Home La nobiltà di Terraferma tra Venezia e le corti europee
Article Open Access

La nobiltà di Terraferma tra Venezia e le corti europee

I Gambara nella Praga di Rodolfo II (1584–1598)
  • Paolo Amighetti EMAIL logo
Published/Copyright: November 18, 2022

Abstract

In recent decades, research on the Venetian mainland state has underlined the tendency of subject elites to establish political relationships with foreign princes. This phenomenon was remarkably prominent in the cities of Brescia and Bergamo. The western periphery of the Venetian state was home to a wealthy and ambitious feudal nobility whose loyalty to the Most Serene Republic was very dubious. From the early decades of the 16th century, the Gambara family of Brescia maintained habitual contacts with the Imperial court and Spanish Lombardy to gain prestige and honour. In 1584 and 1596 two young brothers, Scipione and Lucrezio Gambara, were thus sent to the court of Emperor Rudolf II in Prague, where they served as pages. Although their brief experiences did not lead to noteworthy careers, their stay in Prague represented their family’s interest in preserving its long-standing Imperial allegiances. The rich family correspondence provides a detailed account of the two brothers’ life at the Imperial court, highlighting their family networks and relationship with courtiers and ambassadors. The Gambaras’ pro-Habsburg attitude ultimately had a negative impact on their relationship with Venice, since the Republic could not completely trust them as vassals. Nevertheless, the family’s allegiance to the House of Austria endured at least until the 1630s.

Introduzione

Negli ultimi decenni la storiografia sulla Terraferma veneta ha insistito sulla natura composita del Dominio, evidenziando la complessità di uno scenario caratterizzato da vari attori politici – patriziati urbani, comunità di valle, giurisdizioni signorili – in perpetua negoziazione con un’oligarchia veneziana propensa da parte sua a ricorrere alla collaborazione dei governati.[1] È emerso, in questo quadro, il ruolo significativo giocato in diversi distretti dalla nobiltà feudale, notoriamente egemone in area friulana ma rilevante anche in centri come Brescia e Bergamo:[2] è stato notato come il rapporto problematico delle nobiltà locali con le istituzioni ed i rappresentanti della Dominante abbia talvolta incoraggiato le famiglie più ambiziose delle città suddite, non di rado già alla testa delle locali fazioni filo-asburgiche, a ricercare opportunità di impiego presso le corti e gli eserciti europei.[3] Il presente contributo intende affrontare questi temi attraverso il caso, finora poco studiato, di una delle più importanti famiglie della nobiltà della Terraferma, i Gambara di Brescia. L’appartenenza della famiglia alla fazione imperiale cittadina ed alle più vaste reti di relazione asburgiche nell’età di Carlo V sono note, così come la sua tradizionale e talvolta ostentata diffidenza nei confronti della Repubblica. Il case study esaminato è quello del soggiorno dei fratelli Scipione e Lucrezio presso la corte di Rodolfo II tra gli anni ’80 e ’90 del Cinquecento: due esperienze individuali finora pressoché ignorate, che non ebbero sviluppi immediati particolarmente eclatanti ma che, lette attraverso la fonte epistolare, possono gettare qualche luce sui rapporti della famiglia con le élites asburgico-imperiali e sull’inserimento dei suoi esponenti negli ambienti di corte. L’obiettivo è dimostrare come il tradizionale legame dei Gambara con l’Impero, passata la stagione per certi versi eccezionale delle guerre d’Italia, non sia affatto venuto meno: la vicenda di Scipione e Lucrezio è significativa in questo senso, costituendo un momento di passaggio tra la militanza filo-imperiale della famiglia nel pieno Cinquecento e la vicenda seicentesca di loro fratello Francesco che avrebbe servito come ambasciatore l’imperatore Ferdinando II. Nonostante fossero vassalli della Repubblica di Venezia, i Gambara non rinunciarono a cercare di inserirsi nelle reti di relazioni gravitanti attorno alla corte cesarea, mantenendo inoltre rapporti, non diversamente da altre famiglie nobili bresciane, con la feudalità imperiale dell’area padana. Queste molteplici fedeltà non appaiono eccezionali se raffrontate alla tendenza – comune non solo alle nobiltà provinciali della Terraferma ma a larghi strati aristocratici dell’intera penisola – di ricercare posizioni di prestigio facendo carriera al servizio di principi diversi dal proprio ‚naturale‘.[4]

„Una nobilissima Prosapia“[5] ed il suo archivio: i Gambara

Almeno a partire dall’inizio del Quattrocento la famiglia feudale bresciana dei Gambara giocò un ruolo di rilievo nelle vicende politiche della città e del suo distretto, ponendosi alla testa del partito filo-visconteo contrapposto alla pars filo-veneziana degli Avogadro. La definitiva vittoria di quest’ultima sancì, nella seconda metà del Quattrocento, una relativa marginalizzazione dei ‚ghibellini‘ Gambara. Il momento di maggiore esposizione internazionale del casato risale al primo Cinquecento: durante la dominazione ispano-imperiale su Brescia (1512–1516) la famiglia colse l’occasione per tornare ad assumere un atteggiamento chiaramente anti-marciano; già all’indomani della battaglia di Agnadello (1509) i Gambara avevano del resto capeggiato la fazione filo-francese. Nel trattato di pace che poneva fine alle ostilità con Venezia (1529) Carlo V faceva includere la condizione che Brunoro Gambara († 1560), suo maestro di campo, venisse riabilitato dalla Repubblica in tutti i suoi beni e che potesse „in servitiis Caesareis perseverare“.[6] Le voci del dissenso anti-veneziano serpeggianti in città fino agli anni ’40 del Cinquecento trovavano probabilmente in questa famiglia un riferimento importante, a giudicare dalle aderenze imperiali e dagli agganci politici di personaggi come Brunoro ed altri esponenti del casato.[7] Non a caso buona parte degli studi sulla famiglia si sono finora concentrati su alcune rilevanti figure della prima metà del Cinquecento, come il cardinale Uberto (1489–1549) e la poetessa Veronica (1485–1550).[8] Le vicende della seconda metà del secolo, che videro diversi esponenti del casato impegnati in un difficile equilibrismo tra Venezia e l’Italia spagnola, hanno ricevuto finora meno attenzione: ai limiti di una storiografia locale più o meno datata può tuttavia sopperire il ricorso al corposo archivio familiare depositato presso l’Archivio di Stato di Brescia.[9]

