Abstract
This essay aims to tell the story of the German community in L’Aquila between the 15th and 16th centuries through a study of the notarial sources in the L’Aquila State Archives. The documentation collected makes it possible to determine the composition of this group of foreigners, apparently heterogeneous and well-integrated into the local social fabric, and to reconstruct the histories of individual alemanni by focusing on personal relationships, employment profiles, economic aspects, and their distribution in the area. In addition, the essay examines forms and modes of community organization, which resulted in a merchant consulate and a national religious confraternity whose members included not only Germans from Germany but also subjects from the Flemish area.
1 Introduzione
La storia della comunità tedesca a L’Aquila è strettamente connessa a quella del commercio dello zafferano aquilano, una preziosissima spezia che per secoli fu venduta nelle piazze commerciali più importanti dell’Europa medievale, e che rese la città abruzzese, proprio tra i secoli XV e XVI, una delle principali mete delle grandi compagnie commerciali della Germania meridionale. I mercanti e i fattori delle imprese degli Imhoff, dei Welser, dei Baumgartner e di tante altre affollavano le vie e le campagne aquilane durante i mesi dedicati alla produzione dello zafferano. L’obiettivo di questi uomini intraprendenti era principalmente quello di concludere al più presto dei buoni affari con i coltivatori locali e inviare le partite acquistate sui mercati di Norimberga, Augusta e Ravensburg.[1]
Sebbene la storia dei commerci tra Germania e Abruzzi abbia goduto di una certa fortuna, manca ancora, allo stato attuale, uno studio approfondito dedicato proprio alla comunità di germanofoni che si insediò a L’Aquila alla fine del Medioevo. L’obiettivo di questo saggio, infatti, è proprio quello di ricostruire i tratti specifici di tale comunità, cogliendo le principali dinamiche di appartenenza e gli aspetti sociali legati alle identità, alle famiglie, alle forme del vicinato, alle professioni e alla spiritualità, attraverso uno studio condotto sulle fonti notarili conservate presso l’Archivio di Stato dell’Aquila, pressoché inedite.
Il materiale documentario studiato ha permesso di porre in luce una storia che dimostra come i todischi presenti in città rappresentassero una comunità importante e non tutta coinvolta nel solo commercio dello zafferano. Ciò che emerge è, infatti, un gruppo eterogeneo composto da individui che scelsero di fermarsi in città per lunghi periodi e di instaurare con essa profondi legami. Ed è soprattutto grazie alle singole identità ricostruite che è possibile narrare una storia che, per il contesto dell’Italia meridionale, non ha omologhi, fatta eccezione per la comunità tedesca di Napoli.[2]
2 Le fonti notarili aquilane
„Interpreti della vita quotidiana della città sono i notai, i quali con le scritture ci permettono di ricostruire la storia economica, sociale, religiosa, politica e culturale, ma anche di esplorare le interferenze della storia nel destino degli uomini.“[3] Con queste parole Maria Rita Berardi introduce il fondo notarile aquilano, uno dei più vasti nel panorama archivistico del Mezzogiorno. Le ragioni non sono soltanto legate alle vicissitudini che hanno permesso di preservare questo patrimonio fino ai giorni nostri; ci sono, infatti, dei motivi storici che spiegano perché esso rappresenti un’anomalia per il contesto meridionale. Il rapporto tra L’Aquila e i suoi piccoli centri abitati limitrofi è sempre stato molto complesso, ciò ha inevitabilmente condizionato la questione della gestione dei notai. Infatti, a partire dalla concessio castrorum et casalium da parte di Carlo II nel 1294 la città arrivò ad assorbire nella propria universitas le unità abitative del contado, i castra, ciascuna delle quali si serviva di notai che, col tempo, finirono per insediarsi all’interno della città, esercitando qui la professione.[4] Pertanto, i notai aquilani, diversamente dalle altre realtà del Mezzogiorno, erano di gran numero superiore rispetto ai limiti imposti dalla stessa Costituzione del Regno, e oltre a ciò, disponevano di requisiti per l’accesso alla carriera diversi rispetto ai propri omologhi: infatti per loro non era previsto l’obbligo dell’età minima dei venticinque anni per cominciare a esercitare la professione, né tantomeno quello di sottoporsi all’esame di un protonotario dello Studium napoletano, ma era sufficiente il nulla osta di un egregius legum doctor all’Aquila.[5]
Il numero eccezionale dei notai aquilani, che raggiunse nell’età aragonese la cifra di 28, è un dato emblematico, cui corrisponde la conservazione di una quantità vastissima di fonti. Ed è grazie a questa documentazione che è possibile ricostruire anche un quadro delle minoranze presenti nella città. Infatti, la stessa Maria Rita Berardi aveva individuato diverse carte in cui compaiono mercanti e artigiani provenienti dalla Lombardia, da Venezia, Firenze, ma anche da Francia, Catalogna, e Germania.[6] In questo computo andrebbe considerata anche la componente ebraica, oggetto di recenti studi di Andrea Casalboni.[7]
Data la vastità della documentazione disponibile, lo spoglio dei documenti eseguito per il presente saggio non può dirsi certamente concluso, e anzi necessiterebbe di un ulteriore ampliamento. Tuttavia, i notai che sono stati selezionati hanno reso possibile coprire un lungo arco cronologico che va dal 1447, quando appunto si registrano i primi trasferimenti di mercanti tedeschi a L’Aquila, fino al 1510. Nella tabella seguente si osservano i notai e il numero dei volumi analizzati:
Notai e documenti studiati
|
Notaio |
Estremi cronologici |
Numero buste spogliate |
Numero volumi studiati |
|
Antonio Lutii di Ciculo |
1447 |
1/1 |
1/1 |
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Domenico Nicolai Tommasi di Pizzoli |
1450–1494 |
5/10 |
21/38 |
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Francesco Dominici di Fonticulo |
1481–1539 |
1/2 |
4/7 |
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Giovanni Cassianelli |
1459–1496 |
6/6 |
37/37 |
|
Giovanni Marino di Pizzoli |
1464–1487 |
7/8 |
24/25 |
|
Valerio Dominici di Pizzoli |
1492–1545[8] |
1/12 |
2/47 |
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Totale |
|
22 |
90 |
Rispetto al notevole numero di volumi sono emersi solo quaranta documenti rogati in favore di todischi o in cui essi sono presenti, un numero che è quantitativamente esiguo ma che è qualitativamente significativo. Nella tabella che segue è possibile vedere nel dettaglio la collocazione di ciascun documento:
Documenti rogati in favore di tedeschi o in cui essi sono presenti
|
Notaio |
Busta |
Volume |
Carte |
Data |
Tipologia |
|
Antonio Lutii di Ciculo |
2 |
I |
34v |
1447 |
Apotissa |
|
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|
I |
76r–76v |
1447 |
Pacto Pacis |
|
Domenico Nicolai Tommasi di Pizzoli |
5 |
VI |
98r |
1461 |
Locatio Dotis |
|
|
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X |
96r |
1465 |
Apotissa |
|
|
12 |
XXXVI |
81r |
1492 |
Diviso Societam |
|
|
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|
126v–127r |
1492 |
Transactio |
|
|
|
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138r |
1492 |
Compromissum |
|
Giovanni Cassianelli |
14 |
III |
116r |
1461 |
Locatio domus |
|
|
|
IV |
15r |
1462 |
Locatio domus |
|
|
|
|
43v |
1462 |
Locatio terratam |
|
|
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V |
44r |
1463 |
|
|
|
16 |
XIII |
74r |
1471 |
|
|
|
|
XVIII |
32v |
1476 |
Locatio domus |
|
|
|
|
64r |
1476 |
Locatio domus |
|
|
17 |
XXVI |
18r |
1483 |
Depositum |
|
|
19 |
XXVII |
456r |
1480 |
Testamentum |
|
|
|
|
460r |
1480 |
Testamentum |
|
|
|
|
475v |
1480 |
Testamentum |
|
Giovanni Marino di Pizzoli |
20 |
I |
54r |
1464 |
Apotissa |
|
|
|
|
208r |
1464 |
Apotissa |
|
|
|
II |
266r |
1465 |
Protestatio |
|
|
|
III |
315r |
1466 |
|
|
|
21 |
VI |
283v |
1469 |
Apotissa |
|
|
22 |
X |
119r |
1473 |
|
|
|
23 |
XI |
45v |
1474 |
|
|
|
|
|
397r |
1474 |
Apotissa |
|
|
24 |
XVII |
194v–195r |
1480 |
Receptio in focularem |
|
|
25 |
XIX |
114v |
1482 |
Donatio |
|
|
25 |
XX |
51r |
1485 |
|
|
|
|
|
87r |
1485 |
Donatio |
|
|
|
|
103v |
1485 |
|
|
|
|
|
122v |
1485 |
Contractus |
|
|
26 |
XXI |
109r–109v |
1486 |
|
|
|
|
XXII |
104r–104v |
1487 |
Compromissus |
|
|
|
|
140v–141r |
1487 |
Contractus |
|
|
|
|
153v |
1487 |
Locatio dotis |
|
|
|
|
155r |
1487 |
Refutatio |
|
|
|
|
212v |
1489 |
Donatio |
|
Francesco Dominici di Fonticulo |
51 |
IV |
72r |
1510 |
|
|
Valerio Dominici di Pizzoli |
61 |
III |
52v |
1496 |
Procuratio |
Osservando i dati della tabella, è evidente come la maggior parte degli atti raccolti siano stati rogati dai notai Giovanni Cassianelli e Giovanni Marino di Pizzoli, i quali coprono un arco cronologico che va dagli anni ’60 agli anni ’80. Nella tabella che segue, invece, i documenti sono stati ordinati in base alla loro tipologia, consentendo di guardare con più chiarezza e maggior dettaglio la natura e il numero degli atti rogati che interessano i forestieri alemanni.
