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Nascita dei Comuni e memoria di Roma: un legame da riscoprire

  • Maria Pia Alberzoni EMAIL logo
Published/Copyright: November 18, 2022

Abstract

The historiography on the Italian Communes has investigated the motives behind the new city governments. Jean-Claude Maire Vigueur and Chris Wickham have stressed different rationales in the actions of the communal elites. However, we should avoid underestimating the cultural power of a model still very much present in the Middle Ages: imperial Rome. In the crisis linked to the struggle for investiture, city elites were inspired by the Roman institutional model, albeit following different ‚models‘ (classical, Byzantine, Carolingian and Saxon). The communal world interpreted this legacy with the contribution of the Roman Church. In this context, the use of spolia as an instrument of legitimization, stressed by Arnold Esch, should be re-evaluated. The interpretation in a Roman key of institutions, laws, political and artistic languages presupposed a sound cultural education on the part of the people of the commune, based on the classical tradition and, politically, on Roman law and institutions. These concepts were visually expressed in the new artistic style – later called the ‚Romanesque‘ due to the obvious desire to reinterpret classical models. Finally, the equestrian group of Oldrado da Tresseno (1233) on the facade of the Palazzo della Ragione in Milan, the only known example of this type of municipal political representation in the first half of the 13th century, allows us to assess the power of the Roman model in legitimising municipal policies.

Doris und Arnold Esch in Dankbarkeit

Roma: una memoria mai sopita

L’espressione ‚nascita dei Comuni‘ presente nel titolo di questo contributo o, più in generale, la definizione di un’età comunale, necessita innanzi tutto alcune precisazioni. Infatti, con ‚nascita dei Comuni‘ non intendo qui fissare o limitare la mia attenzione sul momento istitutivo dei Comuni, un momento per altro impossibile da definire perché, come sovente capita nello studio delle istituzioni medievali, si può ipotizzare l’esistenza di una nuova forma di governo solo sulla base dei suoi primi atti pubblici, giacché non sono noti documenti ufficiali di fondazione.[1] L’attenzione si appunta pertanto sulle prime attestazioni documentarie utili per individuare un governo comunale e le sue autorità, i consoli, nella consapevolezza che la nascita effettiva dell’istituzione preceda necessariamente di qualche tempo la menzione dei suoi esponenti già attivi sulla scena pubblica.[2]

Non cercherò dunque di stabilire date di fondazione o precedenze cronologiche, ma concentrerò l’attenzione sull’influsso esercitato su queste nuove istituzioni fin dal loro sorgere dal modello di Stato ideale risalente a Roma e all’impero romano, giacché, secondo una efficace definizione di Andrea Giardina e André Vauchez, „il mito di Roma non rimandava soltanto a una città o a una storia santa“ – come nel caso di Gerusalemme – „ma anche all’impero di cui era stata il centro e alla civiltà che vi si era sviluppata“, una civiltà che non cessò mai di apparire „come una forma di vita superiore a livello materiale e morale“.[3]

Accenno ancora al fatto che gli uomini di cultura dell’Europa medievale sentivano con forza il fascino dell’impero romano, un impero che aveva assunto caratteri cristiani fin dal IV secolo e che era considerato provvidenziale per il governo del mondo intero, giacché al suo interno si collocavano le autorità universali, vale a dire il papa e l’imperatore. Non bisogna poi dimenticare che per tutto il medioevo in Oriente si mantenne vivo l’impero romano vero e proprio, sopravvissuto a grandi difficoltà e nei secoli XI e XII capace ancora di grande vitalità politica e culturale.[4] Le interpretazioni della storia elaborate da san Girolamo e da sant’Agostino nel V secolo trovarono nelle „Historiae adversus paganos“ del contemporaneo Orosio duraturo inquadramento, conducendo alla identificazione della quarta bestia che il profeta Daniele vide sorgere dal mare, con il quarto degli imperi mondiali che si erano succeduti nella storia, cioè con l’impero romano: esso era dunque l’ultimo, quello destinato a durare fino alla fine dei tempi, vale a dire fino al ritorno di Cristo.[5] Pertanto tale ordinamento costituiva una sorta di necessità entro la visione della storia come storia della salvezza. Basti pensare quanto ancora questa interpretazione abbia influito sul pensiero di Dante che, oltre a indicare Cristo stesso come „cive romano“ nel XXXII canto del „Purgatorio“, nella „Monarchia“ espresse con forza la sua convinzione circa la funzione provvidenziale dell’impero romano, a sostegno di colui che avrebbe dovuto restaurarlo, Enrico VII di Lussemburgo.[6]

In questo intervento, dunque, non intendo riferirmi tanto alla fase degli inizi dei Comuni, fase come si è visto difficilmente individuabile, ma intendo piuttosto considerare quelli che potrebbero essere definiti ‚motivi ispiratori‘ alle origini dei Comuni, motivi che, a prescindere dalla fortissima attitudine sperimentale che contraddistinse tutte le fasi della vita comunale, si mantennero nella sostanza costanti.[7]

Non va poi sottovalutato un altro elemento che la storiografia ha recentemente messo in luce: l’esperienza di governo autonomo della città di Roma, culminata con la renovatio Senatus del 1143, in realtà aveva radici ben più profonde e per molti aspetti la sua evoluzione può essere letta entro un „parallelismo con la vicenda di altre città comunali“.[8] Se dunque è possibile „cogliere la Roma comunale come un paradigma utile“, non è da sottovalutare la forza di attrazione esercitata dall’Urbe anche dal punto di vista istituzionale, oltre che culturale in senso lato.[9]

L’interesse della storiografia

La storiografia italiana è solita indicare con età comunale, il periodo che si colloca tra la fine dell’XI e la metà del XIII secolo e che si connota per la grande vivacità e creatività istituzionale di quella che è stata definita l’Italia delle città, vale a dire grosso modo la parte centro-settentrionale della penisola.[10] Fu infatti Carlo Cattaneo alla metà del XIX secolo, di fronte all’assenza di uno stato nazionale, a rivolgere particolare attenzione al fenomeno urbano, individuato come premessa e culla dello sviluppo culturale nel Rinascimento.[11]