L’Archivio Gambara di Verolanuova si contraddistingue per la sua eccezionale ricchezza.[10] Si tratta dell’archivio della linea cosiddetta ‚dei patrizi veneti‘: a questo ramo appartenevano infatti i Gambara che nella seconda metà del Seicento furono cooptati nel patriziato lagunare. Sin dal XV secolo questa linea esercitava la giurisdizione e concentrava i suoi beni fondiari nella terra di Verola Alghise (oggi Verolanuova), nella Bassa bresciana, non lontano dal confine col Mantovano e col Cremonese. La vita e l’identità della famiglia appaiono strettamente legate al feudo, che ne definiva la qualità contribuendo a mantenerla al vertice della considerazione sociale. Il „marchio d’onore“[11] della giurisdizione, che rifletteva e confermava consolidate fortune patrimoniali e concreti, ben definiti rapporti di forza, operava insomma anche nel Bresciano una netta distinzione in seno al ceto dirigente, innalzando sulle altre le poche famiglie – Gambara, Martinengo, Avogadro – che ne erano titolari.

Lo studio delle carte di famiglia consente di ridefinire l’ampiezza delle relazioni politiche del casato, che andavano ben al di là dei confini del distretto bresciano e della Terraferma veneta: l’analisi di parte del voluminoso carteggio conservato nell’Archivio familiare consente di mettere in risalto la rete di rapporti nella quale si muovevano gli uomini e le donne della famiglia, mostrando ad esempio quali fossero nel concreto le modalità di accesso agli ambienti di corte cui essi ambivano. La lettura degli scambi epistolari offre inoltre la possibilità di osservare le dinamiche interpersonali tra i familiari e quelle tra questi e diversi interlocutori: principi, nobili appartenenti all’aristocrazia locale e non solo, informatori, uomini di servizio.[12] Ne emerge un quadro complesso, fatto di relazioni e negoziazioni quotidiane, impossibile da ricostruire attraverso le storie di famiglia o le solitamente sintetiche osservazioni dei magistrati veneziani.[13] Lo studio del carteggio consente inoltre di arricchire le nostre conoscenze su aspetti come la cultura materiale, gli stili di consumo, il governo della casa e delle proprietà: temi che esulano da questo contributo ma sui quali, per il Bresciano, si è iniziato a riflettere in tempi relativamente recenti.[14]

Le fonti epistolari fanno inoltre emergere con efficacia alcuni momenti di tensione tra il casato e i rappresentanti della Repubblica presso l’imperatore, mettendo in mostra le difficoltà ed incertezze che vassalli solo retoricamente „fedelissimi“ erano costretti a fronteggiare nel rapporto col loro „principe naturale“. Alla luce della tradizionale aderenza filo-imperiale della famiglia, la presenza di Scipione e Lucrezio nella Praga rudolfina conferma una notevole continuità di rapporti dei Gambara con la corte cesarea: a riprova, se si vuole, di una ‚strategia‘ politica perseguita di generazione in generazione fino ai primi decenni del Seicento. Anche gli altri due fratelli di Scipione e Lucrezio furono infatti protagonisti di parabole biografiche apparentemente sui generis: Annibale († 1632) strinse legami con la corte farnesiana vivendo per lunghi periodi a Parma, e Francesco (1576–1630) fu referendario apostolico per i papi Clemente VIII e Paolo V prima di servire l’imperatore Ferdinando II come ambasciatore straordinario a ridosso della guerra di successione mantovano-monferrina (1628–1631).

„Dubito che farà poco honore a sé et a la casa sua“: Scipione Gambara alla corte imperiale (1584–1585)

La presenza bresciana nella Praga cinque-seicentesca è stata finora assai poco studiata nella sua entità e nei suoi protagonisti; eppure costituisce esempio ulteriore dell’apertura internazionale dei ceti aristocratici della città, motivati a trasferirsi temporaneamente ovunque potessero esercitare il mestiere delle armi o tentare l’accesso ad una corte innalzando così il prestigio personale e familiare. L’oggettiva difficoltà di ritagliarsi margini soddisfacenti di ascesa restando in città o nel territorio natio era una conseguenza indiretta della tradizionale strategia di governo veneziana in Terraferma, che prevedeva una separazione netta tra il ceto dirigente lagunare, patrizio e repubblicano, e le élites suddite di estrazione spesso signorile o feudale: privi dell’opportunità di ottenere in patria gli incarichi cui ambivano – e che evidentemente andavano al di là della semplice occupazione di qualche seggio consiliare cittadino – molti nobili di Terraferma erano costretti a coltivare lealtà alternative e talvolta compromettenti, ponendosi al servizio di altri principi come militari, ambasciatori, governatori.[15] Non tutte le famiglie di Terraferma, difatti, seppero o vollero costruire vere e proprie „dinastie militari“ sotto le bandiere della Serenissima, come ebbero l’opportunità di fare, tra gli altri, i friulani Savorgnan o i bresciani Avogadro.[16] A una nobiltà abituata a guardare con interesse alle corti europee, porsi al servizio degli Asburgo appariva come una scelta logica e potenzialmente fruttuosa. Questo atteggiamento non aiutava naturalmente a dissipare le diffidenze del patriziato veneto, consapevole che i nobili di Terraferma non erano sordi alle sirene provenienti da Madrid e Vienna né alle iniziative dei viceré spagnoli in Italia.[17] Sotto questo aspetto, il comportamento dei Gambara e di altri nobili bresciani non era dissimile da quello di diverse famiglie della feudalità imperiale italiana (Gonzaga, Correggio, Del Carretto) o della stessa Terraferma (Colloredo, Strassoldo, Collalto).[18] Tra Cinque e Seicento la corte cesarea aprì la via della distinzione a molti gentiluomini provenienti da queste aree: si pensi, per fare solo un paio di esempi, al bresciano Tommaso Caprioli († 1608), che seppe costruirsi una fortunata carriera militare nel corso della ‚Lunga guerra‘ turca, o al marchese poi principe di Castiglione Francesco Gonzaga (1577–1616), commissario imperiale in Italia e a più riprese ambasciatore cesareo nei primi anni del XVII secolo.[19]

