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Un regno senza impero?

Progettualità monarchiche nello spazio politico del Regno italico negli anni Trenta del XIV secolo
  • Pietro Silanos EMAIL logo
Published/Copyright: November 7, 2025

Abstract

The essay analyses the strategies adopted in the 1330s by King John of Bohemia and Poland, Count of Luxembourg, to attempt a political experiment in the Kingdom of Italy. The unfinished plan of Henry VII’s son is also considered in relation to the designs of the papacy, particularly John XXII, and the ruling French dynasty. However, the complex political landscape of central and northern Italy prevented the implementation of the agreements drafted by the Bohemian king’s envoys in Avignon in 1331. The conflicts between Guelphs and Ghibellines and the consolidation of seigneurial powers ultimately made the Bohemian option unfeasible: a Kingdom of Italy without an empire.

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Alla fine del XIII secolo Bonifacio VIII interpretò in modo radicale una delle aspirazioni più o meno latenti del papato duecentesco mostrando una chiara coscienza del ruolo politico che intendeva far giocare all’istituzione cui era a capo nel quadro del contesto della penisola italica, in particolare del Regnum.[1] Si trattava di una storia di lungo corso che, tuttavia, subì una particolare accelerazione a partire dal tramonto dell’esperienza imperiale di Federico II e dalla complessa e travagliata situazione cui andò incontro la corona tedesca nella seconda metà del XIII secolo e che alimentò, anche da un punto di vista teorico, l’ambizione a esercitare un vicariato imperiale nel contesto della penisola italica.[2] Un’evoluzione che certamente va letta entro la più ampia storia del processo di monarchizzazione del papato.[3]

Tale ambizione appare evidente da diversi episodi della biografia dello stesso Caetani che la storiografia ha in più occasioni considerato e che risultano particolarmente interessanti per cogliere la coscienza che l’ultimo pontefice del Duecento ebbe del potere che intedeva esercitare nello spazio politico italico. Quando, ad esempio, Adolfo di Nassau nel settembre del 1294 scrisse ai fedeli ghibellini della Tuscia di volersi occupare della situazione politica di quelle terre, le comunità urbane raccolsero dei fondi che affidarono al pontefice volendo liberarsi del governatore imperiale indicato dal re tedesco. In questa occasione Bonifacio VIII trattenne la somma inviata dai centri toscani manifestando la propria volontà di occuparsi delle questioni italiche in vece dell’imperatore, essendo vacante il trono imperiale „Volens ostendere dominium pape dominio imperatoris“, come scrive Tolomeo da Lucca nei propri „Annales“.[4]

Va considerato che fin dal principio del proprio pontificato Bonifacio VIII aveva progettato di trasferire la dignità imperiale alla corona francese. Si tratta di un’ipotesi che è stata attentamente esaminata da Heinrich Otto ed Eugenio Dupré Theseider e che in questa sede va tenuta presente anche per comprendere i successivi sviluppi nella prima metà del XIV secolo.[5] Una soluzione che nel quadro di una nuova translatio imperii – teoria elaborata dal papato nel corso del Duecento a partire dal pontificato di Innocenzo III, come ha mostrato Werner Maleczek[6] – probabilmente non avrebbe avuto tanto il senso di esaltare la dinastia capetingia quanto piuttosto di permettere al papato romano di esercitare un potere imperialiter inteso nel contesto geopolitico continentale e, in particolare, in quello della penisola italica.[7] Certo, con le elezioni dei papi francesi del Duecento, Urbano IV (1261–1264), Clemente IV (1265–1268) e Martino IV (1281–1285), la Sede apostolica aveva preso una direzione volta a valorizzare l’asse con la casata regnante di Francia e questo aveva avuto significative conseguenze non solo per ciò che concerne la composizione del collegio cardinalizio, nel quale erano entrati uomini di Chiesa che provenivano o erano stati in stretto contatto con il contesto regnicolo francese, ma anche in riferimento alle scelte politiche del papato, non ultima quella riguardante il coinvolgimento del fratello di Luigi IX, Carlo I d’Angiò, nella complicata situazione del regno di Sicilia.[8]

Qualche anno più tardi tale volontà di esercitare una potestas di tipo imperiale fu manifestata nell’incontro tra Bonifacio VIII e gli ambasciatori dell’eletto re tedesco, Alberto d’Asburgo, duca d’Austria e di Stiria, il quale era subentrato nel 1298 al Pfaffenkönig, Adolfo di Nassau. Giunti a Rieti intorno alla metà del settembre del 1298, i missi del neoeletto sovrano annunciarono al papa l’avvenuta designazione da parte dei principi elettori e chiesero di fissare una data per l’incoronazione imperiale.[9] La scena è descritta nel „Chronicon“ del domenicano bolognese Francesco Pipino[10] e nell’„Historia rerum in Italia gestarum“ del vicentino Ferreto de’ Ferreti.[11] Si tratta di un episodio che è da collocare nel più ampio quadro della politica internazionale bonifaciana dei primi anni di pontificato, tesa a costruire una pax europea tra i diversi sovrani funzionale alla definizione di un comune obiettivo crociato, tema sul quale ha riflettuto Berardo Pio e che mostra la continua interazione tra il piano dei processi storici e quello delle costruzioni ideologiche.[12]

In tale occasione, il pontefice, nel corso di un concistoro, insieme ai cardinali presenti in curia, esaminò il profilo dell’eletto trovandolo indegno perché colpevole del tradimento e dell’omicidio del re che lo aveva preceduto. Il pontefice, inoltre, contestò la procedura di elezione e avocò a sé il diritto d’intervento in tale questione non solo in forza del proprio potere indiretto ratione peccati ma anche facendo riferimento alla natura della propria auctoritas.[13] I due racconti del Pipino e del Ferreti coincidono nella sostanza.