Computo degli atti rogati e loro tipologia disposti in ordine decrescente
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Tipologia contratto |
Numero |
|
Apodissa per debiti |
6 |
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Locazione di immobili |
6 |
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Acquisto o vendita di terreni |
4 |
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Donazioni |
3 |
|
Testamenti |
3 |
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Apodissa per acquisto di pelli o tessuti |
2 |
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Contratto di Lavoro |
2 |
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Locazione della dote |
2 |
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Acquisto di immobili |
1 |
|
Compromesso a seguito di danni alla proprietà |
1 |
|
Compromesso per eredità |
1 |
|
Contratto di Deposito |
1 |
|
Contratto non identificato |
1 |
|
Divisione di società mercantile di zafferano |
1 |
|
Inserimento nel computo dei fuochi |
1 |
|
Locazione di terreni |
1 |
|
Pace tra le parti in causa |
1 |
|
Procura |
1 |
|
Protesta |
1 |
|
Rifiuto dell’eredità |
1 |
|
Totale |
40 |
La maggior parte degli atti è costituita da apodisse, contratti di locazione e di compravendita, i quali mostrano, prima di tutto, il contributo dato dalla comunità tedesca all’economia locale, in relazione soprattutto al commercio e agli investimenti immobiliari. Non mancano, però, dati interessanti relativi al mondo del lavoro artigianale, che confermano la presenza in città di lavoratori immigrati specializzati. Al tempo stesso, le fonti notarili in esame hanno permesso di ricostruire i profili dei diversi soggetti citati al loro interno, documentando il contesto sociale e civile in cui gli alemanni erano immersi, e approfondendo la loro vita quotidiana, l’attività lavorativa, i rapporti familiari, i beni posseduti e la loro collocazione nello spazio urbano.
3 Le origini della comunità tedesca a L’Aquila
Consultando il database del fondo Incunabuli (ISTC) della British Library di Londra desta non poca sorpresa leggere che all’interno di questa vasta collezione sono conservati undici volumi stampati a L’Aquila a partire dalla seconda metà del Quattrocento. Di questi, ben sei sono stati prodotti presso i tipi di Adam di Rottweil, stampatore tedesco trasferitosi in città intorno al 1481.[9] La sua storia non è dissimile da quella dei tanti tipografi alemanni a lui coevi e che gli studiosi hanno con troppa facilità inserito nel novero degli allievi, diretti o indiretti, di Johannes Gutenberg.[10] Questi nuovi stampatori si insediarono rapidamente nei principali centri d’Europa, ma è soprattutto in Italia che trovarono terreno fertile per aprire le proprie botteghe.[11] In questo processo non furono coinvolti soltanto le grandi metropoli del tempo, ma anche quei centri di media portata che mostrarono un’importante domanda di saperi, cosa che ne certifica la dinamicità culturale e l’esistenza di un apparato socio-economico avanzato. L’Aquila fu certamente uno di questi. Essa si innestava sulla Via degli Abruzzi, che le consentiva di svolgere un ruolo cardine all’interno della fitta rete di scambi commerciali che collegava ai due estremi Napoli e Firenze,[12] città con la quale L’Aquila godette sin dal Trecento di proficui rapporti, soprattutto in merito alla produzione della lana che, come ha dimostrato Hidetoshi Hoshino, alimentava l’interesse delle principali compagnie commerciali fiorentine.[13] La lana e successivamente anche lo zafferano resero questa città una florida realtà capace di dare la possibilità a mercanti del calibro di Pasquale di Santuccio di costruire reti di scambio internazionali.[14] La nuova realtà sociale emergente, fatta di mercanti, notai-imprenditori e di aristocratici sensibili agli affari sembrò ad Adam di Rottweil un proficuo bacino di utenza capace di espandere le sue attività. Dopotutto, Adam lasciava una città come Venezia, un mercato dove forse c’era già troppa concorrenza, per investire proprio a L’Aquila le sue fortune: fatto che conferma l’idea di Siegfried Steinberg secondo cui la stampa non si diffuse da Magonza verso la Germania e poi in Europa secondo uno schema di cerchi concentrici, ma si insediò direttamente nei principali centri della rete internazionale dei traffici commerciali del tempo.[15] Ed è in questa rete che certamente troviamo L’Aquila. Ma Adam di Rottweil, al di là di possedere una buona dose di coraggio, era forse consapevole che in caso di necessità avrebbe potuto fare affidamento sul supporto della comunità di suoi connazionali che qualche decennio prima si era insediata in città.
Quando nacque precisamente questa comunità in città è difficile dirlo. Diverse testimonianze indurrebbero a pensare che il suo periodo di formazione sia stato intorno agli anni ’40 e ’50 del XV secolo. Lo storico Aloys Schulte, ad esempio, trascrisse un documento conservato nell’Archivio di Stato di Milano, nel quale si legge:
„Fridericus divina favente dementia Romanorum Imperator semper augustus … serenissimo principi Ferdinando Aragonum et Sicilie regi … Exposuerunt nobis fideles nostri dilecti Jacobus et Antonius fratres filii quondam Arnoldi de Zelandia cives Nurimbergenses, quod, cum per triginta annos aut circa dictus Arnoldus eorum genitor societatem habuerit cum Thoma, Joanne et Stefano Oloferi fratribus et civibus civitatis Aquile, tandem cum a jam dictis fratribus calculum et solutionem reliquorum requireret, eundem Arnoldum ad castrum Offignani deputaverunt, qui una cum Jacobo predicto filio suo credens debitum se recepturum, ad castrum Offignoni veniens, ibi a predictis tribus presente filio ejus misere et proditorie fuit occisus. Quia vero Thomas, Joannes et Stefanus fratres predicti hodie civitatem Aquilanam sub ditione caritatis vestre inhabitare dicuntur … fuit pro parte dictorum Jacobi et antedictorum liliorum dicti Arnoldi occisi humiliter supplicatum, quod pro jure eorum consequendo intercessiones nostras impartiremur u. s. w. Datum Wienne 28 die Novembris M CCCC LXXI etc.“[16]
Stando al documento, i figli del mercante tedesco Arnold von Zeeland, cittadino di Norimberga, chiedono giustizia all’imperatore Federico III per l’uccisione del padre, massacrato dai suoi tre soci aquilani nel castello di Offamiano, presso L’Aquila. Il documento è datato 1471, ma è indicato che la compagnia commerciale di Arnold era stata creata circa una trentina di anni prima.
Non è chiaro cosa commerciasse l’azienda di von Zeeland, ma è ipotizzabile che potesse essere una delle prime interessate allo zafferano locale. Non a caso, è proprio in quegli anni che L’Aquila fu letteralmente invasa da mercanti provenienti dalla Germania interessati a tale spezia.
Altro dato ci viene fornito dall’erudito Bernardino Cirillo, secondo il quale: „L’anno 1455 nel quale i mercati Tedeschi cominciarono a venir d’Alemagna a comprar zaffrani nell’Aquila, ʼche per prima erano soliti gl’Aquilani portarli a vendere a Vinegia, et di qua poi venevano questi Alemani, et altri mercáti a pigliarli.“[17]
Proprio come Adam di Rottweil, così molti tedeschi lasciarono la Serenissima per trasferirsi a L’Aquila. Il perché di questo ‚esodo germanico‘ verso gli Abruzzi ha forse una spiegazione: la guerra civile catalana (1462–1472) aveva provocato una profonda crisi dell’ort, la variante di zafferano locale, obbligando così i grandi mercanti alemanni a trovare nuovi centri di produzione più sicuri. Inizialmente furono i tedeschi stanziati presso il Fondago di Venezia a investire all’Aquila, la cui variante di zafferano, la Stima, risultava tra le più pure d’Europa. Tuttavia, la necessità dei mercanti di commerciare direttamente nei luoghi di produzione, al fine di eliminare gli intermediari italiani, costrinse molti todischi ad abbandonare la città lagunare e ad aprire le proprie filiali direttamente in Abruzzo.[18]
I membri della Grande Compagnia di Ravensburg furono i primi di una lunga serie di mercanti alemanni che si trasferirono in città. In seguito, fu il turno del gruppo Vöhlin-Welser: nel 1461 compare il nome di Lukas Welser tra gli acquirenti di zafferano aquilano fornito dalla compagnia di Antonio Della Casa a Ginevra; e ancora, nel 1478, lo stesso Lukas Welser trattenne a Bologna 5 balle di zafferano acquistate proprio all’Aquila; inoltre, nel 1487 Heinrich Dachs, dipendente della compagnia, aveva registrato una lettera di cambio presso il banco Strozzi di Napoli per un affare relativo allo zafferano.[19]
Agli inizi del XVI secolo fu la volta dei Baumgartner di Augusta e degli Imhoff, e tra il 1513–1514, seguirono i Gramder, Röhlinger, Herwart, Weiss, Besserer, Manlich, Ingoldt, Vachter, Tücher, Münzer e Memmingen.[20] L’Aquila, dunque, vide in maniera progressiva un aumento di mercanti tedeschi all’interno delle sue mura, soprattutto di fattori e intermediari che lavoravano per loro conto.
La comunità tedesca, quindi, si infoltiva di anno in anno e dovette inevitabilmente organizzarsi al suo interno. Non tutti però si stanziavano per lunghi periodi o in maniera permanente. Gli operatori legati allo zafferano, infatti, restavano in città soltanto nei periodi dei cicli produttivi della spezia. I bulbi della pianta erano generalmente piantati alla fine dell’estate, e raccolti nel periodo invernale. Klaus von Steinhaus, fattore della compagnia di Ravensburg insieme a suo padre Thomas, nel corso dei suoi viaggi d’affare da Milano a L’Aquila tra il 1478 e il 1479, non a caso registrò nei suoi resoconti di trovarsi all’Aquila soltanto durante il periodo della raccolta, che andava da dicembre fino a febbraio.[21] Leggendo le testimonianze dei viaggi del mercante Endres Imhoff il Vecchio (figlio di Hans il Giovane) è facile rendersi conto degli spostamenti continui lungo tutta la Penisola e di come a L’Aquila ci si intrattenesse per solo alcuni mesi:
„Item. Zu Mailand plaib ich nur 6 tag, von dannen riett ich gen Florenz und weitter gen Adler, das erstmol auff 10. October. Item. Zum Adler plaib ich, pies Franz Imhoff auch dohin kom, der schiekt mich gen Bary in Apuio, kom in 8 tagen dohin. Item. Zu Bary plaib ich pies im Jenner an. 1510. Do kom ich wieder zu Franzen Imhoff gen Adler. Item. Zum Adler plaib ich pies auff 13. may 1510. Do riet ich gen Rom, Florenz und Mailand und weitter heraus, kom also, gott hab lob, das ander mol im monet Julio gen Nurnberg. Item. Zu Nurnberg plaib ich pies auff 28. Settember. Do raitt ich mit Franz Imhoff gen Augspurg, von dannen gen Mailand, auch Florenz und komen, gott hab lob, ao. 2. November gen Adler. Item. Zum Adler plaib ich pies auff 9. November, do schickt mich Franz Imhoff gen Bary in Apulio, kom dohin auff 17. November.“[22]
I soggiorni a breve o a medio termine erano la normalità anche in altri centri, come ad esempio Firenze, dove, come riporta Franco Franceschi, ben il 40 % dei lavoratori tedeschi impegnati nel settore tessile, registrati nel „Libro di Entrate“ della confraternita di Santa Barbara, abbandonava la città entro il primo anno di lavoro, e solo il 14 % se ne andava oltre il terzo.[23]
A L’Aquila, quindi, quella dei fattori e dei mercanti tedeschi era per lo più una componente di forestieri itineranti che si trasferivano in città ciclicamente, in maniera stagionale, solo per determinati periodi dell’anno.