La vicenda di Scipione appare meno eclatante, sia per la brevità del soggiorno a corte (meno di un anno), sia per la sua scarsa significatività, che non fu premessa di un’ascesa ulteriore né agevolò in modo particolare lui o la famiglia. Il figlio primogenito del conte Lucrezio e della nobildonna bresciana Giulia Maggi è in realtà principalmente ricordato per i fatti di sangue che lo videro protagonista qualche anno più tardi: l’uccisione del cugino Brunoro, in seguito alla quale fu bandito dal Consiglio dei Dieci, fu l’avvio di un periodo assai turbolento, che si concluse con la sua morte avvenuta in circostanze poco chiare probabilmente all’inizio degli anni ’90. L’omicidio avrebbe aperto un lungo contenzioso patrimoniale tra i due rami del casato per la restituzione dei beni del bandito, lasciando strascichi profondi nella solidarietà interna alla famiglia.[20] Scipione è quindi apparso alla storiografia locale come il prototipo del nobile dedito alla criminalità, figura tipica dell’epoca ‚barocca‘.

Giudizi simili trapelano in effetti anche dalle lettere dei tutori, allarmati dall’irrequietezza del giovane. Il cardinale Gianfrancesco Gambara (1533–1587), influente uomo di Curia e punto di riferimento a Roma per l’intera comunità bresciana, riteneva non fosse necessario che Scipione proseguisse con lo studio, „ogni volta che ha tante lettere che basti ad un gentilhuomo par suo“; escludeva inoltre che si mandasse il ragazzo a Pavia, come proposto dallo zio e tutore di Scipione, Niccolò, „non havendo [egli] a diventar dottor“, ed anzi correndo il rischio di scivolare, senza la giusta supervisione, in „qualche sinistro di sviamento“.[21] Per la stessa ragione un suo ritorno nel feudo domestico, dove avrebbe goduto di troppa libertà, non sarebbe stata una mossa saggia. Si scelse quindi di indirizzare Scipione alla vita di corte, con l’intento di moderarne gli eccessi e di avviarlo alle regole di comportamento della società aristocratica. Si pose subito il problema di quale fosse la sede più appropriata: le entrature del cardinale in entrambi gli ambienti del sistema asburgico rendevano ragionevole optare per la corte di Filippo II o per quella imperiale, tanto che già nel marzo 1584 Gianfrancesco proponeva a Niccolò „che si mandasse [Scipione] alla corte di Spagna o a quella dell’imperadore, che mi reputarò facile a farlo accettar per paggio“.[22] In aprile Niccolò si mostrava risoluto che Scipione „non venghi a Verola per stare, ma che habbia d’andare alla corte dell’imperatore“.[23] La scelta era ricaduta su Praga sia per l’ammontare relativamente modesto delle spese di soggiorno e mantenimento – considerate non superiori a quelle necessarie per altre sedi principesche, come la corte granducale di Toscana – sia per la protezione che il giovane avrebbe potuto ricevere dal nunzio apostolico residente in città, il cremonese Giovanni Francesco Bonomi (1536–1587). Costui, vescovo di Vercelli, era in buoni rapporti tanto con il cardinale Gianfrancesco quanto con il conte Niccolò. Se il primo ne scriveva definendolo „nostro amorevole“, il secondo si avvaleva della mediazione del nunzio per l’acquisto di animali e generi di lusso provenienti dall’Europa centrale, come cavalli ungheresi e pellicce di „lupo cerviere“ (lince).[24] Fu Bonomi a prendere i primi contatti con la corte ed in particolare con il „cavallerizzo maggiore“ Ottavio Spinola († 1592), alla cui autorità erano sottoposti i paggi.[25] Appartenente al ramo dei feudatari imperiali di Tassarolo e cavaliere di Malta,[26] Spinola svolgeva anche la mansione di camerario (Kämmerer), che gli conferiva, per via della sua vicinanza al sovrano, una notevole autorità; attorno a lui gravitavano molti dei negozi che riguardavano l’Italia. Nel giugno del 1584 il cardinale informava Niccolò che Rodolfo – grazie probabilmente all’intervento del cavallerizzo maggiore, che gli aveva dato la notizia – aveva accolto la candidatura di Scipione.[27] Il ragazzo sarebbe giunto a corte nell’ottobre dello stesso anno, al termine di un viaggio insidiato da „molti pericoli“, non ultimo quello della peste che imperversava nei territori austriaci. Scipione fu accolto da una città allora in pieno fermento, che stava attraversando una fase di grande sviluppo e di apertura. Capitale della Boemia, Praga ospitava la corte dal 1583: trascorsi i primi anni del suo regno tra Linz, Vienna, la stessa Praga, Breslavia e Presburgo, l’imperatore Rodolfo II (1552–1612) aveva deciso di stabilirsi nella città boema, risiedendo nel castello di Hradčany.[28] A Praga risiedeva una numerosa comunità italiana, composta soprattutto da maestranze artistiche e da commercianti: la Congregazione fondata nel 1575 fungeva da punto di riferimento per una colonia che cresceva rapidamente, tanto che qualche anno più tardi sarebbe stata eretta una nuova cappella per adempiere alle necessità del culto.[29] Contribuivano naturalmente ad animare la comunità le diverse delegazioni diplomatiche degli stati italiani: è noto, tra gli altri, il soggiorno in città dell’allora sedicenne Angelo Badoer, che accompagnava il padre Alberto ambasciatore della Serenissima. Un ambiente così vivo contribuì forse a destabilizzare ancor più Scipione, evidentemente poco propenso all’ubbidienza. Il carteggio evidenzia l’esasperazione dei tutori per la sua indisciplina e per l’abitudine allo sperpero: vizi incoraggiati dalle distrazioni e dalla vita di corte. Appena giunto in città, Scipione protestava che avrebbe preferito non essere accolto tra i paggi; ed in effetti, sulle prime, lo stesso Spinola parve manifestare qualche esitazione, vista anche l’età del ragazzo, che allora doveva avere circa quindici anni; „se monsignor volesse dir una parola a Sua Maestà“ scriveva Scipione alla madre „sarei fatto subito gentilhuomo della bocca [scalco] con trenta fiorini al mese di provigione“.[30] Ciononostante, fu inizialmente accolto come semplice paggio. Il nunzio scriveva a Niccolò della necessità che il ragazzo, „di troppo gagliardo cervello“,[31] fosse attentamente sorvegliato; quanto allo spendere, Scipione era stato incaricato di organizzare una festa tra paggi per la successiva Epifania, e sarebbe stato costretto a sborsare parecchi talleri per farsi confezionare un abito per la cena: risparmiare, del resto, sarebbe stato lesivo dell’onore suo e della famiglia, e avrebbe violato le regole della società aristocratica.[32] Nel dicembre 1584 Bonomi informava Giulia Maggi che il figlio aveva commesso „alcune scapatelle che mi hanno fatto talhora dubitare che sia per farci poco honore“;[33] a maggior ragione giudicava inopportuno ricercare per lui più importanti incarichi. La nomina a gentiluomo di bocca, tuttavia, sarebbe arrivata qualche mese più tardi, a condizione che Gambara, giudicato troppo giovane per quella carica, abbandonasse la corte per un paio d’anni. L’ottenimento dell’incarico non appare in alcun modo un segnale di particolare benevolenza: a giudicare dai ruoli degli stipendiati presso la corte di Rodolfo, sembra che l’incarico più comunemente svolto dai nobili imperiali italiani e della Terraferma veneta fosse proprio quello di scalco (Truchsess).[34] È possibile peraltro che quella ‚promozione‘ servisse solo ad allontanare Scipione: Spinola era venuto a sapere che egli era solito fuggire nottetempo assieme ad alcuni giovani Madruzzo e Pallavicino per andare a prostitute. Il suo sperpero, inoltre, non aveva limiti:

