ della Curia (un detrattore dei Genovesi).[90] Assunti i voti, Giulio avrebbe sempre condotto una vita specchiata, ponendo grande impegno nel proprio ufficio; facilitato dalla sua appartenenza a una „famiglia di rilevanza europea“[91] (legata a doppio filo alla monarchia spagnola) e dal sostegno di Olimpia Maidalchini Pamphilj cognata di Innocenzo X, ottenne numerosi incarichi, in rapida successione, dall’Umbria, alle Marche, a Viterbo (in quel frangente travolta dalla prima guerra di Castro). Negli stessi anni divenne governatore di San Giovanni Battista de’ Genovesi (1638–1643) e nel 1643, „sebbene non fosse cardinale, firmava gli atti come protettore e governatore“.[92] Divenne quindi referendario di Segnatura, legato a Perugia, nunzio a Napoli (1653), arcivescovo di Laodicea (1658) e nunzio a Vienna (1665–1667). In quest’ultimo frangente ebbe al fianco il giovanissimo nipote Gio. Battista (suo futuro erede).[93] Sempre a Vienna Giulio ricevette „il cappello cardinalizio … dalle mani dell’Imperatore“[94] e si adoperò con successo per il governo genovese, riuscendo a inserire Gio. Agostino Durazzo, nipote del doge Cesare (1665–1667), nella delegazione imperiale in partenza per Costantinopoli. Genova ottenne così il ripristino delle relazioni diplomatiche con la Sublime Porta e l’agognata riapertura degli scali di Levante (1666).[95] Giulio tornò quindi a Roma e nel 1667 partecipò al conclave che elesse Clemente IX Rospigliosi (dal quale ricevette numerose prebende).[96] Nel 1670 divenne vescovo di Sutri e Nepi[97] e poi di Lucca (1677), poi legato a latere in Polonia (1690).[98] Morì poco dopo (marzo 1691), nella sua abitazione romana,[99] istituendo una primogenitura fidecommissoria in favore di Francesco Maria ‚iuniore‘, figlio del nipote Federico, cui destinò la massima parte dei suoi beni. Erede dei restanti divenne il nipote Gio. Battista;[100] questi, prossimo alla berretta col titolo di San Cesareo (1695) – detto anche ‚il giovane‘, per la necessità di distinguerlo dal cugino omonimo[101] – aveva studiato a Parma e, posto sotto la protezione dello zio, era divenuto governatore di Fano (1672–1673), Orvieto (1673–1675) e Tivoli (1680–1682), commendatore dell’Ospedale di S. Spirito in Sassia, segretario della Consulta (1689) e governatore di Roma (1691–1695). Frattanto il fratello Giorgio, governatore di San Giovanni Battista de’ Genovesi (1690–1691), veniva consacrato vescovo di Albenga (1691–1714) dal cardinale Opizio Pallavicino.[102] Gio. Battista Spinola fu quindi legato a Bologna (1697–1698) e primo camerlengo della Camera apostolica a non essere nipote del pontefice (1698).[103] Fu tra i papabili al conclave che elesse Clemente XI (1700) e membro della nuova congregazione del Sollievo (preposta alla cura delle dissestate finanze pontifice). Nell’ultimo ventennio di vita si spese a sostegno delle lettere e delle arti, promuovendo „un’innovativa legislazione sui beni culturali“, raccogliendo attorno a sé un cospicuo numero di arcadi,[104] e divenendo egli stesso membro dell’accademia (1709). Fu anche committente e protettore degli artisti genovesi Baciccio (Giovan Battista Gaulli) e Francesco Queiroli.[105] Nella sua prestigiosa dimora all’Arco della Ciambella (o ‚alla Pilotta‘, nel rione Pigna), „comprata dal Sig. Mario Cianti“,[106] Gio. Battista allestì una quadreria composta da circa duecento opere, cui si aggiunsero i dipinti della villa di Albano. Una galleria lontana dal „collezionismo militante che caratterizzava altre raccolte cardinalizie“ (si pensi a quella di Lazzaro Pallavicino) sebbene di grande rilievo, già a giudizio dei contemporanei. Alla Ciambella, Gio. Battista costituì anche un’importante biblioteca. Circondato da questi tesori, si spense il 19 marzo 1719,[107] chiedendo sepoltura „in S. Andrea de’ PP. Giesuiti“ („vicino a quella della Chiara memoria del cardinale Giulio nostro Zio, sperando che il signor Principe Panfilio ci farà la medesima cortesia“).[108]