Secondo Pipino, che narra il medesimo evento in due passaggi del proprio „Chronicon“, il papa, assiso sul proprio trono con il diadema di Costantino in testa, ricevette gli ambasciatori tedeschi e, dopo aver denunciato la propria sfiducia nei confronti di Alberto, fece preciso riferimento alla natura del proprio potere, una potestas intesa in senso imperiale. I termini riportati dal cronista sono eloquenti: „Caesar e imperator“.[14] Come osservato da Agostino Paravicini Bagliani, il „modo col quale il papa aveva ricevuto gli ambasciatori di Alberto d’Asburgo colpì fortemente i contemporanei“, una guisa che testimoniava non solo un temperamento deciso e anche particolarmente irascibile[15] ma, soprattutto, un’altissima autocoscienza istituzionale monarchico-imperiale. Un papa che faceva sfoggio di tutti i simboli del potere imperiale – la spada e il diadema di costantiniana memoria – e che formulava un pensiero nel quale dimensione sacrale e autorità imperiale si fondevano in un tutt’uno.[16] Un papa che si appropriava di entrambi i titoli che, a partire dall’età tardo antica, identificavano l’esercizio del potere imperiale: caesar e imperator.

Ferreto de’ Ferreti, a questo affresco, aggiunge altri particolari interessanti mitigando al contempo le parole fatte pronunciare a papa Bonifacio VIII dal cronista domenicano. Nonostante ciò, anche il Ferreti presenta un papa che riceve gli ambasciatori tedeschi davanti ai cardinali e agli altri curiali in concistoro, li conduce in „aule locum secretiorem“ e, davanti allo stesso collegio, si fa portare dai propri servitori il gladium e il diadema e, brandendo le chiavi di Pietro nella mano sinistra e la spada nella destra, arringa gli astanti, intimando loro di riferire ad Alberto di non ritenerlo degno del titolo imperiale perché „maiestatis lese reus“ e „legis nostre contemptor“. A questa dura accusa nei confronti del re tedesco, il pontefice ribadisce la ferma convinzione che la concessione del titolo imperiale sarebbe dipesa solamente dal suo volere.[17] In questa scena Bonifacio VIII non si dichiara esplicitamente imperator usando la forza della parola ma mediante un linguaggio performativo che attesta ancora una volta una spiccata autocoscienza monarchico-imperiale. Non solo, in chiusura del proprio discorso, sottolineando in modo perentorio la propria auctoritas, lancia una sfida all’eletto tedesco che mostra esattamente una progettualità politica riferentesi allo spazio politico della penisola italica: „… ipse [scil. Alberto] nunc apud Germanos imperet; nos autem Latias gentes potentie nostre devotas nutu nostro regaliter gubernabimus“.[18]

Il governo del Regnum, dunque, avrebbe dovuto essere di esclusiva competenza del papa, potere che egli avrebbe assolto regaliter, mentre il sovrano tedesco avrebbe esercitato il proprio potere nel regno di Germania. Considerato che i virgolettati attribuiti da Ferreto de’ Ferreti a Bonifacio VIII potrebbero non coincidere effettivamente con quanto detto dal pontefice, si può tuttavia supporre che nel contenuto non si discostino molto dalla verità storica o, quantomeno, riflettano o cose conosciute per sentito dire o una percezione diffusa del pensiero bonifaciano. Quello che è certo è che quella proposta da papa Caetani era una prospettiva politica anch’essa indicativa non solo di aspirazioni potestative personali, ma anche riflesso di un’autorità intesa, ormai da decenni, come imperiale; un potere che, proprio in tale guisa, ambiva a governare le Latias gentes – da intendersi probabilmente come le popolazioni dell’Italia centro-settentrionale e non solo del Patrimonium – eredi del primo Impero Romano. Questa aspirazione bonifaciana andò di pari passo, negli anni a cavaliere tra XIII e XIV secolo, con una vera e propria frattura con la casata di Francia di Filippo IV e di Carlo di Valois e con l’affermarsi di una tendenza anticuriale e ghibellina in quelli che per decenni erano stati riconosciuti e indicati come i principali alleati della Sede apostolica. Come osservato da Giovanni Tabacco, sembrò che Bonifacio VIII „volesse distruggere in un giorno l’autorità morale della dinastia di Luigi IX“.[19]