Indubbiamente è una caratteristica della storia italiana la persistente centralità dei centri urbani dal tardo antico e nell’alto medioevo, quando le città, sebbene ridimensionate, mantennero il fondamentale ruolo di centro amministrativo del territorio circostante, sia dal punto di vista ecclesiastico (diocesi) sia da quello del potere pubblico: i duchi longobardi prima e i conti franchi poi, infatti, si stanziarono in esse.[12] Si comprende così come il Cattaneo trovasse nella città, considerata come „principio ideale della storia italiana“, la giustificazione in sede storica per propugnare la costruzione di uno stato unitario ma federale, che tenesse conto delle diverse identità cittadine.[13] Nell’orizzonte di tale dibattito, che fu segnato da convinto patriottismo, si volle valorizzare l’originalità delle nuove istituzioni comunali, con la conseguenza di relativizzare le eredità culturali che pure concorsero alla loro nascita. La storiografia risorgimentale italiana – riprendendo in gran parte le tesi espresse dallo storico ginevrino, ma di origini toscane, Jean-Charles Léonard Sismonde de Sismondi nella monumentale „Histoire des républiques italiennes au Moyen Âge“ (1807–1818)[14] – esaminò con particolare attenzione l’affermazione delle libertà ‚repubblicane‘ proprie dei Comuni italiani, quali antesignane della libertà dei moderni. Per il Sismondi, „lo studio e l’esaltazione del passato comunale implicavano l’adesione a un modello che prevedeva una nazione in grado di autogovernarsi attraverso istituzioni e scelte che mettevano al centro della vita pubblica i cittadini“.[15]

Dagli ultimi decenni del XX secolo la storiografia, e non solo quella italiana, ha manifestato un rinnovato interesse per i Comuni. A proporre nuove interpretazioni furono soprattutto le scuole di Giovanni Tabacco a Torino, di Cinzio Violante a Milano e a Pisa, di Gina Fasoli e di Ovidio Capitani a Bologna, fino a quella facente capo a Jean-Claude Maire Vigueur (Firenze e Roma), ora vivacemente rappresentata a Firenze da Andrea Zorzi e da altri ‚giovani‘ ricercatori: è dunque in atto una sostanziale rivisitazione dei luoghi comuni sedimentatisi nella storiografia ‚comunalistica‘.[16] Nel medesimo periodo nuovi e decisivi contributi, soprattutto attenti ai rapporti Comuni-impero e alla storia della città, sono venuti dagli studi dedicati al mondo comunale da parte dalla storiografia europea e, con particolare intensità, da quella in lingua tedesca, basti qui solo accennare ai numerosi contributi di Hagen Keller e dei partecipanti al Sonderforschungsbereich „Pragmatische Schriftlichkeit“ a lungo attivo presso l’Università di Münster.[17]

Roma e la sua percezione

Un sistema di governo come quello comunale, continuamente suscettibile di correzioni, adattamenti e innovazioni, presupponeva una larga partecipazione dei cives, se non direttamente alla progettualità istituzionale, almeno alle assemblee, come pure alle azioni militari promosse dalla città. Questo impegno richiedeva una forte elaborazione culturale, con finalità politiche – si trattava infatti di ‚inventare‘ nuove realtà istituzionali e di trovare una giustificazione valida per la loro creazione, in quanto esse non nascevano dall’alto, ma risultavano totalmente sovversive, addirittura antagoniste del potere imperiale, quel potere che Federico Barbarossa e poi Federico II intendevano fondare sul riscoperto diritto romano, considerato diritto imperiale.[18]

Proprio la nuova valorizzazione del diritto romano ad opera dei maestri dello studio Bolognese portò con sé, da una parte, la migliore conoscenza degli usi e dei costumi romani, dall’altra le istituzioni politiche, il loro funzionamento e la riflessione sull’esercizio del potere. Ciò spiega perché all’inizio dei regimi comunali spesso i consoli avevano una buona formazione giuridica ed era la conoscenza delle leggi e delle consuetudini a renderli famosi anche al di fuori della loro città e ad accreditarli come validi governanti.[19]

L’assunzione del modello di Roma repubblicana, scelto dai Comuni nella loro fase originaria, richiedeva a chi avrebbe svolto compiti di carattere amministrativo, oltre alle pur sempre necessarie competenze di carattere militare, una adeguata formazione culturale e giuridica, anche solo per dare ragione dell’incarico assunto.[20] I Comuni, inoltre, guardavano al modello di governo offerto dall’impero romano – un termine che rievocava sia l’impero di Augusto e quello tardo-antico sia quello retto dagli imperatori delle casate tedesche – e che costituiva in ogni caso l’orizzonte politico-mentale entro il quale essi si muovevano.[21] In considerazione dei modelli di riferimento tratti dal bagaglio della cultura classica, sorge naturale la domanda circa i canali di trasmissione di tali conoscenze, attraverso i quali anche i laici illitterati potevano fruirne. La risposta più semplice a tale domanda è offerta dalla costatazione che nella penisola italiana l’esercizio della scrittura nel redigere atti non conobbe interruzioni significative nemmeno nell’alto medioevo:[22] per la formazione dei notai, che per tutto il medioevo continuarono a rogare i loro atti in latino, nelle città italiane furono attive scuole laiche di grammatica latina, indispensabile per poter apprendere almeno i rudimenti di quella lingua, per conoscere i testi di carattere giuridico e, infine, per poter essere avviati alla professione di giudici e di notai.[23] Alla base della formazione che si impartiva in queste scuole era lo studio della grammatica latina – chiave di accesso alla cultura europea fino a tutto il XVIII secolo – e per lo studio della lingua latina si ricorreva, anche a sillogi confezionate ad hoc, a testi di autori latini, tra i quali molti trattavano la storia di Roma o delle sue conquiste.[24]

Quella del notaio era una professione assai diffusa e talvolta era esercitata accanto ad altre attività, basti solo accennare che alcune ricerche hanno messo in luce il numero esorbitante di notai nelle città medievali.[25] Si tratta di dati che sono suggeriti dal numero esiguo di atti rogati da alcuni notai – si tratta di dati che in ogni caso vanno assunti con cautela, in considerazione della elevata possibilità di dispersione dei documenti – come pure dal fatto che alcuni notai esercitarono anche altre attività a servizio dell’amministrazione cittadina. Bonvesin da la Riva, oramai negli ultimi decenni del XIII secolo, nel suo „De magnalibus Mediolani“ composto nel 1288, riporta con meticolosa precisione alcuni significativi dati, tra i quali quello che in città erano attivi circa 1500 notai, 120 esperti di diritto, sia civile che canonico, 28 medici, 120 chirurghi (naturalmente secondo l’accezione ampia del termine), mentre solo 8 erano i professori di grammatica, più di 70 i maestri elementari e 14 i dottori esperti nel canto ambrosiano.[26] In una città che contava tra i 175 000 e i 200 000 abitanti la presenza di 1500 notai era senz’altro significativa! Così pure il rilevante numero di esperti in utroque iure comportava che costoro si fossero formati in una delle scuole giuridiche attive a Bologna o nella regione – indagate da Johannes Fried in un esemplare studio del 1974 – oppure in quella del sacro palazzo di Pavia, la cui fondazione risaliva addirittura a Carlo Magno, oppure ancora, per gli ecclesiastici, nelle scuole cattedrali.[27]

Si intende che, oltre alle scuole cittadine per lo più legate a singoli maestri, una parte non secondaria nella diffusione di una cultura centrata sul modello romano fu svolta dalle scuole ecclesiastiche, segnatamente da quelle istituite presso le cattedrali, giacché la storia dell’impero romano, in quanto stabilito entro un disegno provvidenziale, aveva un suo peso fondamentale nel quadro della storia della salvezza.[28]

