Abstract
This paper presents recent research findings on the so-called «Frederician cookbooks» – better known as the Liber de coquina –, with specific reference to some new etymological hypotheses about medieval Italian food names. Moreover, through a palaeographic and linguistic analysis, this article discusses the geographical localization and dating of the major manuscripts within this textual tradition, in a new attempt to cast light on a very complex documentation. Specifically, by interacting with Anna Martellotti’s work (I ricettari di Federico II. Dal «Meridionale» al «Liber de coquina», Firenze, Olschki, 2005), the results presented here hope to bring a new perspective to the lively debate on the southern origin of this medieval tradition, which is probably the oldest Italian recipe collection.
0 Premessa
Nelle pagine che seguono ci si appresta a tracciare un bilancio, necessariamente parziale e circoscritto, dei lavori in corso sulla tradizione testuale del Liber de coquina – nota anche come «federiciana» –, testimonianza preziosissima di una realtà culturale e linguistica estremamente sfrangiata e difficilmente riconducibile a unità ben definita e nitida nei suoi contorni. L’inevitabile dialettica latino/volgare che ne è alla base, se è vero che complica ulteriormente il problema dell’origine della tradizione, rende tuttavia la questione ancora più suggestiva: quali sono i rapporti intercorrenti fra le tre copie latine e le due redazioni volgari? Si può ribaltare la direzione degli influssi finora sostenuta (dal latino al volgare), e ammettere che il testo mediolatino del Liber sia successivo alle versioni volgari?[1]
Sono soltanto alcuni dei fondamentali quesiti di ricerca posti dallo studio della tradizione testuale del Liber de coquina (titolo forse esemplato sull’arabo Kitāb al-Ṭabīḫ), ricostruibile unicamente attraverso ipotesi che poggiano la loro plausibilità sul raffronto estrinseco con le altre maggiori tradizioni culinarie d’Europa e d’Oriente, nella consapevolezza che «il dato linguistico debba essere costantemente supportato dal concreto culinario» (Martellotti 2001, 69).[2]
La necessità di un confronto costante col repertorio complessivo dei ricettari medievali, specie con quelli del mondo arabo-persiano,[3] ha dunque guidato la prima fase dei lavori compiuti da chi scrive, inaugurati da una indispensabile ricognizione filologica. Proprio da un sintetico quadro d’insieme della tradizione – la più antica tra quelle italiane d’ambito gastronomico – prende le mosse il presente contributo, ripercorrendo le tappe principali del percorso di ricerca svolto; seguono alcune nuove ipotesi di localizzazione geolinguistica nel tentativo di collocare diatopicamente con maggiore accuratezza i testimoni in gioco. Nella parte successiva, più antologica, l’esame delle fonti si traduce nello sforzo di decrittare l’origine di alcuni termini di interesse gastronomico offrendo alcune schede lessicali che aggiungono, auspicabilmente, qualche nuovo elemento alla ricostruzione della storia di singoli lemmi, non sempre perspicui. Si analizzeranno così, più da vicino, le interessanti dinamiche linguistiche rilevabili nei ricettari che orbitano attorno al Liber, con l’intento primario di ridiscutere il quadro composito e articolato offerto dal testimoniale del «primo libro di gastronomia europeo» (Martellotti 2005, 96).
1 Questioni preliminari
I testimoni del Liber de coquina formano una tradizione testuale compatta e notevolmente concorde ma, al tempo stesso, non sempre razionalizzabile, costituzionalmente sottoposta all’intervento manipolatorio e fortemente legata alla tradizione sotterranea dell’oralità; tratti, questi, che hanno imposto scelte bédieriane nella concreta prassi ecdotica, con il rischio di cadere in una prospettiva atomistica.[4] Da qui l’opportunità di ricorrere a criteri più specifici e mirati che permettano di soddisfare, se non tutte, almeno alcune esigenze di certezza e definitività: «Lungi dal pretendere di ricostruire un testo originario, la cura filologica di testi di cucina potrà, di volta in volta e desultoriamente, utilizzare singoli criteri (lectio difficilior, filologia delle sequenze, etc.) che risultino funzionali a quel tipo di tradizione, contentandosi di trarne inferenze parziali e limitate, ma certe» (Bertolini 1998, 740). Ciò consente di non rinunciare del tutto al metodo del Lachmann a patto di calarlo in una prospettiva non più restitutiva stricto sensu (finalizzata cioè alla concreta restitutio textus), bensì prettamente conoscitiva, così da individuare una sorta di «lachmannismo di supporto»: l’impossibilità di costruire uno stemma, «non esistendo in questo tipo di tradizione i termini necessari per la ricostruzione genealogica della storia del testo» (Bertolini 1998, 740), non esclude infatti che il serrato confronto tra i testimoni possa comunque rivelare alcuni nuovi elementi per far luce sulla tradizione stessa, possa cioè consentire di trarre anche interessanti inferenze storico-culturali da tali materiali; ed è da queste premesse metodologiche che muovono le riflessioni dei paragrafi seguenti.
2 Il Liber de coquina: genesi e diffusione
Inquadrare la genesi del Liber de coquina a partire dal sistema di referenti storico-culturali delle sue varie redazioni risulta operazione assai complessa. Sulla scorta di una preparazione a base di cavoli verdi in apertura dei tre codici latini, De caulibus viridis,[5] si è ritenuto di poter riconoscere sorprendentemente nella corte itinerante di Federico II il luogo d’origine dell’ambizioso progetto gastronomico:
«Ad caulles virides secundum usum imperatoris, accipe cimulas caullium sanas et in caldaria bulliente cum carnibus pone et fac bene bullire. Et inde extractis, pone in aqua frigida. Accepto alio brodio in quodam alio vase, addas albedinem feniculi et fac eam bullire. Et cum fuerit hora comestionis, pone predictos caulles cum brodio in vase predicto et facias totum parum bullire» (Mulon 1968, 396).
