Abstract
The essay illustrates the system of direct taxation, the colletta, applied in the city of L’Aquila in the Angevin and Aragonese periods. By analysing the administrative processes, it defines the role of the institutions involved: that of the municipal government and that of the local government, both inside and outside the city, which identified themselves with L’Aquila’s founding communities and ensured the management of land and collective assets. The criteria for the distribution of the tax are also determined by the recognition of the procedures used to calculate the contribution: on a personal basis, through censuses (called numerationes foculariorum), and on a cadastral basis, through land registers (apprezzi).
Monete di conto: 1 oncia = 6 ducati; 1 grano = 5 ducati.
Monete: 1 ducato = 5 tarì = 10 carlini = 100 grana = 150 soldi = 1200 cavalli.
1 Introduzione
Uno degli aspetti più rilevanti della storia urbana del regno di Napoli nel primo periodo angioino è la graduale affermazione delle competenze delle comunità (le universitates) in diversi ambiti amministrativi: poteri fiscali, polizia campestre, lavori e opere pubbliche, gestione dei patrimoni comuni e degli usi civici, normative annonarie, statutarie.[1] Questi spazi di autonomia amministrativa non erano concorrenziali al potere monarchico (e per molti versi neppure a quello feudale), bensì inquadrati sotto la sua giurisdizione.[2] Il rapporto tra la monarchia e le università si sviluppava lungo eterogenee e molteplici direttrici, di cui una delle più rilevanti era certamente quella fiscale. Il sistema di esazione delle imposte dirette regie, denominate in epoca angioina generales subventiones o collecte e in epoca aragonese fiscales functiones, era articolato su due livelli distinti: lo stato imponeva alle comunità il pagamento di una somma stabilita secondo criteri non sempre chiari, lasciando alle università l’incombenza di occuparsi di ripartire ed esigere il dovuto presso i contribuenti. La storiografia si è concentrata sul primo livello, quello dell’esazione regia, che è, quindi, per grandi linee, conosciuto.[3]
Gli studi sull’argomento sono stati recentemente aggiornati da Serena Morelli, la quale ha definito delle periodizzazioni del sistema di riscossione da parte dello stato: la prima fase determinata dall’organizzazione impostata da Carlo I; la seconda, a partire da Giovanna I, dovuta alla continua azione di contrattazione con la corona svolta dalle università al fine di ottenere privilegi di sgravio, esenzione o riduzione della contribuzione stessa a una quota fissa (forfait);[4] la terza fase corrisponde alla riforma di Alfonso d’Aragona del 1443.[5]
La politica fiscale di ogni università del regno era il risultato di un processo di contrattazione tra le istanze della monarchia, tese ad assicurare un sicuro gettito confacente alle proprie necessità finanziarie, e le consuetudini e le dinamiche politico-economiche interne alla comunità, nelle quali si misuravano i rapporti di forza dei gruppi sociali.[6] Il tratto principale della fiscalità nel periodo medievale, solo in parte temperato dalla riforma alfonsina, era il suo carattere di sperequazione, che si manifestava in tutti i livelli di esazione: tra la corona e le singole università e tra le articolazioni interne alle università stesse, che potevano essere di natura censuaria, territoriale-amministrativa e personale. Le disuguaglianze di trattamento fiscale all’interno di una comunità possono essere generalmente ricondotte a rapporti di predominanza e a legami politici preferenziali fra il potere eminente, cioè la monarchia, e determinati ceti o gruppi sociali.
Trattando dei contenuti della riforma fiscale del 1443 di Alfonso il Magnanimo, Mario Del Treppo ha fornito le coordinate basilari per comprendere il sistema delle imposte dirette del regno di Napoli nel Quattrocento, stabilito tramite due distinte procedure. Al livello più alto c’era la numerazione dei fuochi (nuclei produttori di reddito), di competenza dello stato, utile a determinare l’ammontare complessivo dovuto da una data comunità. La somma dovuta da ogni singola università era determinata attraverso la moltiplicazione del numero dei fuochi censiti per un coefficiente stabilito dal governo centrale (come ad esempio un ducato per il focatico più un altro ducato per il costo del tomolo di sale). Al livello inferiore c’era invece l’estimo dei beni mobili e immobili, definito apprezzo, di competenza delle università feudali e demaniali, attraverso il quale si ripartiva l’esazione tra i cittadini in modo proporzionale alla ricchezza stimata.
Rispetto ai principi ispiratori della fiscalità angioina, la riforma alfonsina non presentava elementi strutturali nuovi. Secondo Mario Del Treppo la sua innovazione consisteva nel trasformare un contributo a carattere straordinario in ordinario, mentre la sua equità, almeno nella teoria, era garantita, oltre che dagli estimi, dalla periodicità triennale della numerazione dei fuochi. A differenza delle collette del periodo angioino, dunque, la riforma garantiva una certa regolarità e una maggiore prevedibilità dell’esazione.[7]
Le indagini sul fenomeno urbano meridionale, che negli ultimi anni si sono arricchite di contributi fondamentali, come quelli di Pierluigi Terenzi sull’Aquila, di Francesco Senatore su Capua, di Potito D’Arcangelo sulle realtà cittadine della Capitanata e il volume curato da Raffaele Licinio su Manfredonia,[8] hanno posto in evidenza gli ambiti di autonomia cittadina in materia fiscale.
La documentazione ha consentito una buona cognizione delle imposte indirette, dazi e gabelle, che tendono a diffondersi alla fine del Quattrocento, a volte sostituendo, più spesso affiancando, l’esazione diretta in molte municipalità del regno.[9] Riguardo all’imposta diretta, invece, pur disponendo dei due strumenti di definizione dei parametri attraverso i quali un’università calcolava il valore dell’imposizione, ossia le numerazioni dei fuochi e gli apprezzi, restano tuttavia impossibili da comprendere le modalità attuative senza la contestuale conoscenza dei criteri di applicazione.
L’importante storiografia sulla fiscalità diretta negli stati regionali dell’Italia settentrionale si è maggiormente interessata, all’opposto di quella meridionale, al secondo livello di esazione, rappresentato dagli estimi, ossia all’insieme delle procedure e dei parametri di valutazione attraverso i quali si arrivava (al livello delle singole città soggette, il corrispondente delle universitates meridionali) a definire l’imponibile individuale o collettivo (e i relativi coefficienti con i quali si applicavano le imposte dirette).[10]
Da questa prospettiva si è giunti a considerare la tassazione diretta come un’imposta a carattere prevalentemente reale e, almeno negli intenti, proporzionale ai livelli di ricchezza dei contribuenti.[11] Negli stati regionali del centro-nord d’Italia il sistema per l’imposizione diretta era ugualmente articolato su due livelli: nel primo, ossia tra lo stato e le comunità, l’onere fiscale era stabilito in base a valutazioni approssimative e attraverso accordi e pattuizioni che tendevano a fissarsi nel tempo e a resistere a successive istanze di revisione.[12] Ad eccezione degli estimi generali di Firenze del 1427–1430[13] e di Milano del 1433–1434,[14] il primo livello di esazione procedeva in base a calcoli sommari, a considerazioni di natura politica, strategica o secondo trattative e pattuizioni.[15] Il rapporto di soggezione tra la maggior parte dei comuni e la signoria o la città dominante si declinava, in materia fiscale, in modo non dissimile rispetto a quanto avveniva nel regno di Napoli tra la corona e le università. L’elemento distintivo tra il regno e gli stati regionali riguardo al primo livello di esazione è probabilmente l’utilizzo, nel Mezzogiorno, di un criterio di ripartizione definito, fondato sul principio demografico rappresentato dalle numerazioni dei fuochi. Il secondo livello di esazione, invece, è del tutto equiparabile tra le due aree e vi interveniva in modo quasi sempre esclusivo l’autorità locale, mentre quella centrale interferiva il meno possibile, solo quando era chiamata direttamente in causa, oppure per garantire la pace sociale nel momento in cui i conflitti per la ripartizione delle imposte diventavano pericolosi.[16]
In questo contesto storiografico, la città dell’Aquila si presenta come un ottimale caso di studio per due motivi principali: l’importanza del ricorso alla fiscalità diretta, che fu una pratica di lunga durata, dal XIV alla seconda metà del XVII secolo,[17] e le fonti documentarie conservate.