Il particolare sviluppo politico delle città italiane e la loro capacità di dare vita a nuove istituzioni fu dunque possibile per l’alta considerazione del sapere letterario e giuridico e, di conseguenza, per la diffusa conoscenza – anche tra i laici – del passato e di un passato che non si considerava, come poi fecero gli Umanisti, come una realtà eccezionale ma cristallizzata in un tempo non più raggiungibile.[29] Per gli uomini delle città italiane nei secoli centrali del medioevo Roma era una realtà ben presente, che aveva a che fare – a partire dalla lingua – con la vita culturale, politica e religiosa del loro tempo, con la quale, anzi, convivevano, anche se non era loro necessario conoscere la Roma ‚reale‘, la città eterna, ma era l’idea (o il mito) di Roma a costituire un indiscusso modello di vita politica e civile.[30] D’altra parte il mondo delle città comunali produsse frutti notevoli, se solo consideriamo gli autori del cosiddetto preumanesimo padovano, in primo luogo il notaio Albertino Mussato, vissuto tra 1261 e 1329, anch’egli, come il suo contemporaneo Dante, deciso sostenitore di Enrico VII di Lussemburgo, al quale dedicò una „Historia Augusta Henrici VII Caesaris“. Albertino fu autore di un numero impressionante di opere di carattere storico, quali il „De gestis Italicorum post Henricum VII Caesarem“, il „De traditione Padue ad Canem Grandem“, il „Ludovicus Bavarus ad filium“, la tragedia „Ecerinis“ (su Ezzelino da Romano), oltre a un discreto corpus di „Epistolae metricae“ e di opere di carattere agiografico.[31] Alle origini dell’Umanesimo fu dunque la rinnovata storiografia, perlopiù scritta da notai, a dare nuova linfa a una cultura particolarmente viva in ambito cittadino, ma politicamente centrata su Roma e protesa a imitare il mondo classico e a esprimerne una rinnovata conoscenza, a cominciare dalla lingua dei classici. Notiamo che in tale milieu culturale ben si colloca anche l’opera del noto contemporaneo del Mussato, Dante Alighieri.[32]

Rappresentare la continuità

Il modello offerto dalle istituzioni romane e dalla cultura latina – soprattutto letteraria e giuridica – fu dunque coscientemente perseguito dai Comuni che, rifacendosi ad esso, miravano a legittimare le loro iniziative e la loro stessa esistenza. Si trattò, peraltro, non solo di una imitazione passiva, ma anche di una imitazione ‚creativa‘.

Non bisogna infatti dimenticare che i Comuni furono una costruzione ardita, sorta, come si è soliti dire, dal basso e, almeno agli inizi, con una funzione di supplenza temporanea dei precedenti poteri in crisi.[33] Essi non intendevano affatto porsi al di fuori dell’ordinamento imperiale, entro il quale si collocavano idealmente, e ricorsero perciò alla copertura giuridica offerta dai vescovi che, almeno nel Regnum Italie, fino alla fine del XII secolo furono i principali interlocutori dei re e degli imperatori, nonché i rappresentanti delle rispettive città presso la corte regia o imperiale. La necessità di avere una legittimazione per le proprie iniziative politiche e giudiziarie favorì l’attuazione di una sorta di „sintesi istituzionale tra vescovo e città“, secondo l’efficace definizione di Giovanni Tabacco.[34] È questo il motivo per cui agli inizi della vita comunale le più importanti decisioni erano prese nel palazzo del vescovo, oppure di fronte alla cattedrale o, addirittura, al suo interno. D’altra parte, l’utilizzo di spazi sacri come luoghi per assemblee di carattere politico o giudiziario risaliva al periodo altomedievale: basti pensare che già l’Editto di Rotari (643) riconosceva carattere deliberativo al conventus ante ecclesiam, vale a dire all’assemblea convocata davanti a una chiesa.[35]

Assieme a questo artificio giuridico, i Comuni individuarono nel reimpiego di materiale proveniente dai monumenti antichi, ancora facilmente reperibile nelle città di tradizione romana, un’importante legittimazione della loro stessa esistenza.[36] Alcune città, poi, non nascondevano le loro ambizioni – in campo ecclesiastico come pure in quello civile – rivendicando il titolo di Roma secunda: mi riferisco soprattutto a Milano, a Ravenna e a Pavia e, oltralpe, a Treviri, ad Aquisgrana e a Bamberga.[37] Milano era stata residenza imperiale per oltre un secolo,[38] Ravenna le era succeduta in questa funzione nel 402, per poi divenire con Giustiniano sede dell’esarca, il rappresentante dell’impero in Occidente. Da Ravenna Liutprando o Astolfo, durante le vittoriose campagne militari che avevano loro consentito di conquistare la città nell’VIII secolo, avevano portato a Pavia la statua del Regisole, „la cui appropriazione rivela un intento politico di gran lunga prevalente su quello del possesso di una reliquia del passato“.[39] Sempre da Ravenna Carlo Magno aveva portato ad Aquisgrana una statua equestre di Teoderico, da lui ritenuta di Costantino, per collocarla accanto al palazzo imperiale e legittimarlo quasi si trattasse di un edificio dell’Urbe.[40]

I Comuni, al fine di ottenere la piena legittimazione per la loro esistenza anche in assenza di un riconoscimento di carattere giuridico, fecero ampio e consapevole ricorso al materiale proveniente da edifici romani e collocato in bella vista nei luoghi più significativi per il governo comunale. Come ha convincentemente affermato Arnold Esch:

„a partire dall’XI, ma soprattutto dal XII secolo …, spesso in connessione con la … loro [dei Comuni] presa di coscienza, … l’antichità diventa elemento essenziale della propria storia cittadina, l’antichità diventa elemento indispensabile della propria identità comunale. Questo viene evidenziato posizionando dei pezzi antichi … in punti politici centrali; lì dove vengono pronunziate le sentenze, lì dove vengono proclamate le comunicazioni ufficiali, lì dove il nuovo podestà fa il suo giuramento d’ufficio, in breve: il simbolismo politico del Comune viene spesso rappresentato da pezzi antichi. … Accanto a questo reimpiego intenzionale di spolia, questa ‚archeologia politica‘ – sono ancora parole di Arnold Esch –, i Comuni strumentalizzarono l’antichità anche in un altro modo per la propria legittimazione, la propria autonomia, la propria identità. Così si inventarono fondatori di città mitici, con i quali ci si poteva vantare con i Comuni vicini …“.

Oppure ci si ricordava di figli importanti vissuti in epoca romana:[41] Mantova legò la sua gloria a quella di Virgilio, Padova a quella di Livio, Como a quella di Plinio, Sulmona a quella di Ovidio.[42] Il poeta padovano Lovato dei Lovati nel 1274 fu addirittura convinto di aver rinvenuto le spoglie di Antenore, mitico personaggio fuggito da Troia con la famiglia, che nel 1185 a. C. risalendo il Brenta avrebbe fondato Padova.[43] Il fascino dell’antico induceva questi intellettuali a incredibili costruzioni mentali, pur di provare la dignità e l’antichità della loro patria.