2

L’eredità lasciata da Bonifacio VIII segnò profondamente l’azione politica del papato nel corso dei primi decenni del XIV secolo. Esso fu costretto a riconsiderare la propria posizione in relazione al contesto della penisola italica dalla prospettiva avignonese, vale a dire da una punto di osservazione e di azione strettamente connesso alle progettualità politiche della casata di Francia.[20] Il pontificato di Giovanni XXII (1316–1334) segnò un periodo cruciale nelle relazioni tra la Sede apostolica e la parte centro-settentrionale della penisola italica, rapporti caratterizzati da dinamiche politiche, ecclesiastiche ed economiche complesse.[21] La scelta di Giovanni XXII di risiedere stabilmente con la propria corte ad Avignone – spostata dal predecessore, Clemente V (1305–1314), che, tuttavia, aveva preferito dimorare personalmente a Carpentras nel Comitato Venassino – ridefinì il rapporto tra il papato e i potentati italiani, evidenziando le crescenti tensioni tra le aspirazioni centralizzatrici del pontefice e le autonomie locali.[22] Nell’Italia centro-settentrionale, l’azione politica di Giovanni XXII si concentrò sul consolidamento del controllo papale su territori chiave quali la Romagna, le Marche e il Patrimonio di San Pietro in Tuscia, attraverso l’imposizione di legati pontifici con ampi poteri amministrativi e militari per contrastare le tendenze centrifughe delle città-stato e delle signorie locali. Questa progettualità politica papale incise anche nella formulazione di visioni, percezioni e immaginari in riferimento all’ideale imperiale da parte di numerosi intellettuali del tempo.[23]

In questa sede interessa osservare l’orientamento del pontefice in un frangente storico particolare del XIV secolo: gli anni Trenta, durante i quali si affacciò sullo spazio politico italico il figlio di Enrico VII, Giovanni di Boemia, conte del Lussemburgo, re di Boemia e di Polonia e dal 1310 nominato vicario imperiale per i territori germanici per volere del padre.[24] Si tratta di una figura che fu investita da particolari aspettative politiche da parte di molteplici attori del panorama politico dell’Italia centro-settentrionale e che provò a giocare un ruolo da protagonista nel complicato intrico delle fazioni intracittadine di molti contesti urbani.[25] In questo contesto, il papato provò a trovare un’alternativa alla conferma di un potere imperiale dopo il rêve italien di Enrico VII.[26]

La salita al trono imperiale di quest’ultimo nel 1312 aveva comportato nuove sfide per il papato, soprattutto in relazione al controllo del Regnum. Inizialmente, Clemente V, disallineandosi dalla visione politica del re di Francia, aveva confermato l’avvenuta elezione del Lussemburghese, dopo l’assassinio di Alberto d’Asburgo, e aveva accettato di incoronarlo imperatore a Roma. La discesa di questi nella penisola italica aveva trovato, oltre al favore pontificio, anche quello del re di Napoli che aveva addirittura immaginato un’alleanza con il novello imperatore, tramite il matrimonio tra il figlio Carlo e la figlia di Enrico VII, Beatrice. Nelle attese di tutti gli attori in gioco l’azione enriciana avrebbe dovuto garantire giustizia e pace, in particolare nell’area del centro-nord della penisola: i due grandi ideali cui aspiravano anche le realtà urbane.[27]

Tuttavia, il contesto geopolitico del regno italico rendeva difficile qualsiasi progettualità. Ben presto l’azione imperiale si trovò invischiata nella logica dei partiti e delle fazioni cittadine.[28] Nell’ambito della propria politica, l’imperatore fu costretto a usare la forza per reprimere l’azione dei partiti guelfi a Lodi, Crema, Cremona e Brescia.[29] Come osservato da Giuseppe Galasso, appariva „ormai chiara la funzione catalizzatrice di rivalità e conflitti a cui Enrico VII inevitabilmente si trovava a dover assolvere nell’agitata Italia comunale“.[30]

Ben presto, tuttavia, sia la politica papale sia quella angioina nei confronti dell’azione enriciana mutarono. Del resto, la possibilità di mantenere compresenti contemporaneamente più progetti riferentesi al medesimo spazio politico si era dimostrata irrealizzabile. Clemente V, immaginando un regno stabilizzato nel quale i principali attori in gioco – che nella sua visione avrebbero dovuto essere papato e angioini – avrebbero goduto di una maggiore possibilità di incidere sul corso della storia, intendeva limitare il peso della corona francese; Roberto d’Angiò, ugualmente, aspirava a contenere le ambizioni del ramo ungherese della propria famiglia e quelle degli aragonesi in Sicilia. In questo scenario, Enrico VII avrebbe avuto così meno margine di manovra mentre le realtà comunali e signorili avrebbero visto limitata la propria azione.

