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I giudici al servizio della corte imperiale nell’Italia delle città (secolo XII)

Attualità storiografica di un fenomeno trasversale
  • Alberto Spataro EMAIL logo
Published/Copyright: November 18, 2022

Abstract

The article summarizes the research undertaken for my PhD thesis, currently being prepared for publication. More specifically, it attempts to show how the resulting findings can offer a valid contribution to international historiographical debate, with a particular focus on the Italian and German contexts. The research covers various issues: firstly, the participation of Italian iudices in the „Konsensuale Herrschaft“ at the Hohenstaufen court and – from a broader perspective – their contribution to the „Staatlichkeit“ of the medieval Empire. Secondly, their role within the political space of the Italian cities during the phase in which communal institutions originated and developed. Finally, it tackles aspects related to the evolution of legal culture in the context of the European development of Ius commune. Taking into consideration the currently most debated scholarly achievements in the respective fields, it is shown that the presence of Italian iudices at the service of the Hohenstaufen Empire is a transversal historiographical phenomenon that offers multiple avenues of investigation.

1 Gli Staufer nella recente storiografia italiana

Il legame tra Impero romano-germanico e Penisola italiana si attesta tra gli argomenti classici della ricerca storica sul medioevo. A comprovare il peso simbolico del Reich medievale sono, a titolo di esempio, il dibattito tra Julius von Ficker e Heinrich von Sybel alla fine del XIX secolo sulla convenienza dell’Italienpolitik degli imperatori ottoniano-salici, oppure, le riflessioni nella fine degli anni Venti del Novecento di Marc Bloch sulla ‚natura imperiale‘ della Germania.[1] Particolare enfasi è stata poi tradizionalmente attribuita al periodo in cui a cingere la corona imperiale furono i sovrani della dinastia sveva, il cui rapporto con l’Italia fu certamente un aspetto fondamentale della loro politica.

Nonostante la larga messe di studi disponibili si ha come l’impressione che nell’attuale contesto storiografico italiano l’interesse verso l’Impero svevo manchi di un rinnovato slancio, sebbene ciò non valga per l’ambito che riguarda le ricerche sul nostro Mezzogiorno, per il quale, soprattutto grazie all’attività editoriale e convegnistica del Centro Studi Normanno-Svevi, è possibile apprezzare contributi nuovi e di spessore.[2] Con questo non si vuole certo sostenere che gli studiosi attivi in Italia non abbiano offerto validi studi su determinati temi nell’ambito temporale dell’età sveva. Senza risalire oltre l’anno Duemila, sono da menzionare la recentissima biografia di Manfredi confezionata da Paolo Grillo,[3] l’introduzione di Fulvio Delle Donne al mondo culturale della corte di Federico II[4] e la monografia del 2016 di Mauro Ronzani su „Ranieri, Benincasa e il Barbarossa. Peripezie di un culto a Pisa dei secoli XII–XIV“.[5] Inoltre, al tema della memoria sul lungo periodo sono stati dedicati nel 2012 la monografia del già citato Delle Donne sul Fortleben di Federico II[6] e tre anni dopo gli atti dell’importante convegno dal titolo „La distruzione di Milano (1162). Un luogo di memorie“ organizzato congiuntamente dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e il Deutsches Historisches Institut di Roma.[7] Di taglio divulgativo, ma pur sempre documentato e ricco di spunti, è il volume del già citato Grillo sulle „Guerre del Barbarossa“ uscito nel 2014,[8] mentre l’interesse giuridico e segnatamente civilistico fu alla base della pubblicazione dei tre volumi dedicati agli „Inizi del diritto pubblico“ curati da Gerhard Dilcher e Diego Quaglioni: i primi due, usciti nel 2007 e 2009, hanno rispettivamente come focus la legislazione di Roncaglia e quella di Federico II.[9] Nondimeno, vanno ricordati alcuni contributi particolarmente rilevanti in riviste e miscellanee: si pensi a quello di Maria Elena Cortese sui rapporti tra Federico I e l’aristocrazia toscana, allo studio di Grillo che affronta la memoria di Federico I a Milano, al saggio di Ronzani sullo sviluppo delle istituzioni comunali a Pisa e Lucca da Enrico IV al Barbarossa, ai lavori di Alessio Fiore sui beni pubblici dell’Impero nel Regnum Italiae nel XII secolo.[10] Non meno significativi sono gli apporti scientifici derivati dagli studi sulle origini degli Ordini mendicanti e sulla storia del Profetismo: da diversi angoli di osservazione, i lavori di Maria Pia Alberzoni e Gian Luca Potestà hanno gettato luce sulle forme di comunicazione politica e di propaganda nel contesto delle relazioni tra i pontefici e gli imperatori, in particolare durante l’epoca di Federico II.[11]