Il presente saggio si avvale per il Quattrocento della cospicua documentazione dell’Archivio Civico Aquilano (ACA), di cui interessano principalmente i documenti ricevuti dal potere regio e in parte copiati nei due codici dei privilegi cittadini,[18] le scritture dell’università stessa, ossia gli statuti,[19] i Libri reformationum (le delibere consiliari),[20] i registri amministrativi (copie di lettere, mandati, provvedimenti vari),[21] i libri mastri,[22] i quarantaquattro volumi di apprezzi quattrocenteschi di altrettante università aquilane e la numerazione dei fuochi del 1508,[23] dalla quale si desume la precedente del 1488–1489.[24] Questa documentazione, che consente di comprendere i processi amministrativi che governavano l’imposizione, puntualmente rilevati da Pierluigi Terenzi,[25] non è tuttavia sufficiente a chiarire la pratica di esazione. L’importante cronachistica cittadina del XIV e XV secolo, composta da nove cronache, quattro in versi e cinque in prosa, supplisce in modo determinante al deficit documentario offrendo informazioni sui dati numerici e sui criteri di applicazione dei censimenti ed estimi che, per le loro caratteristiche di strumenti utili entro un determinato periodo, meno si prestano alla conservazione, al di là dei fattori soliti, antropici e naturali, che ne causano la perdita.
La documentazione, per quanto incompleta e frammentaria, consente di avere cognizione della prassi amministrativa, dei sistemi di calcolo e dei meccanismi di ripartizione dell’imposta diretta in un’importante città del regno meridionale.
2 I beni demaniali e il sistema federativo dell’ordinamento municipale
Il sistema fiscale è necessariamente in correlazione con gli aspetti economici e amministrativi di una comunità. Sono due i fattori di imprinting che influiscono sugli assetti amministrativi ed economici dell’Aquila: il processo di fondazione e un’economia fortemente caratterizzata dall’allevamento transumante. L’Aquila fu fondata nel 1254 attraverso il sinecismo delle popolazioni di una settantina di villaggi e castelli ricadenti nei territori dei comitati di Amiterno e Forcona, nell’Abruzzo interno. Distrutta da Manfredi di Svevia nel 1259, la città fu ricostruita a partire dal 1266 e ridotta in demanio regio da Carlo I d’Angiò.[26] Lo spazio cittadino riproponeva l’immagine del contado: ciascuna università rurale aveva un proprio locale,[27] che nell’accezione originaria indicava l’area edificabile con una piazza e una chiesa con lo stesso titolo di quella della parrocchia d’origine. Il termine locale passò presto a indicare un’università dentro le mura (ad esempio Roio intus, Coppito intus, ecc.), ma anche tutta l’università, sia intus sia extra moenia.[28] I locali furono aggregati in quattro circoscrizioni, i quarti di S. Pietro, S. Maria, S. Giorgio e S. Giovanni, rispettivamente i quadranti di nord-ovest, nord-est, sud-est e sud-ovest del contado, funzionali ad esprimere la rappresentanza politica. La prima fondazione, ratificata dal diploma di Corrado IV del 1254, prevedeva la clausola dell’abbandono e la distruzione dei castelli una volta trasferiti gli abitanti in città, ma questo non avvenne e non fu riproposto al momento della riedificazione.[29] Ogni università mantenne una propria amministrazione, tanto per gli abitanti inurbati quanto per quelli rimasti nel contado (comitatenses), con una magistratura ordinaria (i massari) e una straordinaria (i sindaci), che gestivano il territorio e i beni comuni. Il districtus o comitatus aquilano, di fatto, restava frazionato e in possesso delle università fondatrici e il suo godimento era riservato ai cittadini di ciascun locale per il solo territorio originario insieme agli abitanti del castello o villaggio di provenienza. Questo ordinamento non consentì, diversamente da quanto accadeva nelle realtà comunali dell’Italia centro-settentrionale, una distinzione fiscale e di diritti politici tra la città e il contado. Le mura cittadine non rappresentavano alcun limite giuridico e i diritti, come i doveri fiscali di ogni singolo cittadino, erano i medesimi, tanto per gli abitanti della città quanto per quelli della porzione corrispondente di contado.
La regina Giovanna I, nel 1374, nell’ambito di una riforma che tentava di porre un freno ai conflitti tra le fazioni, sorti cinquant’anni prima tra le università aquilane per la definizione dei propri confini territoriali e rapidamente trasformati dalle famiglie eminenti in una lotta per il predominio, permise ai castelli di nominare i propri massari e gli ufficiali sottoposti: conestabili, giurati, referendari della curia del capitano e custodi dei campi (guardie campestri).[30] Da quel momento le università aquilane ebbero una struttura amministrativa bipartita: una entro le mura cittadine (intus moenia) e l’altra nel castello di origine (extra moenia), ognuna con sue prerogative e beni. L’usufrutto e la gestione del territorio originale, cioè quello di pertinenza del castello prima della fondazione della città, tuttavia, avveniva con la compartecipazione delle due amministrazioni.
Le istituzioni cittadine rappresentano una sovrastruttura rispetto all’ordinamento federale originario e non interferiscono con le prerogative di ciascuna università, tra le quali, la più importante, è certamente quella fiscale. Nel 1294 Carlo II d’Angiò, con privilegio chiarito tre anni dopo con lettera esecutoriale ai giustizieri e capitani regi d’Abruzzo, stabilì che le collette dovevano essere riscosse dal solo capitano della città e dovevano essere trasmesse sotto il nome di Aquila per un valore pari alla somma di quanto dovuto e raccolto da ciascun locale cittadino, secondo il corrispondente in denaro e in milizia stabilito dal figlio Carlo Martello.[31] In questo caso il termine locale indicava l’intera università, sia intus sia extra, e il corrispettivo stabilito da Carlo Martello, che non era solo monetario ma prevedeva anche una prestazione militare, doveva essere esatto dal solo capitano dell’Aquila, quindi senza l’intervento del giustiziere provinciale. Ma l’unione fiscale di queste università sotto l’unica denominazione di Aquila è un dato formale, rispondente a semplificazioni di cancelleria, che rimase a lungo del tutto inapplicato.[32]
Le università aquilane avevano una propria gestione finanziaria che non si esauriva con l’azione esattiva, ma disponevano di rendite ottenute da beni di diversa natura (demani, mulini, forni),[33] che erano registrate negli apprezzi quattrocenteschi sotto l’intestazione di „lu populo di … [ad esempio Bazzano] … habet“ e soggette a tassazione. La voce di introito principale era rappresentata dai pascoli montani, che le università affittavano ai possessori di bestiame transumante per il periodo estivo, ricavandone notevoli guadagni. Questo sistema, che contava sulla presenza di possessori di bestiame transumante e di contratti d’affitto delle montagne, è documentato dagli anni Trenta del Trecento.
Nel testamento del 1335 il grande mercante aquilano Giacomo di Tommaso del Curiale di San Vittorino, detto Gaglioffo, dichiara di avere la considerevole cifra di 8951 pecore in Puglia,[34] mentre è del 1331 la prima notizia pervenuta di un contratto di affitto dei pascoli montani da parte di un’università aquilana.[35] In epoca aragonese alcuni mercanti aquilani disponevano di un patrimonio zootecnico impressionante, come la compagnia commerciale di Pasquale e Sante, figli di Santuccio, che nel 1473 constava di 19 000 ovini.[36]
Nei primi decenni del Trecento i confini dei demani delle università aquilane restavano tuttavia non chiaramente definiti e riconosciuti.[37] A partire dagli anni Venti dello stesso secolo, infatti, abbiamo notizie delle prime risoluzioni dei problemi di confini sulla montagna attraverso arbitrati, cui faceva seguito l’assenso regio, o tramite la violenza. Buccio di Ranallo racconta diffusamente questi conflitti per le „montagne erbate“, sorti affinché le pecore fossero „ben statariate“, ossia avessero un buon pascolo estivo.[38] Il passaggio di soggezione da un signore a quella della corona a seguito della fondazione della città aveva trasformato il demanium feudi in demanium universitatis, secondo un processo non ricostruibile dalla documentazione. I conflitti riguardavano la sola definizione dei confini o lo scioglimento di promiscuità territoriali[39] tra le singole università ed erano quindi limitati a spazi controversi e ridotti che non mettevano in discussione il possesso dell’intero corpo demaniale.[40]
Al di là dell’aspetto economico, il possesso di un proprio demanio era un elemento indispensabile al riconoscimento di una comunità aquilana come soggetto fiscale autonomo.[41] Quelle che si trovavano sotto la stessa signoria prima della fondazione della città, come ad esempio Ocre e Sinizzo, appartenenti rispettivamente ai de Ocre e ai de Sinizzo, ancora ai primi del Trecento costituivano delle entità fiscali composte da diverse università e indicate con la definizione di terre (come la Terra Ocrensis, formata da Ocre, Fossa, Rocca di Cambio e Rocca di Mezzo, o la Terra Fuscalina et Siniziense, la prima formata da Barisciano Superiore, Barisciano Inferiore, Forfona, Picenze e Castelnuovo e la seconda da Sinizzo e San Demetrio con le sue ville). La definizione dei confini dei territori è un’altra caratteristica della città e non trova riscontro nei limitrofi complessi feudali della Baronia di Carapelle o della Terra di Ofena, dove lo scioglimento di promiscuità territoriali avvenne solo nell’Ottocento, a seguito dei lavori della Commissione feudale.
