Home Arminiani e sociniani nel Seicento: rifiuto o reinterpretazione del cristianesimo sacrificale?
Article Open Access

Arminiani e sociniani nel Seicento: rifiuto o reinterpretazione del cristianesimo sacrificale?

  • Stefano Brogi EMAIL logo
Published/Copyright: November 18, 2022

Abstract

The terms „Socinian“ and „Arminian“ (despite their often equivocal and polyvalent use) refer primarily to the members of two small Christian communities viewed with great suspicion by the established churches: the Ecclesia minor of the Polish Brethren, on the one hand, and the Dutch Remonstrant Brotherhood, on the other. These were two numerically small and marginalized groups, but capable of influencing substantial numbers of theologians and intellectuals of different denominational backgrounds in many European countries. The Dutch Remonstrants faced frequent allegations of Socinianism: far from diminishing over time, these charges became harsher and more insistent after the destruction of the Ecclesia minor and the resulting Socinian diaspora. However, this study shows that the relationship was not one-way: Arminius’ heirs in turn influenced those of Sozzini, as evidenced by the development of the two theological traditions on the crucial issue of Christ’s redemption and atonement. At the end of the seventeenth century, on this as on other subjects, the theories of the Remonstrants established some hegemony over the doctrinal elaborations of the successors to the Socinian tradition.

1 Il pericolo sociniano-arminiano nella denuncia di Jurieu

Nella prima delle otto lettere che componevano il suo „Tableau du socinianisme“ (1690) Pierre Jurieu indicò con chiarezza i motivi che lo spingevano a denunciare la gravità della minaccia sociniana per le chiese riformate di Francia, nel momento in cui la persecuzione tentava addirittura di cancellarle e impediva loro di reagire come sarebbe stato necessario.[1] Ciò che Jurieu paventava, non senza motivo, era la convergenza di inquietudini dottrinali e tentazioni opportunistiche che rischiava di sgretolare ulteriormente quel che restava del calvinismo francese: soprattutto le generazioni più giovani erano esposte alle opposte sirene di un „rientro“ nel cattolicesimo romano (con i vantaggi temporali che ciò poteva comportare) e di una deriva eterodossa favorita dal contatto con le idee che circolavano in Inghilterra e in Olanda. Nei due principali approdi del Réfuge, infatti, erano ben presenti minoranze dissidenti e liberi pensatori che alimentavano critiche radicali delle religioni istituzionali se non della religione in generale. Apparentemente contrastanti, queste opposte tendenze centrifughe rischiavano in realtà di rafforzarsi a vicenda: l’antidogmatismo sociniano, nonostante la sua assoluta incompatibilità con il dogma cattolico, rischiava di esser declinato da più d’uno nel senso di una sostanziale indifferenza confessionale, che paradossalmente poteva legittimare una confluenza nicodemitica nell’alveo romano.

Agli occhi del professore dell’École Illustre di Rotterdam la tradizionale compattezza dogmatica del calvinismo francese si era incrinata a partire dagli anni sessanta e settanta, con la critica pajonista alla teologia della grazia di Calvino che si era andata sviluppando nel contesto dell’Accademia di Saumur e della sua tradizione cameronista e amiraldista.[2] In questo stesso ambiente era maturata nel 1670 la pubblicazione della „Réunion du christianisme“ di Isaac d’Huisseau, un libro che propugnava la pacificazione dei riformati francesi con il cattolicesimo gallicano in nome per l’appunto di un sostanziale indifferentismo confessionale: il libro fece scandalo nell’ambiente ugonotto e contro di esso proprio Jurieu scese in campo per una delle sue prime prove importanti.[3] Da allora in poi il teologo di Mer manifestò sempre grande preoccupazione per l’accreditamento che le tesi sociniane e arminiane sugli articoli fondamentali per la salvezza potevano fornire alle scelte opportunistiche e nicodemitiche da cui una parte non trascurabile dell’ambiente ugonotto era fortemente tentato. Quel libro, ricordava il „Tableau“,

„défendait le plus pernicieux de tous les dogmes sociniens; c’est que tout ce que nous mettons entre les articles de foi, mais que les sociniens nous contestent, ne doit pas être considéré comme nécessaire au salut, que l’on ne doit reconnaître pour nécessaire que ce dont tous les chrétiens conviennent, sans excepter ni papistes ni sociniens. Et qu’ainsi toute secte du christianisme est bonne, et qu’on s’y peut sauver. C’est pourquoi l’on doit s’accommoder à toutes les religions dominantes en chaque pays, quand on est dans les lieux, où les religions dominent.“[4]

Le tesi di d’Huisseau si riaffacciarono più volte nei decenni successivi e Jurieu si scagliò a più riprese contro le tentazioni sociniane che scorgeva nei neo-pajonisti e in altri ambienti ugonotti. Vale tuttavia la pena di rimarcare che il „Tableau“ additava nella teologia arminiana e specialmente in Episcopio il riferimento teorico di questo complesso e variegato arcipelago: „les ennemis de la grâce efficace et victorieuse sont disciples d’Episcopius le plus dangereux ennemi de la religion chrétienne, et de ses mystères, qui ait paru dans notre siècle“. Se Sozzini distruggeva apertamente la dogmatica cristiana, Episcopio conduceva allo stesso risultato „par une voie plus sure“:

„Il avoue, il établit même quelquefois les mystères de l’église, comme il lui semble bon, et toujours assez faiblement; et ensuite il ruine tout ce qu’il paraissait avoir édifié, en prouvant que ces mystères que la raison ne comprend pas ne sont pas nécessaires au salut; qu’on peut être sauvé sans les croire, et que les sociniens ne sont pas hérétiques. Son audace va même à poser sans détour, le dogme de la Trinité au même rang que le faux mystère de la transsubstantiation, entre les causes de l’incrédulité des juifs qu’on doit lever et ôter de devant eux. Il n’y a donc pas un plus déterminé ni plus dangereux socinien qu’Episcopius. C’est pourquoi tous ceux qui reconnaissent Episcopius, pour leur maître, peuvent être contés surement pour sociniens, et pour ennemis de la foi.“[5]

Il „Tableau“ registrava con disappunto la penetrazione delle tesi di Episcopio in Inghilterra. Il latitudinarismo anglicano, specie in alcune sue frange, gli appariva sostanzialmente contiguo – sul piano teorico – all’arminianesimo olandese: entrambi risultavano ai suoi occhi come forme dissimulate di un sostanziale socinianesimo. Sotto il velo della tolleranza universale di tutte le confessioni gli uni e gli altri nascondevano dunque una sostanziale indifferenza religiosa: „Nous combattrons la tolérance d’Episcopius et de ses sectateurs, en découvrant les mystères de cette cabale pernicieuse des tolérants. Nous ferons voir que le socinianisme renverse toute la religion chrétienne, et par conséquent qu’il est intolérable.“[6]

Jurieu rilevava acutamente che la teologia arminiana offriva ai dissidenti e agli inquieti del Réfuge ugonotto un punto di riferimento in cui incanalare le proprie tendenze eterodosse: un riferimento teorico solido e ben strutturato, ma più sfuggente e per questo più difficile da contrastare dell’antitrinitarismo polacco. È vero che i rimostranti costituivano un piccolo gruppo apparentemente marginale, che dopo Dordrecht aveva perso ogni sostanziale capacità di insidiare l’egemonia ortodossa all’interno della chiesa riformata olandese: si trattava però di un gruppo vivacissimo sul piano intellettuale, capace di esercitare la propria influenza ben al di là della cerchia dei propri aderenti e soprattutto di influenzare l’élite repubblicana che aveva dominato la scena politica olandese nel ventennio di Jan de Witt e continuava a rappresentare una componente di rilievo anche dopo la conquista del potere da parte di Guglielmo III. Le opere di Episcopio e Limborch venivano lette e apprezzate in molti ambienti protestanti, di qua e di là della Manica, garantendo alla teologia rimostrante una rispettabilità e un’autorevolezza riconosciuta anche da esponenti importanti dell’establishment protestante. Al tempo stesso, però, l’apertura intellettuale di questi autori e la loro capacità di interloquire con posizioni radicali attirava l’interesse di ambienti fortemente eterodossi: non è un caso se tra i rimostranti trovarono rifugio figure censurate dai riformati francesi o ginevrini come Étienne de Courcelles e Jean Le Clerc (e più tardi come Johann Jakob Wettstein), che divennero rappresentanti di primissimo piano della loro società. Anche taluni esponenti della diaspora sociniana trovarono riparo nelle loro file o frequentarono gli insegnamenti del loro seminario (come fu appunto il caso di Samuel Crell).