„Io l’ho ripreso più volte, et l’ho [sic] riprendo quasi ogni giorno et gli ho fatto fare anco de buon rebuffi da monsignor nuntio, ma io et tutti gli altri perdono il tempo, perché se havesse un pozzo d’oro tutto lo consumarebbe in quattro giorni, né si cura di reprensioni … Le robbe che ha tolto il conte dai mercanti sono queste, veluto, raso, damasco, tela d’oro, cordoni di beretta di veluto grande, ormesini, spade indorate, anelli con gioie, et molte altre cose, che ha poi vendute per un pezzo di pane et donate.“[35]

La tipologia dei beni prediletti dal giovane rispecchiava del resto la grande varietà dell’accumulo di oggetti di lusso tipica del consumo nobiliare; per le famiglie bresciane simili tendenze sono ben documentate dagli inventari delle dimore cittadine e di campagna dei Gambara e dei Martinengo.[36] Il giovane sarebbe ripartito alla volta di Brescia nel settembre 1585, con il benservito riservatogli dal cameriere maggiore (Oberstkämmerer) Wolf Rumpf e dallo stesso Rodolfo, ma anche con qualche malumore per il poco denaro che, a suo dire, gli era stato concesso dallo zio: la somma risultava infatti insufficiente a saldare i debiti contratti coi mercanti italiani ed ebrei presenti in città e la questione avrebbe impegnato gli uomini dell’entourage gambaresco rimasti in Boemia molto dopo il rientro del giovane.[37] Negli anni seguenti, Scipione sarebbe tornato alla vita di sregolatezze che gli era evidentemente congeniale, e che ben s’inseriva nel clima di generale disordine e violenza in cui versavano città e distretto in quello scorcio di secolo. Il soggiorno praghese del quarto figlio maschio di Lucrezio e Giulia Maggi, Lucrezio († 1602), sarebbe stato motivato anche dalla necessità di abbandonare una Brescia segnata da feroci inimicizie e dal dilagare del banditismo.

„Cose qua che in mille anni non si veggono in Italia“: il soggiorno di Lucrezio (1596–1598)

Le gesta di Scipione non costituivano affatto un unicum in una Terraferma attraversata, negli ultimi decenni del Cinquecento, da una spirale di violenza che non risparmiava ma anzi vedeva protagonisti gli esponenti delle aristocrazie locali. Le lunghe fasi di scontro tra le principali famiglie erano i sintomi di un malcontento profondo, che la repressione veneziana contribuiva a condurre sui binari del banditismo aristocratico.[38] La situazione era particolarmente grave nel territorio e nella città di Brescia. Il vistoso aumento della conflittualità cittadina contribuì tra la fine del Cinque e i primi decenni del Seicento a rendere ingovernabile il distretto nonostante gli sforzi di pacificazione dei rettori veneti.[39] Il fenomeno della violenza aristocratica segnava, a Brescia come in tutta la Terraferma, una nuova stagione nei rapporti tra la Dominante e le società suddite, caratterizzata da un’inedita ingerenza delle magistrature veneziane nelle dinamiche locali: partendo per Praga, Lucrezio si lasciava quindi alle spalle una società per molti versi dilacerata. Il suo soggiorno presso la corte l’avrebbe sì preservato dalle insidie delle inimicizie locali, ma l’avrebbe esposto a rischi e incidenti di altro tipo, principalmente a causa delle reti di relazione in cui egli e i suoi parenti erano inequivocabilmente inseriti.