Almeno dagli inizi del Trecento, quindi, le università aquilane avevano la disponibilità di beni demaniali attigui all’abitato e aperti agli usi civici dei cittadini e alcune di queste anche di demani alti, cioè montani, generalmente posti a quote superiori ai 1200 metri. L’utilizzo dei demani alti da parte dei cittadini era limitato a poche attività, come il libero pascolo dell’armento bovino su tutta la superficie o su una parte riservata, detta difesa, l’estrazione della legna dai boschi e del letame dagli stazzi. I pascoli montani, distanti dai centri abitati ed esuberanti alle necessità dei pochi animali ovini stanziali, trovavano la loro valorizzazione economica nell’utilizzo da parte degli animali transumanti durante il periodo estivo tramite due sistemi di concessione, per fida o per affitto. La fida è la concessione del diritto di pascolo in cambio di un corrispettivo calcolato un tanto ogni 100 animali, mentre l’affitto avveniva tramite asta pubblica (la subasta).[42] Le università aquilane, salvo pochissime eccezioni, preferivano la soluzione dell’affitto perché più remunerativa, riservandosi generalmente la guardiania (servizio di sorveglianza con facoltà di imporre le multe e di eseguire il sequestro degli animali), quando anche questa non veniva venduta allo stesso affittuario o ad altri. I pascoli montani, pur restando beni collettivi, erano così inseriti in un sistema economico complesso, come quello dell’allevamento transumante, diventando oggetto di un mercato che offriva ampie possibilità di speculazione. Le gare d’asta, infatti, non erano riservate ai soli allevatori, i quali potevano fare un uso diretto portando al pascolo i propri animali, ma a tutti, anche a coloro che, una volta risultati aggiudicatari, potevano ricedere agli allevatori a un prezzo maggiorato, oppure imporre una fida il cui ammontare era a loro discrezione. Tale sistema non ebbe sostanziali variazioni per tutta l’epoca moderna e solo in parte in quella contemporanea: la stessa Dogana di Puglia, che aveva l’amministrazione dei pascoli invernali pugliesi, dei tratturi, nonché del foro straordinario, non ebbe mai alcun potere sui pascoli montani, che rimasero di proprietà delle comunità appenniniche, da cui, è bene ricordare, originava il fenomeno stesso dell’allevamento transumante.
Le università aquilane, fino al 1374, amministrarono tali beni sia per la parte di cittadinanza entro le mura civiche sia per quella rimasta nel castello d’origine. In seguito, con la nascita delle amministrazioni nei castelli d’origine, di cui si è detto, i beni demaniali furono gestiti con il concorso delle due amministrazioni e gli utili erano ripartiti tra le stesse in base a quozienti proporzionali al numero dei fuochi.[43]
Le disponibilità finanziarie delle università potevano alleviare in tutto o in parte la contribuzione dovuta dai propri cittadini. Ad esempio, nel 1481, quando re Ferrante impose la colletta straordinaria utile a finanziare la spedizione per liberare Otranto dai Turchi, l’università di Paganica saldò il dovuto alla città, 150 ducati, interamente con il ricavato dell’affitto della montagna.[44]
L’imposta diretta, pertanto, calcolata dal governo dell’Aquila in modo perequativo tra tutti i cittadini, aveva negli effetti delle sostanziali differenze a seconda delle disponibilità economiche e delle scelte di ciascuna università. Una condizione del tutto privilegiata in tal senso era rappresentata dalle università dei „castelli diruti“, ossia di quelle che avevano del tutto abbandonato i castelli di origine dalla seconda metà del Trecento.[45] Un numero ristrettissimo di focolieri (capi-fuoco membri di un’università) godeva di estesi territori di cui affittavano i pascoli e i coltivi, dai quali ottenevano dei ricavi che superavano di molto le contribuzioni fiscali e le altre spese dell’università e consentivano una ripartizione degli utili tra i beneficiari. La parte spettante a ciascun focoliere era detta portione e si componeva di diverse quote: in denaro dall’affitto dei pascoli e in natura da quello dei coltivi.[46]
Una tale situazione ebbe degli esiti quantomeno originali già alla fine del Quattrocento[47] e in modo più sostanziale nel secolo successivo: il diritto di cittadinanza in una qualsiasi università aquilana, definito jus foculerii, ossia diritto di focoliere, trasmesso per diritto ereditario, era nella completa disponibilità del suo possessore e, previa autorizzazione dell’università, poteva essere venduto, affittato, impegnato a garanzia dei prestiti e in alcuni casi addirittura cumulato.[48]
3 La ripartizione degli oneri fiscali in età angioina e aragonese
3.1 Gli ufficiali preposti all’esazione
La riscossione delle collette all’Aquila, città demaniale, nella prima età angioina era demandata al capitano regio, che vi provvedeva tramite propri collaboratori executores generalium collectarum, stipendiari e serventi.[49]
Con il regno di Giovanna I, in accordo con quanto definito dagli studi di Serena Morelli, le cose cambiano. A un eccessivo prelievo fiscale della regina,[50] fanno da contraltare due importanti privilegi: l’estromissione degli ufficiali regi dalla riscossione delle collette e delle altre imposizioni ordinarie e straordinarie nel 1362[51] e la concessione dell’imposta a forfait. Del secondo privilegio, perduto, abbiamo solo notizia indiretta nei capitoli stabiliti nel 1415 tra la città e i commissari regi, Attendolo Sforza e Giacomo Caldora, nei quali Giovanna II confermava il privilegio di Giovanna I che concedeva il versamento forfettario, ogni primo di settembre, di 5400 ducati (2700 per le collette e 2700 per il sussidio).[52]
Probabilmente il primo privilegio ratificava una situazione di fatto, la riscossione delle collette era infatti già affidata alle università che vi provvedevano tramite i comestabuli. Questi ufficiali erano eletti ogni sei mesi dalle università nel numero di uno per locale o castello, i quali ricevevano al momento della presa dell’incarico un sigillo di ottone con l’arme del locale di pertinenza. Svolgevano mansioni varie, definite nei capitoli statutari: compiti di polizia giudiziaria, forestale e suntuaria, ma l’incarico più importante era certamente quello della riscossione delle imposte. Avevano l’obbligo di pubblicare la cedula taxationis che indicava l’ammontare dovuto dal proprio locale di pertinenza e rispondevano degli ammanchi.[53] Contestualizzare cronologicamente il loro incarico per come è stabilito dai capitoli statutari è impossibile: gli statuti contengono norme redatte in un arco temporale ampio più di un secolo, che va dalla rifondazione della città fino alla fine degli anni Settanta del Trecento. La prima notizia certa dei conestavoli con l’incarico di riscuotere le collette è del 1351[54] e alcuni capitoli degli statuti testimoniano una normazione recente, almeno riguardo alla loro elezione.[55] A sovrintendere alle operazioni di riscossione era naturalmente il camerario, la cui funzione originaria era proprio quella di tesoriere;[56] ad esso spettava il compito di redigere il quaderno dei focularia, ossia dei fuochi, e quello degli esiti e degli introiti.[57] Accanto a quella cittadina, inoltre, esistevano le cancellerie di ogni singola università, che redigevano e disponevano per proprio conto di registri dei fuochi e degli apprezzi che confluivano nel censimento e catasto generale che, almeno dal 1467, era composto da quattro volumi, uno per ogni quartiere cittadino.[58]
3.2 I censimenti
Il numero dei focolieri era ordinariamente registrato dalla città nei quaderni dei fuochi (quaternus communis foculariorum), nei quali erano annotati tutti i cittadini e gli stranieri residenti da almeno cinque anni che erano assoggettati alle imposte.[59] Le numerationes foculariorum, invece, erano dei censimenti a carattere straordinario, eseguiti in occasione di eventi estremi, pandemie e carestie, come ad esempio la mortalità del 1375, causata dalla „grande fame“. In questa occasione fu eseguito il censimento „alla bocca“, ossia per singolo individuo e non solo per famiglia (fuoco). All’Aquila e contado furono censiti 12 000 fuochi e 56 000 „bocche“, dei quali 3000 fuochi e 14 000 „bocche“ erano i residenti dentro le mura cittadine.[60]