Tuttavia, la documentazione che è stata raccolta nel fondo notarile aquilano dimostra, invece, che esisteva anche una piccola ma stabile comunità di todischi estranea alla mobilità e alla temporaneità del commercio di zafferano. Sulla base delle date che forniscono gli atti notarili, possiamo renderci conto dei tempi di permanenza di alcuni di questi individui:
Periodo di permanenza di alcuni tedeschi
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Soggetto |
Dati cronologici di permanenza in città |
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Pietro Amicho Giovanni teotonico di Stantiam |
dal 1447 al 1464[24] |
|
Errigo Rainaldi di Alamannia |
dal 1461 al 1492[25] |
|
Francesco Giovanni d’Alamannia Alta |
dal 1474 al 1492[26] |
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Martino clavifero di Efroy di Alamannia Alta |
dal 1471 al 1487[27] |
Come vediamo, c’è una continuità di decenni, e oltre a questo dato dovremmo considerare anche coloro che nelle carte notarili venivano definiti esplicitamente come habitator, cioè dotati di una residenza stabile in città ma che non godevano delle prerogative giuridico-politiche spettanti ai cives.[28]
Quanti fossero i tedeschi stabili in città è difficile dirlo. A L’Aquila i forenses non pagavano il focatico e per tanto non venivano registrati nei censimenti dei fuochi.[29] Per quanto concerne gli stanziali, invece, l’unico dato certo risale al censimento del 1508, quando furono registrati solo 5 fuochi tedeschi, che, secondo i calcoli, dovrebbero essere all’incirca una ventina di individui, certamente pochi rispetto ad altre componenti straniere come i francesi (6 fuochi) e lombardi (50).[30] Tuttavia, il numero effettivo di alemanni in città doveva essere sicuramente maggiore rispetto ai dati fiscali; infatti, come detto in precedenza, dobbiamo ricordare che la presenza dei todischi era condizionata dai cicli produttivi dello zafferano, al cui numero vanno aggiunte anche le maestranze itineranti su cui si ritornerà.
Insomma, è difficile dare delle stime precise, ma è bene evidenziare un dato interessante che affiora proprio dallo studio eseguito delle fonti notarili: dei 36 todeschi individuati, tra il 1447 e il 1510 solo cinque vengono qualificati con lo status di habitator, mentre altri due vengono indicati come comorantes, termine che indicherebbe quei mercanti o artigiani forestieri che risiedevano temporaneamente in città.[31]
Tra questi vale la pena ricordare il caso di Bavocchino Amelrecchis de Tenaphalo (complicato dire a quale città il notaio facesse riferimento) „de provincia Barbantis“, abitante del locale di Bazzano „intus civitate Aquile“ il quale dichiarava, nel 1480, che „cupiebat se esse focularem“, cioè di voler essere inserito nel computo dei fuochi e quindi acquisire lo status di cittadino. Per ottenerlo Bavocchino chiedeva di pagare in maniera dilazionata l’imposta ogni „singulis annis medietatem oneris et gravaminus focularis imponendi in castro de Bazano predicto“ rinunciando ad accedere a „omni offitio massaratus sindicatus conestabulatus cetolatiatus et de capodece“.[32] Ad aver spinto Bavocchino a chiedere lo ius foculari era certamente la possibilità del diritto di godere dei beni collettivi dell’universitas e dei diritti politici, che nel caso dell’Aquila implicava anche quelli dei suoi castra. Come ha ben spiegato Alessio Rotellini, nel contesto aquilano:
„il diritto di focoliere, proprio di ogni capofamiglia o capo fuoco, era nella piena disponibilità del possessore che aveva facoltà di alienazione di affitto in toto o in parte. Lo ius foculerii poteva essere cumulato all’interno della stessa o di università diverse, … si poteva acquisire dunque o per compra da un privato cittadino mediante semplice atto notarile, cui faceva seguito una ratificazione dell’università, o per aggregazione decretata dall’università stessa … Sin dall’epoca della redazione degli Statuti cittadini, gli stranieri che volevano acquisire la cittadinanza aquilana si dovevano iscrivere tra i focolieri di una delle università della città e contado“.[33]
Bavocchino, quindi, essendo straniero non poteva fare altro che chiedere l’acquisto dello ius foculari, pur rinunciando, secondo la clausola sottoscritta nell’atto notarile, alla possibilità di ricoprire cariche amministrative. Da quel momento, sarebbe stato iscritto nel „quaterno Communis foculariorum“ redatto dal Camerario come prescritto negli Statuti Aquilani.[34]
Gli stranieri a L’Aquila, tuttavia, se non interessati, o comunque impossibilitati all’acquisto dello ius foculari, potevano godere in qualche modo di un regime fiscale che li equiparava a dei cives come previsto dai capitoli 157 e 210 degli statuti aquilani, secondo i quali era richiesto di abitare in città per almeno cinque anni e di esercitare quest’obbligo con continuità.[35] Alcuni dei tedeschi che sono registrati negli atti notarili studiati rientrano sicuramente in quest’ultima categoria di forenses poiché, come abbiamo visto, la loro permanenza in città è attestata per diversi anni e con una certa continuità.[36]
Certamente non si parla di grandi numeri, è bene sottolinearlo, e fare una comparazione con altre realtà più grandi come Firenze o la stessa Napoli rende sicuramente il caso aquilano marginale sul piano quantitativo, ma non di certo qualitativo se si considera il concentrato di uomini d’affari che la città ospitava.
4 Provenienza
Da quale area della Germania provenissero i tedeschi individuati è complicato dirlo. Le fonti notarili non sono sempre precise sulle indicazioni geografiche, ciò è dovuto da una serie di motivi linguistici o dalla non conoscenza esatta dei luoghi, ma è chiaro che i contorni del mondo germanico vengono allargati ai confini dell’Impero, dove nella nozione di todisco rientrano anche molti individui provenienti da aree come quella dei Paesi Bassi.[37] I notai aquilani, e non solo, avevano una percezione unitaria dei forenses provenienti dall’Europa centro-settentrionale, e nella maggioranza dei casi si trovano denominazioni toponimiche del tipo todisco, teotonico, d’Alamania. Tuttavia, ci sono casi in cui i rogatori avevano specificato nei documenti città e paesi d’origine. Infatti, dei 36 soggetti individuati, sette, seppur indicati come teotonici, non erano in realtà tedeschi in senso stretto; di questi, tre erano originari del Brabante;[38] uno di Bruges;[39] uno di Bruxelles,[40] uno di Liodensia probabilmente Liegi,[41] uno di Anversa.[42] Per quanto riguarda invece coloro che possiamo definire propriamente tedeschi, cinque sono indicati come provenienti dall’Alemannia Alta (la Germania Bassa erano i Paesi Bassi),[43] mentre per un solo soggetto viene specificato di provenire dalla città di Costanza,[44] e di un altro dalla città di Efroy, che per assonanza potrebbe essere Erfurt.[45] In ogni caso, tutti sono considerati todischi, per cui c’è spesso un problema di sovra-estimazione a cui dovremmo considerare un altro fattore individuato da Anna Esposito per il caso romano, e cioè che
„la semplice indicazione de seguita dal nome di una località o di una regione oppure l’aggettivo di provenienza essendo attribuite anche a figli di immigrati ormai radicati o in via di assimilazione può essere solo indicativa di una origine, anche lontana nel tempo … Più antica è l’immigrazione e minori sono i richiami toponimici espressi dal notaio, che privilegia altri elementi, legati alla morfologia abitativa ed associativa urbana e al rilievo sociale del soggetto: la provenienza può comparire quindi, per individui in via di integrazione, accanto alle qualifiche sociali … insieme al mestiere o alla professione“.[46]
Alla luce di questa osservazione suggerita da Esposito, bisogna considerare la possibilità che alcuni dei tedeschi rinvenuti nelle carte del notarile possano essere in realtà di seconda o terza generazione, e quindi a tutti gli effetti degli aquilani.