Ciò che sembra emergere dal quadro testé abbozzato è un interesse sempre presente da parte degli storici italiani, ancorché in forma episodica e comunque tangenziale rispetto a tematiche più ampie come l’aristocrazia, il diritto, il potere signorile, la storia locale e religiosa. Al contrario, si riscontra l’assenza di uno studio organico, che affronti in maniera centrale e mirata un tema specifico dell’Impero svevo e, segnatamente, i suoi rapporti con la Penisola.[12]

2 I giudici imperiali: precisazioni terminologiche e principali linee evolutive

Ciononostante, anche solo sfogliando opere di riferimento come quella di Alfred Haverkamp „Herrschaftsformen der Frühstaufer in Italien“, non è raro trovare tra le ampie informazioni nelle note a piè pagina degli spunti per ulteriori ricerche: è questo il caso dei giudici imperiali dell’Italia centro-settentrionale (Hofrichter), il cui studio sotto il profilo sociale e politico – suggerisce lo studioso – prometterebbe risultati interessanti.[13] I risultati emersi dalla tesi dottorale di chi scrive ha ampiamente confermato l’intuizione dello storico tedesco.[14] Nell’attesa che le nostre ricerche siano date alle stampe e nell’auspicio di suscitare l’interesse della comunità scientifica di lingua sia italiana sia tedesca (ma non solo), ci pare utile offrire alcune basilari indicazioni circa l’oggetto del nostro studio e, servendoci di alcuni esempi, mostrarne i possibili apporti all’attuale dibattito storiografico internazionale.[15]

Innanzitutto, è necessario definire meglio la figura del giudice imperiale, poiché tale definizione può prestarsi a degli equivoci. È noto che a partire dal XII secolo le qualifiche relative alle professioni legali erano piuttosto fluide, sicché la varietà di terminologie che le fonti dei primi decenni del secolo presentano (iudex, legis peritus, causidicus, assessor, advocatus …) non deve indurre a considerare tali definizioni troppo rigidamente: in generale possono essere intese come funzioni esercitate di volta in volta più che cariche stabili.[16] Più nello specifico, quando si prendono in esame iudices recanti l’aggettivo imperialis/regalis o l’apposizione imperatoris/regis, si deve intendere un’ampia categoria di professionisti del diritto, abbondantemente diffusa nel Regnum, i quali ricevevano il potere di sentenziare dall’autorità regia/imperiale.[17] Sebbene in tutti questi casi si possa con piena legittimità parlare di giudici imperiali, noi intendiamo piuttosto designare con tale termine quegli iudices che emettevano dei giudizi per conto del sovrano, sia in modo diretto sia tramite un suo rappresentante. Il primo a individuare questa particolare categoria fu Julius von Ficker nelle sue „Forschungen zur Reichs- und Rechtsgeschichte in Italien“.[18] Egli ne contò una trentina, anche se, sulla base delle nostre ricerche, solo la metà di questi compaiono con assiduità nei più di sessanta atti giudiziari da noi raccolti, pertanto possiamo considerare molti di quelli censiti dall’erudito tedesco come giudici ‚occasionali‘; in ogni caso si trattava di laici provenienti dalla Lombardia (tranne uno dalla Toscana) ed erano molto attivi politicamente all’interno della loro città. Le prime attestazioni risalgono alla quarta spedizione di Federico Barbarossa, ma fu solo dopo la Pace di Costanza (1183) e durante il regno di Enrico VI (1186/1191–1197) che si assistette alla loro massima proliferazione; infine, sebbene alcuni giudici imperiali avessero collaborato anche con Ottone IV e con Federico II nei suoi primi anni di regno, tale ruolo dovette estinguersi in favore di cariche proprie dell’amministrazione del Regno di Sicilia, ossia la Magna curia.