Non sono pervenute testimonianze di censimenti eseguiti dall’autorità regia prima della riforma fiscale di Alfonso d’Aragona del 1443. Tre anni dopo Alfonso scriveva al tesoriere d’Abruzzo, Antonio Gazull,[61] di non comprendere nella somma delle collette i 200 fuochi risultati in più dalla nuova numerazione e di rimandare il pagamento degli stessi alla successiva numerazione.[62] La città aveva infatti ottenuto un privilegio da re Renato nel 1440, poi confermato da Alfonso nel 1442, di essere tassata per il valore forfettario di 4000 ducati (che equivaleva a 4000 fuochi).[63] L’aggiornamento dilazionato da Alfonso non fu mai applicato; ancora nel 1464 Ferrante confermava il privilegio dei 4000 ducati,[64] ma nel 1473, nell’ambito di un nuovo censimento di tutto il regno, all’Aquila fu mandato l’abate Rugio,[65] che eseguì la numerazione tra il luglio e l’agosto dello stesso anno.[66] I censimenti regi furono rinnovati negli anni 1488–1489 e 1508. Da quest’ultima rilevazione, Angiola De Matteis ha ricostruito la stessa numerazione del 1488–1489, stabilendo una cifra di 5784 fuochi totali, di cui 1999 in città e 3785 nel contado, a fronte dei 5096 fuochi totali, di cui 1635 in città e 3461 nel contado, rilevati nel censimento del 1508.[67]
3.3 Gli estimi
La prima notizia certa della redazione di un apprezzo è del 1331. Fino a quel tempo, scrive Buccio di Ranallo, era in vigore all’Aquila un regime fiscale il cui onere tributario di ciascun focoliere era determinato da un apprezzo ed era esatto dalla sola università di appartenenza, anche per i beni posseduti al di fuori di essa. Le università che avevano una parte importante dei propri territori in possesso di stranieri, pertanto, lamentavano una eccessiva pressione fiscale. Una di queste, l’università di Bazzano, chiese e ottenne dal re che la riscossione avvenisse „ad chi tenea tra loro“, ossia per i beni posseduti all’interno dei confini di ogni università.[68] Che tale modifica fu effettiva è certo dalla seconda notizia sulla realizzazione di un apprezzo. Nel 1375, infatti, a seguito della carestia e in concomitanza con la numerazione dei fuochi, fu eseguita una nuova stima dei beni secondo il sistema precedente al 1331. Il cronista Antonio di Buccio, contemporaneo ai fatti, riguardo al ripristino del vecchio sistema affermò che gli esecutori furono illuminati da Dio „allumeneli Deo“.[69] La modalità di accatastamento era inoltre stabilita con norma statutaria „Quod quilibet solvat in Locali ubi scriptum est pro foculari“.[70] Il capitolo precisava che ciascun cittadino doveva solvere le collette esclusivamente nel locale (in questo caso sinonimo di università) nel quale si trovava iscritto nel quaderno dei focolieri, indifferentemente dalle località in cui deteneva i beni.
I cronisti successivi ad Antonio di Buccio, ossia Nicola di Borbona, Alessandro de Ritiis e Bernardino Cirillo, hanno erroneamente retrodatato la redazione di questo apprezzo al 1370, collegandolo alle misure intraprese dal governo cittadino per ristabilire la pace tra la città e il contado.[71] Questa datazione è smentita non solo dalla cronaca di Antonio di Buccio, ma anche da un documento originale che chiarisce le fasi della realizzazione dell’apprezzo. L’Aquila aveva mandato un’ambasciata a Giovanna I, presieduta dal notaio Oderisio di Poggio Picenze, per richiedere l’autorizzazione ad eseguire l’estimo generale dei beni privati mobili e immobili della città e del contado, in esecuzione a quanto stabilito per tutto il regno dal proavo della regina (Carlo I). Il 3 luglio 1375 la regina inviava la lettera esecutoriale al capitano della città nella quale prescriveva che ciascuna università doveva eleggere sei cittadini, due dal ceto dei ditiores, due da quello dei mediocres e due dai minores, per condurre le rilevazioni insieme agli otto probi viri già eletti tra i comestabuli e i massari dei locali della città.[72] La regina faceva riferimento alla disposizione di Carlo I sulla forma de faciendo apprecio del 1278–1280,[73] con la quale si stabilivano le modalità di estimo che dovevano essere condotte in tutto il regno da una commissione formata da due cittadini ricchi, due del ceto medio e due dei poveri. È interessante notare come la regina facesse eseguire la norma di Carlo I accostandola alla prassi stabilita dalla città e come la prima prevedesse una elezione della commissione di estimatori su base censuaria, mentre la seconda seguisse il criterio della territorialità, chiaramente rappresentato dai massari e dai comestabuli.
L’apprezzo del 1375 era certamente simile a quello di Sulmona dell’anno successivo, che si è conservato, e doveva pertanto presentare dei valori di stima espressi in once e tarì.[74]
Una nuova rilevazione deve essere avvenuta prima del 1409: lo si desume da un’annotazione in margine alla carta 51r del primo Codice dei privilegi,[75] che riporta i nomi delle università, raggruppate secondo i quattro quarti, con il numero di fuochi e dei grani, e in calce la somma totale: fuochi 3867, grani 20 776. Questi dati sono tratti da una rilevazione in cui è stata adottata una nuova unità di estimo,[76] il grano appunto, utilizzato fino al catasto del 1550, che corrispondeva a 100 ducati quando si riferiva alla stima del valore di un bene, come ad esempio gli immobili, e a 5 ducati quando si riferiva alla rendita, come i censi e gli affitti.[77] La realizzazione del nuovo apprezzo è forse riferibile a un periodo compreso tra il 1404, quando nei capitoli presentati dalla città a Ladislao il sovrano acconsentiva al superamento delle nuove imposizioni fiscali in favore delle antiche collette,[78] e il 1409.
L’ultima rilevazione catastale del periodo medievale nota dalla documentazione è quella voluta da re Ferrante nel 1471, a seguito di una importante normazione in materia che comprendeva la prammatica De appretio, seu bonorum aestimatione del 19 novembre 1467,[79] che di fatto confermava quanto stabilito da Carlo I. Il nuovo apprezzo fu realizzato nonostante il sovrano avesse assicurato, con lettera alla Camera aquilana, cioè al consiglio di governo, che i magistrati della città „… non teneantur ad refectionem extimorum et appretium bonorum eorum“.[80] I lavori iniziarono il 22 febbraio e furono condotti da una commissione composta da otto membri, due per quartiere. Francesco d’Angeluccio di Bazzano, cronista sincrono agli eventi, specifica che l’operazione fu subita e non voluta dalla città: „Chiariscolo che s’è fatta multo trista per lu Comuno, como a ongni cittadino pare.“[81]
L’Archivio di Stato dell’Aquila conserva alcuni di questi apprezzi nel fondo dell’Archivio Civico Aquilano, si tratta di 44 volumi relativi ad altrettante università aquilane (circa i ⅔ del totale). Alcuni di questi si riferiscono a una rilevazione precedente a quella del 1471: l’apprezzo dell’università di Porcinaro, ad esempio, presenta degli aggiornamenti (vacazioni) compresi tra il 1437 e il 1537.[82] Verosimilmente, tra l’estimo dell’epoca di Ladislao e quello di Ferrante del 1471, c’è stata un’altra operazione di stima di cui non si ha documentazione nella cronachistica. L’ipotesi è confermata da un atto notarile riguardante l’università di Rascino. Nel 1449 il massaro e due sindaci deputati diedero incarico ad un agrimensore, Masio di Buccio di Aragno, „ad reficiendum catastum dicti castri et agrimensurandum totum territorium“ e a rimettere le misure nelle stime redatte per L’Aquila e contado.[83] Si tratta quindi di una fase di estimazione lunga diversi anni, evidentemente non decretata dalla città, ma lasciata alla sola iniziativa di ciascuna università, il che ne spiega l’assenza nella cronachistica. È inoltre probabile che alcune università, soprattutto le più piccole, come Porcinaro, non avessero necessità della nuova rilevazione del 1471, in quanto era sufficiente un aggiornamento.