Le città che non potevano vantare un passato ‚romano‘, basti qui accennare ai ben noti casi di Pisa, di Venezia, di Genova e, più tardi, di Firenze, cercarono di procurarsi pezzi significativi di monumenti dell’antichità, preferibilmente provenienti da Roma o dalla regione circostante nel caso di Pisa, oppure da Costantinopoli o dalle città della Dalmazia, nel caso di Venezia.[44] Si tratta di un aspetto acutamente approfondito specificamente dalla storiografia tedesca, che nella ricerca ha validamente coniugato tra loro le competenze storiche, storico artistiche e archeologiche. Mi riferisco, oltre ai fondamentali lavori di Arnold Esch, a quelli di Lukas Clemens, di Rebecca Müller su Genova e di Marc von der Höh su Pisa.[45]

Come Arnold Esch ha in più occasioni opportunamente ribadito, l’interesse dei Comuni per i segni dell’antichità romana o ritenuta tale non fu una questione puramente estetica, ispirata al fascino dell’esotico o dell’antico, ma fu una fondamentale questione identitaria. Si tratta di un motivo che la storiografia italiana non ha ancora considerato con la necessaria attenzione, delegando ai contributi storico-artistici la trattazione di questo aspetto. Basti pensare alla statua equestre in metallo dorato del Regisole a Pavia: essa si legò alla coscienza civica a tal punto da divenire il simbolo stesso della città e da essere perciò rappresentata sul sigillo del Comune fin dal XV secolo.[46] Con il Regisole si identificò l’orgoglio civico dei Pavesi e il suo trafugamento da parte dei Milanesi nel 1315 costituì un’intollerabile umiliazione. Infatti, nel giro di vent’anni la statua fu riscattata, restaurata e ricollocata su un’alta colonna davanti alla cattedrale, secondo il modello del Marco Aurelio, allora ritenuto una statua dell’imperatore Costantino (il Caballus Constantini) e collocato su un alto piedestallo marmoreo davanti a San Giovanni in Laterano.[47] Furono i rivoluzionari nel 1796 a distruggere definitivamente il gruppo equestre. I Pavesi mantennero viva la memoria civica e solo negli anni Trenta del XX secolo essi poterono riavere un altro Regisole, che ancora oggi è innalzato su una colonna – ma di dimensioni più ridotte rispetto a quella medievale – di fronte al duomo.[48]

Dopo Costanza

Con il riconoscimento della legittimità dei Comuni e con il loro inserimento entro il sistema di governo dell’impero, avvenuto con la pace di Costanza del 1183, si aprì una nuova fase della vita comunale: ora i consoli, dopo essere stati eletti, erano tenuti a prestare un giuramento di fedeltà all’imperatore o ai suoi rappresentanti, e ai Comuni era riconosciuto il godimento di numerose regalie – vale a dire di quegli iura regalia fin dal 1158 rivendicati da Federico Barbarossa con il sostegno dei giuristi bolognesi.[49] Ora le istituzioni comunali agivano in pieno e dichiarato accordo con il potere imperiale: il Barbarossa partecipò addirittura agli incontri della Lega lombarda, legittimando così questo primo, interessante esempio di governo federale sovracittadino.[50] Per consolidare ancor più l’alleanza con Milano, Federico I volle che le nozze di suo figlio Enrico con Costanza d’Altavilla fossero celebrate nel gennaio del 1186 nella basilica milanese di S. Ambrogio.[51]

A questo punto per i Comuni cessò la necessità di una legittimazione, per così dire, dall’esterno, ed essi poterono costruire (o ricostruire) luoghi propri per l’esercizio del potere e della giustizia, i palazzi comunali, anch’essi ubicati nel centro cittadino e sovente non lontani dai luoghi del governo vescovile.[52] In tale contesto è ancora significativo considerare un’osservazione di Arnold Esch, che ha evidenziato come il momento in cui l’uso mirato di spolia fu più intenso – tra la metà dell’XI secolo e la metà del XIII – abbia coinciso con l’età comunale: non furono certo i Comuni gli unici interessati al reimpiego di pezzi antichi, ma l’uso politico consapevole che ne fecero contribuì a rendere più mirata la scelta degli spolia. D’altra parte, il riconoscimento imperiale delle nuove entità politiche fu forse uno dei motivi che, entro la metà del XIII secolo, fece crollare la domanda di spolia, giacché non era più necessario cercare altrove la garanzia di una legittimità ora direttamente assicurata dall’impero.[53]

Dalla fine del XII e soprattutto nel XIII secolo, dunque, i Comuni non solo non ebbero più la necessità di legittimarsi facendo ricorso all’antico, ma ora essi stessi rendevano presente l’antico: erano infatti convinti di incarnare le istituzioni romane, un motivo che un osservatore esterno quale Ottone, vescovo di Frisinga e zio del Barbarossa, al suo seguito durante la prima spedizione italiana dell’imperatore, sottolineò nei „Gesta Frederici“.[54] Notiamo che nella prima metà del XIII secolo anche l’arte imperiale di Federico II – come è evidente nei resti della celeberrima porta di Capua – produceva pezzi che potevano a ragione essere considerati antichi![55]

Merita attenzione il fatto che lo stesso Ottone di Frisinga riconosca un legame tra il governo dei Comuni e la cultura politica romana, laddove afferma che i Longobardi – così egli definisce gli abitanti delle città dell’Italia settentrionale –

„forse grazie ai figli generati in matrimoni con donne italiche, oppure per la qualità dell’aria e della terra (ex materno sanguine ac terre erisve proprietate), avevano abbandonato la violenza (rancor) della ferocia barbarica, e avevano assunto alcunché della pacatezza e della saggezza propria dei Romani, mantenendo lo stile di vita cittadino (urbanitas) e l’eleganza della lingua latina. Essi, inoltre, nell’assetto delle città e nel governo della res publica, imitano ancor oggi la saggezza degli antichi Romani“.[56]

A queste osservazioni segue immediatamente un altro ben noto passo:

„Anche nell’amministrazione delle città e nella cura per la conservazione dell’ordinamento politico ancora oggi imitano il modo di agire degli antichi Romani. Essi, inoltre, amano la libertà a tal punto che, con l’intento di evitare la prepotenza di un potente (potestatis insolentiam), preferiscono essere governati dal giudizio dei consoli anziché dall’arbitrio di signori.“[57]