Le ricerche di chi scrive hanno confermato, circostanziato e precisato le osservazioni del von Ficker, andando a restituire un quadro meno confuso sull’intero fenomeno dei giudici imperiali. In tale prospettiva è opportuno evidenziare fin da subito un fraintendimento ingenerato dal pur ricco e puntuale articolo di Gerolamo Biscaro, il quale asserì una correlazione diretta tra l’istituzione dei giudici imperiali e la clausola della Pace di Costanza che riguarda gli appelli per le cause che eccedevano le venticinque libbre:

„In causis appellationum si quantitas XXV libras imperialium excesserit, appellatio ad ipsum licite fiat salvo iure et moribus Brixiensis ecclesie in appellationibus, ita tamen, quod non cogantur in Alamanniam ire, sed imperator habeat proprium nuntium in civitate vel episcopatu, qui de ipsa appellatione cognoscat et iuret, quod bona fide causas examinabit et diffiniet secundum leges et mores illius civitatis infra duos menses a contestatione litis vel a tempore appellationis recepte, nisi iusto inpedimento vel consensu utriusque partis remanserit.“[19]

Lo studioso vide in quei nuntii proprio i giudici imperiali; tuttavia, se ciò fu senz’altro vero ad esempio per Milano, dove furono Passaguerra e Ottone Zendadario a pronunciarsi in appello, ciò non valeva necessariamente per altre aree.[20] Per esempio, a Brescia fu il vescovo a essere responsabile per questo tipo di cause, mentre per la Marca trevigiana fu incaricato il marchese Obizzo d’Este.[21] Certamente gli iudices imperiali pronunciarono diverse sentenze d’appello, tuttavia non fu questa la loro funzione precipua, né tantomeno fecero la loro comparsa solo dopo la Pace di Costanza. Pertanto, prima di contestualizzare tali elementi nel dibattito storiografico, occorre dare conto delle principali linee evolutive dell’attività del ‚tribunale‘ imperiale.

Per gli anni precedenti al 1158 non sono attestate sentenze emesse da giudici italiani per processi che interessavano contendenti del Regnum Italiae: ancora nel 1153, allorché una controversia tra il vescovo di Como e il comune di Chiavenna fu portata davanti alla corte imperiale riunita a Bamberga nel 1153, non vi fu il pronunciamento di un giudice, bensì, com’era uso a nord delle Alpi, dell’imperatore stesso con il consiglio dei grandi del regno.[22] Nondimeno, quando Federico I giunse in Lombardia, si nota come il ruolo della cultura giuridica fu determinante nella distruzione di Tortona nel 1155 e nel primo assedio di Milano nel 1158, poiché la decisione di procedere alla punizione verso le due città venne presa con il consiglio di giudici italiani.[23]

Occorre attendere i mesi successivi alla seconda Dieta di Roncaglia (1158) per individuare dei giudici imperiali che emettevano le loro sentenze per conto della corte, il tutto in particolari sedute presiedute direttamente da Federico I oppure da un suo vicario. In questi primi anni tale ruolo fu sempre ricoperto da un principe ecclesiastico del regno di Germania, come Eberardo di Bamberga, Ermanno di Verden e Daniele di Praga.[24] I loro pronunciamenti erano funzionali all’apparato amministrativo del Regno italico al cui vertice era posto il cosiddetto legato generale per l’Italia, carica ricoperta per la prima volta da Rainaldo di Dassel arcivescovo eletto di Colonia. I vicari scelti da Federico si distinguevano, oltre che per le conoscenze giuridiche, anche per un’alta considerazione dell’honor imperii.[25] Certamente la dimestichezza con il diritto non mancava ai giudici provenienti dalle città italiane che emettevano le sentenze per conto dell’Impero, le quali – in questi primi anni di attività – favorirono sempre gli alleati dell’imperatore. Dunque, non stupisce rilevare l’assenza di giudici imperiali provenienti da Milano, città che pure era ben nota per la competenza dei suoi giuristi e che peraltro fu tra le prime a dotarsi di un consolato specificamente preposto all’amministrazione giudiziaria.[26]