La città, dunque, per eseguire l’esazione si serviva anche dei censimenti e degli apprezzi di ciascuna università aquilana, cui lasciava ampio spazio di autonomia, seppur nell’ambito di criteri di stima e valutazione condivisi. I dati venivano poi registrati in apprezzi e numerationes foculariorum raccolti per quartiere. Nel 1467, infatti, la cerna (il consiglio intermedio) e la Camera cittadina dibattevano sulla modalità da seguire per la redazione del catasto del quarto di S. Giorgio, che era andato bruciato, se procedere con una operazione di stima o eseguire una semplice trascrizione dagli originali in possesso delle università del contado.[84] Ciò che alla città interessava di avere sempre aggiornati erano due valori, il numero dei fuochi e quello delle unità di estimo, sia il totale che quelli relativi a ciascuna università, quindi le stesse cifre annotate in margine alla carta 51r del primo Codice dei privilegi.
3.4 I criteri di determinazione dell’imposta
La tassazione diretta era determinata secondo proporzioni variabili tra il numero dei fuochi e quello delle unità di estimo, dunque da una composizione di un valore di natura personale e da un altro definito dalla capacità contributiva di ciascun abitante. L’imposta totale era il dividendo tra due fattori divisori, il numero dei fuochi e quello dell’unità di estimo rappresentata da moneta di conto, oncia o grano. Ad esempio, immaginando un’esazione totale di 3000 ducati per un’università che avesse 1000 fuochi e 1000 unità di estimo e che questa fosse ripartita secondo un rapporto di ⅓ per i fuochi e ⅔ per l’estimo (quindi 1000 ducati per i fuochi e 2000 per l’estimo), si avrebbe un’esazione con un coefficiente di 1 ducato per fuoco e 2 ducati per unità di estimo (ad esempio l’oncia o il grano). Il primo dato, la contribuzione per fuoco, è indivisibile, mentre quella riguardante l’unità di estimo e dei suoi sottomultipli era determinata per ciascun abitante tramite una semplice equazione. Un cittadino registrato nell’apprezzo con un imponibile pari a 1,7 once, nella stessa tassazione avrebbe dovuto versare 1 ducato per il focatico e 3 ducati e 4 carlini per l’estimo, per un totale di 4 ducati e 4 carlini. Se invece si fosse stabilito un rapporto di 1/1 tra i valori da ripartire per i fuochi e per l’estimo, si avrebbe avuto un coefficiente di 1,5 ducati per il focatico e 1,5 ducati per unità di estimo. Lo stesso contribuente avrebbe quindi pagato 1 ducato e 5 carlini per il focatico e 2 ducati, 5 carlini e 5 grana per l’estimo, per un totale di 4 ducati e 5 grana. È quindi chiaro che la proporzione tra i due fattori divisori dell’imposta totale aveva una notevole rilevanza nello spostare il carico fiscale sui gruppi sociali più poveri qualora avesse una percentuale alta sul numero dei fuochi e sul gruppo dei ricchi qualora, viceversa, l’avesse sull’estimo.
Le fonti che offrono informazioni circa l’esazione delle collette per la città dell’Aquila sono la cronachistica e, dal 1467, i „Libri reformationum“. Entrambe queste forme di documentazione offrono un punto di vista parziale sulla tassazione: la cronachistica perché riferisce quasi esclusivamente delle esazioni dovute a fattori o condizioni straordinarie, le reformationes perché si limitano a registrare la sola fase deliberativa, mentre quella esecutiva era demandata a commissioni scelte ad hoc.
I verbali delle delibere consiliari raccolti nei „Libri reformationum“ forniscono dati purtroppo incompleti per comprendere il rapporto e i meccanismi di esazione,[85] ma consentono di conoscere i processi amministrativi coinvolti nella riscossione della colletta a partire dall’anno 1467, anche se la pratica doveva essere, almeno a grandi linee, piuttosto risalente. Il consiglio intermedio, che nel periodo di fine Quattrocento era rappresentato dalla cerna e dai membri della Camera, deliberava la riscossione dell’imposta e la delegava a una commissione,[86] di solito composta da otto probi viri, due per quartiere, che avevano il compito di redigere la tabula collecte, ossia l’elenco delle voci di spesa da coprire, che doveva essere approvata dal Parlamento generale. Una volta ottenuto l’assenso si provvedeva all’invio delle cedole ad ogni università per mezzo dei soliti comestabuli.[87]
Alla prassi amministrativa si collega la pratica di esazione di cui la sola fonte è la cronachistica. Antonio di Buccio informa sulle due grandi collette (granni colte) che vi furono nel 1380, sia per fattori interni, come per ricomprare la preda fatta da Amatrice quando aveva occupato due castelli del contado aquilano, Vio e Porcinaro, sia per la contribuzione ordinaria alla corona, „tanta moneta quanto alla Regina vastone“. L’autore si sofferma solo sulla prima colletta, riportando i dati più importanti: il totale da esigere, 13 741 fiorini, e le somme da riscuotere dai fuochi (per focu), 4391 fiorini, e dall’estimo (per estima), 9350 fiorini.[88] Se si fosse conservato il catasto generale del 1375 si sarebbe potuto calcolare il coefficiente dell’oncia applicato in questa colletta e il dovuto di ogni focoliere registrato. Un dato importante che si deduce da questa colletta è la proporzione applicata tra il valore esatto per fuoco e quello per estimo, secondo dei quozienti di ⅓ per i fuochi e ⅔ per l’estimo. Anche se verosimile, purtroppo, non possiamo affermare che questo rapporto fosse sempre applicato nella contribuzione ordinaria, benché sembra sia rispettato anche molto tempo dopo.
I cronachisti quattrocenteschi, Francesco d’Angeluccio e Alessandro de Ritiis, offrono i dati riguardo alla colletta del 1463, quando, a seguito dell’abolizione delle gabelle volute dal governo cittadino nel 1461,[89] si era tornati alle consuete funzioni fiscali e fu imposta la Magna colletta di 11 000 ducati. Tale somma fu esatta da 4095 fuochi e da 7768 grani, 8 tarì e 10 granelli di estimo,[90] e un coefficiente (indicato dall’espressione „alla ragione di“) di 10 carlini il fuoco e 9 il grano.[91] In questo caso si dispone di tutti i valori necessari per comprendere il sistema di computo e ripartizione dell’esazione: l’imposta totale, il numero dei fuochi e quello delle unità di estimo (il grano e i suoi sottomultipli, il tarì e il granello),[92] nonché dei relativi coefficienti, 10 carlini (= 1 ducato) per fuoco e 9 carlini per unità di estimo, il grano. Si può quindi ricavare il rapporto tra la somma esatta per i fuochi, che fu di 4095 ducati, e quella per estimo, circa 7000 ducati, quindi, rispettivamente, il 36 % e il 64 %, valori non proprio corrispondenti, ma comunque prossimi alla stessa proporzione di ⅓ e ⅔ rilevata nel 1380.