Ora, proprio quel secundum, e non il più frequente ad usum – ambiguo «perché potrebbe indicare anche ‘adatto a’» (Lubello 2011, 195) – sembra suggerire che la preparazione sia proprio un’invenzione dell’imperatore o di un suo cuoco scelto, il che depone senz’altro a favore dell’ipotesi federiciana. Osterebbe, sì, la possibilità di leggere la denominazione in senso più piano (‘degno di un imperatore’), in linea con quella caratterizzazione iperbolica tipica di molte ricette medievali (si pensi, a titolo emblematico, alle fritelle da Imperadore magnifici dell’Anonimo Veneziano o ai küniges hünre ‘polli da re’ del Buoch tedesco);[6] tuttavia, le generiche prerogative «imperiali» apparentemente mal si addicono a una preparazione così poco sontuosa come quella descritta (ce lo aspetteremmo di più per piatti come la portentosa torta parmigiana o lo scenografico pastello di uccelli vivi).[7] Ben si attaglia invece al profilo di Federico tracciato dagli storici l’attenzione alle prescrizioni della dietetica – la nuova «dietetica del potere» (Montanari 1995, 337), di probabile ascendenza araba –[8] che emerge dalla ricetta: l’accostamento ai finocchi – albedinem feniculi – per ridurre la ventosità causata dai cavoli, la cottura con la carne – cum carnibus – per toglierne il nocumento, etc. Proprio da questo punto di vista la storia dei nostri «cavoli dell’imperatore» potrebbe essere suggestivamente affine a quella di polveri, rimedi e unguenti che «per lungo tempo girarono per l’Italia sotto il nome di Federico» (Kantorowicz 1976, 319) ma la cui paternità spettava probabilmente a membri della sua corte, come Adamo da Cremona, autore del De regimine et via itineris et fine peregrinantium, espressione degli interessi federiciani per la cura corporis (cf. almeno Paravicini Bagliani 1995; Esposito 2010).
Ancor più suggestiva l’ipotesi secondo cui la genesi del progetto culinario patrocinato da Federico – forse assemblato su ispirazione non soltanto di raccolte arabe ma anche di compilazioni redatte alla corte normanna di Sicilia (cf. infra, §5) – sarebbe da collegare proprio alla fioritura della poesia siciliana (1230‒1250), due espressioni culturali legate al concreto momento conviviale destinate a mutare profondamente il panorama ideale e la vita materiale della Penisola: «Mentre la poesia siciliana diventa toscana e la letteratura toscana diventa italiana, la cucina sveva conquista tutta l’Italia, dimostrando ancora una volta come le mode alimentari si accompagnino da vicino alle più importanti manifestazioni nell’ambito delle scienze e delle lettere» (Martellotti 2005, 171). Analogo a quello della lirica siciliana è in effetti il processo di toscanizzazione documentato nella tradizione del Liber (cf. infra, §7) e analoga l’assenza, pressoché totale, di manoscritti meridionali; ma l’ipotesi della nobile origine, se altre mai intricata e dibattuta, resta da verificare.
Altrettanto complessa la ricostruzione dei percorsi geografici e cronologici delle copie. Dalla collazione dei cinque testimoni superstiti – le poche copie sopravvissute di una tradizione probabilmente ben più ricca e antica (cf. infra, §3) – è emersa in filigrana la presenza di due linee di trasmissione ben distinte: una maggiore, che ha riguardato probabilmente gli ambienti più colti e raffinati d’Italia e d’Europa, elevando di conseguenza pietanze spesso di umili origini a cibo «di corte» destinato a duraturo interesse, anche accademico (il codice più tardo, come si vedrà, riporta a un professore di Medicina dell’Università di Heidelberg); l’altra minore, rivolta forse alla categoria dei cucinieri professionisti o, comunque, degli intenditori della materia e degli intendenti di famiglia, che sembrerebbe condurci in una direzione estremamente concreta del contesto d’uso. Questa seconda destinazione lascia tracce sensibili nella redazione nota come «Anonimo Toscano» attraverso due annotazioni rivolte al «discreto cuoco» significativamente assenti nel resto della tradizione: l’una in una preparazione a base di spinaci («e diversificare secondo pare ala discretione di buono cuoco»: Möhren 2016, 136), l’altra nella ricetta del savore per malardi e anatre («Per queste cose che ditte sono, il discreto cuocho porrà in tutte cose essere docto, secondo la diversità dei regni. E porrà i mangiari variare e colorare, secondo che a lui parrà»: ib., 187). Alla luce di questo quadro, la stessa rubrica che apre il ricettario («Rubrica del cocinaro»: ib., 131) potrebbe essere intesa, in linea con la definizione del GDLI s.v. cucinaio (‘cuoco’), come ‘rubrica del cuoco’ piuttosto che, come glossato finora, ‘rubrica del ricettario’.[9]
3 Uno sguardo ai manoscritti
Segnaliamo a questo punto alcuni dati fondamentali relativi alla tradizione manoscritta, che, se valida l’ipotesi federiciana, sarebbe da ritenere ben seriore rispetto alla composizione del testo (cf. supra, §2). I codici presentano infatti datazioni scalate tra l’inizio del Trecento e il secondo terzo del Quattrocento; se ne fornisce di seguito un elenco indicando tra parentesi tonde gli estremi cronologici (frutto, in alcuni casi, di una nuova perizia paleografica) e tra quadre le edizioni di riferimento:[10]
Codici latini
Paris, Bibl. Nationale de France, Lat. 7131, cc. 96v°‒99v° (1308‒1314) [Mulon 1968, 396–420; Martellotti 2005, 199‒280 (testo collazionato)];
Paris, Bibl. Nationale de France, Lat. 9328, cc. 133v°‒139v° (XIV sec., secondo terzo) [Sada/Valente 1995, 110–171; Martellotti 2005, 199‒280];
Città del Vaticano, Bibl. Apostolica Vaticana, Palatino latino 1768, cc. 160r°‒189v° (1461‒1465) [Martellotti 2005, 199–280].
Codici volgari
Bologna, Bibl. Universitaria, 158, cc. 93r°‒103r° (XIV sec., secondo terzo; noto come «Anonimo Toscano») [Faccioli 1966, vol. 1, 17–57; Martellotti 2005, 199–280; Bergonzoni 2006, 63–108; Möhren 2016, 131–197];
olim Sorengo, Bibl. Internationale de Gastronomie, Inv. 1339, ms. 3, cc. 1r°‒15v°, disperso (fine XIV‒inizi XV; noto come «Anonimo Meridionale») [Boström 1985, 1–31; Martellotti 2005, 199–280].[11]
Il codice più antico (Lat. 7131) conduce alla Francia di Filippo IV il Bello (1285‒1314): redatto per Henri de Mondeville, chirurgo del re, si apre con la Pratica chirurgie autografa dedicata al sovrano.[12] Ma ciò che più conta ai fini del nostro interesse è che nel cuore del codice si incastona un trittico testuale bilingue, latino e volgare, introdotto dal Tractatus de modo preparandi et condiendi omnia cibaria – l’altro caposaldo della trattatistica gastronomica tardomedievale in lingua latina –, seguito dal Liber (168 ricette) e concluso dal ricettario francese degli Enseingnemenz, copiato da mano diversa, così da configurare significativamente «les maillons d’une chaîne, qui relie l’Orient arabe à la cuisine théorique des rois de France» (Rodinson 1950, 446).