Dopo la disfatta romana del 1167 subita dall’esercito del Barbarossa, i principali protagonisti dell’amministrazione del Regnum Italiae persero la vita, mentre sull’altro fronte, i comuni si stavano organizzando nella Lega lombarda. Durante gli anni di lotta tra questa e l’Impero maturarono rapporti di collaborazione intercomunali che avevano come perno Milano, attorno alla quale si coagularono quelle città che a Costanza si accreditarono come le principali interlocutrici del Barbarossa. In tale frangente, il ruolo dei giudici imperiali tornò di estrema utilità: essi divennero il punto di contatto tra città e corte imperiale, e nei due anni immediatamente successivi le loro sentenze favorirono chiaramente la politica milanese.[27] Anche gli altri componenti del tribunale imperiale cambiarono: se dopo il 1158, infatti, i vicari erano stati esclusivamente principi ecclesiastici tedeschi, in questo secondo periodo, a presiedere le sedute furono quasi sempre vescovi italiani che si distinsero sia per preparazione giuridica e sia per capacità  diplomatiche come, ad esempio, Bonifacio di Novara, Alberto di Vercelli e Guglielmo d’Asti.[28]

La situazione in parte cambiò sotto il governo di Enrico VI, esercitato sulla Penisola come Rex Romanorum dal 1186 e come imperatore dal 1191 fino alla sua morte avvenuta nel 1197. Il giovane Svevo fu abile nel gestire il delicato scacchiere geopolitico lombardo poiché, se da un lato si fece garante di un’alleanza avente come perno Cremona volta ad arginare la crescente influenza di Milano, dall’altro, specialmente dal 1194, si preoccupò affinché fosse mantenuta la pace tra le città padane.[29] In tale quadro i giudici imperiali, assieme ai vescovi presenti a corte, costituivano una sorta di rappresentanza cittadina più o meno stabile, quasi un ‚parlamento‘, che assisteva il sovrano non solo per aspetti tecnico-giuridici, ma anche nelle scelte politiche dello Svevo. Questa tendenza non perdurò sotto Ottone IV e Federico II, allorché il ruolo affatto particolare di questi giudici incise sempre meno sulla politica imperiale, fino a estinguersi del tutto.

I rilievi sin qui proposti permettono di cogliere gli aspetti di maggior interesse che i giudici imperiali possono offrire: l’attività di tale gruppo di professionisti del diritto si qualifica come un vero e proprio fenomeno trasversale, nelle diverse valenze che questo termine può avere. Questa trasversalità emerge, a nostro avviso, in tre ambiti: nei rapporti tra la corte imperiale e i diversi attori politici italiani; nel seno delle varie componenti sociali e politiche che costituivano il contesto cittadino e, infine, nella molteplicità di tradizioni giuridiche che caratterizzava la loro attività. Queste tematiche, a loro volta, intersecano a diverso titolo alcune tra le discussioni storiografiche più attuali.

3 I giudici imperiali e la corte sveva: tra partecipazione al potere e collaborazione interessata

La prima di queste tre sfere di interesse, ossia il rapporto con l’Impero, è senza dubbio quella che consente una maggiore interazione con la storiografia di lingua tedesca. Tra i temi più dibattuti vi è quello della partecipazione al potere regale/imperiale da parte dei grandi del regno, nei termini di quella che Bernd Schneidmüller in un importante saggio del 2000 chiamò „Konsensuale Herrschaft“, concetto che ha contribuito non poco alla comprensione delle dinamiche decisionali in seno alla corte.[30] L’attenzione alle forme di negoziazione del potere da parte dei principali attori del Regno di Germania ha portato alla pubblicazione di lavori decisamente utili per comprendere il funzionamento della politica medievale nelle diverse contingenze storiche. Tra questi studi sono da menzionare, rimanendo ai secoli centrali del medioevo, quelli di Stefan Weinfurter, Jürgen Dendorfer e di Robert Gramsch-Stehfest.[31]