Si è visto come nel 1584 gli uffici del cardinale Gianfrancesco Gambara ed i suoi contatti con il nunzio apostolico a Praga avessero favorito l’accettazione di Scipione: nel caso di Lucrezio fu necessario seguire una strada diversa, poiché il porporato era morto nel 1587, privando la famiglia di quell’appoggio in curia di cui essa aveva goduto quasi ininterrottamente dai tempi del cardinale Uberto († 1549). La costruzione di clientele nell’ambito della Chiesa era sempre stato un punto di forza del casato, tanto che anche per Francesco, fratello maggiore di Lucrezio, era prevista in quel momento la carriera ecclesiastica.[40] Nel corso degli anni ’90 del Cinquecento, morto anche lo zio Niccolò, Francesco – poco più che ventenne – appare in rapida ascesa nelle gerarchie familiari, pienamente addentro alle dinamiche decisionali riguardanti il fratello minore e i negozi in cui il casato era coinvolto. Ogni scelta di rilievo, a giudicare dalla voluminosa corrispondenza, passava attraverso la sua approvazione: la centralità di Francesco non sembra intaccata dalla presenza del più anziano Annibale, probabilmente privo dell’autorevolezza del fratello. „Non … molto pronto d’ingegno“[41] secondo il cardinale Gianfrancesco che l’aveva conosciuto da bambino, Annibale avrebbe condotto un’esistenza violenta tra il feudo verolese e la corte farnesiana di Parma, mentre Francesco si sarebbe laureato in utroque iure presso l’Università di Bologna per poi ricercare incarichi in Curia romana.

Anche il soggiorno di Lucrezio fu reso possibile dall’utile aggancio di un nunzio apostolico: si tratta di Cesare Speciano (1539–1607), vescovo di Cremona.[42] Il padre Giovanni Battista († 1545), patrizio cremonese, aveva ricoperto importanti incarichi a Milano, conseguendo la dignità senatoriale.[43] Cesare, già collaboratore di Carlo Borromeo e nunzio in Spagna, negli anni ’90 del Cinquecento fu incaricato dal pontefice Clemente VIII di svolgere diversi incarichi diplomatici in Germania. La nipote di Cesare, l’allora non più che tredicenne Maddalena, era stata promessa sposa a Lucrezio. Costei era figlia del senatore e patrizio milanese Ottavio Speciano, fratello del nunzio, e di Giulia Dal Verme, del ramo piacentino della famiglia. La vicinanza personale di Lucrezio alla famiglia della futura consorte è testimoniata dai suoi vari soggiorni milanesi, ricambiati dalle visite degli Speciano a Brescia e nel feudo verolese. Fu proprio durante una delle sue trasferte nella città ambrosiana che si ripropose la questione dell’avvenire di Lucrezio: l’opinione di alcuni parenti di Maddalena, come il conte Giacomo Dal Verme, era che egli servisse presso la corte ducale di Parma, ipotesi supportata dal fratello maggiore di Lucrezio Annibale, vicino agli ambienti farnesiani. Ottavio Speciano optava piuttosto per la corte imperiale, dove risiedeva a quel tempo il fratello Cesare, che già nel novembre passato gli aveva assicurato che Lucrezio sarebbe stato benvenuto.[44] Il diretto interessato commentava che si sarebbe attenuto al consiglio dei familiari, mostrando un carattere diverso da quello del riottoso Scipione.[45]

Nell’estate di quell’anno egli partì per Praga, come avevano fatto o si apprestavano a fare diversi esponenti di spicco dell’aristocrazia bresciana, dagli Avogadro ai Caprioli. Fatta tappa a Vienna, il giovane fu accolto dal cugino Camillo Avogadro,[46] che lo introdusse a diverse personalità di rilievo:

„Arrivassimo qua … sabbato passato per Dio gratia sani, et la sera mentre ero a letto a dormire mi venne a trovare il signor Camillo Avogadro qual hier mattina mi condusse con buona comitiva di cavallieri a far riverenza al serenissimo arciduca Maximiliano, che mi accolse con allegrissima faccia, et certo io posso vantarmi di havere un cugino molto ben voluto in queste parti …“[47]

Al suo arrivo in Boemia, Lucrezio fu ricevuto favorevolmente dal nunzio e da molti cortigiani: „tutti questi signori principi et baroni et ambasciatori che sono stati visitati da lui gli han fatto tali accoglienze che di maggiori non si fariano ad un principe italiano“ riportava un membro del suo entourage.[48] Nel settembre 1596 il giovane, che aveva preso alloggio presso il nunzio ed era stato nominato gentiluomo di bocca, si era già intrattenuto con i residenti di Venezia e di Spagna e con Francesco Gonzaga, marchese di Castiglione.[49] La vicinanza al nunzio Speciano gli offriva l’opportunità di frequentare interlocutori di prestigio, coi quali era importante costruire buoni rapporti personali; il favore dell’ambasciatore veneziano Francesco Vendramin (1555–1619), in particolare, poteva rivelarsi prezioso per l’esito delle pendenze giudiziarie cui erano affidati gli interessi della famiglia. A differenza del fratello, che aveva soggiornato alla corte in tempo di pace, Lucrezio poteva inoltre assistere all’andirivieni da e per la città boema di militari e diplomatici coinvolti nella guerra d’Ungheria, allora in pieno svolgimento.