Non solo. Il desiderio di imitare Roma antica si espresse anche nel rinnovamento artistico che interessò l’intera Europa a partire dall’età ottoniana: proprio il rinato impero sotto la dinastia sassone fu la culla della nascita e della diffusione di un’architettura e di una plastica fortemente orientate ai modelli romani, un motivo che non stupisce qualora si consideri la centralità riconosciuta dagli imperatori della casa di Sassonia all’Urbe, come rinnovata sede dell’impero, soprattutto dopo le nozze di Ottone II con la principessa Teofano e con la scelta del giovane Ottone III di stabilire la sede dell’impero nella Città eterna.[58] Pertanto, il nuovo tipo di architettura, caratterizzata dall’impiego di volumetrie articolate e imponenti sul modello dei grandi monumenti visibili a Roma e dal XIX secolo definita romanica, fu innanzi tutto elaborato nelle terre dell’impero. Da qui nell’XI secolo il suo influsso si fece sentire nei territori del Regnum Italie, dove pure erano presenti palazzi imperiali, vale a dire luoghi di residenza del re o dell’imperatore nei suoi spostamenti nel regno, oppure luoghi di residenza e di esercizio del potere da parte dei suoi rappresentanti. Se dunque si trattava di uno stile di provenienza imperiale, vale a dire dai luoghi dalla casa di Sassonia e poi di Franconia, le città del Regnum Italie lo interpretarono come una ripresa del modello della Roma imperiale, al quale rifarsi per la costruzione degli edifici legati al governo cittadino comunale, nel momento in cui esso veniva riconosciuto e integrato entro l’impero. Sorsero così i palazzi comunali, o palazzi della ragione (in quanto luogo dei pronunciamenti giudiziari), o broletti.[59] Le prime sedi del potere cittadino furono perlopiù costruite all’indomani della Pace di Costanza (1183) e furono edificate all’interno o nei pressi dei precedenti luoghi del governo cittadino. Fu poi, soprattutto a partire dai primi decenni del XIII secolo, che, con il consolidamento delle istituzioni comunali, si procedette a costruire o a ingrandire nuovi e più decorosi palazzi pubblici. Secondo la felice definizione di Carlo Tosco:

„Lo spazio designato per la costruzione [dei palazzi comunali] si collega alle antiche sedi del potere e diviene un nuovo fulcro urbanistico per lo sviluppo edilizio. … Per la prima volta un edificio civile guadagna un’importanza pari a quella delle maggiori chiese urbane: nasce in area lombarda un tipo edilizio inedito. … La nascita del palazzo pubblico è una novità specifica della vita comunale italiana. Il passaggio dalla chiesa all’edificio laico avviene in periodi diversi per ogni comune, ma è sempre un indice significativo dello sviluppo istituzionale.“[60]

I palazzi regi e imperiali, a partire dall’età carolingia disseminati nelle diverse regioni europee, costituirono un modello per i palazzi comunali sorti in area padana nei primi decenni del XIII secolo; questi ultimi, dunque, proprio per rendere visibile la loro piena legittimazione, ripresero elementi propri dell’arte della Roma imperiale, mediati dai modelli elaborati nell’ambito della ‚rinascita ottoniana‘, collocandoli entro rinnovati schemi costruttivi.[61] Si tratta di un campo di indagini non ancora adeguatamente approfondito, anche perché i palazzi comunali, durante la fase di ricostruzione e stabilizzazione, collocabile entro i primi decenni del XIII secolo, subirono significativi rimaneggiamenti assumendo almeno nei tratti salienti l’aspetto odierno. Non bisogna infatti dimenticare che il palazzo comunale lombardo (in senso lato) poggiava su poderose arcate, che riproducevano una volumetria analoga a quella degli edifici monastici, in particolare delle grange cisterciensi, e che coprivano uno spazio aperto, utilizzato per scopi amministrativi e giudiziari del Comune: aveva quindi una struttura in grado di rispondere agli usi di un governo collettivo più di quanto sarebbe stato possibile nei palazzi comunali centro italici, costruiti (o ricostruiti) in un periodo successivo e concepiti secondo un modello diverso e più ‚chiuso‘.[62]

Dalla retorica all’oratoria comunale

Il riconoscimento della legalità dell’istituto comunale coincise con l’avvio della fase segnata dal governo dei podestà, durante la quale, nel tentativo di conferire maggior stabilità alla turbolenta vita politica cittadina, si fece ricorso a un governante unico, proveniente perlopiù dall’esterno, al quale il Comune per un anno e a precise condizioni affidava i compiti di comando politico e militare. Nasceva così la figura del politico di professione.[63] A lui erano richieste adeguate capacità di governo: innanzi tutto una buona formazione letteraria e un’adeguata capacità argomentativa, non disgiunte dalle necessarie conoscenze giuridiche per assolvere a uno dei compiti principali del podestà: amministrare la giustizia.[64] Alcuni dei primi podestà professionali furono poeti o esperti di diritto, come il trovatore bolognese Rambertino (o Lambertino) Buvalelli, attivo nei primi decenni del XIII secolo a Bergamo, Genova, Brescia, Milano, Parma, Mantova e Verona.[65] A conferma dell’importanza attribuita alle capacità oratorie del podestà o rector basti ricordare il caso del modenese Tobia Rangoni, nominato podestà di Reggio nel 1284 che, secondo il racconto di Salimbene da Parma, fu cacciato dalla città sia perché inesperto ed eccessivamente preoccupato di favorire la sua parte sia, soprattutto, perché incapace di pronunciare distintamente le parole, tanto che invece di dire „Audivistis quod propositum est“, una frase assai ricorrente in un regime assembleare, egli abbozzava un goffo „Audivistis propottam“, suscitando l’ilarità dell’uditorio.[66]

Ciò dice fino a che punto il nuovo governo comunale fosse fondato sulla parola e si esercitasse soprattutto grazie all’uso della parola: per ottenere il consenso necessario per governare, infatti, gli esponenti del Comune non potevano contare su meriti legati alla stirpe oppure sull’abilità militare. La loro possibilità di affermazione dipendeva soprattutto dall’uso sapiente della parola, al fine di rendersi credibili nelle assemblee cittadine e di saper convincere ad accettare le disposizioni comunali e a intraprendere azioni militari, sempre motivando tali azioni in relazione agli interessi politici ed economici della città: la funzione dei discorsi davanti a queste assemblee era infatti quella di ottenere il consenso in merito a decisioni già prese, che però necessitavano dell’approvazione generale per poter andare ad effetto.[67] Secondo una felice definizione di Enrico Artifoni, „la cultura del funzionariato comunale gravitava in primo luogo intorno alle dottrine della parola“. In relazione alla „stretta e continua connessione fra i poteri e le parole, ovvero fra la politica e la retorica … sarebbe riduttivo dire che le arti della parola erano ‚al servizio‘ della politica. In realtà le arti della parola erano la politica“.[68] Boncompagno da Signa, nei suoi trattati di retorica giunse addirittura a stabilire l’equivalenza tra rhetor e rector, vale a dire il podestà era il rector di una città grazie alla sua capacità retorica – si badi, di un’arte del governo affatto ‚pratica‘ e lontana dall’arte più elaborata e finalizzata all’attività forense.[69]

Circa l’uso e gli sviluppi della retorica comunale, gli studi di Enrico Artifoni hanno posto in adeguata luce la svolta nel rapporto tra gli intellettuali e la politica, verificatasi proprio in relazione all’affermazione del regime podestarile nei Comuni. Contrariamente ai precedenti orientamenti della storiografia, si ritiene ora che, rispetto alla fase iniziale o consolare del governo comunale, l’età cosiddetta podestarile (a partire dagli anni successivi alla pace di Costanza del 1183) sia stata caratterizzata da una più ampia partecipazione al governo del Comune, nella quale erano chiamate in causa le partes (o fazioni) cittadine, non più solo i gruppi familiari.[70] Ciò favorì lo sviluppo delle pratiche della scrittura e dell’oralità, un fenomeno che segnò sia la politica interna dei Comuni, sollecitando la produzione e una più ordinata conservazione delle scritture politico/amministrative – un tema centrale nelle ricerche condotte dal Sonderforschungsbereich 231 (1986–1999): „Träger, Felder, Formen pragmatischer Schriftlichkeit im Mittelalter“, diretto da Hagen Keller presso l’Università di Münster –, sia la diplomazia da essi messa in atto, nella quale si impose la ‚oratoria da ambasciata‘.[71] Enrico Artifoni ha visto nello stile di queste pratiche comunicative un segno della „dilagante esuberanza verbale della civiltà cittadina comunale“, giacché esse parvero degne di nota e talora di commenti ironici presso i contemporanei. Senza dimenticare che anche la gestualità dell’oratore era codificata e legata a un preciso codice comunicativo.[72]

Gli oratori del mondo comunale, in particolare quelli provenienti dall’area padana, fecero diffuso impiego degli strumenti retorici fino a destare lo stupore dei loro ascoltatori: Giovanni di Salisbury narra che il papa inglese Adriano IV (1154–1159) era solito „deridere Lombardos“ per gli ossequi nei quali si diffondevano davanti a qualunque interlocutore;[73] Ottone di Frisinga definisce mos italicus lo stile segnato da lunghi ed elaborati periodi, difficili da seguire;[74] Rahewino definisce gli ambasciatori milanesi „viri eruditi et in dicendo acerrimi“;[75] e anche un cronista dell’Italia meridionale, Romualdo di Salerno, sottolinea l’insolita bravura dei Lombardi, che giudica „valorosi in guerra e oratori efficacissimi“.[76] Racconta infine Salimbene da Parma che l’imperatore Federico II di fronte ai suoi familiari si divertiva a imitare (truphatorie concionabatur) le eccessive cerimonie nei discorsi degli ambasciatori di Cremona, i quali cominciavano le loro ambasciate lodando l’uno le virtù e i meriti dell’altro, ai fini di accreditare il valore dell’ambasciata, e solo dopo tutte queste cerimonie esponevano il motivo della loro missione.[77] La verbosità dei Lombardi era conosciuta anche al di fuori della penisola italiana, come dimostra il magister Konrad von Mure di Zurigo, che nel „De arte prosandi“, composto nel 1275–1276, rimprovera ai „Lombardi magistri et legiste“ di eccedere con la formulazione di lunghe arenghe nelle lettere.[78]

Il lessico dell’ars dictaminis

Le attente indagini di Florian Hartmann si sono concentrate sul forte legame tra l’origine della retorica comunale e la diffusione dell’ars dictaminis nei Comuni dell’Italia settentrionale a partire dai primi decenni del XII secolo, quando i nuovi ceti dirigenti, dopo aver assunto il governo delle città, compresero di aver bisogno di modelli per comporre lettere di carattere diplomatico. Si trattava di un’attività fondamentale per la propria autolegittimazione al fine di poter istituire legami e alleanze con altri soggetti politici.[79] Con la sua assunzione nel mondo comunale, l’ars dictaminis fu adattata alle necessità del discorso politico comunale e, di conseguenza, semplificata per rendere efficace sia la comunicazione orale sia la recezione da parte di un uditorio non specializzato. Nei fatti, la differenza tra retorica epistolare e oratoria non era così marcata, se solo si pensa che nel medioevo la lettura era un esercizio solitamente fatto ad alta voce e anche le lettere perciò erano scritte per essere recitate davanti a un pubblico: da qui il loro carattere performativo.[80]

Le raccolte di modelli di lettere consentono non solo di conoscere i temi più praticati dalla retorica comunale, ma anche le istituzioni dello stesso Comune, l’esposizione delle sue leggi e il sistema di valori in esso presente.[81] Particolare importanza nell’orientare lo stile e i contenuti di questo nuovo genere letterario ebbe la ‚riscoperta‘ del „De inventione“ di Cicerone e della pseudo ciceroniana „Rhetorica ad Herennium“: dalla semplice epistolografia ispirata a queste opere si declinarono ben presto l’ars concionandi / arengandi, l’ars notariae e l’ars praedicandi, tutte artes – si noti – che avevano la loro origine e il loro campo d’azione entro la vita cittadina, giacché presupponevano una clientela o un uditorio.[82]

Anche in questo caso si trattò di un uso consapevole e non formale della retorica classica, un uso che portò a rivolgere sempre maggior attenzione e stima non solo alla lingua latina, ma anche all’universo valoriale della Roma classica. L’oratoria comunale, inoltre, elaborò con intensità prima di allora ignota i temi considerati da Cicerone come qualificanti la vita pubblica (cioè politica), quali l’amicitia e la libertas. In particolare l’amicizia, per la quale era immediato il riferimento al ciceroniano „Laelius de amicitia“, divenne un tema fondante la vita comunale, in quanto indispensabile per tessere legami a scopo politico.[83] Così pure la straordinaria insistenza sull’amicitia nelle raccolte di modelli epistolari ha consentito a Florian Hartmann di mettere in luce il legame tra amicitia nella sua accezione classica e le pratiche di governo basate sempre più su complessi sistemi elettorali, entro i quali bisognava guadagnare la maggioranza grazie alle ‚amicizie buone‘ quelle che, ancora secondo la definizione di Cicerone, non recano danno alla res publica e che non lasciano spazio all’immoralità. Tradotto nel discorso comunale, l’amicizia buona è quella che serve alla causa della parte giusta, la propria, e idealmente al bene comune.[84]

L’altro grande tema di ascendenza classica veicolato attraverso i trattati dell’ars dictaminis è quello della libertas. Basti appena un cenno al grande sviluppo che esso conobbe nella cancelleria di Gregorio VII, il quale fece della libertas Ecclesiae il motivo di fondo della sua azione.[85] All’inizio del XII secolo dalla curia papale questo tema retorico passò a Bologna, dove gli esponenti del mondo comunale l’assunsero con decisione e ne fecero il motivo della loro lotta contro Federico I tra 1154 e 1177 e, soprattutto, nello scontro con Federico II tra 1236 e 1250. Basti qui solo accennare che nei modelli delle lettere scambiate tra le città aderenti alla Lega lombarda, la retorica della libertà assunse toni vibranti al fine di giustificare la resistenza delle città confederate nei confronti dell’impero. All’indomani della sconfitta subita dai Milanesi a Cortenuova nel 1237, quando Federico II si impossessò del carroccio di Milano e lo inviò a Roma perché fosse esposto in Campidoglio come un importante trofeo di guerra, il Comune di Bologna, per esempio, indirizzò una lettera ‚consolatoria‘ a Milano, esaltata come la „Totius libertatis patrona“.[86]

La retorica figurata: il caso di Oldrado da Tresseno di Lodi

La svolta sia nella produzione artistica sia nella cultura politica indica chiaramente che nei primi decenni del XIII secolo il Comune non solo si muoveva entro un orizzonte politico-culturale contraddistinto da un alto tasso di romanità, ma addirittura produceva arte che si potrebbe definire ‚romana‘, forse in analogia con le opere promosse da Federico II nel regno normanno-svevo.[87] Mi limito qui a richiamare l’attenzione sulla statua equestre di Oldrado da Tresseno di Lodi, podestà di Milano nel 1233, l’anno in cui fu portata a termine la costruzione del nuovo palazzo comunale.[88]

Ho già esaminato in altra sede il contesto storico entro il quale il manufatto fu realizzato, servendomi con profitto dei risultati delle attente e pertinenti indagini condotte da Saverio Lomartire e della ricostruzione da lui proposta.[89] Lo stesso Lomartire ha potuto verificare alcune ipotesi precedentemente formulate grazie a un diretto esame autoptico al termine del restauro (settembre 2021), effettuato sui ponteggi giacché il monumento è saldamente ancorato alla parete e non può essere asportato e collocato altrove (Fig. 1).[90] Riassumo brevemente i risultati delle sue indagini, formulati a restauro ultimato.

Fig. 1: Il gruppo equestre di Oldrado da Tresseno (1233) dopo il restauro, terminato nel settembre 2021.
Fig. 1:

Il gruppo equestre di Oldrado da Tresseno (1233) dopo il restauro, terminato nel settembre 2021.

La statua equestre sulla facciata del Palazzo della Ragione (o Broletto nuovo) di Milano costituisce un manufatto di grande interesse, al quale hanno finora dedicato attenzione soprattutto gli storici dell’arte. Essa è coeva alla costruzione dell’edificio, pertanto databile con precisione al 1233 (la data riportata sull’epigrafe alla base dell’edicola), quando fu collocata sulla facciata meridionale del Broletto Nuovo, la cui costruzione era iniziata nel 1228. La collocazione entro un’edicola attentamente contornata da marmi provenienti da antichi monumenti, presumibilmente di età imperiale, fu contestuale alla costruzione della facciata e l’utilizzo di un materiale lapideo ‚antico‘, in evidente contrasto con i laterizi della facciata, si spiega non tanto con scopi decorativi, ma con la volontà di legittimare il personaggio rappresentato con il rimando all’universo simbolico imperiale romano. La figura a cavallo, poi, rinvia dichiaratamente al modello classico per eccellenza, quello del cosiddetto Caballus Constantini, anche per la sua collocazione in posizione elevata presso la basilica di San Giovanni in Laterano, un modello che potrebbe essere stato mediato dal Regisole di Pavia: infatti, come il Marco Aurelio/Costantino e il Regisole, il podestà Oldrado non è rappresentato in assetto militare, ma incede in modo solenne ed è anch’esso collocato in posizione elevata, alla sommità di un pilastro.

È inoltre condivisa la sua attribuzione alla scuola di Benedetto Antelami, in particolare a maestranze epigoni della stessa e attive allora in area padana.[91] La collocazione sulla facciata del palazzo ha esposto il gruppo equestre agli agenti atmosferici, fino a provocare la perdita pressoché totale della colorazione originaria, della quale oggi solo qualche lacerto è visibile. Sulla base della ravvicinata e diretta osservazione del manufatto, il Lomartire ha potuto proporre con maggior precisione alcuni dettagli di grande interesse per la nostra esposizione. Innanzi tutto, risulta corroborata l’ipotesi che Oldrado tenesse nella mano destra una spada in metallo, simbolo dell’esercizio della giustizia. In ogni caso, un’allusione all’uso della spada da parte del podestà, questa volta in difesa dell’ortodossia religiosa, si trova anche nell’epigrafe sottostante.[92]

Estremamente interessante dal punto di vista simbolico è quanto il Lomartire ha potuto stabilire in merito della colorazione originaria. L’edicola mostra in più punti tracce di policromia, appena percettibili a occhio nudo; in particolare meritano attenzione tracce di colore rosso ancora visibili sullo sfondo, sul quale si possono rilevare impronte lasciate da elementi a forma di stella, in origine eseguiti in foglia metallica (d’oro o di stagno) e applicati sull’intonaco purpureo. Il volto e le parti del corpo del cavaliere erano probabilmente colorate con i toni dell’incarnato e gli occhi e i capelli erano bruni, mentre la figura di Oldrado aveva una colorazione policroma e mirante a sottolinearne l’aspetto ‚naturale‘. In particolare il Lomartire ha potuto suggerire un’importante precisazione circa le vesti del podestà: Oldrado, infatti, porta un mantello – non una sorta di tunica, come si era finora ritenuto – che doveva essere rosso, mentre il risvolto dello stesso, visibile sotto il braccio destro del cavaliere, presenta un „colore giallastro, di tonalità tenue“. Così pure nelle vesti è possibile notare „una stesura ocra dalla tonalità più aranciata rispetto al citato giallo ocra visibile in altre porzioni. Le brache presentano solo minuscoli frammenti di colore rosso-ocra“ (Fig. 2).[93]

Fig. 2: Il gruppo equestre nella ricostruzione (cromatica) di Saverio Lomartire.
Fig. 2:

Il gruppo equestre nella ricostruzione (cromatica) di Saverio Lomartire.

Sul fondo dell’edicola in posizione elevata rispetto al cavaliere si trova una grande aquila ad ali spiegate, che segue perfettamente la forma della lunetta e che a lungo era stata ritenuta un elemento aggiunto in tempi successivi. Le indagini sull’intonaco hanno invece confermato che si tratta di quello originale e che quindi la rappresentazione dell’aquila è coeva al gruppo equestre.[94] Anche il Lomartire vede in questo affresco un evidente rinvio all’autorità dell’impero romano, nel cui ordinamento il Comune, impersonato nel podestà, era stato assunto. La figura del podestà a cavallo sembra dunque fungere da catalizzatore per la ricchissima simbologia imperiale, un motivo finora poco considerato: l’impiego di materiali di spoglio dai monumenti antichi; lo sfondo rosso con decorazioni color oro o dorate; l’abbigliamento del podestà rosso e giallo-ocra; l’aquila imperiale nera sullo sfondo.

Siamo di fronte a un podestà-imperatore, posto sullo stesso piano del gruppo equestre ritenuto rappresentare Costantino o del Regisole. Non è forse un caso che la colorazione e la foggia degli abiti del podestà ricordino molto da vicino quella dei personaggi – forse ufficiali del Comune di Roma – ai piedi della loggia delle benedizioni papali, intenti ad ascoltare una sentenza di Bonifacio VIII, come erano rappresentati nell’affresco giottesco di San Giovanni in Laterano. Purtroppo l’affresco è andato perduto e l’immagine è a noi nota grazie a un disegno del Grimaldi (sec. XVII), oggi conservato in un manoscritto della Biblioteca Ambrosiana.[95] Questa suggestione andrebbe certamente corroborata dall’esame comparativo con altre rappresentazioni degli ufficiali e delle autorità del Comune di Roma nella prima metà del XIII secolo, al momento a me ignote, ma mi sembra di una certa utilità avanzare l’ipotesi nella speranza che possa essere opportunamente verificata negli studi sul Comune di Roma.

A prescindere dalla possibile somiglianza dell’abbigliamento del podestà con quello dei presunti funzionari del Comune di Roma, il gruppo equestre milanese si basa su un codice simbolico che mira con insistenza ad accreditare la figura di Oldrado e, attraverso di lui, il Comune di Milano secondo un linguaggio del potere imperiale romano. Con il riferimento così insistito e palese alla plastica e alla policromia connotante l’impero, si equiparava il governo comunale a quello imperiale secondo le due diverse ma tra loro collegate interpretazioni: quella della Roma classica e tardo antica e quella della nuova Roma, vale a dire la Roma capitale ideale dell’impero della casa di Svevia.

In un saggio dedicato alla correlazione tra le iscrizioni e le sculture monumentali medievali nell’Italia settentrionale, Wilfried Keil propone alcune stimolanti osservazioni, che mi sembrano corroborare quanto ho cercato fin qui di mettere a punto. In particolare, a proposito del gruppo equestre di Oldrado da Tresseno, il Keil, dopo aver ricordato che tali sculture sono solitamente poste in luoghi prossimi alle sedi dove veniva amministrata la giustizia – un motivo che certamente rafforza l’ipotesi formulata da Saverio Lommartire circa la spada impugnata da Oldrado –, nota che: „Nel medioevo anche l’imperatore, come fece Federico II, notoriamente si fece rappresentare come cavaliere, come per esempio su tre portali di Castel del Monte. La rappresentazione di un podestà secondo la tradizione monarchica poteva pertanto essere intesa come una provocazione. Un ritratto equestre era simbolo del potere imperiale e nel caso di un podestà, era un simbolo della potenza del Comune. Il Comune e il suo podestà conquistano in questo modo una pretesa di comando pari a quella di un imperatore. Ciò risulta chiaro anche solo dalla stessa statua. Questa dimostrazione di potere è efficace solo attraverso le abitudini visive (l’immaginario) dei destinatari e non tanto per il contenuto dell’iscrizione.“[96]

Conclusioni

La storiografia sui Comuni italiani negli ultimi decenni, soprattutto grazie ai lavori di Jean-Claude Maire Vigueur e dei suoi allievi, ha cercato di comprendere meglio i motivi ispiratori dei nuovi governi cittadini. Se Chris Wickham ha ritenuto – non senza buoni motivi – che il modo di procedere delle élites comunali rispondesse a logiche contingenti e pragmatiche, non bisogna però sottovalutare la forza culturale di un modello, peraltro facilmente attingibile attraverso le memorie esposte nelle diverse città e luoghi di governo. Le élites cittadine del XII secolo sapevano bene a quale modello istituzionale guardare, quello dell’impero romano. Quest’ultimo, peraltro, aveva conosciuto trasformazioni significative durante la sua lunga esistenza ed era conosciuto secondo diversi ‚modelli‘: quello evincibile dai classici (Cicerone, Livio, Virgilio soprattutto); quello bizantino, che svolse un’importante opera di mediazione nel campo legislativo; quello, infine, offerto dal rinato impero romano in età carolingia e sassone. Il mondo comunale attinse a piene mani a questa eredità, la tradusse e la aggiornò, dando così vita non solo a innovative formazioni politiche, ma anche a una rinnovata cultura ‚romana‘, intesa come elemento ispiratore e legittimante sia l’impero sia i governi cittadini.

In tale prospettiva ho ritenuto di sottolineare in modo deciso l’uso politico-legittimante degli spolia, un tema ben indagato soprattutto dalla storiografia in lingua tedesca – a partire dai pioneristici studi di Arnold Esch – ma non ancora adeguatamente considerato e approfondito dalla storiografia italiana. Così pure l’elaborazione, sull’esempio di quella classica, di una retorica comunale, anch’essa validamente indagata dalla storiografia in lingua tedesca, e negli ultimi decenni anche da quella italiana, costituisce un canale privilegiato per la conoscenza del mondo classico, dei suoi sistemi di governo, del suo mirabile impianto giudiziario, nonché del culto delle lettere.

L’interpretazione in chiave romana delle istituzioni, delle leggi, dei linguaggi politici e artistici presuppose una diffusa e solida formazione culturale, fondata sulla tradizione dei classici e, politicamente, sul diritto e sulle istituzioni idealmente collegate alla Roma imperiale. Si tratta di concetti plasticamente espressi nel nuovo genere artistico – quello che in seguito fu definito ‚romanico‘ proprio per la sua evidente volontà di reinterpretare e di rinnovare modelli classici. L’esempio del gruppo equestre di Oldrado da Tresseno, collocato su una facciata del palazzo della Ragione di Milano (1233) – l’unico esempio di questo genere di rappresentazioni politiche comunali nella prima metà del XIII secolo a noi giunto –, merita di essere nuovamente considerato e ripreso nel contesto dell’arte comunale.

Se finora la storiografia ha lasciato il passo alle analisi e alle valide interpretazioni degli storici dell’arte, ritengo fondamentale che simili manufatti – scultorei o solo graficamente rappresentati – vadano adeguatamente collocati tra le fonti della ricerca storica e considerati nel loro significato complessivo. Il caso del gruppo equestre milanese consente infatti di cogliere quanto il paradigma della Roma imperiale antica abbia fornito la strumentazione per esaltare l’istituzione comunale. Il rimando al noto gruppo del Marco Aurelio/Caballus Constantini sia per quanto riguarda il soggetto sia per la colorazione e l’ornato consente infatti di cogliere la forza attribuita ai motivi ritenuti legittimanti per affermare, anche in polemica con l’ideologia imperiale di Federico II (l’imperatore regnante nel 1233), quanto i Comuni mirassero a presentarsi come i legittimi eredi della civiltà romana.

Fonte delle illustrazioni

Fig. 1 e 2: © Saverio Lomartire, a cui va il ringraziamento per la gentile concessione.

Published Online: 2022-11-18
Published in Print: 2022-11-15

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