Negli anni più recenti sono stati finanziati dalla Repubblica Federale Tedesca due Sonderforschungsbereiche che hanno approfondito aspetti quali la ‚Cultura del decidere‘ („Kultur des Entscheidens“, SFB 1150 presso la Westfälische Wilhelms-Universität di Münster) e la concezione della potenza e del potere („Macht und Herrschaft – Vormoderne Konfigurationen in transkultureller Perspektive“, SFB 1167 presso la Rheinische Friedrich-Wilhelms-Universität Bonn).[32] Spunti significativi per le nostre riflessioni possono essere attinti da due contributi proposti nell’ambito di questi gruppi di ricerca, segnatamente da quello di Jan Keupp, responsabile per la sezione medievistica nel Sonderforschungsbereich di Münster, e dalla conferenza con la quale il già menzionato Schneidmüller aprì il convegno inaugurale del centro di Bonn.[33] Nel primo di questi contributi Keupp, prendendo in esame il rapporto tra élites e ‚ideologia‘ imperiale durante l’Impero svevo, mostra come questa non fosse affatto un monolite teoretico attorno cui strutturare gerarchie e in base al quale impostare rapporti di forza univoci.[34] Al contrario, si sottolinea come l’idea che legittimava il potere imperiale degli Svevi fosse in costante mutazione: esemplificativo in tal senso fu il ruolo dei giudici bolognesi nel contesto della Dieta di Roncaglia del 1158, i quali, lungi dall’essere meramente subalterni alla corte, misero sì al servizio di essa le proprie conoscenze giuridiche, ma sempre in un’ottica di reciproca collaborazione piuttosto che di una cooptazione gerarchica. Tale osservazione corrobora quanto esposto da Schneidmüller: questi, nel ripercorrere il suo modello di ‚potere consensuale‘ e il relativo dibatto storiografico che ne è scaturito, evidenzia come le forme dell’Herrschaft siano state perlopiù considerate in riferimento ai vertici aristocratici e religiosi della società medievale, pur prestandosi a essere analizzate anche in maniera trasversale a differenti piani sociali, configurando così un potere, oltre che consensuale, ‚intrecciato‘ („verschränkt“).[35] Collaborazione e trasversalità negoziate come modalità di partecipazione al potere nella corte sono categorie che ben si attagliano al gruppo di giudici oggetto del nostro lavoro di ricerca; alcuni di essi, per giunta, avevano relazioni proprio con gli esperti di Bologna, spesso portati come esempio della cooperazione con l’impero.[36]

Tali questioni si collocano nel solco dei temi frequentati ormai da decenni da parte della storiografia di lingua tedesca. Gli studi di Gerd Althoff e Steffen Patzold hanno permesso di compiere grandi passi nello studio delle forme di contrattazione del potere e del tema, a esso legato, della soluzione dei conflitti nel contesto del regno di Germania, caratterizzato dal prevalere, ancora nel pieno medioevo, dell’oralità e della gestualità sulla cultura giuridica e notarile.[37] L’analisi di tali argomenti declinata nel contesto italiano, dove questo tipo di conoscenze e competenze erano molto più sviluppate, consentirebbe di apprezzare ulteriori sfaccettature di queste problematiche storiografiche, tanto più in un luogo di interazione e di decisione così significativo come poteva essere la corte degli Staufer. Passi decisivi, pur con accenti e posizioni in parte differenti, sono già stati compiuti da studiosi come Knut Görich, Christoph Dartmann e Johannes Bernwieser, i quali hanno mostrato come le modalità di interazione tra corte sveva e attori politici italiani potessero presentare caratteri comuni ma anche un continuo tentativo di rimodularsi a seconda delle mutevoli condizioni politiche.[38] Anche in questa prospettiva più ampia, lo studio dell’attività di particolari figure di rappresentanza del potere svevo a sud delle Alpi come i giudici imperiali, coinvolti sia nella soluzione di conflitti processuali sia nella mediazione politica per conto delle loro città di origine, può rivelarsi senz’altro promettente e chiarire in quale misura le sentenze dei giudici giovassero alla politica imperiale o piuttosto agli interessi dei contendenti, nonché saggiare l’effettiva influenza degli iudices sulle iniziative prese in seno alla corte.

4 I giudici imperiali e lo sviluppo delle istituzioni comunali tra progettualità politica e ascesa sociale

Ulteriori stimoli provengono dalla prospettiva offerta dalla storia comunale. Come visto, già il Ficker sottolineò il ruolo di primo piano che i giudici imperiali giocarono nella vita politica e sociale della loro città; non di rado, infatti, li troviamo attestati come consules. Non è certo questa la sede per dare conto del vasto e articolato dibattito sulle origini e lo sviluppo dell’esperienza comunale italiana, tanto più se a esimerci da tale compito è l’ampia disponibilità di recenti e puntuali sintesi.[39] Più specificamente, si vuole mostrare come lo studio dei giudici imperiali possa arricchire il vivace confronto animato negli anni più recenti dalla pubblicazione di Chris Wickham „Sonnambuli verso un nuovo mondo“.[40]