Lo stesso dittico Tractatus-Liber si ripropone nel manoscritto successivo dell’elenco (Lat. 9328). Acquistata dal duca di Berry Jean de Valois – come testimonia la postilla sull’ultima carta –, si tratta della copia tarda di un codice probabilmente allestito alla corte di Napoli durante il regno di Carlo II (1285‒1309) o del suo successore Roberto (1309‒1343). Entrambi i codici rinviano dunque allo stesso ambiente di circolazione – la Francia trecentesca – e, forse, anche di copia: la corte angioina di Napoli, che ha avuto verosimilmente la funzione di tramite di un lavoro già compiuto altrove (nella curia federiciana?). Lo dimostrano i risultati della nuova collazione dei due testimoni, che ha spinto a ipotizzare, sulla base di significativi errori comuni, la loro comune ascrizione a un’unica matrice.[13]
Qualche nota, infine, dal rispetto paleografico: alla scrittura serrata e densa di abbreviature del ms. 7131 fa da contrappunto l’elegante littera textualis di alto livello tecnico del codice segnato 9328, dotata di un sistema di legature avanzato e di un apparato decorativo che è canonico a partire dal secondo quarto del XIV secolo. D’aspetto ben più attardato, invece, la textualis del terzo codice latino noto (Pal. 1768; 167 ricette), il che è probabilmente dovuto all’ambiente di produzione periferico: il manoscritto è stato infatti redatto a Heidelberg per Erhard Knab, professore di Medicina dell’Università eponima. Già additato da Spadaro di Passitanello (1989) come testimone chiave di uno stadio di tradizione precedente a quello osservabile nei codici parigini,[14] il codice rappresenta l’unico caso di sconfinamento diatopico della tradizione rispetto al baricentro italiano: una testimonianza preziosa della circolazione europea di cui il Liber è stato senz’altro protagonista grazie alla scelta del latino (cf. infra, §4).[15]
Slegato da interessi medici ma frammisto a testi morali, devozionali e catechetici è invece il ms. 158 della Biblioteca Universitaria bolognese, elemento cruciale della tradizione volgare. Il codice trasmette infatti il Libro de la cocina, l’importante volgarizzamento del Liber noto anche come «Anonimo Toscano» (198 ricette); la presenza esclusiva della voce deonomastica delle frittelle ubaldine può essere letta come una firma per il patrocinio dell’impresa da parte di Ubaldino della Pila, noto capo ghibellino, fratello di quell’Ottaviano degli Ubaldini che compare nelle parole di Farinata proprio insieme a Federico II (Inf. X, vv. 116‒120: «qua dentro è ’l secondo Federico / e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio»). Il testo è vergato da due mani diverse in una littera rotunda che, a questa altezza cronologica e a questo livello grafico, non conforta alcuna localizzazione puntuale. Non aiuta neppure la storia esterna del codice quattrocentesco latore del ricettario finora denominato (forse impropriamente) «Anonimo Meridionale» (146 ricette), ora in mani private dopo la dismissione dell’intera Bibliothèque Internationale de Gastronomie di Sorengo, di cui si dirà fra poco. Per i due esemplari in volgare viene invece in soccorso una lettura in termini di stratigrafia linguistica, come si tenterà di mostrare, seppure in forma sintetica, più avanti (cf. infra, §7).
L’effetto dell’evoluzione del ricettario nel tempo e nello spazio attraverso i cinque codici non si manifesta, curiosamente, sul dettato delle ricette, bensì sull’organizzazione interna del materiale, in significativa controtendenza rispetto al resto della letteratura culinaria tardomedievale d’Europa – dal Viandier francese al Buoch von guoter spise tedesco –, con testi costantemente in movimento ma struttura «singolarmente costante» (Martellotti 2005, 16). Viceversa, una visione diacronica dei testimoni della tradizione federiciana sembra suggerire una significativa costruzione per aggiunte progressive, forse a partire proprio dalla versione caotica e avventizia del «Meridionale». È proprio in quest’ultima stesura volgare che, sulla scorta di un efficace tentativo di filologia delle sequenze analogo a quello esperito per i «XII commensali», è stato riconosciuto il nucleo originario di 81 ricette, volgare e federiciano, di questa tradizione primigenia; da qui la formula di «ricettari federiciani» (Martellotti 2005) scelta per indicare il testimoniale in esame, secondo un percorso che procederebbe, nel senso strutturale del testo, dalla semplicità del «Meridionale» – con la sua architettura testuale lene e disorganica (ma già improntata nella sua prima parte a rigorosi criteri scientifici) – alla versione complessa e compiuta del Liber conservata dai due codici parigini, dove le ricette appaiono ordinate e suddivise sistematicamente in cinque capitoli, secondo la classificazione scientifica degli alimenti (verdure, carni, superfluità degli animali, pesci, cibi composti), e dove la scelta del latino si pone come scelta non neutra ma consapevole e programmatica che ambisce a inserire la gastronomia nella sfera delle scienze. A metà strada sembrerebbe collocarsi il «Toscano» – probabile traduzione di una versione latina del Liber a noi ignota, denominata Liber amissus –,[16] ricettario ancora privo della rigorosa impostazione dietetica del Liber (lo dimostra, fra l’altro, una seziona posticcia di cibo per malati aggiunta dal menante) e contrassegnato da un passo meno «scientifico» (pochi gli interventi glossatori, contenuti i sinonimi e i doppioni, evitate le denominazioni straniere), acquistando così le prerogative di un ricettario di natura più pratica che teorica. Proprio una struttura così difforme sembrerebbe autorizzare la sua collocazione tra le «raccolte di ricette», laddove il Liber nella sua versione parigina potrà essere più opportunamente definito un vero e proprio «libro di ricette», implicante l’identità di un autore-compilatore con un progetto ben individuato.[17]
Più incerta la posizione del Pal. lat. 1768. Il manoscritto mostra significativamente in alcuni loci critici una maggiore vicinanza al Libro che al Liber (cf. Möhren 2016, 96), avvalorando l’ipotesi del suo posizionamento a valle di una prima versione latina ricavata dal «Meridionale» (dunque, dal volgare al latino) da cui sarebbe derivato il volgarizzamento toscano (viceversa, dal latino al volgare). Il verso della rielaborazione, tuttavia, resta dubbio.