5 Diffusione sul territorio urbano ed extra-urbano
In quali aree della città i tedeschi si erano stabiliti? Come detto in precedenza, per quanto concerne i mercanti non abbiamo a L’Aquila qualcosa di paragonabile al Fondago di Venezia, vero e proprio albergo per stranieri composto da magazzini per le merci e camere per i lunghi soggiorni.[47] Da quello che emerge dalle fonti aquilane, invece, si sa soltanto che in alcuni casi i commercianti di zafferano prendessero in affitto immobili per soggiornare in città, come leggiamo in un documento del 1494, dove la Camera Aquilana, per reperire la somma di 140 ducati, propose di tassare quei cittadini aquilani che fittavano case ad „alemannes qui emerunt zeffaranum“.[48] L’elenco stilato conta otto proprietari con a fianco la cifra dovuta:
Elenco dei proprietari che ospitavano mercanti tedeschi di zafferano nel 1494
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Proprietario |
Tassazione |
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Ludovici Iacobi Marini Antonelli |
30 ducati |
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Iacobus Caroli |
25 ducati |
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Iacobus Notarii Nannis |
20 ducati |
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Iacobus Iuliani Dominici |
10 ducati |
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Marinus Nardi Tofani |
10 ducati |
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Gregorius notoarius Marinis |
10 ducati |
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Iohannis Ionninis |
10 ducati |
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Iacobus de Vigliano |
10 ducati |
Da questi dati possiamo ipotizzare la presenza di almeno uno straniero per ciascun proprietario, ma potremmo immaginare anche che chi pagasse di più lo facesse perché nella sua proprietà ospitava più affittuari, o magari perché aveva dato in locazione più di un immobile, o semplicemente si trattava di aver applicato un parametro fiscale specifico. In ogni caso, non è esplicitato in quale area della città si trovassero le suddette unità abitative. Da notare anche che all’interno dell’elenco compaiono due notai, cosa che indica un certo legame tra tedeschi e quel ceto dei notai-imprenditori aquilani di cui parlava Berardi.[49]
Per quanto riguarda i tedeschi stanziali, invece, dalla documentazione possiamo avere un’idea di dove abitassero in quanto, per fortuna, in alcuni atti di locazione leggiamo il riferimento topografico degli immobili. Per capire bene le dinamiche di insediamento è bene fare una premessa sulla suddivisione in ‚locali‘ della città, la quale, come indica Andrea Casalboni:
„Una volta edificata la nuova città, infatti, gli insediamenti [i castra] coinvolti nel processo sinecistico ricrearono all’interno del circuito urbano un proprio piccolo quartiere, chiamato ‚locale‘ e caratterizzato da una chiesa (omologa di quella della località di provenienza, con la stessa intitolazione e gli stessi diritti – di fatto un suo doppio), una se pur piccola piazza e, talvolta, una fontana“.[50]
Fatta questa dovuta precisazione, si osserva che la maggior parte dei tedeschi si concentrava principalmente nel locale di Bazzano, nei pressi della chiesa di Santa Giusta, dove troviamo: Orraro Rainaldi teotonico indicato come „habitatores [sic] Aquile“ nel 1461, che dichiarava di possedere una domus con terra annessa che locavit a un certo Renato Silvestri per un periodo che va da maggio e gennaio con un canone di 24 fiorini; magister Orrigo Pamfaculo de Almania che viveva in un’abitazione di proprietà del Capitolo di Santa Giusta; Machteo theotonico Iohannis de Alamannia Alta che era inquilino della casa di proprietà di Cola Cristofori di Poggio Picentie; magister Orrigo Petri Theotonici di cui si conserva l’apodissa locationis per la casa di Michelangelo de Mussarellis; Bavocchino Amelrecchis che decise nel 1480 di acquisire la cittadinanza e dunque di pagare il focatico, dichiarava di abitare nel locale di Bazzano „intus civitate Aquile“.[51]
Per quanto riguarda gli altri quartieri della città, si trovano tedeschi in Civitatommasi (1), Rodio (1), Sant’Antonio (1), Machilone (1).[52] È evidente, quindi, che in percentuale il quartiere di Bazzano risulti essere la zona della città con più alemanni. Nell’area extramoenia, invece, si registrano todischi nei castra di Bazzano (1) Gigliano (2), Sant’Anza (1).[53]
6 Le professioni dei tedeschi a L’Aquila
Grazie alle fonti notarili è possibile conoscere, in alcuni casi, i mestieri esercitati dai tedeschi in città. Ciò che notiamo è un consistente numero di lavoratori specializzati. Tra questi, Martino clavifero Regii de Alamania alta. Sue prime notizie si trovano non in un atto notarile ma in un registro dell’Archivio Civico Aquilano, datato marzo 1471, nel quale si legge che il magister Martino de Alamannia fu assunto con contratto quadriennale dal Comune, insieme al suo socio magister Marinus Collegrossi, per la riparazione dell’orologio della torre del palazzo del Capitano.[54]
Martino era dunque un fabbro specializzato nella riparazione di ingranaggi d’orologeria.[55] Forse si trasferì a L’Aquila per motivi di profitto, scegliendo questa città anche perché sapeva di trovarsi in un contesto dove poter contare sul supporto di una comunità di connazionali che già esisteva da qualche decennio. In ogni caso, nel 1486 viene definito dal notaio Giovanni Marino di Pizzoli „habitatore civitate Aquile“ a prova del suo trasferimento definitivo in città.[56] In un documento del 1487 viene indicata anche la sua città d’origine, visto che viene definito come magistrum Martino Rigi de Efroy, che per assonanza, come detto, probabilmente potrebbe essere Erfurt.[57] Il 13 agosto dello stesso anno viene redatta una refutatio dell’eredità di Martino da parte della moglie Margarita, definita „uxor quondam magistri Martini theotonici“, il che indicherebbe presumibilmente l’anno di morte del marito; all’interno del documento si legge che il marito aveva disposto che i suoi attrezzi da lavoro, ossia incudini, martelli, mazze di ferro e lime (che ci confermano la tipologia di professione da lui svolta), venissero ereditati non dalla moglie ma da Gentile Lionelli di Civitareale, forse suo socio; altro dato interessante, e su cui si ritornerà, venne scelto come suo esecutore testamentario Bavocchino theotonicus de Alamannia, lo stesso Bavocchino, forse, che aveva chiesto di acquisire la cittadinanza nel 1480.[58]
A partire dal 1465 registriamo un altro magister, un certo Errigo Raynaldi de Alemania, che nel 1465, in collaborazione con Cola di Pizzoli, aveva lavorato presso Gentile di Belmonte di Nola per la costruzione di una scala.[59] Enrico di Rainaldo era però già comparso in un atto del 1461, una locatio dotis, nel quale si dichiarava intenzionato a sposare Marutia.[60] Si sa, inoltre, da un atto del 1492, che Enrico fu proprietario di una domus, in quanto chiedeva al suo vicino Mariano Lici di Bagio di riparargli i danni arrecati alla sua proprietà.[61]
Nel 1476 viene registrato un certo magister Orraro Petri de Alamania, il quale aveva assunto lo status di comorante in Aquila, e che locavit operas di Stefano di Giovanni teothonici, altro tedesco lavoratore in città, per costruire dei leutos (dei letti forse?) nella propria abitazione.[62] In un altro documento, rogato nel 1487, si trova invece il magister Miccaelem theotonicus d’Alemania, firmatario di un contratto di lavoro con il Capitolo della Cattedrale di San Massimo al fine di ristrutturare una „domus cum tribus portis“ entro 6 anni, ed eventualmente poterla prendere in fitto con sua moglie Giovanna e i suoi figli.[63]
I casi dei lavoratori specializzati che abbiamo osservato presentano, con le dovute differenze, una tendenza comune secondo cui essi decidevano di stanziarsi in città per lunghi periodi o per tutta la vita, e in seguito creavano forti legami con la comunità locale non solo nell’ambito della collaborazione professionale, ma soprattutto sul piano personale, visto che molti di essi avevano contratto un matrimonio e avevano figli.
Oltre ai lavoratori todischi altamente qualificati, all’Aquila si trovavano diversi mercanti d’Alamannia. Come detto in precedenza, la città fu meta privilegiata delle compagnie interessate allo zafferano. Eppure, nello spoglio eseguito dei volumi del notarile aquilano è emerso soltanto un documento che riguarda il commercio della preziosa spezia, ossia una „divisio societam zaffaranis“ [sic] datata 1492 nella quale Giovanni Antonio Cicchioti di Pizzoli e Benedetto teotonicus con i suoi figli confermano una divisione delle quote della società così come era stato fatto in passato.[64] Pur ammettendo la necessità di ampliare il numero di fonti da studiare, si può asserire che la compravendita di zafferano esula dal richiedere la certificazione di un notaio per la sua realizzazione.
Tuttavia, i mercanti tedeschi sono interessati anche ad esportare i propri prodotti, come rame, lino e pelli.[65] Nel notarile, infatti, si legge del mercante Petro Amico Iohannis theotonici de Stantiam che deve ricevere da Bartheus Ludovicii Ventrecelle de Stantiam circa 9 fiorini per l’acquisto di velluti.[66] Altra figura è il mercante Iohannes Conractum de Alamania Alta il quale, nell’ottobre del 1469, vendette a Pietro Antonio Petrucci 350 pelli di pecora „ad usum artis pellipare“ da pagare entro la festa di Ognissanti.[67] Interessante notare come la figura di tale Pietro Antonio Petrucci, originario di Montereale, compaia in altri documenti, datati 1462, in cui dimostra di avere già contatti con un altro tedesco in città, ossia a Oraro Rainaldi theotonici (anche egli già citato) dal quale fitta una casa e una terra al prezzo totale di 34 fiorini annui, nel locale di Bazzano non lontano dalla chiesa di Santa Giusta.[68] Non è chiaro se fosse stato un mercante Machteus Iohannis de Alamania il quale stipulò nel 1485 un contratto il cui documento è incompleto, insieme al fiorentino Baleassar Armandi e Pietro di Anversa de Alamannia da una parte, e Cola di Cascina e il magister Adam Rodovili de Alamania dall’altra.[69] Non è da escludere che quest’ultimo fosse proprio il noto stampatore tedesco, per cui il termine Rodovili potrebbe essere una trasformazione del cognome Rottweil. Questo elemento potrebbe farci propendere per l’ipotesi che Matteo fosse un mercante o comunque un investitore, infatti laddove compare Adam di Rottweil in altri documenti notarili, editi per la verità, si legge dell’acquisto di diverse balle di carta e della costituzione di una società con diverse figure tra cui Domenico di Giovanni di Montorio e un certo Onofrio Cole Butii de Cascina, di quest’ultimo potremmo anche pensare che sia lo stesso Cola di Cascina che abbiamo individuato nel documento prima citato del 1485.[70] Lo stesso Machteus Ioannis compare in altri due documenti del 1485: nel primo, datato 28 gennaio, si legge che Cola Cristoforo di Podio Picentie dichiarava che un tempo aveva locato la propria casa nel locale di Bazzano a L’Aquila a Matteo di Giovanni theotonico; la casa, però, sembra sia stata soggetta ad una serie di lavori e di interventi di riparazione, per cui Cola, avendo riconosciuto a Matteo „bona fides“ gli concedeva un mutuo di 40 fiorini per la riparazione della casa.[71] Nel secondo documento, del 2 marzo, Matteo di Giovanni theotonico d’Alamania acquistava da Roberto Pietro di Borbona metà della proprietà di una casa („solis et hedificis“), l’altra metà, invece, era della schola di Santa Barbara.[72] Matteo, dunque, a distanza di qualche mese, aveva deciso di sospendere il suo contratto di fitto e di comprare casa stabilendosi in città, e garantendosi potenzialmente la possibilità di godere di privilegi fiscali, se non addirittura il diritto di cittadinanza, come previsto dagli statuti aquilani.