Il conflitto era iniziato nel 1593 con l’obiettivo di ridimensionare la potenza ottomana nell’area balcanico-danubiana. Dal punto di vista militare lo scontro si sarebbe rivelato inconcludente, risolvendosi in un susseguirsi di reciproci assedi alle città fortificate lungo il confine, chiavi del passaggio lungo il Danubio. Tra la fine del Cinque e i primi anni del Seicento, il pontefice Clemente VIII aveva accarezzato l’ipotesi della riconquista cristiana dell’Ungheria: a questo fine aveva sfruttato la rete diplomatica della Chiesa per agevolare progetti – rivelatisi irrealizzabili – di lega santa contro gli infedeli, giungendo ad organizzare spedizioni guidate dal nipote Giovanni Francesco Aldobrandini (1545–1601).[50] Le richieste d’aiuto che l’imperatore rivolgeva ai principi italiani erano state raccolte dal duca di Mantova Vincenzo Gonzaga (1562–1612), che tra il 1595 ed il 1601 si sarebbe recato tre volte al fronte con un folto seguito di gentiluomini.[51] La guerra costituiva per Rodolfo II un’opportunità di esaltazione del primato imperiale, cui egli, nonostante si dicesse che fosse dedito più alle „stregherie“ che al governo, mirava con piena convinzione.[52] La crisi „malinconica“[53] che l’avrebbe colto al volgere del nuovo secolo, tuttavia, avrebbe reso pressoché ingestibile la situazione ai vertici dell’Impero: l’intrattabilità del monarca peggiorava un clima già inquinato dalla questione non risolta della successione.[54] Le trattative culminate con la pace di Tsitvatorok (1606) avrebbero interrotto le ostilità dando avvio alla crisi che avrebbe innalzato l’arciduca Mattia, fratello di Rodolfo, alla dignità imperiale.[55]

Durante il soggiorno di Lucrezio, comunque, questi esiti erano ancora lontani, e la città era in quegli anni un crocevia reso particolarmente vivace dal passaggio dei capitani e dei principi impegnati nel conflitto. Il giovane non nascondeva il suo entusiasmo: „per Dio gratia – scriveva alla madre – vo di giorno in giorno prosperando in sanità, et augumentando in acquistarmi gratie, favori et amici in questa corte … il tempo mi apporta d’hora in hora cose qua che in mille anni non si veggono in Italia“.[56]

Il suo soggiorno in città, tuttavia, restava legato alle iniziative del nunzio, che meditava di ricondurlo con sé non appena la sua missione presso la corte fosse terminata; del resto, se Lucrezio avesse deciso di rimanere a Praga dopo la partenza dello Speciano avrebbe dovuto sostenere spese di alloggio che la madre riteneva eccessive.

Nell’aprile del 1597 Lucrezio fu raggiunto dalla notizia della morte prematura della promessa sposa Maddalena: l’evento rimetteva il giovane sul mercato matrimoniale, ponendo la famiglia dinanzi a scelte difficili.[57] Il servitore Antonino Carmiani fece allora recapitare a Giulia Maggi ed a Francesco Gambara la proposta avanzatagli in Praga di dare in sposa al ragazzo una figlia del nobile romano Virginio Orsini: la risposta dei Gambara fu che, nonostante il partito fosse senza dubbio onorevole, non era il caso di trovar moglie a Lucrezio senza prima aver interpellato gli Speciano o almeno il nunzio Cesare; Giulia Maggi si spingeva fino a sostenere „che meglio sia che il lardo di bocca caschi, che i denti, con la riputatione et col disgusto di quelli alli quali per parentela et divotione scambievole siamo tenuti“; in quel momento, evidentemente, il legame con la famiglia milanese era giudicato troppo prezioso perché si corresse il rischio di comprometterlo con decisioni precipitose, essendo stato Lucrezio „donato et dedicato alla volontà del signor Ottavio et signora Giulia Speciana“.[58] La scelta di tener fede a questo impegno assume particolare significato alla luce di quanto trapelava dagli ambienti diplomatici veneziani. Nel maggio di quell’anno l’ambasciatore Francesco Vendramin si sarebbe rivolto a Fabio Orsini – fratello di Virginio – confessandogli la sua insoddisfazione per il contegno dei Gambara, irrispettosi, secondo lui, degli obblighi dovuti a Venezia come loro ‚principe naturale‘:

„Prima perché arditissimamente haveva Vostra Signoria [Lucrezio] col consiglio de suoi parenti pigliata una moglie suddita al Re di Spagna, col quale s’hanno tante gelosie; d’una famiglia che fa particolarissima professione d’haver l’essere da quella Maestà, et di dipender in tutto da essa; ch’ella per elettione era venuta sotto l’educatione et obedienza, nella forma che il mondo sa, con suo poco decoro considerata la qualità et nascimento di lei, di monsignor Spetiani, qual ha Spagna nel cuore; che haveva voluto, senza participatione del suo Prencipe naturale, introdursi et pigliar servitù con la Casa d’Austria, con la quale sono noti gli interessi che tiene la Republica venetiana …“[59]