Ne divennero eredi[109] i nipoti Francesco Maria, Carlo e Gio. Battista, ecclesiastici gli ultimi due. Poiché il primo deteneva i beni trasmessigli dal cardinale Giulio (mediante fedecommesso), Gio. Battista lo beneficò ulteriormente[110] ma dettò specifiche disposizioni in favore della componente ecclesiastica della famiglia, istituì cioè „la Prelatura Spinola perpetua in Roma“.[111] A monsignor Carlo destinò „i frutti“ di quest’ultima e all’erede universale, „il sig. Abbate Gio. Battista“, quel che rimaneva, gravandolo dell’onere di restituzione in punto di morte, senza „detrazione“ alcuna, in favore della discendenza di Francesco Maria.[112]
Anche i titolari della prelatura, a partire da Carlo, ebbero precisi obblighi, primo dei quali risiedere „alla Corte di Roma“.[113] Quali le ulteriori disposizioni di Gio. Battista? Quale lo scopo dichiarato della sua prelatura? „In riconoscimento delle grandi obbligazioni della Famiglia Spinola verso la Santa Sede“, recita il suo testamento, „e di quelle grandissime, che per conto proprio, e come Erede del Cardinale Giulio nostro Zio le professiamo“, „habbiamo deliberato di istituire un assegnamento perpetuo per uno che si dedicherà al servizio della medesima Santa Sede“.[114] Al fine di agevolare il prelato ‚di famiglia‘ („acciocchè se gli renda più facile il modo di farlo“), Gio. Battista ‚separava‘ e ‚levava‘ dalla sua eredità, „i seguenti Effetti“: „la Casa posta alla Ciambella … tutte le Botteghe, e mezzanini esistenti nel suddetto luogo sotto l’altra casa contigua di Mons. Patti“; inoltre „Luoghi 500 di Monti Camerali non vacabili, ovvero dei migliori … che si ritroveranno nella nostra Eredità“, rigorosamente sottoposti a moltiplico.[115]
Utile un raffronto con la prelatura Ruffo, istituzione in larga parte esemplata su quella Carafa (il fondatore, Tommaso Ruffo, era stato amministratore della prelatura Carafa), concepita appunto come „un vasto patrimonio autonomo, una specie di Monte di famiglia“ il cui scopo era garantire „rendite sempre crescenti affinché un Prelato della Casa Ruffo si mantenesse con splendore, e si ponesse in condizione di essere a disposizione della Corte di Roma nelle cariche civili“.[116] Nel 1738 la prelatura Ruffo venne dotata di 359 luoghi di monte (pari a 1077 scudi annui) e due palazzi (siti in Via Frattina e ai Santi Apostoli), acquistati per questo specifico scopo.[117] Anche la prelatura Bussi, istituita nel 1707 (come quella degli Spinola) ebbe in dotazione un palazzetto, case, botteghe e una rendita annua.[118]
Certamente un altro ordine di grandezza, tornando al testamento di Gio. Battista: tra gli „effetti nobili“[119] della sua prelatura, nel novero degli arredi e delle suppellettili della Ciambella, vennero posti anche la famosa „Libreria“, „tanti Argenti, e Mobili“ („quanti ne importi la somma, e valore di scudi 3000“), „arazzi“ e oggetti sacri „per uso, e servizio della Cappella privata“ (cui era specificamente preposto il „Prelato pro tempore“).[120] Alla prelatura Gio. Battista destinò circa la metà del suo patrimonio, grosso modo pari a 500 000 scudi romani;[121] arduo quantificarne con esattezza il valore, per il 1719 (anno dell’apertura del testamento), possediamo invece la stima elaborata il 15 giugno 1874 dalla „Giunta Liquidatrice dell’Asse Ecclesiastico di Roma“, a favore del marchese „Francesco Gaetano Spinola fu Giacomo“, ultimo „patrono attivo ed amministratore“.[122] A quella data la „Casa in Roma, all’Arco della Ciambella“[123] venne valutata 85 500 lire[124] e nel patrimonio della prelatura risultano compresi anche terreni e rustici in Umbria (a Terni e in Valnerina),[125] complessivamente stimati poco più di 160 000 lire. Superstiti anche numerosi effetti, tra cui „crocefissi in bronzo con croce e piede in ebano“ e la famosa ,libreria‘, „composta di opere antiche legali parte incomplete, valutate insieme lire 1000“. Completavano il quadro patrimoniale svariati „certificati di rendita, iscritta sul debito pubblico italiano“.[126] L’ultimo rendiconto annuale risale al 1887 ed è pari a 3135 lire annue.[127]