La cronaca di Francesco d’Angeluccio di Bazzano, infine, riporta la colletta del 1479, di cui purtroppo non resta testimonianza nei „Libri reformationum“ (poiché non sono pervenuti i registri di quegli anni), offrendo informazioni fondamentali riguardo alla sua applicazione da parte della sua università di provenienza, Bazzano, nella quale l’autore, molto probabilmente, ricopriva la carica di massaro.[93] La colta fu „posta e arrascionata per octo citadini e octo contadini“, vale a dire da una commissione di 16 membri (che rappresenta una particolarità), otto cittadini e otto abitanti nel contado, che aveva compilato la tabula, poi „autenticata e fermata“ da un Parlamento generale tenuto nel palazzo regio (palazzo del capitano) l’8 luglio. La tabula si componeva della contribuzione al re degli arretrati dell’anno trascorso e dell’ordinario, del focatico e del sale dell’anno corrente della XII indizione, per un valore di 4757 ducati e 105 soldi, del salario del capitano, dei signori e dei serventi della Camera aquilana, di un prestito ricevuto da alcuni cittadini per 1636 ducati, di un altro di 299 ducati ricevuto da Giacomo Del Giudice e, infine, delle elemosine ai monasteri. Questa colletta, di cui purtroppo non restituisce i valori di tutte le voci di spesa, né tantomeno l’importo totale, aveva un coefficiente per fuoco di 2 ducati, 26 soldi e 3 cavalli e per grano di 1 ducato, 23 soldi e 4 cavalli.
Date le informazioni di carattere generale sulla colletta, Francesco d’Angeluccio passa a trattare di come l’imposta fu recepita dalla propria università da quando la cedola fu pubblicata dal comestabile nel locale di Bazzano il 12 luglio. L’università doveva contribuire per i propri 103 fuochi e 219 grani di estimo, quindi per un totale di 224 ducati, 16 soldi e 5 cavalli per i fuochi e di 254 ducati e 60 soldi per l’estimo. Questi valori corrispondono infatti alla moltiplicazione del numero dei fuochi (103), per il relativo coefficiente di 2 ducati, 26 soldi e 3 cavalli, e del numero dei grani (219), per il coefficiente di 1 ducato, 23 soldi e 4 cavalli. Una buona parte della contribuzione personale del focatico, per un valore di 15 carlini, 11 soldi e 4 cavalli, poteva essere corrisposta in panni aquilani, in lana e in pezza.[94] La somma così raccolta doveva essere infine rimessa nelle mani del depositario (tesoriere) della città, Giorgio di Marino di Bazzano.
La presenza di questa colletta del tutto ordinaria nella cronaca non è spiegabile con altra motivazione se non quella di una partecipazione attiva alla sua esazione da parte dello stesso autore. In questo caso la proporzione tra la quota esatta per i fuochi, 224 ducati, e quella per estimo, 254 ducati, sfiora una proporzione di 1/1 per l’università di Bazzano. Questo rapporto, tuttavia, è solo il risultato dell’applicazione dei coefficienti validi per tutti i cittadini aquilani alla situazione particolare di Bazzano (quindi alla consistenza dei focolieri e dei grani d’estimo di una singola università) e non è indicativa della proporzione precedentemente stabilita dall’amministrazione cittadina o, più verosimilmente, dalla commissione di 16 membri, per determinare i valori dei coefficienti a partire da un totale che il cronachista purtroppo non riferisce. Lo squilibrio verso l’esazione per focatico, inoltre, era compensato dalla possibilità, evidentemente stabilita dalla città e non dalla singola università, di saldare più della metà della contribuzione di natura personale in panni lana.
La determinazione della proporzione tra l’imposta per focatico e quella per estimo non sembra essere oggetto di scontro nella politica aquilana, perché la cronachistica, sempre attenta alle dinamiche conflittuali interne, non avrebbe omesso di trattarne. In altre università del regno, invece, tale questione talvolta accendeva scontri che richiedevano una risoluzione da parte del sovrano. A Molfetta, ad esempio, nel 1415 la regina Giovanna II intervenne direttamente per stabilire quali tipologie di esazione dovessero essere esatte su base patrimoniale e personale: le funzioni fiscali e le collette per appretium, mentre le reliquae impositiones, onera pagae stipendia et reparationes murorum per testas seu capita hominum.[95] È chiaro che la regina aveva applicato la classificazione elaborata dal diritto romano e di nuovo oggetto di riflessione teorica già dal Duecento, tra munera patrimonialia, munera personalia e munera mixta, che distingueva le diverse categorie di imposte comunemente richieste.[96] I munera patrimonialia erano ricondotti all’esazione per estimo, quelli personalia all’esazione per testa o per fuoco. All’Aquila questo rapporto di esazione non era definito in modo puntuale, ma era espresso da quozienti che dovevano essere stabiliti dalle stesse commissioni di probi viri e presentati al Parlamento generale in concomitanza con la pubblicazione della tabula.
In alcuni casi emerge dai verbali delle delibere consiliari la volontà del governo cittadino, forse più retorica che reale, dato il contesto politico nel quale era espressa, di temperare il carico fiscale sui gruppi sociali inferiori. Nel Parlamento generale del 12 novembre 1488, che doveva votare l’approvazione della tabula, il cancelliere si premurò di enfatizzare l’attenzione avuta nei confronti dei più poveri.[97] Riguardo alle collette esatte per motivi straordinari, tuttavia, come il donativo di 5000 ducati alla corona del 1499, l’imposta gravava solo sulla ricchezza ed era determinata esclusivamente sul valore dell’estimo.[98] Ancora nel 1529, per pagare l’enorme tassa di 120 000 ducati richiesta da Filiberto di Chalons principe d’Orange dopo la ribellione dell’anno precedente, la città impose una colletta di 12 ducati il grano.[99]
Il governo cittadino, infine, poteva intervenire direttamente sulla somma da esigere riducendone il valore attraverso i proventi delle gabelle e il ricorso al credito. Nella ricordata colletta del 1499, la città, per soddisfare il donativo di 5000 ducati richiesto dalla corona, aveva preso il capitale in prestito e ne riduceva il valore di 3000 ducati, che era il corrispettivo del gettito delle gabelle.[100] I prestiti, pertanto, dovevano essere usualmente richiesti per soddisfare le necessità finanziarie contingenti, puntualmente registrate nei libri mastri, la cui serie inizia nel 1471, e il debito, iscritto nella tabula, era estinto in tempi brevissimi, al momento dell’esazione della successiva colletta.
La documentazione analizzata consente di comprendere pienamente i meccanismi di esazione fiscale. Si possono certamente distinguere le fasi necessarie alla determinazione dell’imposta dovuta da ogni singolo cittadino e il ruolo delle amministrazioni, tanto cittadine quanto delle singole università. Nella prima fase la città determinava l’importo dovuto attraverso la compilazione della tabula da parte di una commissione (i probi viri), nella quale erano iscritte le singole voci di spesa, tra le quali il dovuto alla corona era solo una di esse, e si provvedeva all’approvazione da parte del Parlamento generale. La somma necessaria poteva essere quindi diminuita dalle rendite delle gabelle o dal ricorso al credito. Nella seconda fase, o forse già dalla prima, si stabiliva il rapporto tra il quoziente da esigere attraverso l’imposta personale, il focatico, e quello dall’estimo, che doveva essere usualmente di ⅓ per il focatico e ⅔ per l’estimo. Determinati questi due valori, si calcolavano i relativi coefficienti dividendo il corrispettivo dell’imposta personale per il numero dei fuochi reali (e non per quelli forfettari dichiarati alla corona) e il corrispettivo dell’imposta sui beni per quello delle unità di estimo dell’insieme delle università aquilane. Nella terza fase, l’amministrazione cittadina trasmetteva a ogni singola università la cedola con l’importo richiesto, che veniva calcolato attraverso la moltiplicazione dei coefficienti del focatico e dell’unità di estimo, validi per tutti i cittadini aquilani, per i valori del numero totale dei fuochi registrati nei quaderni e per le unità di estimo definite negli apprezzi di ogni singola università. Una volta notificata la cifra richiesta, essa entrava nel bilancio dell’università ed era aumentata da altre voci di spesa particolari o diminuita dalle rendite dei beni comuni e dal ricorso al credito; infine poteva essere riscossa e trasferita alla tesoreria cittadina.
Il sistema esattivo, in conclusione, calcolato attraverso la determinazione dei coefficienti da applicare al singolo fuoco e all’unità di estimo, con il conseguente ricorso alla moneta di conto, era funzionale a rispondere rapidamente alle richieste fiscali del regno e della città stessa (che avevano valori molto diversi a seconda delle circostanze e delle necessità), quindi conveniente a una forma di prelievo flessibile e a carattere straordinario.[101] La tesoreria cittadina, infatti, pur godendo dell’imposta forfettaria dovuta alla corona e anche al netto delle richieste straordinarie, non aveva una logica finanziaria che contemplasse una qualche forma di previsione di bilancio, ma operava a consuntivo ad ogni scadenza fiscale. La spesa determinava l’importo dell’esazione:[102] ciò è vero sia per il regno sia per la città.
4 I caratteri del sistema fiscale aquilano
Le peculiarità del sistema fiscale aquilano sono essenzialmente la stabilità nel corso del tempo, in grado di superare il tentativo di cambiamento in favore delle imposte indirette al tempo di Ferrante, la persistenza di corpi amministrativi autonomi rappresentati dalle università, l’equiparazione tra città e contado e l’applicazione di una tassa di ripartizione mista, ossia basata sul criterio demografico e patrimoniale.
Dalla sua configurazione nella prima epoca angioina fino al Seicento, quando l’imposta diretta fu sostituita con quella indiretta,[103] il sistema non sembra aver subito sostanziali cambiamenti, soprattutto se paragonato alle situazioni dinamiche delle realtà cittadine del centro e nord Italia, con le quali è possibile fare dei confronti.[104] Un’analisi comparativa con le altre municipalità del regno, invece, è al momento impossibile per la mancanza di studi approfonditi.[105] Nell’Italia centrale e settentrionale l’affermazione della distinzione a livello fiscale tra la città e il contado era netta e, a partire dalla fine del Duecento e inizi del Trecento, con lo sviluppo delle gabelle, si assiste a una differenziazione del regime fiscale: imposte indirette in città, imposte dirette nel contado.[106] Quasi sempre, inoltre, poiché l’intera gestione dell’esazione (ossia la redazione degli accertamenti e degli estimi rurali) era in mano agli ufficiali cittadini, le città si trovavano in posizione di forza rispetto al proprio contado.[107] Le imposte dirette, tuttavia, non scompaiono, e dove non vengono interamente recuperate, come nella Terraferma veneziana con l’istituzione della dadia delle lanze,[108] ricompaiono agli inizi del Quattrocento in forme mascherate, delle quali i prestiti forzosi[109] e la gabella del sale[110] sono tra le manifestazioni più evidenti.
L’esazione diretta all’Aquila è un sistema a criterio misto, basato sul fattore personale e patrimoniale. Il quoziente esatto dai fuochi rappresenta gli obblighi di carattere militare e di prestazioni d’opera nell’esecuzione di lavori pubblici cui erano tenuti tutti gli abitanti, indistintamente dalla residenza intra o extra moenia. I confronti più prossimi a questo sistema fiscale misto sono quelli quattrocenteschi della Terraferma veneta[111] e, in modo più puntuale, quelli della gabella del sale dello stato sforzesco, dove si riscontra un rapporto tra il quoziente di natura personale e quello patrimoniale definito dalla proporzione di ⅓ per il primo e ⅔ per il secondo.[112]
Riguardo all’estimo, la documentazione non consente di conoscere la logica di rilevazione, se avveniva tramite dichiarazioni dei contribuenti o per accertamento diretto da parte delle commissioni preposte elette dal governo cittadino, oltreché per i lavori di agrimensori, deputati dalle singole università. Inoltre, dalla doppia valenza del grano di estimo, utilizzato negli apprezzi dall’epoca di Ladislao fino al catasto del 1550, di 1 grano per 100 ducati di valore del bene e di 1 grano per 5 ducati di rendita, si deduce che la stima interessava, appunto, tanto il valore quanto la rendita.[113] Infine, era del tutto assente una qualsiasi normazione in materia di estimo, né sembra sia stata oggetto di dibattito o scontro a livello politico.
Da rilevare, inoltre, l’assenza di conflitti sociali causati da squilibri contributivi, con la sola eccezione rappresentata dall’accatastamento dei beni secondo il principio di territorialità in vigore tra il 1331 e il 1375. La questione della localizzazione degli immobili e della sede nella quale contribuire fiscalmente rappresenta un problema diffuso nelle realtà urbane medievali e generalmente risolto a favore della residenza, quindi a vantaggio della città e a discapito del contado.[114] Il caso dell’Aquila non è rispondente a tale logica, ma è connesso alle dinamiche occorrenti tra le università. Nel periodo in cui vigeva il principio di accatastamento alla sola comunità di appartenenza, il potenziale fiscale per estimo di una università aquilana era in rapporto diretto con la capacità contributiva dei propri cittadini e interessava anche i beni che questi avevano al di fuori della propria università di origine. Quando il principio di accatastamento era basato sulla territorialità (1331–1375), invece, la capacità contributiva aveva una perfetta coincidenza con il valore imponibile dei beni fondiari siti all’interno dei confini dell’università, riguardando anche i beni in proprietà dei cittadini degli altri centri.
Un altro aspetto rilevante del sistema fiscale aquilano è l’assenza del problema dell’evasione fiscale:[115] non si dispone di documentazione sull’esistenza di registri di evasori, come quello dei malpaghi bolognesi,[116] né di procedimenti contro i cittadini pro malo estimo come accadeva a Milano.[117] La relativa e contenuta mancanza del fenomeno non è forse riferibile a un’assenza di documentazione, ma, piuttosto, all’elevata capacità di controllo sociale esercitata dalle università verso i propri contribuenti rappresentati da decine o, al massimo, qualche centinaio di famiglie.
Dal confronto con la documentazione dei comuni dell’Italia centro-settentrionale emerge un quadro caratterizzato da una forma di prelievo definito da criteri che non avevano bisogno di normazioni particolari, ma si basavano sulle disposizioni regie e, in modo più incisivo, su pratiche consuetudinarie. Nel secondo Quattrocento si tentò diverse volte di modificare il sistema, abbandonando l’imposta diretta per le gabelle: nel 1461–1462 ad opera del governo cittadino e rapidamente accantonato dopo aver accumulato un considerevole deficit di bilancio, cui seguirono altri effimeri tentativi nel 1474, 1478 e nel 1485 quando, invece, fu re Ferrante a imporre l’istituzione delle gabelle su vari generi, tra cui la carne salata, che gravavano principalmente sulla popolazione povera cittadina.[118] La riforma fu causa di disordini, dell’arresto di Pietro Lalle Camponeschi e della rivolta dell’Aquila nel settembre del 1485, nell’ambito della Congiura dei baroni, ma in modo del tutto indipendente da questa.[119]
La lunga continuità del sistema fiscale basato sull’imposta diretta è dovuta da un lato alla resistenza dei gruppi cittadini più poveri all’imposizione delle gabelle e, dall’altro, alle capacità finanziarie della città di sostenere la spesa.
Quali erano i fattori che contribuivano a mantenere in equilibrio il bilancio della finanza pubblica? All’Aquila sembra essere sufficiente un ricorso a pratiche creditizie elementari, a breve termine, per il finanziamento delle spese contingenti o straordinarie, mentre il credito nella sua forma più consistente, garantito con l’assegnazione di entrate pubbliche stabili,[120] era usualmente assorbito dalla corona.[121] A sostenere la finanza pubblica dovevano contribuire in modo determinante le entrate dei beni demaniali di ciascuna università tra i quali, principalmente, quelle dei pascoli montani. Le rendite dei demani alti erano in diretto rapporto con l’allevamento transumante che conobbe un deciso sviluppo in epoca angioina, quando ricevette una prima forma di regolazione con l’istituzione della Dogana delle pecore durante il regno di Giovanna II e una seconda, definitiva, con Alfonso d’Aragona.[122]
5 Conclusioni
Il rapporto tra la monarchia e la città dell’Aquila riguardo all’esazione fiscale si svolgeva pienamente secondo le periodizzazioni definite da Serena Morelli. Il ruolo della corona era tuttavia rilevante nel definire l’imposta, ma era del tutto estraneo alle dinamiche di ripartizione e riscossione tra i cittadini.