Erano, come si vede, le compromissioni dei Gambara con la Milano spagnola e la corte imperiale ad indispettire il diplomatico, che rincarava la dose contro il nunzio sostenendo che egli aveva finora mostrato scarsa considerazione nei confronti suoi e di Venezia, „quasi gloriandosi – continuava – di haver alienato un suddito [Lucrezio] alla sua Republica“.[60] Soggiungeva di averne riferito in Laguna, destando il malumore di un patriziato che in quegli anni vedeva moltiplicarsi le ragioni di attrito tanto con la Monarchia cattolica – guardata con sospetto per la sua potenza militare e la sua vicinanza al Papato – quanto con gli Asburgo d’Austria, accusati di incoraggiare la pirateria degli uscocchi.[61] In un clima attraversato da tensioni e sospetti reciproci, che avrebbero trovato sbocco molto più tardi con la guerra di Gradisca (1615–1617), la familiarità di vassalli come i Gambara coi network spagnoli e imperiali non poteva trovare l’assenso di Venezia. L’ambasciatore sapeva come far pesare il suo malcontento: assicurava infatti il suo interlocutore che, se i feudatari bresciani non avessero mutato atteggiamento, avrebbe operato affinché le magistrature venete respingessero le ragioni dei parenti di Lucrezio sui beni del bandito Scipione, „per non far accrescere la superbia, et ardir loro, con l’heredità importante che fossero per havere“. Replicava Fabio Orsini che Lucrezio, ancor giovane, aveva dovuto rispettare il giudizio dei parenti che lo avevano affidato al nunzio, del quale egli sarebbe stato poco entusiasta; inoltre, aggiungeva, c’era la possibilità che Lucrezio prendesse in sposa una sua nipote di casa Orsini, famiglia assai più gradita a Venezia, ed anzi „dipendentissima da quella“;[62] alla notizia Vendramin si sarebbe rallegrato, ed avrebbe assicurato che in tal caso i Gambara sarebbero stati reintegrati nei loro beni: avrebbe accolto nella sua casa lo stesso Lucrezio, se egli avesse deciso di sottrarsi alla tutela del nunzio. Messo al corrente di queste schermaglie, tuttavia, il giovane si sarebbe tirato indietro, giudicando troppo compromettente rinunciare alla protezione del nunzio. Senza contare che la scelta di rompere i legami con gli Speciano implicava in qualche modo la decisione di entrare in serie trattative matrimoniali con gli Orsini, ipotesi scartata dai familiari di Lucrezio: anche perché, come rilevava la madre Giulia Maggi, il versamento di una cospicua parte della dote della fanciulla dipendeva dall’esito di un contenzioso con „il signor di Rossimbergo, ch’è il più ricco barone di questo regno“.[63] La faccenda non ebbe quindi seguito, se si eccettua la caduta in disgrazia di Antonino Carmiani, da molti anni al servizio dei Gambara e colpevole, a loro giudizio, di essersi compromesso nelle trattative senza il loro assenso né quello del nunzio. Nell’estate del 1597 Carmiani sarebbe ripartito alla volta di casa, a Reggio, per curare gli affari della sua famiglia, non senza recriminare per il trattamento riservatogli.

„Gli doveria bastare – avrebbe commentato risentito Lucrezio – d’havermi fatto quasi favola di questa corte, et posto in pericolo di perdere l’amore di monsignor illustrissimo, del signor Ottavio [Speciano] et di tutte le signorie vostre [la madre e i fratelli], senza di nuovo mettermi in canzone.“[64]

Restava aperta la questione matrimoniale: la proposta degli Orsini era stata respinta, ma questo non escludeva soluzioni alternative, tanto più che in quelle settimane era in cerca di un nuovo consorte anche Eleonora Martinengo Colleoni, nipote dell’influente Francesco Martinengo Colleoni (1548–1621), militare da molti anni al servizio del duca di Savoia.[65] L’unione di Lucrezio ed Eleonora avrebbe legato i Gambara ad un personaggio benvisto in Laguna, che l’anno dopo, di ritorno dal Piemonte, avrebbe assunto il comando della cavalleria veneta; la dote della fanciulla, inoltre, ammontava a sessantamila ducati.[66] Bisogna ritenere che il negozio non sia stato più di un vago interessamento, visto che Eleonora, già vedova del vicentino Bernardo Porto, sarebbe andata in sposa al parmense Carlo Sanvitale (in terze nozze, tuttavia, avrebbe sposato proprio il fratello maggiore di Lucrezio, Francesco). Sfumata per Lucrezio anche questa opportunità, si optò per il rinvio della decisione al momento in cui il giovane fosse tornato a casa.

Il suo soggiorno proseguiva tra prestigiosi rendez-vous con alcune personalità di spicco – come il principe di Transilvania Sigismondo Báthory, che gli avrebbe donato „una sabla turchesca di valor di più di trecento scudi“[67] – ed il servizio alla tavola cui era tenuto in qualità di gentiluomo di bocca: ben poco si sapeva circa il suo rientro in Italia, legato, come detto, alla durata della permanenza in città del nunzio. Nell’agosto del 1597 egli si rese protagonista, forse suo malgrado, di un fatto sgradevole: il carteggio parla di un „accidente“ capitatogli con un barone boemo, il quale, risentitosene, avrebbe a più riprese rifiutato qualsiasi accomodamento, preferendo regolare la questione tramite un duello.[68] In attesa che la matassa venisse sbrogliata – Rodolfo II faceva intendere di desiderare una rapida pacificazione –, il ragazzo era stato confinato nella casa del nunzio, da dove scriveva ai familiari di trovarsi „segregato“, lamentando le lungaggini della corte imperiale.[69] Durante il confinamento il giovane era talvolta raggiunto dalle missive del cugino Camillo Avogadro, impegnato al fronte assieme al fratello Paolo. Il 17 agosto Camillo scriveva dall’Ungheria: „Noi siammo sotto Pappa [Pápa] e faciammo la nostra vitta a suono di buone canonate, ma spero che la festa non durerà molto; io sono sanissimo.“[70] La morte l’avrebbe colto nel giro di pochi giorni, durante l’assedio della fortezza, conclusosi con la cattura della piazza da parte dei cristiani. Ferito al fianco da un colpo di moschetto mentre andava all’assalto, il giovane sarebbe spirato quarantott’ore più tardi.[71] La sua disavventura militare avrebbe ispirato il ciclo di affreschi a tema guerresco che abbelliscono il palazzo familiare di Bagnolo Mella (Brescia). Sul soffitto del salone è raffigurato un carro di Marte adorno dello stemma Avogadro su cui svetta lo stendardo imperiale: un’iconografia abbastanza esplicita.[72] Anche qui, una disgrazia familiare contribuiva ad arricchire il patrimonio immateriale del lignaggio, che poteva celebrare la memoria di un martire della crociata d’Ungheria: tassello evidentemente non secondario dell’autorappresentazione di una famiglia che, pure, era universalmente considerata tra le più fedeli a Venezia.