L’imperatore, tuttavia, aveva tentato di consolidare il proprio potere sulla penisola; iniziativa che aveva incontrato la forte opposizione del pontefice, il quale aveva adottato per converso un atteggiamento ambivalente, inizialmente cercando un dialogo con il sovrano ma, successivamente, opponendosi alle sue ambizioni. Clemente V, infatti, aveva interpretato le iniziative di Enrico VII come una minaccia diretta all’autorità pontificia e aveva risposto con provvedimenti volti a limitare il potere imperiale, tra cui il rafforzamento del controllo papale su territori chiave quali la Romagna e il Patrimonium. Contemporaneamente, il re di Napoli andava maturando quello che Émile G. Léonard ha definito, a metà del secolo scorso, il „grande disegno“ di Roberto: un progetto guelfo-nazionale che avrebbe opposto agli interessi dell’Impero quelli della Chiesa e dei suoi alleati, un’egemonia italico-angioina che avrebbe potuto godere anche dell’appoggio della corte capetingia.[31]

Certo, un tale programma avrebbe dovuto misurarsi con l’eterogenea costellazione di interessi, ambizioni, alleanze che a partire dalla prima età federiciana aveva segnato lo spazio politico della parte centro-settentrionale della penisola. La morte di Enrico VII nel 1313, durante il suo iter italicum, così come la morte di Clemente V nell’anno successivo, non fecero altro che complicare ulteriormente il quadro. Le conflittualità che animavano i differenti contesti politici della penisola rimasero persistenti, ma, al contempo, si aprirono nuovi scenari, che il figlio, Giovanni di Boemia, provò a sfruttare.[32] Si tratta di un percorso tutt’altro che lineare che richiese continue forme di contrattazione non solo con i contesti cittadini del regno, ma anche con i principali attori politici del panorama continentale, papato e casata di Francia in primis.

Dopo la morte del padre, al giovane re boemo, infatti, interessava costruire una rete di alleanze che gli consentisse di rafforzare la propria posizione in vista dell’elezione a rex Romanorum, opponendosi all’altro candidato in gioco: il duca d’Austria, Federico d’Asburgo. Tuttavia, lo scenario cambiò nel giugno del 1314, perché nella dieta di Rense alcuni elettori – in particolare quelli da cui Giovanni si aspettava un appoggio, come gli arcivescovi di Treviri e Magonza – gli preferirono la più sicura candidatura di Ludovico di Baviera. Come attestano le fonti coeve, fino almeno alla fine degli anni Venti del XIV secolo la penisola italica non rientrò negli interessi politici del Boemo.

A partire dagli anni Trenta del secolo, tuttavia, questi, pur evitando di seguire le orme del padre in una diretta discesa in Italia – anche perché in tale frangente storico, oltre ai titoli che gli derivavano dall’appartenenza alla dinastia lussemburghese, poteva vantare esclusivamente un vicariato imperiale nel regno di Germania –, iniziò a sostenere le forze ghibelline locali, che contestavano l’autorità papale. Giovanni XXII rispose rafforzando la presenza di legati pontifici e promuovendo alleanze con i potentati guelfi, nel tentativo di preservare l’equilibrio geopolitico della regione.[33] Il pontefice doveva anche fronteggiare la crescente influenza della casata dei Lussemburgo nelle questioni europee, che rischiava di indebolire il ruolo del papato come arbitro delle controversie tra le potenze cristiane.[34]

Le due discese del Boemo nella penisola sono da collocare cronologicamente tra il 1330 e il 1333.[35] Tre anni in cui il figlio di Enrico VII tentò di costruire un progetto politico stabile e lo provò a fare sfruttando anche gli interessi del papato e della dinastia capetingia. L’iter italicum di Giovanni di Boemia tra il 1330 e il 1331 rappresentò una tappa significativa nelle relazioni con le città lombarde e toscane. Si tratta di questioni già affrontate in altra sede da chi scrive, che qui vale solo riassumere per avere dati di contesto che consentano riflessioni sull’incontro tra le diverse progettualità politiche del Boemo, di Giovanni XXII e della corona francese.[36]

Una missiva datata dal Lussemburgo 4 luglio 1330 e indirizzata all’allora vicario imperiale a Milano, Azzone Visconti,[37] mostra che nei mesi estivi che precedettero l’arrivo nella penisola italica del figlio di Enrico VII le relazioni diplomatiche tra questi e i signori ghibellini della regione erano vive: egli prometteva al Visconti che lo avrebbe raggiunto nei primi giorni di agosto per trattare, personalmente o tramite ambasciatori, „de negociis imperii et nostris“ e raccomandava al proprio interlocutore di far sapere agli altri „fideles imperii“ di perseverare nella fedeltà e di predisporre quanto necessario ai propri interessi e a quelli dell’impero. Il Boemo stava lavorando a un riavvicinamento del Visconti al Bavaro – dunque agiva a favore del sovrano tedesco – e all’imminente spedizione di quest’ultimo nel Regnum, ma non è da escludere che egli si prodigasse anche per trarre il massimo vantaggio dagli avvenimenti, come dimostrano le mire espansionistiche che egli aveva sul ducato di Carinzia e la contea del Tirolo che cercò di annettere ai propri possedimenti per via matrimoniale. Michel Margue ha ben mostrato come il progetto politico di Giovanni di Boemia sulla penisola italica fosse tutt’altro che improvvisato. Al contrario, dovette essere preparato e prese forma quando Ludovico il Bavaro nel 1329 dovette rassegnarsi a limitare le proprie pretese su Regnum.[38]

Durante questa prima discesa, Giovanni si stabilì inizialmente a Brescia, dove ricevette il sostegno di diversi comuni guelfi della Lombardia. Da Brescia, Giovanni intraprese una serie di azioni diplomatiche e militari volte a garantire la fedeltà delle città lombarde, come Bergamo e Cremona, rafforzando la propria posizione strategica nella regione. La sua presenza portò anche a negoziazioni con Milano, allora sotto il controllo dei Visconti, il cui atteggiamento ambivalente rappresentò una sfida continua per il sovrano boemo. Le città lombarde, benché formalmente allineate con Giovanni, spesso agirono seguendo interessi locali che complicarono le operazioni.