Testimonianze su come i mercanti tedeschi, specialmente quelli di zafferano, trascorrevano le loro giornate a L’Aquila vengono fornite dalle parole di Jeronimo Imhoff, il quale, in una lettera il 6 novembre 1545, scriveva al suo socio Paul Behaim: „Qui è un luogo irrimediabilmente rustico e noioso, molto diverso da Venezia. Sono un po’ sconcertato di perdere il mio tempo così miseramente qui. Se Dio mi aiuterà a uscire da questa terra senza speranza, certamente nessuno potrà riportarmi qui a breve.“[73]
E ancora il 15 gennaio 1546, dichiarava:
„È bello vivere qui, la mia vita non ha avuto giorni più pigri. Chi è felice di banchettare, mangiare e bere spesso e molto, dormire a lungo, giocare ogni giorno, non potrebbe avere un accampamento migliore di questo. Ma non mi piace il posto qui, ho paura che la vita pigra e noiosa qui mi rovini, dimenticherò più di quanto ho imparato, perderò un sacco di soldi e non servirà a nulla.“
Il giudizio sembra essere perlopiù negativo nei riguardi della routine in città, seppur non mancassero divertimenti e banchetti, a testimonianza di una certa vivacità del contesto aquilano. Ciò che forse appare troppo tranquilla agli occhi del mercante era la conduzione degli affari, questo perché il grosso del lavoro era in realtà affidato ai fattori della compagnia che si aggiravano per le campagne intenti a contrattare con i coltivatori di zafferano.
Oltre ai mercanti e agli artigiani osservati, in città si registrano altre figure professionali. Tra queste la più insolita è certamente quella del lenone Johannem Johannis Thomasi de Liodensia de Alamania del quale si legge, in un atto di pace rogato il 5 agosto del 1447 dal notaio Antonio Lutii, prometteva di giurare di non offendere più in pubblico Elisabetta meretrix, moglie del condam Gualteri Johannis de Liera de Bramante.[74] È probabile che il rapporto tra i due soggetti sia stato quello tra il lenone e la prostituta da lui gestita, e forse Giovanni aveva esagerato con le offese, non sappiamo se verbali o anche fisiche. Che Giovanni fosse forestiero è ovvio, ma per Elisabetta la cosa è più difficile da dirsi: pur considerando il fatto che il suo era un nome molto diffuso nelle comunità germanofone (la stessa Sant’Elisabetta era protettrice dell’Ordine Teutonico), e che il marito potesse essere di una qualche città (non è chiaro il Liera del documento) della regione del Brabante (se a questa regione si riferiva il notaio con il termine Bramante), non abbiamo la certezza assoluta delle origini di questa donna. Ma considerando che Elisabetta sia stata anch’essa todisca, era forse questo elemento a legarla al suo lenone Giovanni? O ci sono altri elementi da considerare che purtroppo non emergono dal documento? In ogni caso, cosa ci facessero un lenone de Alamania e la sua sottoposta a L’Aquila non è dato saperlo. Il motivo potrebbe essere stata l’occasione di una fiera? Generalmente le prostitute si spostavano per tali eventi; nella città abruzzese si tenevano infatti la fiera di San Bernardino dal 10 al 26 maggio, la fiera del Perdono alla fine di agosto, e la fiera di San Matteo dal 1 al 20 settembre.[75] Si potrebbe ipotizzare, dunque, che il soggiorno in città di Giovanni e di Elisabetta sia strettamente correlato a quello dei mercanti tedeschi venuti a L’Aquila per l’acquisto dello zafferano nel corso delle fiere estive. Eppure, L’Aquila aveva il suo lupanare pubblico, quindi se i mercanti tedeschi avessero avuto la necessità di intrattenersi con compagnie femminili avrebbero potuto farlo senza alcun problema.[76] Ovviamente, non è possibile escludere che qualcuno preferisse ‚passare del tempo‘ con una connazionale, o almeno d’interfacciarsi con un lenone che parlasse la propria lingua; ciò giustificherebbe la scelta dei due, o del solo Giovanni, di spostarsi in Abruzzo. Tuttavia, sulla base degli studi di Richard Trexler in merito alla prostituzione a Firenze, si osserva come una percentuale consistente delle donne straniere che si prostituivano fossero originarie della Germania (11 %) e dei Paesi Bassi (10,5 %).[77] Molte di queste donne si erano trasferite anche grazie all’aiuto di un lenone, figura necessaria per spostarsi e stabilirsi. Le prostitute straniere che arrivavano condividevano molto spesso con il loro protettore l’origine geografica; infatti, a Firenze i lavoratori tessili provenienti dalle Fiandre o dalla Germania erano non di rado scelti come ‚sostenitori‘ dalle loro connazionali che esercitavano il meretricio al fine di aiutarle nell’inserirsi nella nuova comunità.[78] Tornando alla vicenda aquilana, dunque, quella di Elisabetta potrebbe essere la storia di una delle tante ragazze straniere immigrate che arrivando in città hanno potuto fare affidamento su un lenone-lavoratore connazionale, Giovanni appunto, che forse era già presente sul posto o che si sia trasferito insieme a lei.
È giusto segnalare che nel documento in questione compare anche il nome di un certo Matteo di Bruges, ma la difficoltà nella trascrizione del documento per la complessità della scrittura del notaio non ha consentito di capire il ruolo di tale personaggio all’interno dell’atto.
Continuando con la disamina dei vari profili lavorativi, troviamo un certo Machteus theotonicus definito tabernarus d’Alamania, il cui nome compare soltanto tra i teste della refutatio di Margherita moglie di Martino clavifero di cui abbiamo parlato. Infine, in un documento del 1487 compare frate Pietro, alamannus, depositario del monastero di Santa Maria di Collemaggio, in qualità di arbitro di una contesa tra gli eredi di un certo „Mici Petri Cole de Sassa et Marutie eius uxoris“.[79] Purtroppo, non è dato sapere le ragioni che portarono il frate tedesco a stabilirsi a Collemaggio, e del perché era stato scelto proprio lui come arbiter.
Dalla documentazione notarile emergono anche notizie di investitori che impiegarono i propri capitali nell’acquisto di terreni destinati alla viticoltura. Tra questi Petro Amicho Iohannis theotonici di Rascino, che con 300 fiorini acquistò un vitigno appartenente a Blassiuzio Giovanni Tramazantis di Asserico, presso il locale di Bazzano nella zona di Colleinnischo; oltre a ciò, Pietro Amicho comprava anche una quarta parte della vasca che serviva per la pigiatura delle uve e altri strumenti per la lavorazione del vino, insieme al torchio.[80] Altro caso di questo genere è quello di Franco Iohannis de Alamania Alta e di sua moglie Rentia i quali acquistarono nel 1474, per mano di Nicolao Berardi di Montorio, dei vitigni nella località di Gignano, nell’area detta di San Pietro, e anche ¹⁄₆ della proprietà del torchio.[81] Tuttavia, in un documento datato 1492, la stessa Renza, definita moglie dell’ormai „quondam Franci de Alamannia“, vendette ai suoi vicini Santuzzo e Mariano una parte di quei vitigni acquistati anni fa dal marito, pur rimanendo ancora proprietaria di una porzione di terreno.[82] Infine, la vicenda di Oraro Rainaldi de Alamania habitator in Aquila, già citato in un documento del 1461, che nel 1471 acquistava da Nella, moglie dell’olim Iohannis Peteterii de Cassano, ben „pecias duas terra vineam site in pertinentis de Gignano“.[83] Come per Franco Iohannis anche in questo caso ci troviamo a Gignano, località ad est dell’Aquila, che risulta essere un’area di interesse per gli investimenti agrari da parte dei forestieri, ed è da notare anche come le date dei documenti rogati non siano così distanti l’una dall’altra.
Sebbene non sia un vero atto di compravendita, vale la pena citare anche una donatio di un vitigno sito nel locale di Sanntiam eseguita da Marino Caproni di Pizzolo a favore di Benedicto theotonici de Almania.[84] Non è chiaro il motivo della donazione, ma di fatto ancora una volta si conferma l’interesse da parte dei tedeschi verso la produzione viticola locale.
7 Relazioni all’interno della comunità e con i locali
La documentazione notarile aquilana consente di ricostruire non solo la rete di relazioni all’interno della comunità tedesca, ma anche quella tra i suoi membri e il tessuto sociale aquilano di contorno. Partendo dal testamento di un certo Alberto Todisco, stilato dal notaio Giovanni Cassianelli nel 1480, è possibile avere l’idea di quanto possano essere complesse le reti sociali.[85] Il primo dato che si evince dalla lettura di questo documento è il legame che il testatore aveva con le istituzioni religiose locali: Alberto, infatti, chiese espressamente di essere sepolto nella chiesa di San Biagio nel quarto di San Pietro. Non è possibile conoscere le ragioni di questa scelta, né tantomeno è possibile dire che questo edificio sacro sia stato di riferimento per la comunità alemanna. Oltre a questa sua ultima volontà, Alberto disponeva anche un lascito di 2 fiorini in favore della chiesa di Sant’Agostino (non a caso sede della cappella di Santa Barbara), mentre di 1 fiorino ciascuno alle chiese di Collemaggio, di Santa Maria del Soccorso e di San Bernardino. Terminata la parte relativa alle donazioni, il notaio Giovanni Cassianelli trascrive con attenzione i debiti e i crediti che il suo assistito lasciava in punto di morte. Per quanto concerne i rapporti con i suoi connazionali, egli, come visto nei paragrafi precedenti, era prima di tutto in contatto con la confraternita nazionale della schola di Santa Barbara (vedi paragrafo successivo), di fatto il trait d’union all’interno della comunità germanofona, ed era con questo ente in debito di „ducati quarto e mezo veneciani“. Inoltre, nel testamento leggiamo che egli aveva lasciato in pegno una cintura d’argento a Gerardo todisco „pro ducati III vinictiani li quali ducati tri sono della scola de Santa Barbara“, e che doveva 60 carlini a Matteo todisco, e 3 celle a Luca todisco. È evidente, quindi, che Alberto avesse rapporti prevalentemente economici con i suoi connazionali, e non compaiono né familiari né amici. Per quanto riguarda le relazioni con gli aquilani, invece, troviamo un numero di voci maggiori, a prova del fatto che i tedeschi in città non erano rinchiusi in una dimensione esclusiva. Il testatore, infatti, era in debito con Guglielmo Caralescitis, al quale doveva 23 carlini, e con Cola Cornetto di Castelnovo, a cui andavano 11 carlini. Eppure, i crediti che egli vantava con gli aquilani erano sicuramente maggiori, tanto che si è preferito riportarli nella seguente tabella:
Elenco dei debitori presenti nel testamento di Alberto Todisco.
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Debitore |
Cifra |
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fratello di Franco di Castelnuovo |
23 carlini e 4 celle |
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Giacomo Molinaro |
8 carlini e 8 celle |
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fratello di Giacomo Antonio |
3 carlini |
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fratello di Giacomo Battista |
3 carlini |
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fratello di Bernardino |
3 carlini |
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nipote di Giacomo Angelo |
11 celle |
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Bartholomeo figlio di Maria de Parterio |
25 celle |
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Messere Filippo |
4 carlini |
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Pietro dello Curso |
18 soldi |
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Andrea de Pietro Fornella de Bagno |
31 celle |
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Dominus Matteuzzo delle Felle |
5 carlini |
Un primo dato che andrebbe sicuramente considerato è l’utilizzo di diverse monete a seconda dei soggetti. Nel caso dei debiti nei confronti della schola di Santa Barbara vengono adoperate monete veneziane, ciò indicherebbe che tale istituzione, e gli alemanni che ne facevano parte e che versavano quote nella cassa comune, continuavano a mantenere dei legami commerciali con la Serenissima, forse perché intermediati dal Fondaco dei Tedeschi. Nella soprastante tabella, invece, compaiono carlini e celle, quest’ultime coniate presso la zecca dell’Aquila, a ragione del fatto che Alberto intratteneva relazioni economiche con locali.[86]
Le cifre riportate nel testamento non sono certamente altissime, ma non è da escludere che Alberto fosse impegnato in un’attività di microcredito. Tuttavia, solo alcune voci all’interno del testamento ci aiutano ad ipotizzare quale poteva essere la sua reale occupazione. Il notaio Cassianelli, infatti, trascrive che il suo assistito aveva „receputi coppi VI de grano“; inoltre, più avanti nel testo, si legge che „messer Santo a avute cente et venti pane montano carlini VII“. A questo punto non è chiaro se Alberto fosse un mercante interessato al frumento e ai suoi derivati, oppure ad uno dei tanti panettieri tedeschi che già Giovanni Vitolo aveva raccontato nelle sue ricerche sulla Napoli nel XV secolo.[87] A ciò andrebbero aggiunti altri due dati: il primo è che Alberto stesso definisce il debitore Pietro dello Curso come suo „compare“, un termine che potrebbe indicare non solo un rapporto di amicizia ma anche una possibile collaborazione professionale, uno dei tanti esempi di società mista tra tedeschi e aquilani; il secondo, che si trova quasi alla fine del testamento, Alberto dichiara di aver pagato il canone d’affitto di un fondaco „de sotto“ e di uno „de sopra“, confermando ancora una volta il suo impegno in un’attività commerciale che richiedesse la disponibilità di un magazzino per conservare la propria merce.
Eppure, il mistero su chi fosse Alberto Todisco si infittisce proprio con le ultime battute del suo testamento. Dopo aver dichiarato di dover ricevere da Luca todisco 3 celle, leggiamo le seguenti parole: „lasso lofficio in capo dellanno post eius mortem“. La prima questione da comprendere è quale sia stato l’ufficio, e cioè il ruolo ricoperto, di cui si fa menzione. Dopodiché, se il soggetto di quel „eius“ è il Luca todisco menzionato poco prima, perché Alberto dice di voler lasciare la sua carica dopo la morte di un suo debitore, al sopraggiungere del nuovo anno? O forse qui il notaio Cassianelli, impiegando un formulario in latino, intendeva con quel „post eius mortem“ la dipartita del suo assistito, che nell’incipit del documento era stato dichiarato già „Infermo della persona e sano della mente e de intensione“. In ogni caso, Alberto dimostra di non essere stato una persona di secondo piano, infatti, oltre a disporre di un’attività commerciale, era molto ben radicato nel contesto aquilano e quello della sua comunità d’origine, all’interno della quale forse ricopriva una carica ufficiale come quella di console, o più probabilmente di vertice nella confraternita di Santa Barbara, visti anche i diretti contatti.
La capacità dei tedeschi di costruire rapporti d’affari con i locali è evidente soprattutto in merito al commercio dello zafferano. Leggendo il „Libro Mastro“ del noto mercante aquilano Pasquale di Santuccio ci si rende conto della fitta trama di rapporti intrattenuti con agenti economici alemanni. Tra i suoi contatti si trovano „Tommaso Emmo e conpagni tedeschi“, per i quali si interfacciava il fattore Gherardo Todesco, impegnato ad acquistare circa 458 libbre di Zima nel febbraio del 1472; inoltre, la medesima compagnia era in contatto con mercanti del calibro di Filippo e Lorenzo Strozzi, e di Bartolomeo d’Agostino di Venezia.[88] Nel „Libro Mastro“ si legge anche di un’altra acquisizione di circa 463 libbre di zafferano da parte „de uno todescho“ registrata nel mese di giugno dello stesso anno.[89] Ovviamente il commercio dell’oro rosso, che si intensificherà soprattutto nel pieno del Cinquecento, porterà ad una rapida diffusione di agenti economici tedeschi in città e nelle campagne circostanti, con il risultato di un aumento delle interazioni tra aquilani e alemanni. Pasquale di Santuccio, inoltre, era in affari con tedeschi fuori L’Aquila, ad esempio con mastro Angelo Tedesco definito „vennetore de pannj“ a Napoli, o Corrado todescho di Firenze.[90]
Diversi sono i theutonici registrati nei documenti notarili che godono di una rete di contatti che permette loro di accedere a crediti o fornire prestiti agli italiani. Ad esempio, in un documento del 1510, rogato da Francesco Domenico di Fonticulo, si legge del tedesco Inatius In Aus in debito con il magister Nubilari Bruni Salvatorem Belli di Firenze comorante a Napoli.[91] Nel 1473 Thommaso Polagri de Costantia de Alamania risulta creditore di Angelo Marini per una cifra di 140 ducati veneziani d’oro e 11 carlini d’argento,[92] mentre l’ormai noto magister Martino clavifero nel 1486 era in debito con Constantis Iohannnis Antoni de Talliacozo e suo figlio Antonio per un prestito di 24 ducati d’oro veneziani e 13 grossi argentei fiorentini.[93] Purtroppo per i casi appena indicati non si conoscono le ragioni dei crediti, per cui è possibile soltanto constatare, ancora una volta, la circolazione di monete straniere in città, in particolare veneziane che indicano come i tedeschi fossero ancora ben ancorati all’economia della Serenissima, nonostante già da decenni si era registrato lo spostamento delle grandi imprese commerciali proprio dalla città lagunare all’Aquila, e di come quindi esistessero due piani di scambio non in conflitto ma sicuramente ben differenziati.
Al di là dei rapporti di carattere economico-commerciale con i locali, la documentazione notarile consente anche di ricostruire le relazioni tra forestieri tedeschi e istituzioni ecclesiastiche aquilane. Come osservato in precedenza, nei testamenti è possibile appurare l’usanza di destinare dei piccoli lasciti ai principali luoghi di culto della città. Oltre al caso del già citato testamento di Alberto Todesco, in quello di Gullielmus de Dromon de Brabante theotonis habitatore Aquile, rogato anche questo dal notaio Giovanni Cassianelli nel 1480, si osserva la volontà del testatore di farsi seppellire nella chiesa di San Mariano, destinataria a sua volta di 20 ducati d’oro, e indicava le chiese di Sant’Agostino, San Biagio e San Bernardo come sue altrettante beneficiarie della somma di un fiorino d’oro ciascuna.[94] Con molta probabilità il Guglielmo in questione è lo stesso Guglielmo citato di un altro documento rogato nel 1483 (da ricordare che il testamento è del 1480), anche qui indicato come theotonicum originario del Brabante, nel quale chiedeva, insieme al magister Luca Pietro di Pontetremulo, il servizio di depositum ai canonici della chiesa di San Massimo.[95]
Altro esempio di relazioni tra tedeschi ed enti religiosi locali si è visto in precedenza nel caso di Pietro alamannus, che era stato eletto depositario del tesoro del monastero di Santa Maria di Collemaggio. Interessante è anche un documento dove compare Stefano di Giovanni de Alamania il quale chiedeva ad Arcangelo Prangazi e a suo figlio Ratius di restituirgli un credito di 24 carlini di argento e 28 grani in qualità di „fructu bonorum canonicatus ecclesie Sancti Angeli de dicta civita spectante ad ipsum Stefanum“.[96] Non avendo trovato altri dati a riguardo è complicato ricostruire la vicenda nel dettaglio, ma ciò che possibile constatare è in ogni caso un collegamento dettato da interessi economici tra Stefano di Giovanni e l’istituzione religiosa citata. Inoltre, non è da escludere che si stia parlando dello stesso magister Stefanus Iohannis teothonici già citato precedentemente a proposito delle professioni dei tedeschi.
Altro caso è quello del già riferito maestro Michele theotonicus d’Alamania il quale aveva ottenuto un appalto dal Capitolo della Cattedrale di San Massimo per la riparazione di un immobile entro il termine di sei anni. Nel contratto era previsto che l’ente ecclesiastico provvedesse al pagamento di un salario al magister e che in caso di sua morte la moglie Giovanna avrebbe potuto abitare nella già menzionata casa senza dover pagare il canone mensile, ma in cambio avrebbe dovuto donare al Capitolo una libra di candele all’anno nel giorno della festa di Santa Maria.[97] Se Michele poteva sentirsi in qualche modo protetto e accolto dagli uomini della chiesa aquilana, non poteva dire lo stesso il magister Orrigo Pamfaculo (o Panifaculo), il quale fu costretto a fare causa al Capitolo della chiesa di Santa Giusta, chiedendo a quest’ultimo di farsi carico delle spese per la riparazione della casa in cui abitava poiché di proprietà dell’ente ecclesiastico. Il povero Orrigo asseriva, nella sua protestatio, che l’immobile aveva non solo il „tectum fractum et conquassatum“ ma anche che „aque defluvint“ al suo interno.[98]
La documentazione consente anche di indagare la sfera dei rapporti interpersonali e dei legami familiari dei diversi soggetti. Ad esempio, il testamento di Guglielmo di Dromon, dove oltre ad indicare gli eredi tra i quali ci sono il figlio Raniero e il tedesco Fran Bactisti, è interessante per la scelta di eleggere esecutore testamentario proprio quel magister Orrigo Pamfaculo citato in precedenza, il cui ruolo fu certamente affidato per la fiducia che il testatore aveva nei suoi confronti. Il fatto di aver scelto un connazionale non è certamente un caso, anche perché questa dinamica si ripete nel caso del testamento del magister Martino clavifero, il quale designava come suo esecutore testamentario Bavocchino teotonico.[99] Il rapporto, probabilmente di amicizia, che legava questi due soggetti investe anche le rispettive mogli. Infatti, all’interno di un documento rogato dal notaio Giovanni Marino di Pizzoli, datato 1487, „in domo dicti Bavocchini“, si legge di una „donatio intervivos“ con la quale Margherita, „uxor quondam magistri Martini claviferi“, donava a Caterina, la moglie di Bavocchino, una „cintham coloris pagonati cum argento apposito in ea et duo anula aurei“.[100] Se si considera questa donazione alla luce anche del rapporto che sussisteva tra i loro mariti, è possibile constatare come all’interno della stessa comunità si creassero legami di amicizia tra nuclei familiari.
Tuttavia, non è possibile sapere con certezza se le due donne citate fossero tedesche; il fatto che i loro nomi compaiono privi di qualsiasi toponimo o indicazione geografica probabilmente indicherebbe una loro origine italiana. Confrontando i dati raccolti, si riscontrano circa sette coppie sposate di cui, però, non si conosce l’origine delle mogli, e pertanto risulta difficile affermare con certezza che si parli di coppie di nazionalità mista. Per uno straniero sposare una locale portava senza dubbio una serie di vantaggi: oltre alla possibilità di inserirsi più facilmente nel contesto sociale di arrivo e di ricevere un buon capitale tramite la dote, in alcuni casi comportava anche l’acquisizione del diritto di cittadinanza. A Napoli, per esempio, la ductio uxoris stabilita dalla prammatica di re Ferrante del 4 giugno 1469, concedeva lo status di cives novi a chiunque sposasse una napoletana e prendesse casa in città.[101] A L’Aquila, invece, come visto in precedenza, solo il domicilio per lungo tempo garantiva il diritto dello ius foculari.
Tra le diverse coppie, però, fa eccezione il caso registrato nel 1487 di Giovanni Bruselle theotonicus de Alamannia e della sua sposa Mariza Sclava (di origine slava forse) indicata come serva („famula“) di Evangelista Cristofano di Bazzano il quale aveva promesso al novello sposo una dote di circa 100 fiorini (in moneta e in beni), alla cui cifra era stato chiamato a collaborare anche il magister Martino clavifero.[102] Questo matrimonio ha senza dubbio qualcosa di unico, in quanto non solo è probabilmente di tipo misto sul piano etnico, ma lo è anche sul piano sociale in quanto Mariza era di fatto una serva, e solo l’unione con il suo futuro marito le avrebbe garantito l’affrancamento.[103] Interessante è notare la delicata questione della dote, la cui responsabilità ricadeva principalmente sul padrone di Mariza, e cioè Evangelista Cristofano. Tuttavia, c’è un dato che non è possibile ignorare, e cioè il contributo da parte di Martino clavifero chiamato a versare una quota della suddetta dote, ma purtroppo non è dato sapere per quale motivo ne era stato coinvolto. Ci sono diverse ipotesi, senza però avere una risposta certa. Una è che forse Martino aveva un debito con Evangelista, per cui era stato chiamato a estinguerlo in questo modo. Un’altra ipotesi potrebbe essere che dovendosi sposare un tedesco, il sostegno economico da parte di un connazionale e forse amico avrebbe potuto agevolare la coppia in difficoltà proprio per un problema legato alla dote. Infine, potremmo ipotizzare qualcosa di più complesso ma non di certo improbabile, ossia che Martino abbia avuto qualche ruolo all’interno della schola di Santa Barbara e che questa, come in molti casi accadeva, interveniva per far sposare donne tedesche, ma in questa circostanza l’aiuto sarebbe stato garantito in favore dello sposo che era di fatto un theotonicus.[104]
Nella documentazione notarile, come si è detto, ci sono tracce di altre coppie, una di queste è all’interno di un atto di locatio dotis del 1461, rogato dal notaio Domenico di Nicola Tommasi di Pizzoli, costituita dal tedesco Errigo Raynaldi e dalla moglie Marutia (che sia tedesca o aquilana non è dato saperlo) che donava al marito 9 once e altre somme il cui valore è poco chiaro nel documento.[105]
Altra coppia, di cui già abbiamo parlato ma che forse vale la pena ricordare, è quella del tedesco Franco Iohannis e di sua moglie Renza, i quali avevano acquistato dei terreni da Nicolao Berardi di Montorio nella località di Gignano nel 1474.[106] Renza, o Recitana, ricompare nuovamente in un documento del 1482, la quale riceve dallo stesso Nicolao Bernardi una donazione „in pecunis auro argento signo ferro plummo ere octoni tabulis aras vegentibus pannis de lino“,[107] e ancora, in un documento già citato del 1492, dove ella era ormai vedova di Francesco e vendeva una parte delle proprietà di famiglia.[108] Anche in questo caso non si hanno certezze che si parli di matrimoni misti, ma non è improbabile che lo siano stati.
8 La confraternita di Santa Barbara
Agli esordi degli anni ’60 del Quattrocento L’Aquila doveva già registrare un’importante presenza di stranieri provenienti dalla Germania visto che nel 1462 il cardinale Amico Agnifili concedette a questa comunità una „Cappella Alemannorum Aquilae degentium“ all’interno della chiesa di Sant’Agostino.[109] Come accadeva in altre realtà, anche in questo caso la cappella della natio tedesca fu dedicata al culto di Santa Barbara. A questa struttura era associata una schola, ossia una confraternita a scopo religioso, anch’essa intitola alla medesima santa.[110] Ricostruire la storia di questa istituzione è alquanto complesso, poiché, a differenza di altre fondazioni, come ad esempio, quella dei panettieri tedeschi a Napoli,[111] non è stato ritrovato alcuno statuto ufficiale.
Tuttavia, nel fondo notarile aquilano sono conservati tre documenti che consentono di avere dei ragguagli sulla Schola de Sancta Barbara. Il primo è il già citato testamento di Alberto Todisco del 1480. Nel documento il testatore dichiara di dover assolvere ad una serie di debiti tra cui: „… Item degio dare alla Scola de Sancta Barbara ducati quarto e mezo veneciani et pui tengo una sintura dargento inpigno da Gerardo Todisco pro ducati III vinictiani li quali ducati tri sono della scola de Santa Barbara …“.[112]
Il primo dato che si evince è senza dubbio l’esistenza di una schola, termine usato per indicare una confraternita che potesse unire specifiche categorie lavorative o gruppi nazionali, dedicata per l’appunto a Santa Barbara. Che si stia parlando di una confraternita nazionale lo si deduce da diversi indizi: il primo è la dedica alla santa a cui era stata dedicata anni prima l’omonima cappella in Sant’Agostino; il secondo è che scholae dedicate a Santa Barbara si possono ritrovare in altri contesti, come ad esempio quella di Firenze a cui aderivano i lavoratori tedeschi presenti in città.[113]
Dal breve estratto del testamento presentato si evince anche un altro dato interessante, e cioè che Alberto, il testatore, avesse ancora in sospeso con la suddetta schola un debito di 7 ducati e mezzo veneziani (calcolando anche i 3 derivati dal pegno della cintura). Questo dato consente di asserire che tale istituzione fosse preposta anche alla concessione di crediti o micro-crediti per quei connazionali che ne facessero parte. È questo un ruolo che le schole normalmente svolgevano, cioè quello di garantire il reciproco mutuo soccorso e il supporto finanziario ai confratelli in difficoltà economica e lavorativa, oppure in caso di malattia o, peggio, in caso di morte. A tale scopo ogni scuola prevedeva una cassa comune e una minima contabilità assicurativa con cui non solo si prestavano soldi a chi ne avesse bisogno, ma si finanziavano anche elemosinieri, le doti delle giovani donne da sposare, le prestazioni sanitarie necessarie, l’istruzione, e non per ultimo le spese per l’ospitalità dei connazionali da poco trasferiti in città.[114] Certamente se la schola aquilana è in grado di prestare, come nel caso di Alberto, diverse somme, allora è possibile ipotizzare anche l’esistenza di una cassa comune, quest’ultima finanziata anche dai lasciti testamentari, come confermerebbe il testamento di Gullielmus de Dromon de Brabante theotonis, in cui si legge di un lascito di 20 ducati aurei veneziani in favore della schola di Santa Barbara.[115] Tale documento consente di constatare che la composizione della confraternita non era costituita da soli tedeschi in strictu sensu, cioè, provenienti dai territori della Germania attuale, ma anche da altri individui provenienti da aree, in questo caso il Brabante, che erano sottoposte all’autorità del Sacro Romano Impero e che quindi erano associabili culturalmente ai veri todischi.[116] È evidente, quindi, che la concezione unitaria della natio tedesca, la quale inglobava al suo interno popoli con differenze geografiche ma alla base con dei tratti condivisi, in primis l’autorità imperiale, dava la possibilità agli individui provenienti dalla Alemania Bassa (le aree fiamminghe) di aderirvi. Questa condizione è riscontrabile anche in altri contesti come quello della confraternita di Santa Maria dell’Anima dei Tedeschi a Napoli, dove negli statuti del 1586 si legge: „Item che in ogni tempo futuro che paresse alli predetti Congfratj scrittj ò maggior parte d’essi li quali son della germania superiore agregarno alcuni della germania bassa in questa Confratereria sia lieto alli predetti Confratj della superiore seu alta aggregarnoli à loro libero arbitrio voluntà et beneplacito et non altramente.“[117]
Oltre ai due testamenti osservati, quello di Alberto e di Guglielmo, c’è un terzo documento che parla della schola di Santa Barbara: è un atto di vendita del 1485, rogato dal notaio Giovanni Marino di Pizzoli, in cui si dichiara che Roberto Pietro di Borbona aveva venduto la metà di una casa „cum medietate soli et hedifici sistentis“ di sua proprietà a Matteo Giovanni theotonico; nell’atto, però, si specifica che l’abitazione è „communis et pro indiviso pro alia medietate cum cappella Sancte Barbare consacta (sic) in ecclesia sancte Augustini site in civitate Aquile in locali de Civitathomasi“[118]. Dunque, il documento certifica che la cappella, e quindi anche la confraternita della Schola, disponesse di beni immobili, in questo caso in comunione con Roberto Pietro, originario di Borbona, località non distante dall’Aquila.