4 Dal latino al volgare o dal volgare al latino?
Particolarmente interessante, tra i vari aspetti degni di nota della tradizione del Liber, proprio la situazione di bilinguismo, o meglio di diglossia latino-volgare, che la contraddistingue.[18] E ciò a dispetto di un testo che, tra un testimone e l’altro, si mantiene pressoché identico: cambia, spesso radicalmente, l’ordinamento e la strutturazione della raccolta (cf. infra, §3), cambia la lingua (tre i codici latini, due i volgari), ma colpisce in generale l’estrema conservatività nel dettato delle ricette.[19] I diversi strati linguistici, piuttosto che tenersi ben distinti, si compenetrano, s’intersecano, s’aggrovigliano: da un lato, un latino profondamente infarcito di volgarismi che garantisce la larga accessibilità di un contenuto, come si vedrà, talora fortemente geoconnotato; dall’altro, un volgare (o meglio due antiche varietà) che lascia spesso spazio nel testo – senza soluzione di continuità – a veri e propri inserti latini, specie nel ricettario noto come «Meridionale». In tale ottica, se il «Meridionale» sembra costituire l’avvio di un vero e proprio italiano culinario, il Liber segna senz’altro la nascita di un latino medievale di cucina, un «utilissimo latinaccio pronto a caricarsi di nuovi vocaboli e di inusitate locuzioni avvicinandosi sempre più al parlato».[20] La storia potrebbe essere significativamente affine a quella del De arte venandi, il celebre trattato di falconeria di Federico, caratterizzato da una facies linguistica che, pur recuperando per quanto possibile la nomenclatura classica, accoglie necessariamente neologismi e termini volgari per sopperire ai vuoti di un lessico tecnico ancora in parte da definire (urgenza, questa, tipica dei linguaggi specialistici dell’epoca, dalla falconeria alla gastronomia).[21]
Ma ciò che più interessa qui sottolineare è che questo curioso Küchenlatein sembra risentire fortemente dell’influenza del francese di terraferma o, forse, della francofonia normanna insulare: proprio questa seconda interpretazione suffragherebbe notevolmente l’ipotesi dell’origine siciliana della raccolta, recuperando per altra via quel sostrato meridionale apparentemente mancante sul versante linguistico nella tradizione manoscritta (cf. infra, §6).[22] È stata infatti osservata, sebbene soltanto per cenni,[23] la presenza nel Liber di notevoli grafie francesizzanti che meritano di essere maggiormente valorizzate, non foss’altro perché potrebbero nascondere, sotto la maschera del latino, una sostanza linguistica tutta locale.[24]
5 La tradizione latina: francesismi o normannismi?
È ben noto che all’epoca della dominazione normanna si verifica nel siciliano una consistente acquisizione di nuove voci, anche gastronomiche;[25] ancora inedito, invece, il reperimento di alcune di queste – impressionanti le coincidenze – negli antichi ricettari normanni (1169‒1189 ca.),[26] forse la «prima documentazione di una cucina europea che si diffonderà dal meridione d’Italia fino all’Inghilterra» (Martellotti in preparazione), il che sembrerebbe spiegare le antichissime parentele culinarie tra i due estremi d’Europa. E tuttavia la patente di «normannismo» per alcuni gastronimi non è sempre di sicura attribuzione: potrebbe infatti trattarsi più in generale di francesismi arrivati lungo altri itinerari nella lingua del cibo italiana.
Se guardiamo in particolare ai dati forniti dalla tradizione manoscritta del Liber e alle risultanze linguistiche, non vi è dubbio che le forme indiziate di parentela con il francese o con il superstrato normanno insulare non costituiscono elementi d’accatto sovrapposti al testo, ma sono piuttosto parte integrante della lingua e della cultura espressa dal testo; ne proponiamo di seguito un campionario minimo indicando con A e B le voci documentate dai due codici parigini e con O quelle attestate nel ms. Pal. Lat. 1768:[27]
croseti: cf. m.fr. crousets ‘maccheroni’ (FEW 2, 1363 b; attestato da A e B; in O manca la ricetta);[28]
cutellum: cf. a.fr. coutel ‘coltello’ (FEW 2, 1498 b; documentato da A e B; O alterna cutello e cultello);
demembrare: cf. a.fr. desmembrer ‘smembrare, fare a pezzi’ (FEW 6, 692 b; TLFi s.v. démembrer; in tutti i mss.; O sostituisce talvolta demembrare con defrustare);
deplumare: cf. a.fr. désplumer ‘spennare’ (FEW 9, 87 b; TLFi s.v. déplumer; in tutti i mss.);
faisanum: cf. a.prov. faisan, a.fr. faisant ‘fagiano’ (FEW 8, 374 b; TLFi s.v. faisan; soltanto in A; B: fasanum; O: faxianum);
faysoli: cf. a.prov. faizol, a.fr. faisole ‘fagiolo’ (FEW 8, 373 a; soltanto in B; A e O leggono fasseolos);
(faseolos) descacatos: cf. m.fr. descacher ‘togliere ciò che copre’ (FEW 2, 808 a s.v. *coacticare; attestato in A e O; B legge desicatos);
fusticellos, fusticellas: cf. a.fr. feustel ‘scotano, sommacco’ (FEW 2, 808 a s.v. *fustuq; TLFi s.v. fustet; cf. anche lig. fistello; in tutti i mss.);
gala(n)tina: cf. a.fr. galatine, m.fr. galantine ‘gelatina’ (FEW 4, 88 b; TLFi s.v. galantine; documentato in A e O; B legge gelatina);
indolia, indulgea, indulgia: cf. a.fr. andouille, endoille ‘salsiccia’ (FEW 4, 652 b; TLFi s.v. andouille; in tutti i mss.);
langusta: cf. a.fr. languste ‘aragosta’ (FEW 5, 397 a; TLFi s.v. langouste; in tutti i mss.);
pulverizare: cf. a.fr. empulverizé ‘cospargere di spezie in polvere una pietanza’, m.fr. polverisé (FEW 9, 569 b; TLFi s.v. pulvériser; in tutti i mss.);
riveria: cf. a.fr. rivière ‘riviera per uccelli acquatici’ (FEW 10, 415 a; TLFi s.v. rivière; soltanto in B; A: riparia; O: riperia).