Dopo mesi di reclusione, la questione di Lucrezio con il nobile boemo avrebbe trovato una composizione, a quanto pare anche grazie alla mediazione del duca di Mantova, tornato a Praga per una nuova spedizione in Ungheria: interessamento che, se non altro, ribadisce quanto fossero strette le relazioni tra i feudatari bresciani e la galassia nobiliare dell’Italia padana.[73] Nulla ormai ostacolava il rientro a Brescia di Lucrezio, se non il ritardo della licenza pontificia che avrebbe concesso al nunzio di tornare a casa: quando questa giunse nell’aprile del 1598, il giovane abbandonò Praga e la corte al seguito del suo protettore.[74] Lucrezio sarebbe morto ventiduenne di malattia quattro anni più tardi: il suo apprendistato alla corte cesarea non poté quindi portare frutti significativi alla sua famiglia, non diversamente da quanto era avvenuto per il fratello Scipione. A posteriori, tuttavia, la sua esperienza – che, inserita in un più ampio quadro familiare, appare tutt’altro che episodica – può assumere un significato superiore a quello che poté avere nell’immediato, contribuendo a delineare il profilo di una „multi-fedeltà“ protratta nel tempo e difesa per quanto possibile malgrado le inevitabili tensioni con i vertici del potere veneziano.

Morto Lucrezio, le speranze di „mettere la casa in grandezza“[75] poggiavano ormai in gran parte sul più anziano Francesco. Sarebbe stato lui, tra il secondo ed il terzo decennio del Seicento, a riannodare il filo del discorso, servendo l’imperatore Ferdinando II come ambasciatore ed acquistando, per sé ed i suoi successori, giurisdizione feudale nel Friuli arciducale: muovendosi come sempre in precario equilibrio tra Venezia, Vienna e l’Italia imperiale.

Published Online: 2022-11-18
Published in Print: 2022-11-15

© 2022 bei den Autorinnen und den Autoren, publiziert von De Gruyter.

Dieses Werk ist lizensiert unter einer Creative Commons Namensnennung - Nicht-kommerziell - Keine Bearbeitung 4.0 International Lizenz.

Articles in the same Issue

  1. Titelseiten
  2. Jahresbericht des DHI Rom 2021
  3. Themenschwerpunkt Early Modern Antitrinitarianism and Italian Culture. Interdisciplinary Perspectives / Antitrinitarismo della prima età moderna e cultura italiana. Prospettive interdisciplinari herausgegeben von Riccarda Suitner
  4. Antitrinitarismo della prima età moderna e cultura italiana
  5. Italian Nicodemites amidst Radicals and Antitrinitarians
  6. Melanchthon and Servet
  7. Camillo Renato tra stati italiani e Grigioni
  8. Heterogeneous religion: imperfect or braided?
  9. La religione sociniana
  10. Arminiani e sociniani nel Seicento: rifiuto o reinterpretazione del cristianesimo sacrificale?
  11. Artikel
  12. Das italienische Notariat und das „Hlotharii capitulare Papiense“ von 832
  13. I giudici al servizio della corte imperiale nell’Italia delle città (secolo XII)
  14. Nascita dei Comuni e memoria di Roma: un legame da riscoprire
  15. Verfehlungen und Strafen
  16. La nobiltà di Terraferma tra Venezia e le corti europee
  17. Scipione Gonzaga, Fürst von Bozzolo, kaiserlicher Gesandter in Rom 1634–1641
  18. Il caso delle prelature personali dei Genovesi nella Roma tardo-barocca
  19. In the Wings
  20. Strategie di divulgazione scientifica e nation building nel primo Ottocento
  21. Una „razza mediterranea“?
  22. Zur Geschichte der italienisch-faschistischen Division Monterosa im deutsch besetzten Italien 1944–1945
  23. Forum
  24. La ricerca sulle fonti e le sue sfide
  25. Die toskanische Weimar-Fraktion
  26. Globale Musikgeschichte – der lange Weg
  27. Tagungen des Instituts
  28. Il medioevo e l’Italia fascista: al di là della „romanità“/The Middle Ages and Fascist Italy: Beyond „Romanità“
  29. Making Saints in a Glocal Religion. Practices of Holiness in Early Modern Catholicism
  30. War and Genocide, Reconstruction and Change. The Global Pontificate of Pius XII, 1939–1958
  31. The Return of Looted Artefacts since 1945. Post-fascist and post-colonial restitution in comparative perspective
  32. Circolo Medievistico Romano
  33. Circolo Medievistico Romano 2021
  34. Nachruf
  35. Klaus Voigt (1938–2021)
  36. Rezensionen
  37. Leitrezension
  38. Die Geburt der Politik aus dem Geist des Humanismus
  39. Sammelrezensionen
  40. Es geht auch ohne Karl den Großen!
  41. „Roma capitale“
  42. Allgemein, Mittelalter, Frühe Neuzeit, 19.–20. Jahrhundert
  43. Verzeichnis der Rezensentinnen und Rezensenten
  44. Register der in den Rezensionen genannten Autorinnen und Autoren
Downloaded on 8.9.2025 from https://www.degruyterbrill.com/document/doi/10.1515/qufiab-2022-0013/html
Scroll to top button