Il vero salto di qualità avvenne però negli anni ottanta e novanta, grazie alla vivace attività editoriale di Philipp van Limborch e poi di Jean Le Clerc: a partire da questo periodo le idee rimostranti riuscirono ad assicurarsi grande visibilità e circolazione nella République des Lettres, utilizzando al meglio le potenzialità dell’industria libraria olandese. In quegli anni le controversie religiose alimentate soprattutto da giansenisti e ugonotti aprivano ricchi filoni editoriali che vennero alacremente sfruttati dagli stampatori di Amsterdam e delle altre città delle Province Unite. I nuovi periodici di informazione libraria e culturale divennero uno strumento essenziale di circolazione delle idee e di promozione delle nuove pubblicazioni. Jean Le Clerc fu uno dei protagonisti assoluti di questa fiorente stagione giornalistica: tra l’inizio degli anni novanta e la fine degli anni venti le sue „Bibliothèques“ furono lette e ammirate in tutta Europa (la loro eredità sarà poi raccolta soprattutto dalla „Bibliothèque raisonnée“ dei suoi biografi Barbeyrac e Wettstein). Attraverso questi canali (ma anche attraverso parallele e fondamentali reti epistolari) si andò costituendo, nei decenni che Hazard definì della „crisi della coscienza europea“, una sorta di „internazionale“ del cristianesimo illuminato, fortemente avversa al dogmatismo confessionale, i cui esponenti conquistarono posizioni di preminenza all’interno di chiese protestanti come quella anglicana o come quella ginevrina.

Jurieu colse al volo il pericolo rappresentato da questo rinnovato dinamismo arminiano, che tra l’altro dimostrava di essere ben più al passo con le nuove idee filosofiche e scientifiche dell’ormai invecchiata teologia sociniana, la quale aveva assunto una forma per così dire „storicizzata“ con la „Bibliotheca Fratrum Polonorum“. Di fatto l’arminianesimo di Limborch e soprattutto di Le Clerc filtrava e rilanciava l’eredità del dissenso antitrinitario in una forma più aggiornata e più „molle“, capace di riproporre la critica al dogmatismo delle chiese stabilite ma anche di aggirare la damnatio che pesava sulle posizioni dei Fratelli Polacchi e di interessare pertanto anche gli esponenti più spregiudicati del protestantesimo istituzionale. Dopo la Glorious Revolution latitudinari come Tillotson e Gilbert Burnet (e di lì a poco come Tennison e Wake) occuparono posizioni episcopali di primissimo piano in Inghilterra, provocando violente reazioni degli ambienti conservatori, che scagliarono contro di loro pesanti accuse di eterodossia e in specie di socinianesimo; nel Réfuge ugonotto, nonostante l’incessante azione repressiva condotta da Jurieu, erano vivacemente presenti posizioni moderate e dialoganti, alcune delle quali trovarono un’importante tribuna nell’„Histoire des ouvrages des savants“ di Basnage de Beauval; a Ginevra Jean-Alphonse Turrettin ruppe decisamente col calvinismo rigido del padre François, artefice del Consensus helveticus, e inaugurò una lunga stagione di predominio della teologia liberale, trovando forti consonanze a Basilea (Samuel Werenfels) e a Neuchâtel (Jean-Frédéric Ostervald).[7]

Jurieu comprese molto presto che stava emergendo una vera e propria sfida all’ortodossia calvinista per l’egemonia nel campo protestante europeo. Negli anni novanta egli tornò a più riprese a denunciare il pericolo rappresentato dalle teologie di tipo latitudinario, ma già alla fine del decennio precedente aveva individuato nella teologia rimostrante uno dei riferimenti decisivi di quelle correnti. Denunciandone la sostanziale affinità e convergenza con i sociniani egli cercava di proiettare sui rimostranti la ben più generale e diffusa esecrazione che circondava l’antitrinitarismo dichiarato, in perfetto parallelismo con quanto stava accadendo in quegli stessi anni in Inghilterra nelle polemiche contro il latitudinarismo anglicano. Tali polemiche rimbalzeranno a più riprese dall’uno all’altro lato della Manica: lo stesso Jurieu farà eco alle condanne che stavano colpendo personaggi come Arthur Bury mentre nel contempo verranno tradotti in Inghilterra gli interventi di Le Clerc che difendevano le posizioni del „Naked Gospel“.[8]

2 Le Clerc difende Episcopio per conto dei rimostranti

Al „Tableau du socinianisme“ seguirono risposte di rilievo come quelle di Isaac Jaquelot e Gedéon Huet, due ministri non certo in linea col calvinismo rigido. Qui interessa però soprattutto la risposta che i rimostranti olandesi affidarono a Le Clerc: per la prima volta il rifugiato ginevrino si vide assegnare il compito di portavoce, sia pure informale, della società in cui aveva finito per approdare. Un incarico non scontato, visto che lo stesso Le Clerc aveva provocato un vero vespaio e si era attirato l’accusa di essere „un des plus grands sociniens qui soit au monde“ con i suoi „Sentiments de quelques théologiens de Hollande“ del 1685.[9] Con ogni probabilità fu Limborch, che aveva a suo tempo espresso qualche riserva sui „Sentiments“, ad offrire al giovane amico l’opportunità di esplicitare l’ormai piena adesione alla teologia rimostrante.

Si trattava di respingere l’accusa di socinianesimo mossa a Episcopio e agli arminiani in generale, ma anche di rivendicare la specificità e l’originalità della loro posizione di fronte al tentativo di Jurieu di appiattirla su quella degli esecrati antitrinitari. Le Clerc accettava di buon grado di individuare la questione trinitaria e la questione del sacrificio del Cristo come le „deux opinions principales“ che distinguevano Fausto Sozzini e i suoi successori „des autres chrétiens“. Su tali questioni riteneva infatti di poter facilmente dimostrare che la teologia rimostrante non aveva mai fatto proprie le specifiche posizioni dei Fratelli Polacchi: „à l’égard de ces deux chefs capitaux, Episcopius a été très-éloigné du sentiment des sociniens; d’où il s’ensuit qu’on ne peut l’accuser de socinianisme, avec quelque apparence de raison“.[10] A conforto di tale affermazione egli citava, per il primo dogma, il capitolo III della confessione di fede dei rimostranti del 1622 (di cui era stato estensore proprio Episcopio): un testo che si collocava chiaramente nell’ambito della tradizione trinitaria ortodossa (pur adottando, a dire il vero, un linguaggio non del tutto corrispondente a quello niceno: da rilevare, in particolare, l’assenza del termine ὁμοούσιοϛ, consubstantialis).[11] Le Clerc sosteneva che su questo punto neanche i teologi calvinisti di Leida, che avevano censurato la confessione di fede rimostrante, avessero mosso obiezioni.[12] Anche per la concezione sacrificale Le Clerc rimandava alla „Confessio fidei Remonstrantium“, oltre che all’„Apologia pro confessione Remonstrantium“ (1629) e alle „Institutiones theologicae“ dello stesso Episcopio (non citava invece, la qual cosa come vedremo non era senza significato, il „De satisfactione Christi“ di Grozio).[13]

Le Clerc si appellava insomma alle posizioni chiaramente espresse dal grande teologo rimostrante, che in più di un’occasione aveva apertamente criticato le tesi sociniane sia sul tema trinitario che su quello sacrificale. Su questa base risultava davvero inverosimile, per Le Clerc, che si muovesse a Episcopio l’accusa di socinianesimo, a meno di non volerlo accusare di malafede e di simulazione (senza però poter produrre alcun indizio che giustificasse tali accuse). Il ginevrino svolgeva insomma con puntualità il compito affidatogli dai rimostranti, richiamando le loro tradizionali prese di distanza dalle tesi propriamente sociniane ma anche la diversità del loro atteggiamento tollerante rispetto al dogmatismo dei seguaci di Dordrecht. Gli arminiani olandesi riconoscevano ai sociniani – nonostante i loro errori dottrinali – la qualifica di autentici cristiani e non ritenevano affatto che fossero necessariamente destinati alla perdizione: ciò si traduceva nella pratica dell’ospitalità eucaristica, che veniva invece negata agli intolleranti (e dunque, almeno in linea di principio, ai calvinisti ortodossi del tipo di Jurieu). Ciò nonostante la teologia rimostrante considerava erronee le posizioni sociniane, con le quali conduceva un dialogo rispettoso ma serrato sulla base della Scrittura: questo tipo di dialogo, rivendicava Le Clerc, aveva dimostrato in più di un caso di poter ottenere risultati migliori delle invettive degli esponenti delle chiese stabilite.

Per Jurieu in realtà proprio il rifiuto degli effetti operativi, sul piano ecclesiale, della condanna dottrinale rappresentava una delle criticità decisive della posizione arminiana. Egli arriverà a riconoscere che nella posizione originaria di Arminio non vi erano sostanziali cedimenti al socinianesimo, al di là della comune opposizione alla teologia calvinista della grazia: l’assenza di un intransigente argine teorico e pratico aveva però consentito una progressiva penetrazione della critica antitrinitaria nella teologia rimostrante, tanto che essa era ormai divenuta cosa ben diversa da quella proposta in origine dall’avversario di Gomar. Del resto quando Jurieu accusava gli arminiani di distinguersi solo per un sottile velo dai sociniani utilizzava quest’ultima etichetta in modo estensivo, per indicare ogni posizione critica nei confronti della tradizione dogmatica affermatasi sulla base dei concili di Nicea e Costantinopoli. Quando invece Le Clerc (come altri rimostranti prima di lui) insistevano sulla propria distanza dai sociniani si richiamavano a un’accezione restrittiva di questa denominazione per riferirsi alle posizioni caratteristiche di Fausto Sozzini e dei Fratelli Polacchi.

In realtà si poteva essere solidali con i sociniani (ed utilizzare molti loro argomenti) nella critica alla tradizione trinitaria e sacrificale pur senza accogliere nello specifico le dottrine che i sociniani stessi vi contrapponevano. Episcopio e Limborch, ad esempio, avevano criticato in modo articolato l’esegesi sociniana del prologo di Giovanni, distanziandosi nettamente dalle „Explicationes“ di Lelio e Fausto Sozzini, grazie alle quali si era costituita – in alternativa ad altre forme di antitrinitarismo – la posizione dottrinale che aveva trovato il proprio centro di diffusione a Raków. Lo stesso farà Le Clerc, peraltro aggiornando significativamente la strumentazione filologica ed esegetica, quando si troverà nella necessità di scrollarsi di dosso nuove pesanti accuse di socinianesimo.[14] In un certo senso, insomma, avevano ragione entrambi: Jurieu nell’accusare gli arminiani di fiancheggiare i sociniani nella loro polemica contro l’ortodossia protestante (e ovviamente cattolica) rilanciando una parte importante delle loro argomentazioni; Le Clerc nel puntualizzare la diversità delle due posizioni e nel valorizzare i punti di dissenso tra di esse. Si tratterà semmai di valutare in concreto quanto grandi e significativi fossero effettivamente tali dissensi: una valutazione non facile e che richiede un attento esame del complesso dei testi più rilevanti dei due diversi gruppi. Prima di provare ad abbozzare alcune prime indicazioni al riguardo, tuttavia, ritengo utile proporre alcune precisazioni di carattere terminologico.

3 Ambigue denominazioni: „sociniani“ e „arminiani“

L’equivocità nell’uso del termine „sociniano“ (ma anche di „arminiano“) non era certo confinata alla polemica del 1690 tra Jurieu e Le Clerc. Se allarghiamo lo sguardo al complesso delle discussioni seicentesche, ci accorgiamo quanto sia difficile fissare in modo univoco il significato di questi appellativi. L’accusa di socinianesimo era spesso utilizzata come una sorta di passepartout da parte dei difensori di questa o quella ortodossia, per bollare qualunque tendenza anche moderatamente razionalistica. Spesso „sociniano“ era più un insulto che la precisa individuazione di una posizione teorica. Ma anche senza considerare eccessi di questo genere, che rendevano applicabile quell’etichetta alle più disparate tendenze eterodosse, nell’uso comune „sociniano“ equivaleva quasi sempre a „antitrinitario“, sebbene esistessero forme di antitrinitarismo irriducibili al modello di Fausto Sozzini e dei Fratelli Polacchi: poco dopo la metà del secolo, in particolare, riemerse a opera di Christoph Sand e di alcuni ambienti platonici inglesi una forma di neo-arianesimo che affermava decisamente la preesistenza del Verbo e si opponeva apertamente all’unitarismo sociniano (di questo tipo, com’è noto, saranno più avanti le posizioni antitrinitarie di Isaac Newton e Samuel Clarke). Le Clerc e Locke, dal canto loro, si ponevano chiaramente fuori dalla tradizione trinitaria ortodossa senza abbracciare necessariamente le specifiche dottrine sociniane, in forza di un biblicismo che rifiutava ogni tipo di teologia speculativa. Quando verranno accusati di socinianesimo, pertanto, essi si sentiranno in diritto di respingere sdegnosamente tale imputazione senza per questo allinearsi alla teologia nicena (e cercando di sminuire il più possibile il loro debito nei confronti dei Fratelli Polacchi e dei loro simili). Un atteggiamento, quest’ultimo, in cui convergevano – e si confondevano – ragioni prudenziali e effettive ragioni dottrinali.[15]

Del resto con la metà del Seicento l’esperienza confessionale dei Fratelli Polacchi si era sostanzialmente interrotta. Ammesso che si possa ricavare un corpus dottrinale compatto dai testi raccolti nella „Bibliotheca Fratrum Polonorum“ (ma su non pochi punti, anche importanti, gli autori che vi vennero compresi esprimevano in realtà un ventaglio di posizioni abbastanza ampio), la diaspora dei decenni successivi rese sempre più difficile individuare una linea di sviluppo coerente della teologia dei successori dei Crell e dei Wiszowaty, anche quando portavano lo stesso cognome dei loro avi. Negli ultimi decenni del Seicento, soprattutto, l’aristotelismo di Fausto Sozzini e dello stesso Johannes Crell risultava ormai invecchiato e fuori moda nel contesto post-cartesiano. Prima il platonismo cantabrigense e poi soprattutto lo sperimentalismo di Boyle e l’empirismo di Locke offrirono alternative teoriche ben più al passo con i tempi, in grado di integrarsi efficacemente con l’esegesi storico-critica inaugurata da Spinoza e ripresa con coraggio dal cattolico Richard Simon e appunto dall’arminiano Le Clerc. I neo-sociniani della fine del Seicento, su questo piano, subirono l’egemonia intellettuale lockiana e rimostrante e curvarono decisamente in tale direzione le proprie posizioni (senza per questo allinearsi senz’altro alle cautele ufficiali dei rimostranti stessi).

Lo stesso termine „arminiano“, d’altro canto, era utilizzato in modo molto elastico e per ciò stesso ambiguo. Anche in questo caso esisteva un uso ristretto che si riferiva alle posizioni di Arminio e dei suoi seguaci olandesi: ma ciò non risolveva totalmente l’ambiguità, perché un conto erano le posizioni del grande rivale di Gomar, morto nel 1609, e magari dei suoi seguaci del decennio successivo, ed un altro conto erano le posizioni maturate dopo la sconfitta dordracense, che furono alla base della costituzione della fraternità rimostrante come piccola confessione distinta da quella calvinista dopo l’avvento al potere di Frederick Hendrick di Orange[16] (qualcosa di simile era accaduto anche tra i sociniani, tanto che spesso gli studiosi distinguono tra le posizioni originarie di Fausto e il „secondo socinianesimo“ di Johannes Crell). Fuori del contesto olandese, peraltro, venivano spesso definiti „arminiani“ quegli anglicani o quegli ugonotti che respingevano il rigido predestinazionismo calvinista: con quest’etichetta, ad esempio, veniva talora censurata la posizione teologica dell’arcivescovo Laud, certo inassimilabile per tanti versi a quella dei rimostranti olandesi (innanzitutto per la volontà di imporre autoritariamente ai dissidenti l’adesione alla chiesa di stato). Al contrario, nell’ambito britannico, gli arminiani d’Olanda ebbero intense relazioni con i platonici cantabrigensi e con alcuni ambienti latitudinari, condividendo con essi un fondamentale atteggiamento intellettuale e religioso (ma non necessariamente, neppure in questo caso, specifiche posizioni filosofiche o teologiche).[17]

L’equivocità dei termini utilizzati nel corso delle controversie seicentesche suggerisce dunque grande attenzione nell’evitare insidiose trappole nominalistiche. Pur volendo sfuggire ogni pedanteria occorre tenere a mente che, anche nell’ambito storico, la communicatio idiomatum è praticabile solo se si tengono ben fermi i riferimenti fondamentali e se ne chiariscono accuratamente i limiti. La strada maestra resta invece l’attenta ricostruzione della communicatio rerum gestarum, cioè dell’intreccio di vicende e di idee che portò spesso persone e gruppi diversi a condividere tratti di strada, incrociarsi e influenzarsi a vicenda, talvolta convergere o ibridarsi, talaltra scontrarsi e respingersi duramente. Sarà certamente utile, in questo senso, proseguire le ricerche avviate da tempo sull’influenza sociniana sui rimostranti olandesi (la questione si pose esplicitamente e visibilmente, per la prima volta, con l’esplodere del caso Vorstius a Leida e si riproporrà costantemente fino alla fine del secolo, quando Limborch avrà un ruolo determinante nella pubblicazione delle „Cogitationes sacrae“ di Samuel Przypkowski, nel 1692, come nono volume della „Bibliotheca Fratrum Polonorum“).[18] Sarà però necessario interrogarsi, più di quanto si sia fatto fin qui, sul movimento inverso, mettendo in luce come spesso siano stati i sociniani – nel corso del Seicento – a recepire idee e stimoli arminiani, soprattutto dopo la fine dell’Ecclesia minor, quando i teologi e gli intellettuali rimostranti si dimostrarono ben più vivaci e intraprendenti dei reduci dell’esperienza antitrinitaria polacca.

Per valutare adeguatamente la consistenza e il rilievo dell’interscambio teologico e culturale tra sociniani e arminiani nel corso del Seicento sarebbe necessario prendere in considerazione diversi nuclei tematici. Ne ricordo solo alcuni: a) l’articolazione del rapporto tra fede e ragione o tra rivelazione e filosofia, che in entrambi i casi conobbe significativi sviluppi; b) la critica al trinitarismo ortodosso, nell’ambito della comune opposizione al dogmatismo delle chiese stabilite, in cui si inserisce la specificità del rigoroso biblicismo e della modica theologia rimostrante rispetto all’antitrinitarismo dottrinario di Fausto Sozzini e dei suoi successori; c) le discussioni intorno alla lettura sacrificale della morte e resurrezione del Cristo, dalla disputa Grozio-Crell fino alla „Theologia christiana“ del Limborch; d) il superamento della tradizionale dottrina dell’eternità delle pene infernali, nella versione sociniana della „seconda morte“, in quella neo-origenista dell’apocatastasi o nell’interpretazione „medicinale“ che troverà compiuta espressione in Inghilterra con Tillotson; e) le tensioni teoriche interne ad entrambe le tradizioni sul nesso religione-politica, che approderanno per gli uni e per gli altri alla legittimazione sia della tolleranza ecclesiastica che della tolleranza civile, che verranno peraltro accuratamente distinte e per le quali verranno individuati specifici e diversi criteri operativi. Non pretendo certo di affrontare in questa sede tale complesso intreccio storico e teorico: mi limiterò invece ad alcune annotazioni introduttive su uno dei punti appena citati, nella speranza che possano risultare utili allo sviluppo ulteriore delle ricerche in questo campo.

4 Il cristianesimo sacrificale reinterpretato dalla tradizione rimostrante

Una tra le direttrici più significative della ricerca recente sul pensiero di Fausto Sozzini individua il nucleo centrale della sua proposta teologica nel rifiuto della tradizionale dottrina del sacrificio del Cristo, ancor più che nel suo antitrinitarismo. Ritengo che questa linea di lettura possa essere accolta come valida, per Fausto, a condizione che venga chiaramente delimitata e precisata, cosa che spero di poter fare in futuro. In sintesi si potrebbe dire che tanto la contestazione del cristianesimo sacrificale quanto l’affermazione dell’integrale umanità del Cristo, da parte di Fausto, si fondino sull’esigenza di ripensare la fede religiosa su basi rigorosamente morali: l’idea di Dio viene così depurata dalla dimensione che Rudolph Otto avrebbe definito del tremendum, mentre acquista assoluta centralità l’esemplarità morale della vita e della predicazione del Cristo (esemplarità che rischiava per Sozzini di essere compromessa dall’attribuzione a Gesù di Nazareth di una natura più che umana). La tradizionale concezione della passione e morte del Cristo come sacrificio espiatorio richiesto da Dio per la remissione dei peccati degli uomini appariva a Fausto un chiaro residuo dell’immagine vendicativa e pre-morale della divinità dominante nelle religioni pagane: immagine ancora presente, a suo avviso, in certe attestazioni vetero-testamentarie. Se di sacrificio del Cristo si poteva parlare, ai suoi occhi, esso non era avvenuto il venerdì santo, ma semmai la domenica di Pasqua: era il Cristo risorto e salito al cielo ad aver offerto al Padre l’oblazione pura e santa che gli era stata davvero gradita, mentre certamente Dio non poteva aver gioito per le sofferenze e la morte del proprio Figlio prediletto. Quello del Cristo non poteva dunque esser considerato un sacrificio espiatorio, ma piuttosto un atto d’intercessione di colui che aveva mostrato, anche nel momento più difficile, la propria piena obbedienza ai comandamenti divini.

La centralità della contestazione del cristianesimo sacrificale sembra però francamente sfumare nell’evoluzione successiva della tradizione sociniana. Se Johannes Crell si manterrà fedele, su questo punto, alla prospettiva di Fausto, lo stesso non potrà dirsi, infatti, per altri autorevoli ed influenti esponenti dei Fratelli Polacchi. Tra i teologi di punta dell’Ecclesia minor figureranno figure come Jonas Schlichting e Marcin Ruar, che difenderanno convintamente l’antitrinitarismo sociniano ma si mostreranno disponibili a fare nuovamente spazio alla concezione sacrificale, sia pure in una forma diversa da quella prevalente nell’ortodossia tanto cattolica quanto protestante. Gli slittamenti di questi autori rispetto a un punto così cruciale della proposta teologica di Fausto dimostrano che l’Ecclesia minor non poteva essere considerata un monolite, dal punto di vista dottrinale, ma dimostrano anche che almeno una parte dei Fratelli Polacchi individuava nell’antitrinitarismo più che nella negazione del sacrificio del Cristo il proprio carattere identitario decisivo. Tali slittamenti, in ogni caso, furono prodotti dal confronto ravvicinato con le posizioni rimostranti, che si sviluppò per gran parte del Seicento: gli arminiani olandesi si distinsero infatti per l’apertura al dialogo con i sociniani, ma anche per la capacità di controbattere loro sul terreno (da entrambi prediletto) di una stretta aderenza al testo biblico. Sulla questione sacrificale, in particolare, i rimostranti furono in grado di fornire un’interpretazione alternativa a quella calvinista senza arrivare all’integrale rifiuto sociniano della cosiddetta soddisfazione vicaria.

Un passaggio importante fu certamente la controversia tra Grozio e Johannes Crell degli anni 1617–1623. Il „De satisfactione Christi“ groziano, come è ben noto, si proponeva di allontanare dal fronte arminiano i sospetti e le accuse di socinianesimo scaturite dall’affaire Vorstius, di fronte all’incalzare della polemica gomarista che porterà di lì a poco al sinodo di Dordrecht e alla disfatta di Oldenbarnevelt e dei rimostranti. Lo sforzo di Grozio non fu ripagato dal successo: non solo i calvinisti continuarono a lanciare sugli arminiani violente accuse di socinianesimo, ma le alimentarono ulteriormente quando constatarono che alla risposta di Crell pubblicata nel 1623 non fece seguito alcun ulteriore intervento groziano. Ciò nonostante la controversia di Grozio con Crell restò una testimonianza importante di dissenso dottrinale, a cui i rimostranti si appellarono poi ogni volta che ci furono da respingere nuovamente accuse di questo genere.[19] Di recente si è dato particolare risalto a questo episodio, individuando nel rifiuto del cristianesimo sacrificale da parte di Sozzini e Crell una sorta di anticipazione del secolarismo illuministico, dinanzi alla quale la difesa groziana della dottrina del sacrificio vicario su basi antropologiche e etico-giuridiche è stata interpretata come sostanzialmente regressiva. La difesa groziana del cristianesimo sacrificale sarebbe in sostanza in controtendenza rispetto alla possibilità di una radicale desacralizzazione del potere attraverso la netta separazione tra religione e politica.[20] Non nego la parziale validità di questa lettura, ma ritengo tuttavia che le cose siano un po’ più complicate.

La cosiddetta „teoria governativa“ del sacrificio del Cristo sostenuta da Grozio rappresentava infatti una correzione della teoria della soddisfazione penale che teneva chiaramente conto delle obiezioni sociniane (anche se, come Crell non mancherà di rimproverargli, in non pochi casi il giurista olandese riportava un’immagine deformata delle posizioni di Fausto). Grozio ammetteva che la passione del Cristo non costituiva affatto un equivalente delle pene che i peccatori avrebbero meritato. Contro Sozzini egli difendeva però la legittimità della sostituzione della vittima sacrificale (in questo caso il Cristo) al titolare effettivo del debito (gli uomini peccatori): legittimità che egli asseriva su basi bibliche (sulla scorta dei sacrifici animali veterotestamentari) e antropologiche (tutte le religioni prevedevano a suo avviso sacrifici espiatori). All’obiezione morale mossa da Fausto Sozzini contro il sacrificio di una vittima innocente in sostituzione dei veri colpevoli, Grozio rispondeva con un contro-argomento morale: se la remissione dei peccati fosse avvenuta senza l’erogazione di una pena si sarebbe in qualche modo incrinato l’ordinamento morale universale. La giustizia divina esigeva infatti che le colpe non restassero impunite (ma lo avrebbe comunque richiesto la legge naturale, non si dimentichi, perfino nell’empia ipotesi che „Deus non daretur“). Se nella visione veterotestamentaria (e in tante religioni extrabibliche) era gradita a Dio una qualche oblazione che sostituisse la pena spettante al colpevole, si comprendeva come nella prospettiva neotestamentaria il Cristo potesse offrirsi liberamente come vittima innocente e gradita a Dio per i peccati degli uomini.

L’opposizione tra Grozio e Crell va inquadrata dunque all’interno di una fondamentale convergenza nel difendere la dimensione morale dell’esperienza religiosa, per quanto declinata in modo diverso. Tanto gli arminiani quanto i sociniani si richiamavano all’eredità erasmiana, caratterizzando il cristianesimo in senso prima di tutto etico e non dottrinale o istituzionale: gli uni e gli altri difendevano pertanto un’immagine di Dio in cui era preminente l’attributo della bontà rispetto a quello della giustizia, rifiutando la dottrina calvinista della predestinazione per le sue conseguenze in sede di teodicea e di morale. Ciò non toglie che alla base del recupero groziano del sacrificio come necessario fondamento della religione naturale stiano anche ragioni di ordine giuridico e politico, in contrapposizione alle istanze di origine anabattista in qualche misura ancora riconoscibili in Fausto e più in generale nell’antitrinitarismo polacco e transilvano. In questo senso mi pare perciò di poter sottoscrivere l’affermazione secondo cui Grozio „rifiutò la teodicea calvinista perché gli sembrava mettere a rischio la religione“ e „rifiutò la religione sociniana priva di sacrificio, perché gli sembrava mettere a rischio il fondamento della comunità civile“.[21]

Non posso soffermarmi qui in modo più approfondito sulla posizione specifica di Grozio e sul suo (peraltro rispettoso, se non addirittura amichevole) dialogo con Crell. Mi interessa invece sottolineare come il punto di vista del „De satisfactione Christi“ non possa essere attribuito automaticamente alla teologia rimostrante, che sviluppò una posizione per molti versi differente. Del resto è lecito sospettare che lo stesso Grozio abbia implicitamente preso le distanze, in seguito, dalle tesi proposte nel suo scritto del 1617: come già si è detto non rispose mai alla replica di Crell, scatenando così ulteriori accuse di sostanziale cedimento alle posizioni sociniane da parte dei controversisti calvinisti. Non solo: egli scrisse a Crell, dopo l’intervento di quest’ultimo, in termini estremamente amichevoli e elogiativi. Più tardi argomentò diffusamente, nel „De jure belli ac pacis“, contro la legittimità che un innocente venisse punito per qualcosa che non aveva commesso: è vero che quel testo non faceva riferimento al sacrificio del Cristo, ma lo stesso Grozio riportò poi con un certo compiacimento l’affermazione di Bisterfeld secondo cui se Crell avesse letto il „De jure“ non avrebbe mai avuto motivo di scrivere contro di lui. Riferendo al fratello della sua lunga e cordiale corrispondenza con Ruar, infine, Grozio rilevò di esser giunto a una sostanziale concordanza sulla questione sacrificale: difficilmente però tale concordanza si sarebbe potuta registrare sulle posizioni del „De satisfactione“, perché – come vedremo meglio più avanti – Ruar sosteneva al riguardo opinioni piuttosto differenti e convergenti semmai con quelle che erano tipiche della teologia di Episcopio.[22]

Già nel parere che quest’ultimo comunicò a Grozio prima della pubblicazione del „De satisfactione Christi“ emergeva in effetti qualche significativa riserva. Pur non volendo contrariare in alcun modo chi combatteva al suo fianco contro i gomaristi, Episcopio non nascondeva di ritenere la proposta groziana troppo affine alla lettura penale del sacrificio del Cristo. Il professore di Leida insisteva invece sul carattere propiziatorio e non espiatorio (in senso stretto) del sacrificio del Redentore. Gerhard Johann Voss, che fece da tramite tra i due, rilevò peraltro che l’opinione di Episcopio era condivisa da un altro noto pastore arminiano, Samuel Naeranus, anch’egli convinto che si potessero schivare gli aspetti più insidiosi della posizione sociniana in modo diverso da quello del grande giurista.[23]

Che Episcopio coltivasse una sostanziale riserva sulle tesi groziane trovò chiara conferma nelle sue „Institutiones theologicae“ e precisamente nella quinta sezione („De Redemtione“) del quarto libro („De Revelatione per D. N. Jesum Christum facta“). Episcopio evitava accuratamente di riprendere l’interpretazione almeno parzialmente penale e certamente vicariale del sacrificio del Cristo sostenuta da Grozio. Le annotazioni del teologo rimostrante erano del tutto estranee alla dimensione giuridica e non rimandavano minimamente all’idea che il sacrificio costituisse un necessario correlato della religione naturale, ma si muovevano al contrario sul piano strettamente teologico e specificamente scritturale. Episcopio contestava ai sociniani l’impossibilità di espungere dal testo biblico la nozione di sacrificio nella sua dimensione propiziatoria: la passione e morte del Cristo, nel Nuovo Testamento, costituivano effettivamente il presupposto del perdono dei peccati da parte di Dio. Per contro la nozione di satisfactio (che campeggiava già nel titolo del libro groziano) era dichiarata decisamente estranea al linguaggio biblico ed utilizzabile solo con grande cautela, per evitare di introdurre surrettiziamente concetti che non trovavano preciso fondamento nella rivelazione neotestamentaria.

La dottrina della soddisfazione – come era intesa nella tradizione che traeva origine dal „Cur Deus homo“ di Anselmo d’Aosta – risultava per Episcopio sostanzialmente incompatibile con il primato dell’attributo divino della bontà, anche se esso doveva in qualche modo contemperarsi con quello della giustizia. A suo avviso Dio avrebbe certamente potuto perdonare i peccati degli uomini in modo del tutto gratuito, in forza della sua misericordia, senza alcun bisogno di una qualche vittima espiatoria. Aveva però preferito, nella sua saggezza, evitare il rischio che questo atto di misericordia venisse interpretato come una sottovalutazione della gravità del peccato: volle perciò manifestare con la propria condotta primariamente l’amore per i peccatori e in secondo luogo la propria avversione al peccato e la propria giustizia. Per questo motivo Dio volle che la remissione dei peccati fosse preceduta e preparata dalla morte e resurrezione del Cristo, sacrificio „di soave odore“ capace di propiziare ai credenti la gratuita misericordia del Padre. Per Episcopio, infatti, la natura sacrificale della redenzione non contrastava con la sua assoluta gratuità, perché le sofferenze del Cristo non potevano essere considerate una pena che compensasse e sostituisse la mancata punizione degli uomini. Nonostante le analogie vi era una chiara diversità rispetto alla prospettiva di Grozio, che insisteva invece sulla necessità che Dio preservasse l’ordine morale e giuridico esigendo una riparazione delle trasgressioni umane (non in quanto parte offesa, naturalmente, ma in quanto legislatore e sovrano reggitore dell’universo).[24] Per Episcopio il sacrificio del Cristo non era stato affatto necessario perché Dio perdonasse i peccati, ma aveva un valore essenzialmente pedagogico e morale: grazie a esso nessuno poteva correre il rischio di scambiare la sua misericordia con una qualche sottovalutazione della gravità delle nostre colpe. Una reinterpretazione della dottrina del sacrificio, questa, che pur mantenendo il linguaggio teologico tradizionale accoglieva in larga misura le motivazioni profonde della critica sociniana.

Ancor più nettamente distante da Grozio (e confermando di essere, anche per questo verso, l’arminiano più vicino all’influsso sociniano) risultava Courcelles, il cui „Quaternio dissertationum theologicarum adversus Samuelem Maresium“ (1659) riprendeva le tesi di Episcopio, ma ne sottolineava con maggiore energia l’incompatibilità col dogma ortodosso. Anche Courcelles riconosceva un uso legittimo della categoria di soddisfazione, ma era particolarmente puntiglioso nel precisarne la portata: benissimo se con questo termine si intendeva che „Christus Deo Patri plenissime satisfecerit, cum propter salutem nostram factus est ei obediens usque ad mortem, mortem autem crucis“, perché il Padre non poteva aspettarsi un comportamento più aderente alla sua volontà. Ma se invece „per satisfactionem intelligas Christum proprie et absque figura omnium nostrorum peccatorum poenas persolvisse, et Deum id totum quod ipsi debebamus ab illo rigide exegisse, hoc est, ut ignis æterni supplicium apud inferos subiret, dico ejusmodi satisfactionem Scripturæ esse incognitam“ (queste ultime parole sono da rimarcare). Tale nozione non era presente nel Nuovo Testamento e soprattutto era del tutto incompatibile con la nozione di un Dio buono e giusto, in primo luogo perché „justitia Dei non permittebat ei, ut dimissis hominibus nocentibus, quos habebat in sua potestate, Christum puniret, qui plane innocens erat“. Ed a chi – come lo stesso Grozio – sosteneva che fosse lecito che il Cristo si accollasse la pena del peccato in quanto garante (sponsor) del debito contratto dagli uomini verso Dio, Courcelles ribatteva che „sponsores … tantum habent locum in debitis pecuniariis, sed non in poenis corporalibus. Et ratio hujus discriminis est, quia pecunia unius ad alterum transire potest; sed non poena. Cum enim delictum aliquod commissum est, non perinde est quis puniatur; sed oportet ut is ipse qui commisit, puniatur; alias justitiæ non satisfit“.[25] Secondo la Scrittura, del resto, Cristo è non „hominum sponsor, sed tantum Testamenti“: egli ci ha promesso la salvezza se adempiamo i suoi comandamenti, ma non ha mai promesso „se pro nobis rebellibus poenas soluturum“. La remissione dei nostri peccati era dunque un atto pienamente gratuito da parte di Dio, ancorché propiziato dal sacrificio del Cristo, mentre non sarebbe più stato tale se il Cristo avesse effettivamente saldato il debito che gli uomini avevano contratto col Padre. A chi poi sosteneva (ancora Grozio tra di essi) che le sofferenze del Cristo, ancorché di breve durata rispetto alle pene eterne che ci saremmo meritati, potessero essere considerate ad esse equivalenti „propter personæ cui contigerunt dignitatem, quæ Deus est“, Courcelles obiettava che

„aequipollentia ista probanda erat expresso aliquo Scripturæ testimonio, cum ratio doceat nullam esse proportionem inter duos aut tres dies, et aeternitatem, neque inter unius hominis, et innumerarum myriadum passionem; nec eam potuerit afferre divina Christi natura, in qua ipsum nihil esse passum constat. Christus ergo non salvavit nos, ferendo poenas quas Deus a nobis jure exigere poterat, sed virtute sacrificii sui corporis, quod mactatum in cruce, redivivus obtulit Deo in sanctuario cælesti. Nam charitas ejus erga nos, et obedientia erga Deum, quæ in eo eluxerunt, tam suavis coram Deo fuerunt odoris, ut propterea nobis omnia peccata; dummodo vere in eum credamus, et vitam ex ejus praescripto instituamus, condonare placuerit“.[26]

In definitiva, sulla base di una stretta aderenza alle testimonianze scritturali, non risultava appropriato ascrivere al Cristo un qualche merito – intendendo questa espressione nel suo senso effettivo – grazie al quale avrebbe riscattato i nostri peccati, perché „neminem apud Deum posse quicquam mereri. Nam Deus nullius rei indiget, et omnis noster cultus, etiam exquisitissimus, ne minimam quidem ei affert utilitatem“.[27]

Sulla stessa lunghezza d’onda risultava infine l’esposizione limborchiana della dottrina rimostrante sulla soddisfazione nella „Theologia christiana ad praxin pietatis et promotionem pacis Christianae unice directa“ del 1686. Come accadeva su altri temi, tuttavia, anche in questo caso era evidente lo sforzo del Limborch di ridurre il più possibile la distanza tra il linguaggio rimostrante e quello tipico di altre tradizioni teologiche, a cominciare da quella anglicana. Limborch confermava infatti l’impostazione strettamente scritturale della teologia rimostrante della redenzione, ma riapriva un qualche spiraglio al lessico penale respinto da Episcopio e da Courcelles.[28] Egli presentava la posizione rimostrante come intermedia tra quella calvinista e quella sociniana, rivendicando (contro i sociniani) il fondamento biblico del linguaggio sacrificale, ma affermando (contro i calvinisti) che esso andasse interpretato sulla base del primato dell’amore di Dio per i peccatori rispetto alla sua ira e alla sua sete di giustizia.

Il punto più delicato riguardava, a mio avviso, la parziale riabilitazione della lettura penale del sacrificio del Cristo. Tenendo ben fermo che Gesù di Nazareth non aveva subito „poenam eandem, quam nos peccatis nostris meriti eramus“, in quanto certamente „non … tulit mortem aeternam“, restava tuttavia il fatto che egli „tulit miseriam gravem et mortem cruentam nostro loco; quae fuit vice poenae a nobis juste sustinendae. Non quod nos proprie eandem specie praecise meriti fuerimus; meriti enim sumus multo graviorem, maledictionem aeternam: sed quia ipse innocens hanc in se ultro suscepit, fuit sacrificium Deo Patri adeo gratum, ut eo nos in gratiam recipere permotus sit“.[29] Non era dunque errato „certo sensu pro nobis [Christus] dici punitus, quatenus poenam vicariam, pro beneplacito divino sibi imponendam, hoc est, afflictionem, quae poenae vicem sustinuit, in se suscepit“. Il sacrificio del Cristo non era un corrispettivo reale della punizione che avremmo dovuto subire per i nostri peccati e tuttavia Dio volle considerarla come se fosse effettivamente tale.

John Mark Hicks ha giustamente rimarcato in questa concezione di Limborch un accento di tipo volontaristico: Dio sceglieva di considerare il sacrificio del Cristo un prezzo adeguato a riscattare i nostri peccati sebbene oggettivamente non lo fosse.[30] In questo modo Limborch riduceva il più possibile – senza però affatto annullarlo – lo scarto tra la posizione rimostrante sviluppata da Episcopio e Courcelles e le formulazioni utilizzate dalla gran parte delle chiese protestanti in merito alla satisfactio Christi.[31] Limborch riaccoglieva così, in certa misura, il lessico della soddisfazione vicaria, dopo averlo però accuratamente svuotato della sua sostanza. Questo sforzo corrispondeva chiaramente all’intento di accreditare la teologia rimostrante agli occhi dei cristiani illuminati di tutte le confessioni protestanti, al di là delle denominazioni ufficiali e contro ogni precisismo dottrinale. Tutta l’attività intellettuale e pubblicistica del Limborch fu chiaramente orientata a questo scopo: valorizzare l’eredità rimostrante per farne la base di una visione tollerante e liberale del cristianesimo. Di qui egli sperava potesse nascere una sorta di koyné teologica in cui potessero convergere i settori più aperti e spregiudicati delle chiese ufficiali ma anche gli eredi del dissenso religioso cinque e seicentesco, a cominciare proprio dagli epigoni della tradizione sociniana. Sullo specifico punto della dottrina del sacrificio, del resto, egli registrerà con grande soddisfazione la convergenza sulla posizione rimostrante di Jonas Schlichting e Marcin Ruar.[32]

5 Sociniani convertiti alla teologia rimostrante? Jonas Schlichting, Marcin Ruar, Samuel Crell

La teologia rimostrante, con Episcopio e Courcelles ma anche con Limborch, ritenne possibile mantenersi all’interno della teologia sacrificale accogliendo però le istanze di fondo sulla cui base Sozzini e Johannes Crell l’avevano esplicitamente rifiutata. Ciò consentì agli arminiani di attenersi a un linguaggio rigorosamente biblico, senza le forzature esegetiche dei primi sociniani. Questa rielaborazione della teologia sacrificale si rivelò persuasiva per una parte importante dei Fratelli Polacchi, che la fecero propria senza troppe difficoltà abbandonando di fatto la posizione che aveva caratterizzato Fausto e Crell: i casi più significativi, da questo punto di vista, furono quelli di Jonas Schlichting e Marcin Ruar, che operarono negli ultimi decenni di vita effettiva dell’Ecclesia minor.

Schlichting fu uno stretto collaboratore di Crell: alcuni degli scritti esegetici di quest’ultimo vennero pubblicati dalla „Bibliotheca Fratrum Polonorum“ con l’indicazione che erano stati elaborati insieme a Schlichting, che ne aveva curato la redazione definitiva. Il teologo di Bukowiec, rampollo di una nobile famiglia polacca, aveva seguito i corsi di Episcopio a Leida fino al 1618 e sicuramente continuò a seguire, sia pure a distanza, l’attività del suo ex-professore. Non meraviglia dunque che ne abbia potuto conoscere gli scritti teologici: secondo Limborch, in ogni caso, sia lui che Ruar ebbero specifiche conversazioni con Episcopio su questo tema.[33] Christoph Sand, nella „Bibliotheca Antitrinitariorum“, elenca tra i suoi scritti inediti le „Epistolae ad Matthiam Gloskovium Camerarium Calissiensem, in materia de Satisfactione et merito Christi, deque redemtione per sanguinem ejus ad asserendam Socini Confessione Dominorum Reformatorum accusati, innocentiam“ del 1645. Non disponendo di questo manoscritto possiamo farci un’idea delle posizioni sviluppate da Schlichting grazie ai suoi commentari al Nuovo Testamento, pubblicati nel sesto volume della „Bibliotheca Fratrum Polonorum“. Tra i luoghi significativi segnalo in particolare il commento a Romani 3:24, in cui l’autore riassumeva l’insegnamento paolino affermando che „Christus Jesus Deo auctore pro peccatis omnium victima piacularis factus est, sanguinem suum fudit, et hoc lytron sanguinis et mortis suae dedit, ut omnes in ipsum credentes a peccatorum reatu ac poena liberaret.“[34]

Schlichting teneva ovviamente a precisare, in perfetta sintonia con Episcopio, che la passione e morte del Cristo non avevano in quanto tali „eam vim … ut debita nostra proprie exsolverit“: nondimeno Dio volle computarle come tali e donarci per mezzo di esse la salvezza. Era Schlichting a utilizzare, ben prima di Limborch, espressioni d’intonazione chiaramente volontaristica, insistendo d’altro canto sul fatto che il riscatto dei peccati supponeva necessariamente la conversione dei peccatori:

„Christus pro peccatis nostris moriens victimae piacularis rationem habuit: victimarum autem sanguine non fiebat pro delicto ulla proprie dicta solutio, sed efficiebatur, Deo sic volente, delicti remissio et condonatio: et peccatorum nostrorum reatus manet, nisi credamus in Christum, et peccatis moriamur, qui haudquaquam remaneret si per Christi mortem facta esset debitorum nostrorum persolutio, non quaesita et parta, postquam et nos officium fecerimus, eorum remissio: debito enim persoluto tollitur omnis debitoris obligatio: et Deus ipse Christum Filium suum proprium pro peccatis nostris dedit, proinde sibi ipsi de suo debita nostra proprie loquendo persolvere non potuit.“[35]

Dio nella sua grande misericordia ha condonato tutte le nostre colpe e rinunciato ad esigere da noi ogni debito. Non solo „justitiam gratuito imputavit, et vitam aeternam nobis largiri constituit“, ma addirittura ha voluto offrire quanto aveva di più caro e prezioso come pegno di tale volontà: „Filium suum proprium, eumque unicum, pro peccatis nostris victimam fieri, et sanguinem innocentissimum sanctissimumque idque in cruce, fundere voluit.“[36]

Anche Marcin Ruar aveva seguito i corsi di Episcopio a Leida e aveva discusso con lui del sacrificio del Cristo. Successore di Johannes Crell alla guida dell’accademia sociniana di Raków, Ruar intrattenne una copiosa corrispondenza con Samuel e Johannes Naeranus, con Étienne de Courcelles e con lo stesso Grozio. Per quanto qui interessa è di particolare rilievo una sua lettera a Bartolomäus Schwartz (Nigrinus), peraltro di non facile datazione (secondo il luterano Zeltner sarebbe precedente al cosiddetto Colloquium charitativum di Toruń del 1645).[37] Ruar sottoscriveva senza difficoltà la soddisfazione del Cristo nello stesso senso che abbiamo incontrato in Courcelles, eludendo sostanzialmente la tesi ortodossa: „Dominum et Servatorem nostrum Jesum Christum abunde voluntati sui Patris in omnibus satisfecisse.“ Ciò non gli impediva però di far proprio il linguaggio sacrificale purché questo non collidesse con gli attributi morali di Dio.[38]

Ruar riproponeva le argomentazioni che abbiamo ritrovato, con diverse sfumature, in Episcopio, Schlichting e Courcelles: non ammetteva che l’obbedienza del Cristo avesse prodotto dinanzi al Padre „meritum stricte dictum“, ma non si opponeva ad attribuirgli „meritum in laxiore quadam significatione“; non concedeva che il Cristo avesse effettivamente saldato la pena che spettava ai nostri peccati, „cum ea definiri soleat vindicta noxae, a qua Christus alienus, nec justitia Dei permittat, ut poena nocenti debita innocenti irrogetur“ e tuttavia riteneva che si potesse parlare di pena „laxiore significatu“ senza impuntarsi su una disputa verbale: „de vocabulo nolim esse difficilis, cum ob peccata generis humani acerbissima quaeque Christum, Deo ita requirente, sustinuisse, cum Sacris Literis ultro tibi largiar“.[39] Egli riconosceva pertanto al Cristo non solo il titolo di profeta e di re, ma anche di sacerdote.[40]

La vicinanza di Schlichting e Ruar alle posizioni rimostranti sul sacrificio del Cristo era talmente evidente da rendere lecito supporre che le ultime formulazioni arminiane, come quella del Limborch, si fossero giovate delle rielaborazioni che questi sociniani avevano proposto delle tesi di Episcopio. Di fatto nel corso del Seicento era difficile distinguere con chiarezza le due diverse tradizioni sul punto che abbiamo preso in considerazione. Se è vero che i rimostranti non fecero mai propria la negazione del sacrificio del Cristo di Sozzini e Crell, è vero però che elaborarono una posizione che almeno una parte dei Fratelli Polacchi non esitò a far propria. Si tratterà di valutare, in un prossimo futuro, se qualcosa di simile si possa sostenere anche per gli altri temi sopra richiamati, a partire da quello trinitario. In sintesi posso anticipare che su quest’altro versante la tradizione sociniana manifestò una maggiore resilienza: se sul sacrificio del Cristo la posizione rimostrante si affermò progressivamente come egemonica rispetto a quella originariamente sociniana, sulla questione trinitaria le posizioni restarono in qualche misura distinte. Ciò non significa tuttavia che gli uni e gli altri non siano stati disponibili a una reciproca contaminazione anche su questo tema: sarebbe del tutto semplicistico pensare, per un verso, che gli arminiani olandesi si siano attestati su una rigida riproposizione del dogma niceno e che gli eredi dei Fratelli Polacchi, per l’altro verso, non si siano minimamente spostati dalla concezione antitrinitaria e dalla cristologia di Fausto.

Una testimonianza di grande interesse dell’evoluzione della tradizione antitrinitaria polacca su entrambi questi versanti può essere intanto rinvenuta nell’„Initium Evangelii S. Joannis Apostoli ex antiquitate ecclesiastica restitutum, indidemque nova ratione illustratum“ di Samuel Crell. Il nipote di Johannes Crell aveva ormai 66 anni quando pubblicò questo testo nel 1726 e aveva più volte incrociato i rimostranti. Nel loro seminario di Amsterdam era stato allievo di Limborch, con cui mantenne poi un rapporto di amicizia e di devozione. Era stato per molto tempo pastore nelle comunità sociniane tedesche, ma aveva viaggiato spesso in Inghilterra (un suo testo era stato pubblicato nei „Tractatus tres“ insieme ad altri di Gilbert Clerke) e aveva curato l’edizione postuma del „Platonisme dévoilé“ di Souverain, per la quale aveva sollecitato e ottenuto – non senza qualche tensione – la collaborazione di Le Clerc. Nel 1697 aveva pubblicato, con lo pseudonimo di Lucas Mellierus, la „Fides primorum Christianorum“. Per l’„Initium Evangelii S. Joannis“ riprese questo stesso pseudonimo, aggiungendovi però il nome di Artemonius, che rimandava a un protagonista delle discussioni trinitarie del II–III secolo scomunicato da papa Zefirino.[41] La dottrina di Artemone era una forma di monarchismo adozionistico e Crell la utilizzava per curvare la tradizionale cristologia sociniana in modo da tener conto delle critiche che a essa venivano mosse: l’uomo Gesù fu esaltato dal Padre, dopo la resurrezione, ed assunto al di sopra di ogni altro essere creato, per condividere la divinità dell’unico sommo Creatore. Come i suoi maestri sociniani, Crell rifiutava la dottrina della preesistenza del Verbo, con i suoi presupposti neoplatonici, ma cercava una strada che conciliasse l’affermazione dell’integrale umanità di Gesù di Nazareth con il riconoscimento di una divinità – seppure derivata, subordinata e anzi sopraggiunta – del Cristo. L’adozionismo di Crell confermava il disagio degli eredi dei Fratelli Polacchi, all’alba dei Lumi, nel mantenere il rigido unitarismo della loro tradizione o quello riproposto in forma diversa da Souverain.[42]

In questa sede ci interessano però soprattutto le affermazioni di Crell in merito alla dottrina del sacrificio del Cristo, che peraltro egli stesso indicava come quella maggiormente caratteristica dei sociniani stessi. Proprio facendo leva sull’abbandono dell’antisacrificalismo Crell pretendeva apertamente di non essere catalogato come sociniano. Come molti degli autori che abbiamo fin qui citato egli affermava di voler evitare ogni logomachia e formulava una professione di fede nel sacrificio del Cristo che di per sé avrebbe potuto essere sottoscritta tranquillamente dai teologi cattolici o protestanti: „In sua obedientia activa et passiva, fuit nostrorum pretium Redemptionis; fuit pro nobis, in ipsis suis passionibus, sacrificio proprie dictum expiatorium.“[43] Crell metteva anzi in bocca a Gesù una preghiera in cui questi si rivolgeva al Padre per offrirsi come agnello senza macchia in riscatto dei peccati degli uomini, richiamando esplicitamente i sacrifici animali graditi a Dio nell’Antico Testamento: „En ego non pecudem, sed me ipsum, quem Filium Tuum proprium esse voluisti, pro peccatoribus et eorum loco, victimam et sacrificium Tibi offero. En, ego me pro ipsis santifico. Impone mihi omnia eorum peccata; a me exige poenas eorum.“[44] Crell sembrava insomma andare perfino oltre i rimostranti nell’aderire alla dottrina della soddisfazione del Cristo senza bisogno di troppe precisazioni o limitazioni (anche se faceva cursoriamente cenno alla necessità di evitare „crassam illam de Christi Satisfactione sententiam“).[45]

A caratterizzare la sua adesione al cristianesimo sacrificale era però la parte finale della preghiera che egli attribuiva al Cristo: „si Pater es meus, si me Filium Tuum amas, admitte has preces meas et Filium Tuum exaudi. Hoc ipsum, hoc habebo summi Tui erga me amoris et gratiae Paternae documentum. Si illis parcere non vis, et moriendum est illis omnino, dele me etiam de libro vitae; nam sine ipsis ego vivere nolo nec possum. Tristis sine illis, ac ideo infelix mihi vita esset agenda; si totum meum genus irreparabiliter perderetur“. Il Cristo che si offriva in sacrificio, per Crell, condivideva fino in fondo l’integrale umanità dei suoi fratelli, al punto di non poter neppure immaginare di separarsi da loro e di invocare il proprio stesso annientamento se agli altri uomini non fosse stata concessa la vita eterna.

„Ergo in gratiam Filii sui, propter Filium suum sese pro nobis offerentem, ita genus humanum amantem, Deus nobis placatus et propitius factus, remittit poenitentibus et vitam christianam viventibus omnia peccata; justificat nos et tractat quasi nunquam peccassemus; imo plus in nos, propter Filium suum, confert, quam habuissemus, si Adam semper in innocentia persistente, nos per eum in statu vitae conservassemus; Filiumque suum eo dignitatis evehit, quo Adamus nunquam pervenisset, etiamsi curriculum probationis absque omni peccato absolvisset.“[46]

La posizione di Samuel Crell presentava insomma tratti di indubbia singolarità. Per un verso aderiva alla formulazione ortodossa della dottrina del sacrificio del Cristo e alludeva positivamente (anche se molto vagamente) alle posizioni difese da Grozio contro il nonno Johannes.[47] Rifiutava poi di esser catalogato come sociniano e si inventava un’etichetta del tutto posticcia di artemonita: tuttavia faceva riferimento a Fausto con grande ammirazione e devozione, ipotizzando che lo stesso senese – se fosse tornato in vita – sarebbe stato pronto a rivedere le proprie posizioni sulla base della nuova forma conferita alla dottrina del sacrificio del Cristo dai rimostranti e dai neo- o post-sociniani come lui stesso. Mentre negava di essere un sociniano, insomma, ribadiva in realtà una fedeltà di fondo alla tradizione che da Fausto aveva avuto origine, interpretandola non come un rigido bagaglio dottrinale ma come una fonte d’ispirazione da ritradurre creativamente nel nuovo contesto culturale. Se l’eredità sociniana voleva avere un futuro, a suo avviso, doveva far tesoro delle acquisizioni successive, buona parte delle quali provenienti proprio dagli arminiani. Samuel Crell, a conti fatti, sentiva di appartenere a entrambe le tradizioni, quella dei Fratelli Polacchi e quella dei rimostranti, che ai suoi occhi avevano una comune ispirazione e contribuivano a pari titolo a una fede cristiana adatta al secolo dei Lumi.

Published Online: 2022-11-18
Published in Print: 2022-11-15

© 2022 bei den Autorinnen und den Autoren, publiziert von De Gruyter.

Dieses Werk ist lizensiert unter einer Creative Commons Namensnennung - Nicht-kommerziell - Keine Bearbeitung 4.0 International Lizenz.

Articles in the same Issue

  1. Titelseiten
  2. Jahresbericht des DHI Rom 2021
  3. Themenschwerpunkt Early Modern Antitrinitarianism and Italian Culture. Interdisciplinary Perspectives / Antitrinitarismo della prima età moderna e cultura italiana. Prospettive interdisciplinari herausgegeben von Riccarda Suitner
  4. Antitrinitarismo della prima età moderna e cultura italiana
  5. Italian Nicodemites amidst Radicals and Antitrinitarians
  6. Melanchthon and Servet
  7. Camillo Renato tra stati italiani e Grigioni
  8. Heterogeneous religion: imperfect or braided?
  9. La religione sociniana
  10. Arminiani e sociniani nel Seicento: rifiuto o reinterpretazione del cristianesimo sacrificale?
  11. Artikel
  12. Das italienische Notariat und das „Hlotharii capitulare Papiense“ von 832
  13. I giudici al servizio della corte imperiale nell’Italia delle città (secolo XII)
  14. Nascita dei Comuni e memoria di Roma: un legame da riscoprire
  15. Verfehlungen und Strafen
  16. La nobiltà di Terraferma tra Venezia e le corti europee
  17. Scipione Gonzaga, Fürst von Bozzolo, kaiserlicher Gesandter in Rom 1634–1641
  18. Il caso delle prelature personali dei Genovesi nella Roma tardo-barocca
  19. In the Wings
  20. Strategie di divulgazione scientifica e nation building nel primo Ottocento
  21. Una „razza mediterranea“?
  22. Zur Geschichte der italienisch-faschistischen Division Monterosa im deutsch besetzten Italien 1944–1945
  23. Forum
  24. La ricerca sulle fonti e le sue sfide
  25. Die toskanische Weimar-Fraktion
  26. Globale Musikgeschichte – der lange Weg
  27. Tagungen des Instituts
  28. Il medioevo e l’Italia fascista: al di là della „romanità“/The Middle Ages and Fascist Italy: Beyond „Romanità“
  29. Making Saints in a Glocal Religion. Practices of Holiness in Early Modern Catholicism
  30. War and Genocide, Reconstruction and Change. The Global Pontificate of Pius XII, 1939–1958
  31. The Return of Looted Artefacts since 1945. Post-fascist and post-colonial restitution in comparative perspective
  32. Circolo Medievistico Romano
  33. Circolo Medievistico Romano 2021
  34. Nachruf
  35. Klaus Voigt (1938–2021)
  36. Rezensionen
  37. Leitrezension
  38. Die Geburt der Politik aus dem Geist des Humanismus
  39. Sammelrezensionen
  40. Es geht auch ohne Karl den Großen!
  41. „Roma capitale“
  42. Allgemein, Mittelalter, Frühe Neuzeit, 19.–20. Jahrhundert
  43. Verzeichnis der Rezensentinnen und Rezensenten
  44. Register der in den Rezensionen genannten Autorinnen und Autoren
Downloaded on 8.9.2025 from https://www.degruyterbrill.com/document/doi/10.1515/qufiab-2022-0008/html
Scroll to top button