La lista raccoglie un manipolo di scrizioni dovute probabilmente a influssi e spinte locali: è il caso di cutellum, con evanescenza della laterale nella forma latina che è presupposto dell’evoluzione fonetica francese (documentata anche nel siciliano antico);[29] lo stesso può dirsi, quanto al vocalismo, per le due forme con dittongamento in sede protonica faisanum e faysoli, non attestate però negli antichi volgari italiani. Proprio ai faisoli (o faseoli) si affianca nel Liber (A, O) l’attributo descacatos ‘sbucciati?’ – ma non si possono escludere le letture alternative *(de)scocatos e *(de)scucatos, parasintetici ben documentati nei dialetti italiani –,[30] una evidente lectio difficilior rispetto alla variante desicatos ‘essiccati’ del ms. B. Certamente galloromanza è poi la forma gala(n)tina, priva di riscontri nell’Italoromania.[31]
Passando alle forme verbali, i due prefissati demembrare e deplumare contano invece un esiguo drappello di attestazioni in italiano antico: demembrare, p. es., ricorre per tre volte nel volgarizzamento napoletano trecentesco del Libro de la destructione de Troya,[32] mentre de(s)plumare è hapax nel Corpus OVI (Esopo veneto).[33] Interessante è anche il suffissato pulverizare, la cui prima attestazione in francese riporta proprio a quella Pratica chirurgie di Henri de Mondeville (1314) che apre il codice più antico del Liber, il ms. Lat. 7131 (cf. supra, §3). Pressoché coeva (primo quarto del Trecento, secondo la nuova datazione) la prima testimonianza del significato gastronomico in italiano (‘cospargere q[ualco]sa di una sostanza che è simile alla polvere’: TLIO s.v. polverizzare §2), offerta dal Riccardiano 1071 («quando sono tratti fuori, polvereçagli di spetie dolci»: Pregnolato 2019, 257).
Assente invece nel Riccardiano uno dei gastronimi più interessanti dell’elenco, la forma croseti, da confrontare con i corzetti genovesi e provenzali – non troppo diversi dai cavatelli e dalle orecchiette pugliesi («cum digito concavato») –,[34] che trovano conferma già nella forma cressee ‘cavatelli’ dei ricettari normanni, secondo la nuova cronologia proposta (cf. Martellotti in preparazione). Ad area ligure sembra rinviare inoltre la base *fustel (feustel) della forma fusticellos (prima dell’infisso -ic-), che corrisponde morfologicamente al ligure fistello, nel qual caso il ligure potrebbe forse essere di provenienza galloromanza; per questa forma il FEW rinvia all’arabo *fustuq ‘pistacchio’.[35] Quanto al latino medievale, il repertorio di Sella reca un’attestazione isolata ma notevole nei registri di entrate e uscite della Curia romana conservati nell’Archivio Vaticano (1346): festugatum ‘dolce con pistacchio’.
Agli stessi registri rinvia anche la forma langusta ‘aragosta’ (1342), che ritroveremo più tardi nel De arte coquinaria di Maestro Martino («Per quocere languste», ricetta simile a quella del «lione di mare»: Benporat 2001, 85); eppure, la forma sembra non continuare in italiano antico nel significato ittico (cf. TLIO s.v. locusta). Continua invece l’interessante indolia, probabile corrispettivo della ’nduglia, il celebre insaccato calabrese di consistenza morbida e gusto piccante sul quale circolano tuttora varie ipotesi; la più accreditata rinvia all’a.fr. ando(u)ille ‘salsiccia’ (1178: cf. TLFi).[36] L’analisi della varia lectio dei testimoni latini del Liber rivela sia curiose forme di concrezione dell’articolo (landolia, lantolia), sia probabili tentativi grafici di rendere con -lg- il suono palatale della voce (indulgea, indulgia).
Chiude la breve rassegna proposta l’interessante riveria ‘riviera per uccelli acquatici’. La prima attestazione del lessema in tale accezione rinvia al trattato di falconeria di Petrus de l’Astore, d’epoca federiciana (GDLI s.v. riviera §1), contraddistinto da «un miscuglio, curioso e occasionale, di elementi di volgari alto-italiani in un tessuto a base provenzale, con qualche francesismo, e pochi elementi – che ritengo siciliani –, che ci dicono di un copista o addirittura dell’ambiente federiciano di redazione del ricettario» (Lupis 1979, 99). Una storia linguistica tra Italoromania e Galloromania che, come nel caso del De arte venandi, sembra presentare alcuni notevoli elementi di analogia con quella del Liber.
Tutti questi appunti, ancora sparsi e frammentari, meritano una sistemazione e collocazione definitiva; in attesa di uno studio complessivo, riportiamo intanto la casistica tracciata, che distingue tra:[37]
forme anche italoromanze ma con tratti grafo-fonetici che rimandano ad ambiente galloromanzo (cutellum, faisanum, etc.);
forme prive di corrispondenze italoromanze, che sembrerebbero precipue della latinità galloromanza o di scripte antico-francesi (galantina, langusta, etc.);
forme complesse, con trafile etimologiche di lunga gittata (fusticello, indolia, etc.).
Nonostante la stratificazione resti complessa da decrittare (a chi sono da attribuire i francesismi? indicano il luogo di allestimento, di copia o di circolazione del ricettario?), è probabile che un futuro regesto, completo e ordinato, consentirà di trarre alcune importanti conclusioni critiche: qualora prevalessero, p. es., fenomeni di tipo fono-morfologico (tipo 1), verrebbe senz’altro il dubbio del filtro dei copisti, ma se invece si radunasse una quota consistente di elementi lessicali della sola galloromanità e dunque senza continuatori italoromanzi (tipo 2), ecco che la traccia galloromanza diverrebbe forte e decisiva anche per delineare un ambiente di produzione e autorialità.