I tre documenti appena considerati aiutano a comprendere diversi aspetti di questa istituzione che però non fu l’unica a rappresentare i tedeschi in città. In passato lo storico tedesco Aloys Schulte ipotizzò che all’Aquila potesse esservi un consolato tedesco di mercanti già nel 1478, sulla base di una voce di spesa rinvenuta nel registro di rendicontazione del fattore Klaus von Steinhaus della compagnia dei Ravensburger; quest’ultimo, infatti, dichiarava di aver pagato il „Consullgeltt“, una sorta di imposta da versare al console del valore di circa ¼ della merce acquistata in città; ma lo stesso Schulte, tuttavia, aveva dichiarato che questo era un tema ancora da approfondire, e che risultava alquanto complicato farlo.[119] Per quanto concerne la documentazione studiata non ci sono tracce né rimandi ad una colonia tedesca.
Riferimenti a dei consoli che rappresentavano nello specifico le sole città di Norimberga e di Augusta, da dove in effetti provenivano le principali compagnie commerciali, si trovano però nei registri dell’Archivio Civico Aquilano. I primi risalgono al 1498 in occasione di una protesta dei mercanti alemanni contro la Camera aquilana e il re di Napoli per la frode dei produttori di zafferano di adulterare la spezia in vari modi al fine di aumentarne il peso.[120] Inoltre, numerose sono le lettere di lamentela scritte dai suddetti consoli, e addirittura del Senato di Norimberga, nel tardo XVI secolo in merito alla stessa questione, a cui le autorità aquilane rispondevano con promesse di eseguire maggiori controlli.[121] Questa documentazione epistolare certificherebbe che i mercanti tedeschi a L’Aquila dialogassero con le autorità locali attraverso l’intervento dei consoli in situ. Di solito, quando nelle città si stabilivano colonie nazionali esse erano guidate da consoli generali eletti in assemblea e confermati dalle magistrature del paese di provenienza. La colonia rappresentava ufficialmente il proprio paese davanti alle autorità locali, e al suo interno si strutturava sul modello delle universitates mercatorum, garantendo la difesa giuridica della persona e dei suoi interessi economici.[122] I consoli tedeschi a L’Aquila però sembrano rappresentare sola una parte della comunità, specificatamente quelli provenienti dalle due città sopra citate e in particolare i soli mercanti di zafferano, cosa che escluderebbe una buona parte della stessa comunità che si presentava più eterogenea. Va d’altronde considerato che le comunità di immigrati spesso avevano ampia scelta sul come organizzarsi, se in consolati, colonie, confraternite o ospedali. La schola di Santa Barbara potrebbe aver avuto l’ambizione di rappresentare tutta la restante parte di tedeschi (fiamminghi compresi) in città, pur restando di fatto una confraternita spirituale di carattere nazionale, il cui scopo era principalmente quello di assicurare che si svolgessero le celebrazioni dei riti all’interno dello spazio sacro di riferimento, in questo caso la cappella in Sant’Agostino, e di assicurare le opere di carità e di mutuo soccorso in favore dei propri confratelli. Non si ha però la certezza che nel caso di questa schola abbia prevalso il solo senso di riunirsi per fini religiosi. Le confraternite potevano infatti ambire a ruoli ben più complessi, come ad esempio quella di rete di rappresentanza ufficiale della comunità straniera, o assumere funzioni di tipo giuridiche, economico-amministrative e istituzionale, tanto da sostituire o precedere la costituzione di un consolato, come potrebbe essere accaduto nel caso aquilano.[123] È pur vero che le scholae generavano forme di dualismo per cui potevano coesistere con gli organismi di rappresentanza corporativa ufficiale.[124] Ad esempio, a Venezia attorno al Fondago dei Tedeschi, ente che riuniva i mercanti tedeschi nella Serenissima e rappresentato dai suoi consoli,[125] ruotavano almeno due confraternite, quella della Vergine di Santa Maria Nova e la Schola degli Alemanni a San Bartolomeo, le quali si affiancavano alle restanti cinque o sei confraternite nazionali di alemanni divise per categorie professionali.[126]
In ogni caso, dai soli dati che possediamo si può affermare che la schola di Santa Barbara a L’Aquila rientrava perfettamente nella categoria delle confraternite nazionali e religiose in quanto: 1) disponeva di un luogo sacro di riferimento, e cioè la cappella omonima assegnata nel 1462 nella chiesa di Sant’Agostino; 2) svolgeva la funzione di banco di prestito o comunque disponeva di una cassa comune da cui poter attingere risorse in caso di necessità (vedi il testamento di Alberto Todisco); 3) fu un ente capace di accogliere stranieri appartenenti ad aree culturalmente vicine (vedi il caso del fiammingo Guglielmo del Brabante), a tal punto da ricevere lasciti testamentati.
Il confronto con altre scholae tedesche presenti in Italia è sicuramente utile. Nel caso del Mezzogiorno si registrano ben due confraternite a Napoli, una era la Societas Theotonicorum, di cui conosciamo solo alcuni aspetti, e l’altra era la confraternita dei panettieri tedeschi della quale si conservano gli statuti. Per quanto riguarda la prima, sappiamo che essa era sì una confraternita nazionale ma che non tutti i tedeschi della città vi avevano aderito; inoltre, gli aderenti non erano divisi per categoria lavorativa anche se probabilmente raccoglieva al suo interno lavoratori e artigiani del ferro, del legno e dei tessuti; infine, possedeva come suo luogo di riferimento e religioso una cappella nella chiesa di Sant’Agostino alla Zecca a partire dal 1452.[127] L’altra confraternita, invece, si definiva nel testo dei suoi statuti come „confratrum schole caritative fraternitatis pistorum de Alamania“.[128] A differenza della prima, quest’ultima era una confraternita di categoria, che si riuniva in un altro luogo sacro, nella chiesa di Santa Maria del Carmine al Mercato, e aveva finalità religiose, assistenziali nonché corporative.[129] Al vertice dell’amministrazione c’erano quattro priori e un confratello con compiti organizzativi, il loro mandato durava tre mesi.
Al di fuori dei confini del Regno, per Firenze si è già accennato ad una Compagnia di Sancta Barbara nella metà del XV secolo, che riuniva soprattutto lavoratori tedeschi impegnati nel settore tessile, e che disponeva di una cappella per il culto dedicato all’omonima santa nella chiesa dei Padri Serviti di Maria della Santissima Annunziata.[130] A Roma, invece, le confraternite tedesche erano fissate nelle due chiese nazionali, una era Santa Maria dell’Anima e l’altra del Campo Santo dei Teutonici.[131]
9 Conclusioni
Il fondo notarile aquilano si è rivelata una fonte preziosa, estremamente ricca di documenti e carica di informazioni per comprendere e valorizzare la storia della città. Ed è grazie a questa straordinaria documentazione che si è potuto raccontare della presenza di una comunità di stranieri caratterizzata da notevole intraprendenza e dinamicità. Gli alamanni non furono sicuramente la compagine di forestieri più importante sul piano numerico, ma lo furono di fatto sul piano economico e sociale. Basti pensare che agli inizi del XVI secolo, o forse anche prima, ai mercanti tedeschi fu riconosciuto il diritto di fare la voce dello zafferano, cioè di stabilire il prezzo minimo d’acquisto della preziosa spezia, della quale, ormai, essi ne possedevano il monopolio.[132] Oppure, si ricordi la vicenda del 1529, quando la compagnia degli Imhoff riuscì ad acquisire l’esclusiva commerciale della compravendita di zafferano pagando il debito di 120 000 scudi che L’Aquila aveva accumulato nei confronti del viceré Filiberto d’Orange.[133] Questi eventi, che rappresentano il momento apicale della storia dei tedeschi a L’Aquila, dimostrano che la comunità germanofona era ben inserita all’interno del tessuto sociale ed economico della città, e che le identità ricostruite, grazie agli atti rogati dai notai, non fanno altro che confermare questo processo di integrazione. L’inserimento nel contesto locale lo si è osservato da diverse prospettive: sul piano professionale, dove molti todischi furono in contatto con le principali istituzioni aquilane, sia in qualità di mercanti e sia come artigiani; sul piano economico, come evidenziato nei testamenti studiati e nei diversi atti di compravendita e di locazione beni immobili; sul piano religioso, attraverso i lasciti e le eredità date in favore agli enti religiosi; sul piano delle relazioni personali, in particolare nelle scelte matrimoniali.
L’Aquila, dunque, si presentava come un importante centro di riferimento per le masse di immigrati tedeschi che arrivavano in Italia ogni anno; certamente non poteva dirsi ai livelli di Firenze, Venezia o Napoli, ma comunque godeva di una certa considerazione nell’orizzonte economico di città dal peso internazionale come Norimberga e Augusta, soprattutto in merito allo zafferano.
Diversi punti restano ancora da risolvere: in primis è necessario capire il funzionamento della colonia dei mercanti tedeschi, in particolare il ruolo svolto dai Consoli, e il tipo di relazione che c’era tra questa istituzione e il Fondaco dei Tedeschi di Venezia, come lascia intuire la circolazione a L’Aquila di monete provenienti dalla Serenissima.
Altro punto da approfondire è sicuramente quello relativo alla schola di Santa Barbara, della quale si è tentato di ricostruire la sua storia e le sue funzioni sulla base di alcuni testamenti, ma la speranza sarebbe quella di ritrovare all’interno dell’archivio aquilano uno statuto che consenta di studiare nel dettaglio la sua organizzazione interna, i suoi scopi e il suo rapporto con la comunità che era chiamata a rappresentare.
Infine, un aspetto che andrebbe ampliato è la dinamica legata all’acquisto delle proprietà terriere da parte dei tedeschi. Non è ben chiara ancora se la scelta degli acquirenti era animata dalla sola volontà di ottenere la cittadinanza, oppure se condizionata dalla mera voglia di investire in un’attività economica legata alla produzione viticola (e perché non dello zafferano, allora?). Interessante, in questo senso, potrebbe essere una mappatura delle proprietà degli alamanni, tentando di ricostruire questo aspetto attraverso le carte dei catasti aquilani.
Sebbene questi e molti altri quesiti restano ancora aperti e in attesa di essere studiati e approfonditi, il prezioso studio delle fonti notarili ha donato un’immagine della comunità tedesca davvero interessante e finora inedito, arricchendo di nuove conoscenze non solo la storiografia abruzzese ma anche quella del Mezzogiorno medievale interessata ai temi dell’integrazione e della multietnicità.
© 2025 bei den Autorinnen und den Autoren, publiziert von De Gruyter.
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