Quali appunto le sorti di questa istituzione? Per la generazione successiva a Carlo, primo prelato – il quale mai giunse alla porpora e rimase beneficiario fino al 1770 (anno della morte) – non risultano titolari.[128] Si fece quindi avanti un „pretendente“ (Domenico q. Giulio), giudicato non idoneo. „Secondo prelato“ fu pertanto Ugo Pietro (1832), cardinale dal 1831, protettore dei Genovesi (1853–1858), morto a Roma nel 1858.[129] La prelatura rimase quindi sotto il governo dei „patroni“ o meglio dei loro amministratori romani, ultimo dei quali fu Nicola Scatizzi (fiduciario del marchese Francesco Gaetano, 1860–1882 ca.).[130] Le carte di questi ultimi documentano notevoli difficoltà di gestione: accanto alle immancabili liti – con affittuari, artigiani, dipendenti e pretendenti al legato – i costi derivanti dai periodici interventi di restauro. „Casa Spinola alla Ciambella“, fonte di buone rendite, era d’altro canto un palazzo oneroso, in ragione della sua vetustà, era già appartenuto agli Orsini di Pitigliano e insisteva sui resti delle terme di Agrippa.[131] Particolarmente impegnativi furono i restauri del 1781–1783 e il rifacimento terminato attorno al 1870.[132] Nel primo caso, fra le voci di uscita, figurano i conti di un „ferraro“, di uno „stagnaro“, di un „vetraro“ e di un „imbiancatore“.[133] Spese compensate solo in parte dalle pigioni[134] e dalle entrate delle tenute umbre (grano, olio, vino e mosto, oltre alle rendite).[135]
Subito dopo il passaggio di Roma al Regno d’Italia, gli Spinola non a caso si attivarono per ottenere la soppressione del vincolo di inalienabilità e porre in vendita l’intero patrimonio.[136] Le disposizioni transitorie del luglio 1866 avevano conservato in vita le prelature, in quanto „enti morali ecclesiastici e religiosi secolari“, quelle dell’agosto 1867, invece, le abolirono, autorizzando gli svincoli mediante le apposite Giunte liquidatrici. I lavori della Giunta romana iniziarono nel 1873 e si conclusero nel ’79.[137]
I beni della prelatura Spinola evidentemente non tardarono ad attirare agenti e acquirenti di calibro: in molti si fecero avanti tra il 1874 (anno dello svincolo) e il 1887 (anno dell’ultimo rendiconto annuale).[138] Il patrimonio di questa istituzione era forse addirittura lievitato: nulla a che vedere con il grave dissesto finanziario dei Pallavicino-Rospigliosi. Al marchese Francesco Gaetano, ultimo patrono e agiato possidente,[139] verosimilmente non mancò il tempo di individuare l’offerta migliore, entro un mercato immobiliare in forte crescita, interessato anzi dalla prima ondata speculativa, conseguente al nuovo ruolo di Roma, capitale d’Italia (1871).[140] Ad aggiudicarsi il palazzo e una parte almeno della preziosa ,libreria‘ furono appunto i marchesi Ferrajoli: Gaetano e il fratello Alessandro erano noti studiosi e bibliofili, un fratello ennesimo, Filippo, avrebbe quindi donato quella pregevole collezione libraria a Pio XI (1926).[141] I manoscritti 183 e 184 del Fondo Ferrajoli della Biblioteca Apostolica Vaticana contengono appunto scritture politiche sul Seicento genovese (come quelle di Andrea Spinola).[142]
Indubbiamente meno roseo il bilancio relativo alla storia sociale e politica di questa istituzione, che espresse appena due prelati, uno solo dei quali giunto alla porpora e all’ufficio di protettore (dopo la scomparsa della Repubblica di Genova). Un dato compensato solo in parte dai risultati conseguiti dal ramo ‚cugino‘ degli Spinola di San Luca:[143] meritevole di approfondimento è in specie il caso di Gio. Battista q. Francesco, divenuto cardinale di San Cesareo – titolo già appartenuto a Gio. Battista, istitutore della prelatura – quindi protettore della nazione genovese (1739–1754).[144]
Per concludere. Spazi e protagonisti della mediazione diplomatica
Questa ricerca si prefigge di arrivare a leggere in modo unitario il caso delle prelature genovesi di Roma, certamente completando il quadro patrimoniale (per i Costaguta, i Giustiniani, i Pamphilj-Pallavicino e i Cibo) al fine di chiarire la valenza sociale e politica di queste istituzioni. Una ricerca interessata non tanto al valore economico di edifici, arredi ed effetti come quelli ‚della Ciambella‘, quanto a ricostruirne il disegno ispiratore; interessata insomma ai propositi dei cardinali promotori e alle primissime vicissitudini delle prelature (molto meno agli ultimi destini di queste strutture).
Una linea programmatica fondata su riflessioni e ipotesi di lavoro che in estrema sintesi riassumo: la mancanza di spazi idonei ad assolvere funzioni di alta rappresentanza, a consentire la negoziazione, fu per Genova un problema strutturale nel rapporto con Roma, città in cui la Repubblica non ebbe un’ambasciata, a differenza di Venezia e delle maggiori Corone. Giunti alla metà del XVII secolo, quando l’alleanza con la Spagna mostrò chiari segni di crisi,[145] il dialogo col Papato a maggior ragione divenne un’assoluta priorità per la Repubblica. Un problema che le fonti diplomatiche puntualmente denunciano, che si acuì col venir meno del protettore di nazione. In che modo fu possibile sopperire a questa strutturale carenza? Spesso e volentieri ricorrendo ai prelati ‚nazionali‘, non solo ai loro uffici, anche alle loro dimore. Una prassi (un’idea di sovranità) che in effetti si richiamava al meccanismo genovese dell’ospitaggio, cioè al sistema dei Rolli, elenchi dei palazzi cittadini più prestigiosi, deputati ad accogliere le delegazioni straniere (tasselli della „reggia repubblicana“).[146] Com’è noto gli esponenti di questo patriziato fecero a gara per dotarsi di siffatte dimore, di sontuosi spazi di rappresentanza, di preziose collezioni d’arte e antichità.
La lettera dell’inviato straordinario Raffaele Della Torre ai Collegi, relativa ai primissimi giorni della sua missione romana (1645–1646), trascorsi ad „ospitio da Monsig. Ill.mo Tesoriero“,[147] pone significativamente l’accento sulle esorbitanti spese necessarie per mantenersi con ‚dignità‘ e ‚honorevolezza‘ a Roma (per procurarsi un’idonea residenza, numerosa servitù e almeno due carrozze) e sul valore politico di questi „riguardi“, „da non trascurarsi in una Corte nella quale si fa molto capitale delle apparenze, in ordine alle quali questi Signori della Natione, e fra di loro più segnalatamente i Prelati … principali … corrispondono pienamente all’ossequio dovuto“.[148] „In questa Corte il prezzo d’ogni cosa è altissimo, ch’apparenza è sostanza“, aveva chiosato un suo predecessore (l’ambasciatore Gian Luca Chiavari), sempre a proposito delle ‚Case dei cardinali‘,[149] e a metà ’600 tornerà sul punto Gio. Battista Lazagna, ministro residente (inviato per la seconda volta a Roma, 1649–1651),[150] anch’egli spesso ricorso ai prelati ‚principali‘ per consiglio e supporto e perché sprovvisto di un luogo congruo a svolgere le sue funzioni. Troppo modesta la dimora ch’egli aveva preso in affitto – lo avevano redarguito gli ‚uomini della nazione‘ – sebbene si trattasse di un appartamento ove aveva soggiornato Carlo V (che ne recava ancora le insegne).[151]
La Repubblica di Genova, insomma, pur non disponendo di ambienti idonei alle proprie necessità, alla propria immagine – pur non potendo pretendere, come Venezia, che „fosse al suo Palazzo portato dalla Corte quel rispetto che si deve all’istesso Palazzo Apostolico“ – all’occorrenza seppe „cercar Prelati e trovar dimore“.[152] Limitatamente agli uffici, alle attività e agli interessi di questi porporati e monsignori, stanze che indubitabilmente furono cornice di frequenti riunioni (ad esempio quelle delle congregazioni cardinalizie e della confraternita di nazione),[153] di colloqui (talora quotidiani quelli con gli ambasciatori),[154] di eventi culturali e occasioni conviviali.[155]
Poche altre note di riflessioni in merito al peso sociale e politico complessivo dei cardinali ‚di nazione‘.
La nascita delle prelature personali si colloca a cavallo tra Sei e Settecento ed è iscritta entro il più ampio fenomeno del pervasivo radicamento dei Genovesi nella città dei papi, o meglio entro la fase ultima di questo trend: „pare habbino giurato di comprar tutti gli officii“, commentò Gregorio Leti, „con l’intentione di comprare forse Roma un giorno“.[156] Fermo restando il piano degli interessi ‚particolari‘, delle finalità private dei cardinali istitutori – promuovere il loro cognome, incoraggiare le carriere curiali dei loro consanguinei e salvaguardarne il patrimonio – il tema dei ben probabili nessi con il piano pubblico della questione mi pare meriti qualche altra notazione. Anzitutto ricordo che raramente nell’agire di questo patriziato i due aspetti risultano disgiunti, e che la seconda metà del Seicento tuttavia presenta numerose e peculiari zone d’ombra.
Prelati con i quali non mancarono momenti d’intensa frizione, basti il caso di cardinal Durazzo, „pugnace e discusso arcivescovo di Genova“ (1635–1664),[157] sul conto del quale il residente Lazagna si espresse in termini decisamente poco lusinghieri;[158] nel lungo periodo è però indubbio il ruolo svolto da queste figure: negoziatori, importanti tramiti tra i Collegi e i vertici della Curia. A ciò si aggiunga il problema della sostanziale e prolungata assenza del protettore di nazione, ufficio di cui si fecero carico, dopo Giulio Spinola (1643), Giacomo Franzone (1644) e Giuseppe Renato Imperiale (1695–1737). A fronte del mai nato ‚partito della Repubblica‘, ricordo che alcuni dei ‚nazionali‘ aderirono al cosiddetto ‚squadrone volante‘ e agli ‚zelanti‘, fazioni impegnate ad allontanare il Papato dall’influenza delle maggiori Corone. Quanto agli ‚squadronisti‘, ne sarebbe stato addirittura „Capo e direttore il Cardinale [Lorenzo] Imperiale“,[159] quanto ai secondi ricordo che in occasione del conclave del 1700, la candidatura di Gio. Battista Spinola (istitutore dell’omonima prelatura) venne „posta con una certa forza“ nel „partito degli ‚zelanti‘“.[160] Emblematica la lettera con cui quest’ultimo comunicò ai Serenissimi la sua elevazione alla porpora; missiva cui venne apposta la seguente nota: che gli „Ill.mi ed Ecc.mi di Palazzo“ diano ordine di fare „tre sere li … fuochi, e spari“.[161] Esattamente lo scenario da cui ‚il filosofo‘ Andrea Spinola aveva messo in guardia.
La nascita delle prelature incontrò insomma un’esigenza anche pubblica. Istituzioni che furono verosimilmente intese (a partire dai rispettivi promotori) come spazi deputati anche alla rappresentanza e alla negoziazione: corti cardinalizie, luoghi destinati alla socialità, alle iniziative culturali e alla concertazione politica, tra piano informale e ufficiale, espressione di quel policentrismo romano di cui non sappiamo ancora abbastanza.
© 2022 bei den Autorinnen und den Autoren, publiziert von De Gruyter.
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