6 Dal cibo alla posateria: anxia alexandrina e punctorium ligneum. Nuove ipotesi etimologiche
In attesa di una nuova e auspicabile messa a fuoco del lessico gastronomico mediolatino che rafforzi (o smentisca) l’ipotesi della «filiera normanna»,[38] soffermiamoci intanto su alcuni gastronimi peculiari che sembrano riportare proprio alla cucina meridionale. Emblematico, anzitutto, il caso di anxia alexandrina, corrispondente ai vermicelli con latte, una specialità peraltro ancora sorprendentemente viva in Puglia (Martina Franca).[39] L’anxia (o ancia)[40]alexandrina figura nei tre codici latini della tradizione come ingrediente della simula apula, una preparazione a base di latte piuttosto simile a un biancomangiare sulla cui natura grava a sua volta più di un’incertezza. Si tratterebbe, secondo Enrico Carnevale Schianca (2011, 39‒40), di un’interessante parola-fantasma frutto di interpolazione del copista, che avrebbe distrattamente attinto da un testo medico, storpiandole, le parole aurea alexandrina (questo, sì, sintagma ben attestato nella tradizione)[41] inserendole nella ricetta che stava trascrivendo, con la quale nulla in realtà avrebbero a che fare.[42] L’ipotesi concorrente, avanzata da Luigi Sada e Vincenzo Valente (1995, 176), spiega invece il curioso anxia come «latinizzazione del fr. anche, it. ancia, linguetta di strumento a fiato, ma in origine ‘tubo’, ‘cannello’ e quindi ‘vermicello’ per la forma tubolare e allungata». Tuttavia, un controllo nei principali repertori lessicografici del francese ha rivelato l’assenza di forme semanticamente riconducibili al significato di ‘vermicello’.[43] Più economico allora pensare alla base latina anguis ‘serpente’ che, grazie alla consultazione dei materiali del LEI (2, 1325), sappiamo avere continuatori ristretti all’Italia nordorientale e a parte dell’Emilia Romagna, tra i quali la forma di trafila popolare anza ‘serpentello’ (< *angia)[44] che potrebbe celarsi proprio dietro alla lezione recata dai due codici parigini – anxia, con il grafema x tipico delle scritture settentrionali – andando a costituire un importante indizio geolinguistico. Se così fosse, il nostro «serpentello alessandrino» mostrerebbe, fra l’altro, uno dei tratti tipici della lingua del cibo come Fachsprache: la presenza di processi metaforici alla base di varie denominazioni di paste filiformi (vermicelli, ciriole, anguillette, umbricelli, bigoli, e così via).[45]
Un ulteriore dato interessante che si ricava dal confronto tra le varie versioni della ricetta riguarda la presenza, nel solo codice Pal. Lat. 1768 (O), della forma tria (‘fettuccina secca di derivazione araba’) accanto a vermiculos in quella che ha tutta l’aria di essere una glossa parentetica, tratto tipico del ricettario vaticano ogniqualvolta si presenti una parola percepita come poco perspicua, indicandone il corrispettivo onomasiologico a lui meglio noto. Leggiamo dunque il passo della ricetta che presenta tale variazione:
Ad simulam apulam faciendam cum lacte ubi vermiculi sunt sive anxia alexandrina, accipe lac et fac eum bullire et, bullito lacte, elige vermiculos | Ad faciendum simulam apulam cum lacte ubi vermiculi sunt sive ancia alexandrina, accipe lac et fac eum bulliri et, bullito lacte, elige tria (vermiculos) |
(A) | (O) |
La presenza della forma tria nel Pal. Lat. 1768 (O) avvalorerebbe la nuova pista di ricerca qui tracciata: la pasta filiforme d’origine orientale (proprio questo potrebbe significare l’aggettivo alexandrinus)[46] era infatti prodotta in grande quantità nella Sicilia arabo-normanna,[47] che viene pertanto a profilarsi nuovamente come centro di irradiazione di alcune forme nascoste sotto spoglie latine (tardomedievali).
Se passiamo dalle vivande all’utensileria, un caso interessante è costituito dalla forma punctorium ligneum ‘spiedino, bastoncino di legno’.[48] L’interessante perifrasi compare accanto al sinonimo verum in entrambi i codici parigini del Liber («comede cum uno punctorio ligneo accipiendo»: III 10); secondo Martellotti (in preparazione), potrebbe trattarsi dell’equivalente latino del siciliano broccia, broccetta:[49] l’uso del nuovo utensile si sarebbe dunque affermato già nella Sicilia normanna «legato alla difficoltà di prelevare e portare alla bocca le ampie falde viscide e bollenti» delle lasagne. A riprova, la forma corrispondente brocche di legno, che compare nell’«Anonimo Toscano» a designare proprio gli spiedini utilizzati per fermare la rete di porco che avvolge il pavone ripieno (nella ricetta 106: «E involgi il dicto pavone in una rete di porco, e fermalo con brocche di legno»: Möhren 2016, 167); spiedini che si trasformeranno col tempo in un più adeguato strumento metallico con due rebbi che prenderà in italiano il nome di forchetta (diminutivo di forca). Se ne riporta di seguito una delle primissime attestazioni, dal Trecentonovelle di Sacchetti (124, 276):
«Noddo comincia a raguazzare i maccheroni, avviluppa, e caccia giù; e n’avea già mandati sei bocconi giù, che Giovanni avea ancora il primo boccone su la forchetta, e non ardiva, veggendolo molto fumicare, appressarlosi alla bocca».
7 La tradizione volgare: due nuove ipotesi di localizzazione geolinguistica
A fronte del particolare interesse rivestito dai testimoni volgari («Anonimo Toscano» e «Anonimo Meridionale») per la ricostruzione della complessa storia del Liber, si impone una verifica sub specie linguistica – finora mancante – finalizzata all’accertamento, con vario grado di dettaglio, dell’area geolinguistica dei due testi. Andrà tenuto ben presente, oltre al problema della stratificazione linguistica, quello della stessa tipologia testuale del ricettario volgare, che certo non aiuta: basti dire che, fatta eccezione per le voci dell’imperativo, viene meno il settore della morfologia verbale, uno dei livelli in assoluto più rivelatori per la localizzazione del testo.[50] Ciò non esclude tuttavia l’opportunità di uno spoglio linguistico per reperire alcuni indizi geolinguistici significativi: si scopre così che il Libro de la cocina presenta, sì, un colorito linguistico toscano – da cui appunto il nome di «Anonimo Toscano» negli studi sul tema – ma fortemente screziato di esiti mediani, mostrando una allure piuttosto sud-orientale: il suffisso -ieri (taglieri, barbieri, braghieri); la forma antifiorentina luocho/i, che limitatamente alla Toscana «si affaccia solo nell’aretino» (Serianni 2007, 146); la larga tendenza alla conservazione di e in protonia; l’impiego sia di sirà ‘sarà’, forma «orientale» (Frosini 2010, 88), sia di pò ‘può’, corrispondente alle condizioni del dittongamento aretino (cf. Castellani 2000, 368; Frosini 2010, 67), etc.[51] Anche l’analisi del lessico sembra rinviare talvolta alla stessa area: per tornare all’esempio del paragrafo precedente, broccia/brocca (cf. supra, §6), le più antiche attestazioni si rintracciano proprio in Sicilia e ad Arezzo (cf. LEI 7, 685; TLIO s.v. broccia).[52]
All’Italia mediana sembra invece riportare lo scandaglio linguistico dell’altro ricettario volgare della tradizione del Liber, l’«Anonimo Meridionale», testimone chiave nella ricostruzione federiciana. Analogamente a quanto fatto per il Toscano, si registrano di séguito soltanto alcuni fenomeni sparsi rintracciati nel testo, in attesa di uno studio sistematico: palatalizzazione (bascilico, moglica, scia, scì, etc.); oscuramento di -o- in -u- (brudo, capuni, maiurana, etc.); -gi- per [j] (interegiora ‘interiora’; descagia la grua ‘disossa la gru?’); trattamento di -nd- (serando ‘saranno’, fando ‘fanno’, etc.); uscita in -u negli articoli e nelle preposizioni articolate, con vari casi di «discrasia sintagmatica» (nellu texto, lu dicto brodo, lu fecato, etc.); assimilazione progressiva (callo, rescallare); tracce del neutro di materia (lo vino, lo pane, etc.). La totale assenza di forme con -u da -o latino, peculiari dell’area meridionale estrema, sembra dunque confutare l’etichetta di «Anonimo Meridionale», invalsa negli studi a far data dall’ed. Boström (1985).[53]
Se le nuove ipotesi di localizzazione fossero confermate, verrebbe così a delinearsi una compatta tradizione volgare tra Toscana e Italia mediana o, più precisamente, tra Toscana e Umbria che renderebbe ragione anche della presenza, seppure asistematica, di alcune preparazioni tipiche della zona, come si desume talvolta dalla stessa denominazione delle pietanze (salcicce d’Ascisi, tortelli assisiati, etc.),[54] talaltra dalla distribuzione geolinguistica delle forme (pacca, petrosello, ventello, etc.).[55] Non sarà, forse, un caso allora che l’unico autore esplicitamente richiamato nella tradizione del Liber – benché in una delle sue più tardive propaggini collaterali, il Liber coquinarum bonarum (cf. supra, §3) – sia proprio un medico di Assisi, di cui conosciamo soltanto l’iniziale («N. medicus de Assisio»).
Ci si può chiedere tuttavia – con Lucia Bertolini – se tale significativa ricollocazione della tradizione volgare in area mediana e toscana sud-orientale incida (e in che misura) sui fondamenti stessi dell’ipotesi federiciana, la quale, come abbiamo visto, legge in un’ottica sveva, tra la Sicilia e Napoli, l’intera operazione che ruota attorno al Liber.[56] Potrebbe infatti esserci il rischio che, con il venir meno della denominazione di «Anonimo Meridionale», si perda anche quell’elemento di suggestione che ha fatto credere finora ancor più verosimile l’idea dei «ricettari di Federico». Né, d’altra parte, si può eludere l’appello al concreto culinario da cui siamo partiti (cf. supra, p. 1056), e lasciare che la linguistica faccia premio sulla cucina,[57] dando maggior risalto alle informazioni desunte dai pochi codici superstiti rispetto a quanto invece ci dicono le ricette stesse, le vere protagoniste di questi testi, con la loro straordinaria ricchezza di elementi meridionali di plausibile ascendenza arabo-normanno-sveva.[58] Bisognerà dunque tentare di contemperare osservazioni più generali su origini e apparentamenti gastronomici con questioni puntuali circa le piste linguistiche suggerite dalle forme dei manoscritti, che possono contraddire o confermare apparenti connessioni e corrispondenze tra le ricette.
8 Il lessico dell’«Anonimo Toscano»: alcuni specimina
A corroborare l’ipotesi di una trafila tosco-mediana all’interno della tradizione del Liber intervengono varie lessie del «Toscano» particolarmente interessanti sotto il profilo geolinguistico.[59] Si consideri, p. es., il sintagma brodo apollocato. Come ha osservato Möhren (2016, 205: ‘che è fornito di pollo’), la voce rivela assonanze – «non si sa quanto casuali» (Carnevale Schianca 2011, 88) – con il nome dell’ingrediente principale della ricetta in cui compare; tuttavia, più che di polli, si tratta precisamente di un brodo di capponi: «De brodo dei caponi [...]. Togli caponi, e lessali; e quando siranno cotti con quelle spetie che tu vorrai, rompili in uno cattino con ova e brodo loro; e gita farina con mescola forata sopra i detti caponi rotti; e tutto questo si gitti nel bruodo, e bolla un poco; e chiamasi ‘brodo apollocato’» (Möhren 2016, 156). Si potrebbe allora leggere alternativamente – con Sada/Valente (1995, 105) – apollocato come appalloccato, da pallocca per pallotta, con riferimento alla consistenza granellosa conferita alla preparazione dalle uova e dalla farina, da confrontare con le seguenti forme mediane: umbro appalloccà ‘appallottolare’, laz. merid. appalloccà ‘arrotolare qualcosa; avvolgere il filo o lo spago’, umbro merid.-or. pallucca ‘fiocco, pompon’ e abr. occ. pallocca ‘palla di terra impastata con le mani’, etc. (cf. LEI 4,736 s.v. *bal(l)). L’interpretazione è accolta, seppure con formula dubitativa, nelle note del TLIO, dove la voce figura come hapax.
Altro hapax in italiano antico è la forma pacca (de l’ova), che compare nel ricettario toscano come corrispondente dell’espressione latina albedines ovorum ‘bianco delle uova’:
Per singula octo ova distempera unum ovum crudum. Hoc facto, de isto sapore imple albedines ovorum | Per ciascuno otto ova, distempera uno ovo crudo; e, fatto questo, d’esso savore empi le pacche de l’ova |
(A) | Möhren (2016, 182) |
La forma pacche, di circolazione centro-meridionale,[60] potrebbe essere significativamente ricondotta a quella schiera di voci d’ambito concreto e domestico come l’umbro paccone ‘grande porzione di lardo di maiale’ (cf. DEI; REW 6153; TLIO) – attestato nel solo Jacopone da Todi («Iace, iace en esta stia / como porco de grassia! / Lo Natal non trovaria / chi de me lieve paccone») – e l’inglese bacon, riconducibili rispettivamente alla base longobarda *pakko e a quella francone *bako (basi che, peraltro, interagiscono fra loro: cf. LEI-Germanismi 1,104 s.v. long. *pakko ‘guancia’):
«La voce è del basso francone antico e medio bacon ‘fetta di carne di maiale, lardo’ (attestato nel XIII secolo e da cui l’anglonormanno bacoun) e se ne hanno varie testimonianze nel latino medievale (siciliano del 1185, piemontese del 1295 e come soprannome nel genovese del XIII secolo baconus ‘lardone’ e infine come soprannome nel trevigiano del Cinquecento, baccone ‘porco’), eppure il germanismo tace nei volgari italiani antichi e nell’italiano fino alla testimonianza, molto tarda, primo novecentesca nella Piccola Enciclopedia Hoepli di Garollo del 1913, di bacon porco salato, che però si riaffaccia come prestito dall’inglese» (Lubello 2020, 63).[61]
Nell’ambito dunque di una storia complessa, ancora tutta da decifrare, i lessemi pacca/paccone potrebbero costituire una significativa riemersione del longobardismo nei volgari italiani antichi, con consistente retrodatazione rispetto alla testimonianza tarda della Piccola Enciclopedia Hoepli. Rimane però particolarmente oscura l’attinenza di pacca con albedines (ovorum).
Semanticamente complementare a pacca è la forma ventello ‘tuorlo dell’uovo’ (TLIO), dal lat. vitellum (Faré 9387); la forma nasalizzata sembra riportare nuovamente ad area umbra: oltre al nostro Libro de la cocina (ricetta della salsa di finocchio: «Togli fiori di finocchio, e pesta nel mortaio; ponli del zaffarano, noce moscada, garofani, cardamone, ventello d’ovo, e distempera con lo zaffarano»),[62] l’unica altra attestazione negli antichi volgari si rintraccia infatti nel Glossario latino-eugubino (100: «Hic vitellus, lj lo ventello»).
8 Conclusioni
Malgrado i nuovi percorsi critici qui raccolti, frutto dell’incrocio di attenzioni filologiche, paleografiche e linguistiche, rimangono certamente alcune questioni aperte su punti di grande rilievo per la conoscenza della più antica tradizione di ricettari d’area italiana: il vaglio della suggestiva ipotesi che vede il progetto culinario del Liber come costruzione parallela alla lingua letteraria, nello stesso milieu culturale della Sicilia federiciana; la verifica delle nuove proposte di localizzazione geolinguistica; l’accertamento dei rapporti tra i due codici parigini e delle più generali dinamiche di rielaborazione (dal volgare al latino); l’allestimento di un regesto esaustivo dei gallicismi o normannismi siciliani d’ambito alimentare e culinario, con indicazione delle eventuali retrodatazioni attraverso il latino medioevale;[63] il confronto, necessario, con la tradizione dei «XII commensali». Nel prosieguo delle indagini, si tenterà di riesaminare questi e altri nodi problematici accogliendo l’invito di Massimo Montanari a «uscire» dal testo per «entrare» nel contesto socioculturale che lo ha espresso, proiettando dunque le varie ipotesi stratigrafiche sul concreto dato extralinguistico.[64] La sfida della nostra ricerca sarà allora quella di saldare e ricomporre sul piano cronologico e geolinguistico un panorama così sfrangiato in un discorso unitario e complessivo.
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Vàrvaro, Alberto, Problematica dei normannismi del Siciliano, in: Atti del Congresso Internazionale di studi sulla Sicilia Normanna (Palermo 4–8 dicembre 1972), Palermo, Istituto di Storia Medievale dell’Università, 1974, 360–372.Search in Google Scholar
© 2022 Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston
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Articles in the same Issue
- Frontmatter
- Frontmatter
- Thematischer Teil
- Prefazione
- Aspetti testuali e problemi linguistici (di datazione e localizzazione) dell’antica lingua del cibo
- I ricettari federiciani: appunti di lavoro
- Aggiornamenti sulla lingua dei Banchetti di Cristoforo Messi Sbugo
- Il ricettario della Santissima Annunziata di Firenze
- Il cuoco reale e cittadino (1724): un ricettario tradotto e integrato
- Ricettari regionali e lessico gastronomico napoletano d’età borbonica
- La cucina delle parole
- Aufsatz
- Zur Subversion des höfischen Liebesdiskurses: Christine de Pizans Cent Ballades d’amant et de dame (1409–1410) zwischen Erotik, Misogynie und marienhafter Selbstinszenierung
- Variantes d’éditeurs et évolution syntaxique au XVIe siècle
- De la V1 à la V2 de la Cité des dames de Christine de Pizan : étude de quelques révisions linguistiques
- The Latin adverb ĭnde and the syntactic functions of the pronoun en from Archaic Catalan to Modern Valencian: Grammaticalisation and linguistic change
- Miszellen
- Fr. pochard adj./s.m. ‘ivrogne’ : étymologie et histoire
- « Mon cors stracoruza » : une note lexicale franco-italienne
- It. mosciame ‘filetto di tonno essiccato e salatoʼ
- Besprechungen
- Eugenio Coseriu, Geschichte der romanischen Sprachwissenschaft, vol. 3: Das 17. und 18. Jahrhundert, Teil 1: Italien – Spanien – Portugal – Katalonien – Frankreich, bearbeitet und herausgegeben von Wolf Dietrich, Tübingen, Narr Francke Attempto, 2021, 660 S.
- