Abstract
After the death of Frederick II, many cities in northern Italy entered an experimental phase, characterized especially by the proliferation of signorie. Among them, one of the earliest and most extensive was that of Marquess Oberto Pelavicino (1249–1266). This essay discusses the various ways in which the marquess drew upon the ideal of the Empire – of which he was vicarius – to build up his dominion in the years immediately following 1250. He achieved this both through political action and through governmental writings, whose vocabulary in some cases borrowed explicitly from the chancery formulae of the Hohenstaufen.
Nel periodo successivo alla morte di Federico II si aprì per le città del Regno d’Italia una fase di sperimentazione, il cui carattere principale può essere riconosciuto nel proliferare di esperienze di governo signorili, molte delle quali si connotarono come sovralocali.[1] La tensione al superamento della dimensione locale della politica fu una delle principali eredità lasciate dai circa quindici anni di presenza dello Svevo nell’Italia settentrionale; da una parte, infatti, la formazione delle partes dell’Impero e della Chiesa aveva dilatato lo spazio entro cui i diversi attori si muovevano in modo molto maggiore rispetto a quanto era avvenuto fino a quel momento.[2] Dall’altra, attraverso la nomina diretta dei podestà e mediante l’istituzione del vicariato, l’azione federiciana aveva inciso significativamente sulle forme e sui modi dell’organizzazione politica delle città comunali. Pur in modalità differenti a seconda delle diverse aree,[3] nel nord Italia Federico II aveva infatti trasformato l’assetto amministrativo podestarile-consiliare attuando „un sistema di governo in cui i podestà fungevano in primo luogo da riferimento locale per un potere esterno, e rispondevano a questo prima che ai consigli e alla popolazione cittadina“.[4] In linea con questo approccio nei confronti delle singole realtà urbane, l’istituzione dei vicariati – pur con ritmi di affermazione variabile – aveva portato alla creazione di spazi subregionali, nei quali insistevano città e territori,[5] che furono alla base di progetti di egemonia sovra cittadina.[6]
Le partes e le forme di governo imperiali sono gli elementi concordemente riconosciuti come l’humus nel quale maturarono le prime esperienze di signorie cittadine sovralocali. L’importanza dell’azione imperiale nelle forme politiche delle città del regnum Italiae è affermata con forza dalla storiografia contemporanea: gli interessi sul rapporto tra l’Impero e l’Italia sono oggi molteplici e mirano a sottolineare l’integrazione delle città comunali al sistema imperiale, un fattore che ne definì la peculiarità nel contesto europeo.[7] Negli studi, tuttavia, i rapporti tra le prime signorie sovralocali lombarde, la loro affermazione e l’Impero non è forse stato ancora pienamente indagato. Tra queste, una delle prime cronologicamente e più estese geograficamente fu sicuramente quella di Oberto Pelavicino. Quest’ultimo, esponente di un ramo marchionale di ceppo obertengo, tra il 1249 e il 1266 governò molte città lombarde, tra cui Cremona, Pavia, Piacenza, Vercelli, Milano e Brescia.[8]
Come si vedrà nelle prossime pagine, il rapporto che il Pelavicino strinse con l’imperatore Federico II e con Corrado IV lo portò non solo ad accrescere notevolmente il patrimonio famigliare, offrendogli la possibilità di riorganizzare la signoria territoriale dei Pelavicini (che dal primo nucleo di possedimenti tra i territori di Parma e Piacenza arrivò a comprendere anche l’Oltre Po cremonese), ma rappresentò anche la base legittimante per il governo delle città.
In queste pagine si torna dunque sulla figura del Pelavicino mettendo in luce come il marchese riuscì a sfruttare il legame con l’Impero negli anni subito successivi al 1250 per la costruzione del suo dominio pluricittadino. Di tutta la complessa e ampia vicenda pelaviciniana in Lombardia, si affronterà qui quella che altrove ho definito la prima fase di governo, dal 1249 alla fine degli anni Cinquanta del Duecento, un periodo caratterizzato da una forte sperimentazione politica e precursore delle vicende degli anni Sessanta, quando il mutato quadro politico sia in nord Italia che nel Regno di Sicilia avrebbe portato le signorie cittadine del Pelavicino a configurarsi come più personali.[9]
1 Fidelis Imperii
In un passo del suo „Liber gestorum regum Siciliae“, Saba Malaspina descrive il Pelavicino come colui „qui propter fidem imperialem et sua servicia Cesari quondam impensa de Frederici munificencia beneficia multa receperat et augusti, quo dum vixit, ac posterorum suorum honorem pronta cordis affectione zelabat“.[10] In queste parole emergono alcuni elementi significativi che ben sintetizzano i rapporti tra lo Svevo e il marchese obertengo: il servizio reso da quest’ultimo all’imperatore, i molti benefici ricevuti in cambio e la permanenza della fedeltà alla causa sveva anche dopo la morte di Federico II. A partire dal 1239, il Pelavicino fu infatti uno dei suoi più fidati collaboratori[11] ricoprendo diversi ruoli, come quello di podestà imperiale (di Pavia nel 1239, di Reggio Emilia nel 1246 e di Cremona nel 1249) e di vicario per la Lunigiana e il Pontremolese, incarico per il quale compare anche con il titolo di capitaneus durante gli anni di duro conflitto contro il comune di Genova e la pars Ecclesiae nell’entroterra ligure e toscano.[12] Alla lealtà si univano dunque dimostrate capacità militari, elementi che vennero rafforzati anche attraverso la politica matrimoniale, tesa a stabilizzare legami di alleanza con altri sostenitori dello Svevo come i conti di Donoratico.[13]
Come ricordato da Saba Malaspina, il „servizio a Cesare“ fu ricompensato con una serie di privilegi. In particolare, nel 1249, da Pisa, Federico II investiva Oberto e i suoi discendenti di numerosi possedimenti situati negli episcopati di Parma, Piacenza e Cremona, andando a confermare e ampliare il patrimonio famigliare.[14] Il diploma fu emanato in un frangente particolarmente critico per Federico II, ossia subito dopo la sconfitta di Fossalta (26 maggio), l’ultima di una serie che aveva debilitato fortemente l’asse filo imperiale.[15] A seguito della caduta in mani bolognesi del figlio di Federico II Enzo, la fuoriuscita pars Ecclesiae di Cremona – città roccaforte del potere svevo in nord Italia – riuscì nel tentativo di riconquistare parte della città: Cremona tornò però presto nelle mani degli imperiali grazie alle abilità politiche e militari del marchese obertengo, che ne divenne podestà alla fine di agosto.[16]
Dagli elementi messi in luce emerge allora che la fedeltà al partito svevo portò benefici materiali ad Oberto, e ai suoi consanguinei, ma anche vantaggi che potremmo definire immateriali. Le abilità tattico-militari dimostrate come capitaneus delle truppe imperiali – alle quali doveva unirsi un forte carisma personale –[17] gli procurarono un prestigio e un consenso che si sarebbe rivelato decisivo in seguito al 1250. Bisogna infatti ricordare che alla battaglia di Fossalta non solo fu catturato Enzo, ma anche molti dei capi-parte lombardi, che sarebbero ritornati nelle diverse città solo alcuni anni dopo; il Pelavicino era dunque il principale referente della pars imperii in area lombardo-emiliana: anche per questo, nel 1252 Corrado IV lo nominò Sacri imperii in Lombardia vicarius a Lambro inferius.[18]
2 Il vicario e le città
Come noto, se con la morte di Federico II lo scontro tra pars imperii e pars Ecclesiae non si spense immediatamente, già nei primi anni cinquanta del Duecento furono avviati processi di pacificazione che miravano al rientro degli esiliati politici e dei fuoriusciti nei diversi centri urbani.[19] Dopo i primi tentativi coordinati da Innocenzo IV, perlopiù fallimentari, la ricomposizione cittadina avvenne sotto l’egida imperiale.[20] Oberto, in particolare, riuscì a sfruttare il suo ruolo di vicario per imporsi come garante della pax in importanti città lombarde. Dopo aver provveduto a richiamare i guelfi fuoriusciti da Cremona – dove governava dal 1249 come podestà –,[21] nell’ottobre del 1252 il Pelavicino promosse il rientro della pars militum di Piacenza, che raccoglieva gli aderenti della città alla pars Ecclesiae, in conflitto da due anni con i populares-ghibellini.[22]
Conosciuta come pace di Rivergaro, dal nome del castello davanti al quale fu giurata, la „pax et concordia“ fu uno dei momenti fondativi della costruzione dell’egemonia sovra-cittadina del marchese, in quanto le disposizioni promosse non interessarono solo il centro emiliano ma anche Cremona, Pavia e Parma.[23] Al di là delle condizioni specifiche che regolarono il rientro dei fuoriusciti, ciò che in questa sede pare utile sottolineare è che la pace rappresentò la prima occasione nella quale il Pelavicino governò un insieme di città. Nonostante nel lessico politico comunale il termine „concordia“ si riferiva ad un accordo tra città,[24] l’espressione pax et concordia utilizzata nel documento sembra rimandare al formulario delle riconciliazioni tra cittadini – per come si venne ad affermare nella seconda metà del Duecento –,[25] che in questo caso rappresentavano le partes delle rispettive città.
La pace di Rivergaro venne infatti stipulata tra il Pelavicino e i rappresentanti delle parti piacentine, pavesi e parmigiane:
„… inter dominum Ubertum marchionem Pelavicinum sacri imperii a Lambro inferius capitaneum generalem et potestatem Cremone et dominum Ferarium Canem potestatem Placentiae, et dominum Detesalvum Bottum, Morum de Becaria, Osam de Canevanova, Nicolaum de Sistis, et Albricum Piscarium capitaneos militum Papiae, et Gandulfum de Liazaro, Pastoretam de Arpinis, Zochum de Oliveriis, et Ugolinum Boterium capitaneos militum fidelium Parme et Burghi, pro se et popullo placentino et parte populli Placentie et militum qui sunt in dicta civitate et dictis comunitatibus, et omnium eorum amicis ex parte una; et dominos Philippum Vicedominum, Albricum Malvexinum de Fontana, Grimerium Palastrellum et Petracium de Bertolotto pro se et universis militibus et peditibus qui civitatem placentinam exiverunt et parti milicie adheserunt, ac aliis hominibus et personis, qui sunt in castro Rivalgarii ex altera, et pro omnibus aliis universis Placentie et eius districtus qui ad hanc pacem et concordiam venire voluerint hinc ad proximum festum Sancti Andree.“[26]
La mediazione del vicario imperiale e i nomi degli attori elencati nel documento mostrano chiaramente che i piacentini, pacificandosi, entravano in una rete di alleanze formata dai gruppi di fedeli all’Impero (come mostrano i rappresentanti di Pavia e quelli di Parma), inserendosi in un circuito di amicitiae di cui facevano parte anche le città venete coordinate da Ezzelino III da Romano. La pace di Rivergaro concludeva infatti quanto avvenuto nei mesi precedenti dello stesso 1252, quando in nord Italia furono pronunciati alcuni giuramenti tra città volti a rinsaldare l’adesione alle partes. Il 28 marzo a Brescia si erano riuniti i rappresentanti delle città alleate del pontefice e quelli dei gruppi di cittadini filo pontifici fuoriusciti;[27] subito dopo, ad inizio aprile, avevano giurato reciproco aiuto i due alfieri dell’Impero, Ezzelino III da Romano e Oberto Pelavicino, impegnandosi contro i „rebelles imperii“ e in aiuto di Corrado IV „in regem electi et omnium eredum feliciter memorie Federici romanorum imperatoris et omnium fidelium imperii“.[28]
La pace di Rivergaro attesta che per il Pelavicino il rapporto con le città padane passò innanzitutto attraverso il suo essere vicario imperiale. Appare allora centrale l’amicitia che Oberto mantenne con gli Svevi anche dopo la morte di Federico II, in particolare con Corrado IV. Il legame con quest’ultimo è testimoniato da alcune lettere, nelle quali non solo troviamo riferimenti alla conduzione delle attività militari nel regnum Italiae, ma anche notizie di carattere più personale.[29] Il rapporto con il re di Germania e Sicilia portò infatti a nuove concessioni in termini di diritti e possedimenti e nel 1253 alla nomina di vicario „per totam Lombardiam tam a Lambro superius quam inferius“, che conferiva al marchese il controllo dell’intera area lombarda.[30] Le capacità dimostrate come mediatore tra le partes e la forza militare furono alla base delle motivazioni che portarono Pavia e Vercelli a chiamarlo come podestà alla fine del 1253.[31] Il marchese era così passato dall’essere mediatore a reggente delle città: proprio a partire da questa data, infatti, egli compare nelle fonti come „Sacri imperii in Lombardia vicarius generalis, civitatum Cremone, Placentie, Papie et Vercellarum perpetuus dominus et potestas“.[32] Oberto era dunque vicario imperiale per la Lombardia e podestà e signore di Cremona, Piacenza, Pavia e Vercelli. Si era configurato uno spazio politico e geografico posto sotto l’autorità del Pelavicino, la cui legittimità veniva contemporaneamente dall’alto dell’Impero e dal basso delle città.
Quando il 21 maggio del 1254 morì Corrado IV, Oberto mantenne il titolo di vicario dell’Impero, passando così dall’esserne agente diretto a suo rappresentante.[33] Come vedremo, l’eredità imperiale venne utilizzata dal marchese come prezioso strumento per configurare la sua egemonia sulle città con un forte carattere sovralocale. Un primo ambito nel quale è possibile osservare il tentativo di costruzione di uno spazio pluricittadino riguarda l’impegno del marchese in campo economico, che si espresse nel tentativo dell’allargamento dello spazio finanziario e nella creazione di possibilità commerciali internazionali per l’area lombardo-emiliana.
3 Uno spazio imperiale? La lega monetaria del 1254
Nella primavera del 1254 Bergamo, Brescia, Cremona, Parma, Pavia, Piacenza e Tortona diedero vita ad un’unione monetaria che, per ampiezza e numero di partecipanti, fu la prima in area padana.[34] Le città si impegnavano per almeno due anni a coniare una moneta d’argento comune, prevedendo un controllo periodico reciproco affidato ad esperti;[35] l’accordo super facto monete si inseriva in un quadro di grande fermento per le zecche dell’Italia centro-settentrionale e aveva presumibilmente lo scopo di creare un’area all’interno della quale gli scambi commerciali fossero favoriti dall’uniformità della moneta.[36]
Gli studi locali sulle singole città non citano quasi mai il Pelavicino in relazione alla lega del 1254, e in effetti nel documento dell’atto l’Obertengo è nominato in modo molto rapido e solo in riferimento a Piacenza.[37] Tuttavia, le analisi più recenti attribuiscono questa iniziativa al marchese – anche se in quell’anno non tutte le città coinvolte erano da lui governate direttamente –, soprattutto per il fatto che l’assemblea conclusiva dell’accordo si svolse a Cremona, dove come sappiamo egli era dominus et potestas dal 1249.[38]
Se l’operazione viene osservata da un punto di vista sovralocale emergono infatti una serie di elementi significativi che ne restituiscono la complessità. Bisogna sottolineare che, come messo in luce da Germano Fenti, la lega del 1254 si basava su di una precedente che era stata stipulata subito dopo la morte di Federico II fra Milano, Como, Bergamo, Brescia, Pavia e Tortona, con monete che portavano tutte il simbolo del cerchio crociato.[39] Secondo lo studioso, questa cessò nel 1254 proprio quando prese vita quella sopradescritta, alla quale però non aderirono Milano e Como, ma Cremona e Parma.[40] L’inserimento di queste ultime due città – in quell’anno alleate e politicamente schierate con la pars imperii –,[41] da una parte, e la non adesione di Milano dall’altra portano a riflettere su quale tipo di manovra si stesse mettendo in atto. Se consideriamo che le guerre federiciane avevano messo a dura prova le finanze milanesi, possiamo intravedere nella coalizione del 1254 un tentativo delle altre città lombarde di sfruttare la situazione creatasi alla fine dei conflitti per aprire in area padana spazi alternativi a quelli egemonizzati da Milano. Negli anni precedenti quest’ultima aveva infatti stretto patti con le città piemontesi di Alessandria, Alba, Torino e Chieri per assicurarsi il libero e sicuro transito negli itinerari verso la Liguria e l’Oltralpe.[42] Questa politica veniva ora ostacolata dall’accordo monetario coordinato da Cremona, che favoriva una rete di mercato diversa da quella capeggiata da Milano. Proprio a partire dal 1254, infatti, il Pelavicino stipulò per le città di cui era podestà una serie di trattati commerciali con importanti centri come Firenze, Venezia e Montpellier.[43]
Quello che sembra emergere è dunque il tentativo delle città sotto l’egemonia pelaviciniana di indebolire la preminenza milanese in Lombardia a partire dalla realizzazione di un’alleanza economica e finanziaria. Strategie economiche e politiche non possono certo essere disgiunte: non sfugge che la coalizione monetaria era formata da città tutte aderenti alla pars imperii ad esclusione di Brescia, ma sappiamo che gli anni tra il 1254 e il 1257 furono proprio quelli che segnarono il passaggio di questa città dallo schieramento guelfo a quello ghibellino.[44]
Emerge così il tentativo di consolidamento di uno spazio sovracittadino filoimperiale, la cui creazione affiora anche da un ulteriore elemento della vicenda pelaviciniana degli anni cinquanta del Duecento, ossia quello della produzione documentaria. Le azioni politiche (come la pacificazione di Rivergaro) e quelle economiche (come la lega monetaria e i trattati commerciali) furono infatti supportati dalle scritture di governo.
4 Le parole della politica
Per lo studio delle signorie pelaviciniane uno dei documenti più importanti è sicuramente l’epistola indirizzata ai mercanti di Montpellier il 24 settembre 1254, nella quale il Pelavicino si mostra come promotore e garante di un trattato di libera circolazione commerciale.[45] Il marchese prometteva ai mercatores de Montepessulano di sollevarli dal pagamento dei pedaggi e gli garantiva incolumità nei territori delle città da lui governate, in particolare quelle di Piacenza e Cremona.
Ancora più rilevante del contenuto appare la costruzione formale, il lessico e le immagini impiegate, che riflettono l’idealità a cui si ispirava l’egemonia del marchese nel contesto politico della Lombardia post federiciana. Nel documento, gli elementi tipici della scrittura comunale sono inseriti a fianco di quelli della tradizione cancelleresca. In apertura vengono infatti indicati la data e i testimoni – propri della documentazione notarile –, ma il testo prosegue come una epistola nella quale il marchese si rivolge in prima persona ai mercanti occitani:
„Anno dominice incarnationis millesimo ducentesimo quinquagesimo quarto, indictione duodecima, presentibus testibus infrascriptis. Viris providis et discretis consulibus seu rectoribus mercatorum et universis mercatoribus de Montepessulano et districtu, Ubertus marchio Pellavicinus sacri imperii in Lumbardia vicarius generalis et civitatum Cremone, Placentie, Papie et tocius partis imperii per Lumbardiam perpetuus dominus et potestas salutem et sincere dilectionis affectum.“[46]
All’incipit segue una intitulatio dai toni solenni, dove è impiegata la forma soggettiva, solitamente utilizzata negli atti principeschi nei quali l’autore dell’azione coincide con quello del documento.[47] Dopo essersi appellato a Dio, „verum omnis iusticie fontem“, il Pelavicino si rivolge ai mercanti lombardi, per i quali „tenemur affectu favorabiliter et utiliter providere“, e dichiara di essersi „ipsorum supplicationibus inclinati“. L’immagine del Pelavicino piegato all’ascolto delle suppliche dei lombardi esprime in modo efficace l’idealità contenuta nel documento. La supplicatio faceva infatti parte nella ritualità della comunicazione politica di un dominus nei confronti dei suoi sudditi,[48] e proprio con questo termine sono indicati gli abitanti dei territori sotto l’autorità del Pelavicino: proponendosi di risarcire i mercanti occitani che fossero stati in qualche modo danneggiati dai lombardi, viene utilizzata l’espressione „alicui de nostris subditis“, richiamata qualche riga prima nella formula „per partes nobis subditas“.
I toni signorili non rimangono confinati nella intitulatio: in tutto il testo il marchese si rappresenta come il difensore dei mercanti, una universitas che più di altre doveva essere difesa „propter discordiam hominum et maliciam temporis“. Inoltre, il potere di Oberto veniva messo in relazione con la volontà divina: riferendosi al territorio lombardo, il marchese invitava i mercanti a muoversi tranquilli „per partes quibus, dante Domino, presidemus“; poco più oltre, gli stessi termini sono utilizzati riguardo alle realtà urbane che avevano accettato il trattato e che venivano indicate come „comunia civitatum quibus, Deo propitio, presidemus“. Il richiamo esplicito alla divinità come fonte della legittimazione del potere e l’utilizzo del termine „sudditi“ per indicare i cives lombardi esprimono in modo chiaro l’idealità del marchese, che fin dalla salutatio si presentava con il titolo di vicario dell’Impero in Lombardia e di signore perpetuus delle città. È inoltre interessante notare come affiori pienamente la dimensione sovralocale del dominio, rappresentato come un’unica compagine all’interno della quale erano presenti città e dominazioni signorili: si specificava infatti che l’accordo era stato raggiunto „de pleno et deliberato coscilio civitatum, marchionum et aliorum procerum et baronum quibus officii nostri cura debetur“. Il testo rappresenta allora una sorta di manifesto del potere del Pelavicino, il quale, attraverso un sapiente utilizzo del lessico politico, si autorappresentava come dominus non solo di singole realtà urbane, ma di tutta la Lombardia di parte imperiale („… tocius partis imperii per Lumbardiam perpetuus dominus et potestas …“).
Come accennato, accanto agli elementi signorili ve ne sono però altri che rimandano alla tradizione documentaria comunale: vi è infatti la sottoscrizione di un notaio, Giovanni Ursoni, e la data topica indicata è il palazzo del comune di Cremona; inoltre Oberto dichiarava di giurare le concessioni nel consiglio generale di Piacenza e assicurava „quod idem in totum per aliarum comunia civitatum noveritis esse factum“. Il Pelavicino si presentava dunque come sovrano ma anche come podestà, primus inter pares nei consigli delle città che in quel momento governava. Oscillante tra un formulario comunale e uno signorile, il documento fu costruito perseguendo un attento equilibrio, tipico delle scritture dei primi regimi signorili cittadini,[49] e risulta così un testo ibrido che rifletteva sia l’orizzonte di valori del vicario imperiale sia la realtà dei fatti, per i quali la legittimazione del potere di Oberto si fondava, dopo la morte di Corrado IV, sulla volontà dei consigli cittadini.
La costruzione raffinata dell’epistola per i mercanti occitani fu con molta probabilità opera dei giuristi e dei notai che compaiono testimoni all’atto: Giuliano da Sesso, dottore delle leggi, i giudici assessori Domafollo da Mariano e Guido Scarso, e i cremonesi Ottone Zovegno, Guglielmo Gasarra e Giovanni Ursoni; quest’ultimo sottoscriveva „ab imperatore Frederico notarius“, e dichiarava di aver redatto il documento sotto ordine del marchese („iussu predicti domini Uberti marchionis potestatis“). Se non possiamo parlare di cancelleria pelaviciniana,[50] è tuttavia possibile osservare nelle fonti la presenza non solo di collaboratori e intellettuali che affiancarono il marchese durante gli anni di governo,[51] ma anche quella di un gruppo circoscritto di notai che si posero al suo servizio (o a quello dei podestà-vicari delle città della signoria); questi furono tutti cremonesi e appartenenti a famiglie fedeli da lunga data all’Impero.[52]
Dobbiamo senz’altro sottolineare che il formulario impiegato nell’accordo con i mercanti di Montpellier si adeguava al contesto monarchico di provenienza degli interlocutori del marchese, che facevano parte del regno aragonese. È però interessante sottolineare che espressioni e termini simili a quelli impiegati nell’epistola possono essere ritrovati anche nella documentazione prodotta a Cremona. In particolare, la legittimità del potere del Pelavicino veniva correlata alla volontà divina. Già nel febbraio del 1252, ad esempio, un documento mostra alcuni esponenti di famiglie cremonesi stringere un patto per porre fine alle reciproche offese giurando „ad honorem Dei et domini Uberti Pellavizini marchionis potestatis Cremonae“.[53] Nel gennaio dell’anno successivo, a conclusione di una lunga lite tra il capitolo della Cattedrale e i macellai della vicinia di Santo Stefano per i diritti su uno spazio confinante tra il quartiere e la canonica, il marchese si definiva nella documentazione „podestà per grazia divina“ („Ubertus Pelavicinus, Dei gratia Cremonae potestas et generalis capitaneus sive vicarius totius Lombardiae a Lambro inferius per dominum Conradum Romanorum regem confirmatus“).[54]
La scelta della formula „Dei gratia Cremonae potestas“ – che rimanda ad espressioni simili impiegate nel trattato con i mercanti occitani – appare decisamente significativa considerando il contesto comunale nella quale è impiegata, anche perché solitamente i signori cittadini furono restii ad utilizzare nella documentazione prodotta il riferimento a Dio per indicare l’origine del loro potere.[55] Tuttavia, bisogna ricordare che in questa città il Pelavicino governava come podestà ininterrottamente dal 1249, e che già dal 1234 la nomina dei rettori cremonesi era stata di esclusiva competenza dell’Imperatore.[56] La disinvoltura con la quale Oberto utilizzava il richiamo alla divinità accompagnato al suo titolo di podestà cittadino deve dunque tenere conto della storia politica della città lombarda, e dimostra la forza dell’azione politica di Federico II e di suo figlio Enzo – legato generale e podestà di Cremona – che aveva inciso in città un forte cambiamento nelle forme di governo.
Per altri contesti cittadini, invece, le scritture rivelano un contrasto tra l’idealità del marchese e la volontà dei consigli comunali. L’autorappresentazione pelaviciniana di dominus sovralocale si scontrò infatti con la visione politica delle diverse città. Se ad esempio guardiamo alla documentazione di Piacenza, emergono chiaramente due prospettive diverse: seppur la città sia esplicitamente nominata nell’atto di Montpellier, apparendo strettamente legata alla volontà del marchese, nella documentazione piacentina relativa al 1254 egli è poco nominato e appare spesso un corpo estraneo.[57] Come per le altre realtà urbane, anche a Piacenza nel 1254 il Pelavicino era formalmente podestà ma, non potendo ricoprire tale incarico contemporaneamente in diversi centri, nominava vicari. Negli atti riguardanti l’amministrazione comunale, il podestà-vicario di Piacenza di quell’anno, Bernardo da Sesso, non si presenta mai come vicario del Pelavicino ma con il solo titolo di potestas, mentre Oberto nelle missive indirizzategli lo definisce „dilecto vicario suo“:[58] il lessico politico utilizzato mostra bene le visioni contrastanti dei piacentini e del marchese, e significativamente fa affiorare tutto il divario tra le immagini di potere e la risposta cittadina.
5 Conclusioni: ideologia del potere fra Impero e città
Con la morte di Federico II iniziò un periodo di vacanza imperiale: come noto, nonostante la vivacità in ambito italiano dei figli dello Svevo, né Corrado IV né tanto meno Manfredi furono mai imperatori;[59] ciononostante, la vicenda politica di Oberto Pelavicino fa emergere come, pur in una fase orfana dell’imperatore, l’Impero rimase comunque presente in Lombardia, tanto che il Pelavicino continuò a dichiararsene vicario e a sfruttare politicamente questo ufficio. Il legame con la pars imperii fu infatti lo strumento utilizzato dal marchese per configurare il suo progetto politico non solo nelle singole città ma su uno spazio sovralocale. Nei primi anni di dominio pelaviciniano sulle città, il riferimento all’idealità imperiale risulta chiaro sia nella prassi politica – come mostrano la pacificazione e la nomina di podestà-vicari cittadini – sia nelle scritture di governo, il cui lessico in alcuni casi sembra attinto esplicitamente dal formulario della cancelleria sveva („de pleno et deliberato coscilio civitatum, marchionum et aliorum procerum et baronum quibus officii nostri cura debetur“).
Ad emergere è l’importanza del ruolo di vicario, che rappresentò per il Pelavicino non solo la base legittimante l’azione politica nelle città ma anche un modello di governo, che il marchese seppe mettere in dialogo con quello del sistema comunale. Dopo la morte di Corrado IV, l’utilizzo del titolo vicariale continuò infatti ad essere utilizzato da Oberto, ma in modo accorto. A Pavia, ad esempio, questa dinamica si osserva nella scelta di adottare il titolo di vicario o di podestà in base alle diverse occasioni e interlocutori. Se guardiamo ad alcuni documenti del 1254, vediamo che in marzo il marchese agiva come „Papie potestas“ nell’ordinare a un notaio del comune la redazione in pubblica forma di un decreto riguardante il bando dei notai colpevoli di false scritture. Qualche mese dopo, in giugno, il marchese operava invece come „Sacer imperialis in Lumbardia vicarius generalis“ in una sentenza tra il comune di Pavia e il monastero cittadino di San Pietro in Ciel d’Oro.[60] Il 18 ottobre con il titolo di „Sacri imperii vicarius generalis et civitatis Cremone, Placentie, Papie et Vercellarum perpetuus dominus et potestas“ Oberto autorizzava un altro monastero pavese, quello del Senatore, a valersi dei privilegi papali che gli erano stati concessi; l’atto sarebbe stato di competenza del podestà comunale – in quell’anno un piacentino – che si vide invece superato dal vicario imperiale.[61] Come già messo in luce da Pietro Vaccari, appare chiaro che, non potendo emanare questi atti come podestà, il marchese si avvalse dell’autorità superiore che il vicariato gli concedeva.[62] Nella diversità di approcci alle città sotto la sua egemonia, e nelle molteplici recezioni del messaggio politico, la prima signoria del Pelavicino in Lombardia appare connotarsi come un insieme di città unite sotto il segno del vicariato. Emerge allora con chiarezza come, pur senza un imperatore, il richiamo all’Impero nella Lombardia post federiciana costituisse un fattore legittimante azioni a carattere sovralocale e fautore di sperimentazioni politiche capaci di generare consenso.
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- Jahresbericht des DHI Rom 2024
- Themenschwerpunkt L’Impero e le sue narrazioni nel pieno e tardo medioevo (XIII–XIV sec.), herausgegeben von Caterina Cappuccio
- L’Impero e le sue narrazioni nel pieno e tardo medioevo (XIII–XIV sec.)
- Electione de eo canonice celebrata
- Un Impero vacante? La signoria sovralocale di Oberto Pelavicino in Lombardia tra idealità imperiale e città (1249–1259)
- Un regno senza impero?
- Narrazione e percezione dell’impero nella cronachistica
- Artikel
- Building an Aristocratic Identity in Medieval Italy
- Memorie della Chiesa di Molfetta
- „Per fuoco e per estimo“
- Fonti e approcci sulla fiscalità pontificia per la Basilicata del XIV secolo
- La comunità tedesca a L’Aquila tra i secoli XV–XVI
- Whose Bishop/Who’s the Bishop?
- Si in evidentem: Pacht von Kirchengut über die Pönitentiarie
- Rhetorical vs. Historical Discourse?
- Ottavio Villani – ein Gegner der päpstlichen Politik im Dreißigjährigen Krieg
- Italian and German Colonialism beyond Comparison
- Geleitwort zum Beitrag „Gewaltlust“ von Habbo Knoch
- Gewaltlust
- Forum
- Der Gastronationalismus und Alberto Grandis Thesen – oder: Zur Prägekraft der italienischen Küche
- Tagungen des Instituts
- I monasteri di Subiaco e Farfa come crocevia monastico-culturale nei secoli XV e XVI
- Von den NS-Tätern sprechen, der Opfer gedenken. Perspektiven einer deutsch-italienischen Erinnerung zwischen Forschung und Vermittlung
- Circolo Medievistico Romano
- Circolo Medievistico Romano 2024
- Nachrufe
- Cosimo Damiano Fonseca (1932–2025)
- Dieter Girgensohn (1934–2025)
- Gerhard Müller 1929–2024
- Rezensionen
- Verzeichnis der Rezensionen
- Leitrezensionen
- Tra reti politiche e prassi documentarie
- Una rete di persone
- Ein weiteres langes „langes Jahrhundert“?
- Rezensionen
- Verzeichnis der Rezensent*innen
- Register der in den Rezensionen genannten Autor*innen