In una rassegna ospitata dalla rivista „Storica“ del 2018 e avente come oggetto il suddetto volume, Alessio Fiore ha sottolineato come il testo del Wickham lasci ancora aperti margini di riflessione sul ruolo dell’Impero nel graduale processo di costruzione dell’autocoscienza cittadina, il quale nell’età di Federico I Barbarossa sarebbe già arrivato a un punto tale da opporre resistenza al potere svevo dopo i decenni di ‚sonnambulismo creativo‘.[41] Nel dialogo tra i due studiosi emerge come già sotto Enrico V l’azione della compagine imperiale nel Regnum Italiae non si concretizzasse più attraverso le strutture gerarchiche tradizionali, ma tramite un’interazione a livello patrimoniale-signorile, tesa ad affermare la propria supremazia nel contado in concorrenza con i rappresentanti delle élites cittadine.[42] Il protagonismo di queste ultime lascerebbe trasparire, se non propriamente un’autocoscienza identitaria definita, di certo una progettualità concreta nell’affermare la propria egemonia, anche prima dell’ingresso di Federico Barbarossa nello scacchiere politico italiano.

Indicativi in tal senso sono gli studi di Andrea Castagnetti su alcuni processi nel Veronese dei primi anni Cinquanta, per la cui risoluzione furono chiamati in qualità di arbitri degli esperti di diritto Milanesi, tra cui eccelleva Oberto dall’Orto.[43] Lo studioso notò, sulla scorta dei lavori di Emanuele Conte, come il linguaggio usato nei pronunciamenti arbitrali per definire le comunità cittadine, in questo caso quelle di Ferrara e Verona, scientemente definite res publicae, fosse fondato su nozioni romanistiche.[44] Ciò è ancor più significativo se si considera che a pronunciarsi in un ambito geografico così distante dalla sua città d’origine fu il milanese Oberto dall’Orto, considerato per giunta forse il massimo rappresentante di quel gruppo di origini non aristocratiche che secondo Wickham trainò lo sviluppo comunale di Milano.[45] Abbiamo già accennato al fatto che dalla città lombarda – principale interlocutrice dell’Impero sia in termini conflittuali sia di collaborazione – non provenne alcun giudice imperiale fino alla Pace di Costanza, mentre dal 1184 si attesta l’intensa attività in tale veste dei milanesi Passaguerra e Ottone Zendadario.[46]

Tale evidenza assume un certo interesse, tenendo conto che questi due giudici furono con ogni probabilità in stretto contatto con Oberto dall’Orto e Gerardo Cagapesto, con i quali condividevano le origini non aristocratiche, l’attivismo politico e, naturalmente, una spiccata preparazione giuridica.[47] Le biografie di questi due giudici testimoniano non solo la loro versatilità professionale, ma anche una consapevolezza politica condivisa da un determinato gruppo di cittadini, che nel caso di Milano fu il principale protagonista dell’esperienza comunale nel secolo XII.[48] Non meno importanti sono poi i legami tra i giudici e le istituzioni ecclesiastiche della civitas, testimoniati, sempre per il caso di Milano, dai numerosi compiti di rappresentanza legale svolti sia da Ottone Zendadario sia da Passaguerra per conto della Chiesa cittadina e di altri enti religiosi.[49]

Certamente un’osservazione di tipo biografico e prosopografico dei giudici imperiali che tenga conto del loro ruolo all’interno della loro città di origine, non può che giovare al dibatto storiografico attuale sulla nascita e lo sviluppo delle istituzioni comunali. Ciò permetterebbe di comprendere meglio l’azione dei rappresentanti delle élites cittadine nei termini di una progettualità politica condivisa dall’intera communitas (o perlomeno da un particolare gruppo sociale) ad intra come ad extra dello spazio civico.

5 I giudici imperiali nella cultura e nella pratica giuridica

Trattandosi di iudices, non ci si può esimere dall’analizzare il fenomeno anche da una prospettiva storico-giuridica, pena il non comprendere a pieno sia la formazione culturale sia il loro modus agendi processuale. Studiosi come Peter Classen, Johannes Fried, Ennio Cortese, Antonio Padoa Schioppa hanno contribuito a delineare efficacemente la figura dello iudex cittadino del XII secolo sotto il profilo sia sociale-politico sia culturale.[50] Sebbene nessuno di costoro abbia esaminato in maniera organica il fenomeno dei giudici imperiali di età sveva, lo studio di questi ultimi può beneficiare delle ampie ricerche finora condotte, per poi a loro volta offrire ulteriori spunti. I lavori di Classen e Fried hanno avuto il merito di considerare l’attività dei giudici italiani con particolare riferimento alla loro incidenza sulla vita pubblica cittadina. A tal proposito è necessario chiedersi se i giudici imperiali si considerassero prevalentemente membri di un gruppo politico o piuttosto professionale, tenendo conto, da un lato dell’osmosi tra diritto e politica nelle città, dall’altro le difficoltà di individuare per il secolo XII un vero e proprio ‚ceto‘ di professionisti di diritto.[51]

D’importanza non secondaria per lo studio dei giudici imperiali è poi la varietà di scuole di diritto oltre a Bologna, su cui il Cortese ha posto l’attenzione. Sebbene per nessuno dei nostri iudices sia attestata la frequenza dello Studium felsineo, i legami con questa esperienza culturale sono testimoniati da alcune evidenze. Non solo, come visto, le prime fasi della loro attività sono di poco successive alla seconda Dieta di Roncaglia, evento al quale sono tradizionalmente associati i quattro doctores di Bologna, ma perfino uno dei primi giudici imperiali, Bezo, originario di questa città, sembra aver avuto legami diretti con questi esperti.[52] Con questo non si vuole certo asserire un’adesione incondizionata ai progetti imperiali, tanto più alla luce delle ricerche di Emanuele Conte, che hanno ormai convincentemente dimostrato come non sia più possibile parlare dei giudici e degli esperti che collaborarono con il Barbarossa nei termini di una mera sottomissione al potere svevo.[53] Ciò lo si desume con chiarezza dalle diverse interpretazioni del diritto giustinianeo attestate nel XII secolo: anche quando esse tendevano a sostenere le prerogative del sovrano, non si mancava di ribadire e tutelare le garanzie giurisdizionali e fiscali delle città. Tale rapporto di collaborazione – e non di mera esecuzione – è una delle cifre che caratterizzò, specie da Costanza in poi, anche l’attività dei giudici imperiali.

La sinergia tra giudici italiani e corte sveva non si concretizzò solamente in esiti politici e giudiziari, ma fu alla base di un’influenza anche di tipo culturale sulla curia, favorendo un transfert di conoscenze giuridiche tra regno italico e germanico.[54] Ciò non riguardava solamente il diritto romano, ma, stando a quanto emerso dai risultati del gruppo di ricerca coordinato da Jürgen Dendorfer, il canale attraverso cui il diritto feudale giunse Oltralpe fu nientemeno che il già citato Oberto dall’Orto nell’ambito della Dieta di Roncaglia nel 1154.[55] I giudici imperiali, rappresentando a livello giuridico il collegamento più stretto con la corte, giocarono senz’altro un ruolo di primo piano in questo processo di influenza culturale. Non a caso il già citato Passaguerra possedette (e annotò) per un certo periodo di tempo un codice di vario contenuto giuridico, dove erano trascritti, oltre a testi di genere romanistico, di diritto canonico e longobardo, pure una delle due lezioni più antiche delle „Consuetudines feudorum“ di Oberto dall’Orto, cui – come visto – Passaguerra era stato con ogni probabilità molto vicino.[56]

Un’altra personalità di notevole rilievo culturale fu il piacentino Ugo Speroni.[57] Questi, appartenente a una delle famiglie più importanti della sua città, impiegò le proprie conoscenze giuridiche e il prestigioso ruolo di giudice imperiale per tutelare i diritti del consorzio cui la sua casata faceva riferimento, specialmente per quel che riguardava la giurisdizione sul porto di Piacenza, contesa dal potente monastero femminile bresciano di Santa Giulia.[58] Ciò che più interessa sottolineare in questa sede sono, tuttavia, i significativi rapporti che Ugo aveva con uno degli intellettuali più in vista dell’epoca: Vacario, un magister che intraprese una brillante carriera ecclesiastica in Inghilterra, dove professò insegnamenti romanistici e divenne uno dei principali referenti della Sede apostolica.[59] I due, già compagni di studio di diritto (forse a Bologna), tennero vivo il loro rapporto intellettuale, come testimonia uno scritto di Vacario nel quale egli confutava le tesi eterodosse dell’amico piacentino.[60] Senza voler entrare nel merito della diatriba, ci sembra di notevole interesse il rapporto tra il giudice e uomo di politica padano con il chierico magister attivo in Inghilterra, come pure il loro scambio di argomentazioni ricco di citazioni canonistiche e romanistiche, proprio nell’epoca della graduale affermazione dello ius commune europeo.

Un ultimo aspetto di natura giuridica che merita di essere considerato è quello procedurale. Se è pur vero che non fu prerogativa precipua il sentenziare in cause d’appello, certo è che i nostri iudices si pronunciarono in diversi processi di questo tipo.[61] L’attenzione alla procedura era senz’altro caratteristica peculiare dei giudici imperiali, al punto che, sebbene in casi molto rari e tutti peraltro risalenti al periodo inaugurato con la Pace di Costanza, il rigore giurisprudenziale portava a emettere un giudizio contrastante la politica imperiale.[62] Riguardo a questi temi i lavori di Wickham sulle soluzioni delle dispute nella Toscana del XII secolo hanno mostrato come non sia sufficiente prendere in considerazione solo gli aspetti tecnico-procedurali di un processo, ma anche e soprattutto il ruolo sociale dei contendenti.[63] Cionondimeno gli studi di Linda Fowler-Magerl e, per l’ambito comunale italiano, di Massimo Vallerani spingono a una maggiore attenzione per gli aspetti processuali, contribuendo a evitare il rischioso luogo comune secondo cui una società nella quale i processi erano frutto di una ‚giustizia negoziata‘ sarebbe stata caratterizzata da una statualità incompiuta e ancora arcaica.[64] Tale problematica assume un rilievo tutto particolare, laddove una delle controparti era un alleato del sovrano – se non addirittura egli stesso – e a emettere il giudizio personalità come i giudici imperiali, così strettamente legati alla corte sveva.

6 Per concludere

Gli approfondimenti tematici proposti ci sembrano mostrare la duttilità e le potenzialità che le nostre ricerche sui giudici imperiali possono offrire. Naturalmente non si è voluto esaurire il novero dei possibili spunti, ma solo esemplificare alcune intersezioni tematiche di un fenomeno storico caratterizzato da una spiccata ‚trasversalità‘. I giudici imperiali agirono, infatti, tra corte imperiale e mondo cittadino, come pure tra le varie componenti sociali che lo costituivano; allo stesso modo le loro competenze spaziavano dal diritto colto a quello consuetudinario, mentre i loro processi oscillavano tra i dettami della procedura e l’interesse delle parti.

In ultima analisi, vogliamo sottolineare come, in un certo qual modo, questa ‚trasversalità‘ si riscontri pure a livello storiografico, giacché risulta evidente, osservando gli studi che si ha avuto modo di menzionare, come queste tematiche stimolino, ieri come oggi, l’interesse di studiosi attivi soprattutto in Italia e in Germania: un’ulteriore prova di come le storie di questi due paesi non possano prescindere l’una dall’altra.

Published Online: 2022-11-18
Published in Print: 2022-11-15

© 2022 bei den Autorinnen und den Autoren, publiziert von De Gruyter.

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  22. Zur Geschichte der italienisch-faschistischen Division Monterosa im deutsch besetzten Italien 1944–1945
  23. Forum
  24. La ricerca sulle fonti e le sue sfide
  25. Die toskanische Weimar-Fraktion
  26. Globale Musikgeschichte – der lange Weg
  27. Tagungen des Instituts
  28. Il medioevo e l’Italia fascista: al di là della „romanità“/The Middle Ages and Fascist Italy: Beyond „Romanità“
  29. Making Saints in a Glocal Religion. Practices of Holiness in Early Modern Catholicism
  30. War and Genocide, Reconstruction and Change. The Global Pontificate of Pius XII, 1939–1958
  31. The Return of Looted Artefacts since 1945. Post-fascist and post-colonial restitution in comparative perspective
  32. Circolo Medievistico Romano
  33. Circolo Medievistico Romano 2021
  34. Nachruf
  35. Klaus Voigt (1938–2021)
  36. Rezensionen
  37. Leitrezension
  38. Die Geburt der Politik aus dem Geist des Humanismus
  39. Sammelrezensionen
  40. Es geht auch ohne Karl den Großen!
  41. „Roma capitale“
  42. Allgemein, Mittelalter, Frühe Neuzeit, 19.–20. Jahrhundert
  43. Verzeichnis der Rezensentinnen und Rezensenten
  44. Register der in den Rezensionen genannten Autorinnen und Autoren
Downloaded on 12.9.2025 from https://www.degruyterbrill.com/document/doi/10.1515/qufiab-2022-0010/html
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