La riforma fiscale alfonsina del 1443 non ebbe effetto sulla pratica di esazione della città, non solo perché lo stesso Alfonso confermò il privilegio della contribuzione forfettaria di 4000 ducati, ma anche perché questa riguardava solo la determinazione del contributo dovuto alla corona. La riforma, che all’Aquila ebbe applicazione solo trent’anni dopo, nel 1473, ad opera di Ferrante, aveva l’intenzione di adeguare l’imposta alla capacità contributiva delle università del regno calcolata su criteri demografici e non quella di modificare le pratiche esattive locali. È proprio su questo secondo livello fiscale che le peculiarità amministrative della città si manifestavano in modo evidente, nel carattere federativo dell’ordinamento cittadino che prevedeva la permanenza delle amministrazioni delle università fondatrici e aggregate. Per tale condizione all’Aquila non si verificò in modo compiuto quel fenomeno riscontrato nel Meridione come pure in altre parti d’Italia, di polarizzazione della società in maiores e minores,[123] che aveva nell’aspetto fiscale il suo presupposto originale. Il processo di affermazione oligarchica, sostanziato con l’istituzione dell’ordinamento consiliare delle Arti, non fu in grado di scindere in senso orizzontale una società organizzata secondo una struttura articolata su base territoriale.
La storiografia ha comprensibilmente posto l’attenzione sui fattori di discontinuità e originalità della città di nuova fondazione lasciando in ombra quelli di continuità, rappresentati dal ruolo delle università fondatrici. Le competenze amministrative, economiche e fiscali delle università aquilane (mai messe in discussione dal governo cittadino) erano funzionali al mantenimento dei particolari beni demaniali e caratterizzavano il peculiare rapporto tra la città e il contado. L’interazione tra la città e il contado non conobbe quella trasformazione in una relazione basata sul dominio della campagna prima dell’età moderna (a seguito della perdita del contado, infeudato nel 1529),[124] quando tale rapporto fu ridefinito a tutto vantaggio della città proprio per motivi fiscali.[125]
La pratica di esazione era esemplata su quella regia, ma in modo indipendente da essa: la città rifletteva sul proprio territorio le medesime procedure di ripartizione del carico fiscale tra le singole università impiegate dal governo centrale per tutto il regno. Rispetto alle competenze descritte da Del Treppo, che attribuiva allo stato la redazione dei censimenti e alle università quella degli apprezzi, si nota una maggiore complessità. Accanto ai censimenti approssimativi del periodo angioino e a quelli più puntuali della riforma alfonsina, anche la città annotava per conto proprio il numero dei suoi abitanti servendosi di due modalità differenti di registrazione: una ordinaria, nei quaderni dei fuochi, e una straordinaria (e più dispendiosa), nelle numerationes foculariorum. Anche riguardo alla compilazione degli apprezzi, nonostante la presenza di una normazione statale risalente a Carlo I, la città applicava procedure del tutto originali e aderenti alla propria particolare struttura istituzionale, definite su base territoriale e non su base censuaria come invece stabiliva la legislazione angioina e confermava quella aragonese.
Il sistema fiscale aquilano mantenne i tratti originari dell’esazione diretta, rappresentati dal carattere straordinario e dalla natura feudale, declinata attraverso il criterio di esazione misto, per fuoco e per estimo, e lo uniformava al proprio ordinamento federale mediante una ripartizione degli oneri tra le università, sui quali incidevano in modo positivo gli introiti dei beni demaniali. L’ordinamento conservativo delle forme locali di autogoverno, che prevedeva il mantenimento di alcune importanti prerogative delle università fondatrici, una sorta di deep level amministrativo di lunga durata (terminato definitivamente solo nel 1806), definito peculiaris dall’Antinori e „singolare e unico“ dalla Gran Corte Civile di Napoli nel 1819,[126] sicuramente adatto a un’imposta di ripartizione, contribuiva in maniera determinante alla resistenza ad ogni forma di istanza di innovazione fiscale che proveniva dal gruppo mercantile cittadino e dalla monarchia stessa.
© 2025 bei den Autorinnen und den Autoren, publiziert von De Gruyter.
Dieses Werk ist lizenziert unter der Creative Commons Namensnennung - Nicht kommerziell - Keine Bearbeitung 4.0 International Lizenz.
Artikel in diesem Heft
- Titelseiten
- Jahresbericht des DHI Rom 2024
- Themenschwerpunkt L’Impero e le sue narrazioni nel pieno e tardo medioevo (XIII–XIV sec.), herausgegeben von Caterina Cappuccio
- L’Impero e le sue narrazioni nel pieno e tardo medioevo (XIII–XIV sec.)
- Electione de eo canonice celebrata
- Un Impero vacante? La signoria sovralocale di Oberto Pelavicino in Lombardia tra idealità imperiale e città (1249–1259)
- Un regno senza impero?
- Narrazione e percezione dell’impero nella cronachistica
- Artikel
- Building an Aristocratic Identity in Medieval Italy
- Memorie della Chiesa di Molfetta
- „Per fuoco e per estimo“
- Fonti e approcci sulla fiscalità pontificia per la Basilicata del XIV secolo
- La comunità tedesca a L’Aquila tra i secoli XV–XVI
- Whose Bishop/Who’s the Bishop?
- Si in evidentem: Pacht von Kirchengut über die Pönitentiarie
- Rhetorical vs. Historical Discourse?
- Ottavio Villani – ein Gegner der päpstlichen Politik im Dreißigjährigen Krieg
- Italian and German Colonialism beyond Comparison
- Geleitwort zum Beitrag „Gewaltlust“ von Habbo Knoch
- Gewaltlust
- Forum
- Der Gastronationalismus und Alberto Grandis Thesen – oder: Zur Prägekraft der italienischen Küche
- Tagungen des Instituts
- I monasteri di Subiaco e Farfa come crocevia monastico-culturale nei secoli XV e XVI
- Von den NS-Tätern sprechen, der Opfer gedenken. Perspektiven einer deutsch-italienischen Erinnerung zwischen Forschung und Vermittlung
- Circolo Medievistico Romano
- Circolo Medievistico Romano 2024
- Nachrufe
- Cosimo Damiano Fonseca (1932–2025)
- Dieter Girgensohn (1934–2025)
- Gerhard Müller 1929–2024
- Rezensionen
- Verzeichnis der Rezensionen
- Leitrezensionen
- Tra reti politiche e prassi documentarie
- Una rete di persone
- Ein weiteres langes „langes Jahrhundert“?
- Rezensionen
- Verzeichnis der Rezensent*innen
- Register der in den Rezensionen genannten Autor*innen
Artikel in diesem Heft
- Titelseiten
- Jahresbericht des DHI Rom 2024
- Themenschwerpunkt L’Impero e le sue narrazioni nel pieno e tardo medioevo (XIII–XIV sec.), herausgegeben von Caterina Cappuccio
- L’Impero e le sue narrazioni nel pieno e tardo medioevo (XIII–XIV sec.)
- Electione de eo canonice celebrata
- Un Impero vacante? La signoria sovralocale di Oberto Pelavicino in Lombardia tra idealità imperiale e città (1249–1259)
- Un regno senza impero?
- Narrazione e percezione dell’impero nella cronachistica
- Artikel
- Building an Aristocratic Identity in Medieval Italy
- Memorie della Chiesa di Molfetta
- „Per fuoco e per estimo“
- Fonti e approcci sulla fiscalità pontificia per la Basilicata del XIV secolo
- La comunità tedesca a L’Aquila tra i secoli XV–XVI
- Whose Bishop/Who’s the Bishop?
- Si in evidentem: Pacht von Kirchengut über die Pönitentiarie
- Rhetorical vs. Historical Discourse?
- Ottavio Villani – ein Gegner der päpstlichen Politik im Dreißigjährigen Krieg
- Italian and German Colonialism beyond Comparison
- Geleitwort zum Beitrag „Gewaltlust“ von Habbo Knoch
- Gewaltlust
- Forum
- Der Gastronationalismus und Alberto Grandis Thesen – oder: Zur Prägekraft der italienischen Küche
- Tagungen des Instituts
- I monasteri di Subiaco e Farfa come crocevia monastico-culturale nei secoli XV e XVI
- Von den NS-Tätern sprechen, der Opfer gedenken. Perspektiven einer deutsch-italienischen Erinnerung zwischen Forschung und Vermittlung
- Circolo Medievistico Romano
- Circolo Medievistico Romano 2024
- Nachrufe
- Cosimo Damiano Fonseca (1932–2025)
- Dieter Girgensohn (1934–2025)
- Gerhard Müller 1929–2024
- Rezensionen
- Verzeichnis der Rezensionen
- Leitrezensionen
- Tra reti politiche e prassi documentarie
- Una rete di persone
- Ein weiteres langes „langes Jahrhundert“?
- Rezensionen
- Verzeichnis der Rezensent*innen
- Register der in den Rezensionen genannten Autor*innen