Nel 1331, questi estese la propria influenza verso la Toscana. Siena e Pisa furono al centro delle sue attenzioni, poiché la loro posizione strategica offriva un accesso diretto al cuore della penisola. Il Boemo cercò di stabilire alleanze con queste città, utilizzando un misto di pressione diplomatica e promesse di protezione contro le minacce esterne. Tuttavia, Firenze, tradizionalmente legata al fronte guelfo e diffidente nei confronti di Giovanni, rimase ostile e si pose come baluardo contro le sue ambizioni. La città di Lucca, allora sotto il controllo di Castruccio Castracani, rappresentò un ulteriore ostacolo per il sovrano boemo, poiché il Castracani manteneva una posizione filo-ghibellina e si opponeva apertamente alle ingerenze del lussemburghese.

Nel 1333, Giovanni fece una seconda discesa in Italia, con l’intento di consolidare i risultati ottenuti e rafforzare la propria posizione in Toscana. Durante questa fase, egli intensificò le relazioni con le città lombarde, cercando di neutralizzare l’influenza dei Visconti attraverso accordi commerciali e alleanze temporanee. In Toscana, il suo principale obiettivo fu Siena, che rappresentava un potenziale alleato per l’accesso al controllo regionale. Tuttavia, le divisioni interne alle città-stato toscane e la crescente resistenza di Firenze impedirono al sovrano boemo di raggiungere un consolidamento del potere duraturo. La sua campagna si concluse con un successo limitato che evidenziò le difficoltà di realizzare un controllo stabile in un contesto altamente frammentato e caratterizzato da forti autonomie locali.

Come mostrato da Raul Manselli a metà degli anni Settanta del secolo scorso, in questo percorso per nulla lineare di Giovanni di Boemia tra Lombardia, Emilia medievale e Toscana, un ruolo fondamentale fu giocato proprio dal „desiderio di pace“ che animava le comunità cittadine e dalla „speranza che una potenza esterna … potesse imporre con la propria autorità un ordine che non si riusciva conquistare“ altrimenti.[39] Quello che si attendevano le città che a lui si rivolsero, infatti, era pace interna tra le fazioni e protezione dalle minacce rappresentate da quei signori dell’area settentrionale della penisola che ambivano a costruire dominazioni sovra-cittadine, definiti sovente dalle fonti coeve tyranni,[40] o da quelle potenze che intendevano ugualmente assoggettare le città e porle entro un quadro sovrano più ampio, come documentano i progetti angioino e franco-papale.[41]

3

Se fino alla metà di aprile del 1331 nell’ascesa politica di Giovanni di Boemia nel Regnum era stata decisiva e prevalente la volontà delle città che a lui si erano dedicate di difendere la propria autonomia dalle ingerenze dei principali signori del centro-nord e di stabilizzare lo spazio politico cittadino, qualcosa cambiò proprio all’inizio della terza decade del Trecento. Per comprendere al meglio le condizioni di possibilità in cui il Boemo provò a giocare le proprie carte nel complesso contesto politico del Regnum occorre osservare il più ampio quadro politico europeo. Gli interessi convergenti tra la casata angioina e la corte avignonese sono indubitabili.[42] La scelta di Avignone come sede papale aveva certamente corrisposto a esigenze di sicurezza e controllo politico del papato, ma aveva anche rafforzato i legami con i principali alleati del pontefice, tra cui è da annoverare Roberto d’Angiò. Il Regno di Napoli rappresentava un baluardo politico e militare importante contro le pretese di Ludovico il Bavaro e contro le forze ghibelline nell’Italia settentrionale e centrale.[43] Roberto, conosciuto come il „re savio“, inoltre, incarnava l’ideale del monarca cristiano e si era impegnato a sostenere attivamente le iniziative della Sede apostolica, promuovendo una politica di stretta collaborazione con Giovanni XXII.[44] La documentazione coeva, del resto, ci informa di una missione inviata ad Avignone nell’estate del 1314 – cui parteciparono il reggente della Gran corte della Vicaria, Giovanni de Haya, fedele di Roberto d’Angiò, il vescovo di Marsiglia, Raimondo, il magister di diritto dello Studium napoletano, Giovanni Cabassole, e il giudice Paolo di Anversa – volta a definire, tra le altre cose, la riorganizzazione „status Tuscie et totius Ytalie regionis que per sedem apostolicam directioni tamen regiminis nobis est commissa“.[45]

Ciononostante, le strategie politiche della casata angioina e quelle della corte papale non furono sempre concordi, come dimostra il disallineamento in riferimento all’attacco angioino contro la Sicilia per la riconquista dell’isola a metà degli anni Venti del secolo, condotto dal figlio di Roberto d’Angiò, Carlo, duca di Calabria; offensiva che non aveva trovato il pieno appoggio del papa, il quale temeva – come di fatto avvenne – che un’azione bellica nel Meridione avrebbe comportato un allentamento della pressione angioina nel nord della penisola e la dispersione delle forze guelfe in Toscana e in Lombardia.[46]

In questo frangente prese piede l’azione del cardinale Bertrando del Poggetto, che era stato nominato fin dal 1319 legato apostolico in Lombardia, Toscana, Sardegna, Corsica e nel Patrimonium.[47] Questi, negli anni conclusivi del secondo decennio del Trecento, ricevette la dedizione di diverse città dell’Emilia medievale: Parma (1326), Reggio Emilia (1326) e Bologna (1328). Il progetto del cardinale legato era quello di sottomettere l’intera Romagna e di trasformare Bologna in un centro amministrativo in cui far confluire le decime delle diocesi della penisola a sostegno della politica papale.[48] Proprio l’allargamento del potere del legato apostolico incontrò il disappunto del sovrano angioino e del figlio. Reggio Emilia, infatti, era stata offerta in un primo momento allo stesso duca di Calabria, il quale sperava in un appoggio maggiore delle forze papali in Toscana. Come ha opportunamento sottolineato a suo tempo Giovanni Tabacco, le rimostranze presentate alla corte di Avignone, tuttavia, non rivelano tanto „divergenze strutturali“ tra papato e corte angioina quanto „situazionali“, vale a dire riferentesi a obiettivi contingenti: quelli del papato erano prettamente rivolti verso la Lombardia, quelli degli Angiò verso il Mediterraneo.[49]

L’assoluta autonomia lasciata da Giovanni XXII al proprio legato, inoltre, nasceva dall’attenta considerazione dell’inerzia angioina nei confronti della situazione politica delle città della Lombardia più che da una precisa e programmata volontà di costruire una realtà politica avente come centro Bologna. In altre parole, alla fine degli anni Venti del Trecento il papa probabilmente non aveva in mente un assetto politico definitivo per la regione; voleva semplicemente limitare l’azione militare dei Visconti e degli alleati ghibellini del Bavaro. In questo frangente storico si inseriscono gli accordi presi dal cardinale Bertrando del Poggetto e Giovanni di Boemia a Castelfranco Emilia e a Piumazzo il 16 aprile 1331. Il „Chronicon parmense“ riferisce che „ad dictum parlamentum“ convennero non solo il Boemo e il cardinale legato ma anche gli ambasciatori di molte città della Tuscia, della Marca e della Romagna come della Lombardia oltre quelli inviati dal re di Napoli. Nulla si conosce dei colloqui incorsi tra il legato e il re perché, come sottolinea ancora l’anonimo cronista parmense, „nihil publice scitum fuit“.[50]

Il Villani conferma la notizia e riferisce anche dei sospetti ingenerati in „tutti i signori e tiranni di Lombardia e ancora il Comune di Firenze“ nei confronti del legato papale „parendo loro che disimulatamente egli e la Chiesa avessono fatto venire il detto re Giovanni in Italia; e che colla forza del detto re, e per trattato del papa Giovanni e del re di Francia, volesse occupare la signoria di Lombardia e di Toscana“.[51] Le preoccupazioni riferite dal Villani circa la volontà di creare un regno in Lombardia e Toscana, con il beneplacito di Giovanni XXII e del re di Francia dovevano avere un fondamento di verità perché a partire da questo momento Giovanni di Boemia intensificò le proprie relazioni diplomatiche sia con il re di Francia sia con il papato giungendo, intorno alla fine del 1332, alla probabile stipula di un „Tractatus super creatione regni Lombardie“, la cui documentazione conservatasi presso l’Archivio Apostolico Vaticano è stata pubblicata da Angelo Mercati a metà del secolo scorso.[52] Si tratta con ogni probabilità di due minute preparatorie, la seconda delle quali riporta una dicitura di mano trecentesca – appunto „Tractatus super creatione regni Lombardie“ – cui si aggiunge un titolo autografo del Prefetto dell’Archivio Vaticano di metà XVIII secolo, poi cardinale, Giovanni Garampi, che recita „Capitula oblata Pontifici nomini regis (Boemiae) contra Bavarum“; due minute di due documenti che gli ambasciatori del Boemo avrebbero dovuto presentare al papa.

Il primo dei due fa riferimento alla prima discesa di Giovanni nella penisola italica nel 1330–1331 e, probabilmente, è coevo agli accordi di Castelfranco Emilia e Piumazzo con il cardinale legato Bertrando del Poggetto dell’aprile del 1331. Gli ambasciatori, davanti al pontefice, sarebbero stati chiamati a confermare che tale venuta era stata giustificata dall’appello di alcune città della Lombardia – innanzitutto Brescia –, le quali si sentivano oppresse da governi tirannici, e non da un progetto politico preciso sulla penisola del figlio di Enrico VII come, invece, certi ambienti sia in Lombardia sia in Toscana, ma anche imperiali e papali volevano far intendere. Nonostante fossero arrivate informazioni diverse ad Avignone circa le reali intenzioni del re di Boemia, questi teneva a difendere la propria posizione e reputazione di fronte al Vicario di Cristo, confermando che in ogni sua scelta politica l’„honorem Dei, sanctitatis vestre [scil. del papa] et sancte Ro[mane] ecclesie“ erano state le principali motivazioni che lo avevano mosso.[53]

Chi costruì il testo presentato dagli ambasciatori elaborò una serie di formulazioni volte a sostenere con efficace retorica la causa boema. Infatti, questi avrebbero dovuto giustificare con forza che „eius intencio [scil. di Giovanni di Boemia], nec in vestrum et ecclesie Romane preiudicium intendebat aliquid attentare“.[54] Confermata la volontà regia di mettersi al servizio della Sede apostolica, i missi avrebbero dovuto pregare Giovanni XXII di disporre ogni cosa che fosse conforme „ad honorem Dei et vestrum et sancte Ro[mane] ecclesie et eiusdem regis“, così da evitare, innanzitutto, la circolazione di dicerie che favorissero il fronte ghibellino o quantomeno distorcessero nella percezione delle comunità cittadine le reali intenzioni del loro signore.[55] Tale richiesta non stupisce se si considera quanto riporta l’anonimo autore del „Chronicon parmense“.[56] In questo modo, il Boemo intedeva non perdere la fiducia conquistata in quelle città che a lui si erano dedicate e che appartenevano di già al fronte guelfo.

Gli ambasciatori di Giovanni di Boemia, poi, esaltando la figura del sovrano francese, avrebbero dovuto far leva su un mediatore che, come nessun’altro, poteva vantare un forte ascendente sulla corte avignonese. Il re di Francia, infatti, nella bozza preparatoria del trattato è presentato come un rex che, come i suoi predecessori, eccelleva tra tutti i sovrani cristiani per lo zelo mostrato nei confronti delle direttive papali; non vi era, dunque, persona che avrebbe potuto meglio comprendere e svelare agli occhi del pontefice ciò che nell’azione politica del Boemo in Lombardia e Toscana poteva apparire ad occhi esterni „disordinato“ o non conforme all’ordine progettato dalla Sede apostolica. Se, tuttavia, il papa avesse creduto più opportuni altri piani per il Regnum, il sovrano si mostrava disponibile a lasciare quanto ottenuto a partire dalla sua prima discesa del 1330, specificando però che abbandonare la Lombardia ai tiranni avrebbe significato incrementare la confusione e la conflittualità: condizioni che avrebbero reso anche più difficile il controllo da parte di Roberto d’Angiò e di suo figlio Carlo.[57] Non solo, il mancato appoggio pubblico all’azione del Boemo aveva reso meno incisiva la sua azione e questo aveva favorito l’autonomia politica di quei signori ghibellini che si opponevano alle direttive papali.

Tutto il testo sviluppa perciò una progettualità tesa a realizzare quello che avrebbe dovuto portare avanti in Lombardia e Toscana il fronte angioino e che, tuttavia, era rimasto sospeso proprio per le „divergenze situazionali“ sopramenzionate: lotta contro il ghibellinismo, lotta contro gli eretici che, soprattutto, si erano macchiati della disobbedienza politica nei confronti delle direttive papali, opposizione contro Ludovico il Bavaro. In fondo, il Boemo intendeva presentarsi agli occhi del papa come una possibile e reale alternativa a Roberto d’Angiò – almeno nel contesto del centro-settentrione –, senza necessariamente avanzare pretese sulla corona imperiale.

Il secondo documento preparatorio è indicato come „Tractatus super creatione regni Lombardie“. A dispetto della titolazione assegnatagli da mano coeva e dalla successiva indicazione del Garampi il testo non entra nel dettaglio di un preciso e dettagliato progetto politico. Le formulazioni in esso contenute, che gli ambasciatori avrebbero dovuto presentare alla corte del papa, probabilmente, danno ragione dell’ipotesi del Mercati che si tratti solamente di una minuta preparatoria, una bozza d’intenti nei quali mancano però i dettagli, le condizioni, gli obblighi tipici di un trattato. Alcuni elementi, al contempo, sono ben chiari. Il primo: il posizionamento denunciato nei confronti del Bavaro. Giovanni di Boemia dichiarava apertamente che non avrebbe mai prestato omaggio o giuramento di fedeltà a colui che era in aperto contrasto con Giovanni XXII. Da questo punto di vista, se negli anni finali della seconda decade del Trecento, anche giustificando davanti al sovrano tedesco le ragioni della propria discesa nella penisola, il figlio di Enrico VII aveva sempre sostenuto apertamente la propria fedeltà all’impero, qualcosa dovette cambiare a fronte delle dedizioni di molte città lombarde e toscane e a fronte degli accordi presi con la casata di Francia e con la corte papale.[58]

Dalla lettura del dettato della minuta è altrettanto evidente anche un secondo elemento. In relazione al consolidarsi del fronte ghibellino contro la Chiesa, o a chiunque ambisse a dominare nella penisola, il Boemo offriva al pontefice una soluzione politica: sostenere e difendere le direttive pontificie contro i tiranni di Lombardia – stesso obiettivo che avrebbe dovuto perseguire la corte angioina – in cambio della possibilità di tenere le terre assoggettate con le stesse modalità e forme richieste per le terre che egli deteneva nelle regioni a nord delle Alpi.[59] Di fatto, avere nella penisola italica una realtà regnicola così come l’aveva in Boemia e Polonia. Prendeva corpo, dunque, un’opzione: la soluzione politica di un regno italico senza impero.

Il documento esplicita, infatti, una strategia per arginare il Bavaro, mediante la mediazione del Boemo. Quest’ultimo appare, o vuole apparire agli occhi del pontefice, come il più efficace peace maker in gioco. Innanzitutto, dal dettato del testo emerge che, probabilmente, erano stati presi accordi in precedenza con il sovrano tedesco, il quale si era impegnato a sottomettersi in tutto e per tutto alle decisioni del figlio di Enrico VII per ciò che concerneva il conflitto con la Chiesa. Ludovico il Bavaro aveva inviato lettere in cui si era impegnato con solenni giuramenti di fronte al Boemo, che era suo vicario nel regno tedesco. Questa funzione di mediazione, poi, sarebbe stata concordata con il re di Francia.

Probabilmente erano già in corso anche altre trattative con la corona capetingia che avevano lo scopo non solo di regolare la questione italica ma di trovare soluzioni alternative anche per l’impero. Tale accordo preparato ad Avignone, infatti, seguiva presumibilmente quello sancito a Fontainebleau i primi di gennaio del 1332 con il re di Francia che mostra chiaramente quanto il Boemo, pur non prendendo mai le distanze dal Bavaro, non avesse abbandonato la speranza di poter conseguire la corona imperiale.[60] Quella con il papato e con il re di Francia rappresentava, dunque, un’alleanza strategica non solo per la maggior influenza che questi avevano sulle vicende politiche della penisola rispetto al Bavaro, ma anche perché poteva riaprire al Boemo la partita per la corona imperiale.

I due documenti conservati presso l’Archivio Apostolico Vaticano consentono, dunque, di osservare le condizioni di possibilità che gli attori in gioco negli anni a cavaliere tra la seconda e la terza decade del Trecento stavano costruendo per una soluzione alternativa a quelle che offriva la storia loro coeva. In questo spazio di incertezze, in cui i molteplici attori dello spazio politico del regno italico esprimevano ognuno esigenze ed aspettative spesso contrastanti, e in cui attori sovralocali o sovraregionali provavano a giocare un ruolo di controllo di un’area geografica tanto strategica per la sua economia, per il suo affaccio sul Mediterraneo, per la sua storia e la sua tradizione culturale, quanto complessa da governare, la casata dei Lussemburgo, nella persona di Giovanni di Boemia, avanzò l’ipotesi di un progetto monarchico in accordo con la corte capetingia e il papato.

Se negli ultimi anni del Duecento Bonifacio VIII poteva ancora presumere di occupare una posizione dominante nel quadro della scena politica della penisola, esprimendo un’autocoscienza monarchico-imperiale che non era meramente un costrutto teorico ma un vero e proprio progetto politico che, a partire dal Patrimonium, ambiva ad estendersi anche più a settentrione, nei primi decenni del Trecento questa aspirazione avrebbe dovuto fare i conti con variabili differenti: lo spostamento del papato ad Avignone, il nuovo contrasto con l’impero, l’emergere di attori internazionali non allineati con le direttive pontificie (tra tutti gli aragonesi), il complicarsi della situazione politica del regno italico con lo svilupparsi di signorie cittadine. Neppure l’azione di legati pontifici del calibro di Bertrando del Poggetto potè ambire a realizzare un progetto come quello che Bonifacio VIII aveva esplicitato agli ambasciatori di Alberto d’Asburgo.

Ogni soluzione politica, tuttavia, sembrava esposta alla fragilità di condizioni di possibilità soggette a eventi difficilmente controllabili. Nel giro di pochi anni le forze della lega antiboema e antipapale disfecero i legami che il figlio di Enrico VII aveva creato a partire dalla fine degli anni Venti. Il suo successore, il futuro Carlo IV, lo comprese bene quando il padre nell’estate del 1333 gli lasciò la propria signoria invitandolo a compiere ciò che lui aveva iniziato. Nella propria autobiografia, la „Vita Karoli“, non nascondendo una certa sfiducia nel progetto politico paterno, il futuro imperatore denunciò la difficoltà a governare l’intricato spazio politico italico.[61] Come aveva già osservato Giovanni Tabacco l’avventura italiana del Boemo aveva costituito di fatto „l’ultima e più clamorosa dimostrazione dell’impossibilità di organizzare una vasta dominazione territoriale in ‚Lombardia‘ o in Toscana, per chi non avesse radici profonde in qualche centro urbano potente“.[62] La soluzione di un regno senza impero non era, dunque, perseguibile neppure per un sovrano che vantava una „eredità“ imperiale e che aveva cercato di realizzarla in accordo con la corte di Avignone e con la casata capetingia. Giovanni di Boemia, tuttavia, consegnò un lascito importante che solo qualche anno dopo avrebbe raccolto il figlio, il quale lo riformulò proprio in chiave imperiale.[63]

Published Online: 2025-11-07
Published in Print: 2025-11-03

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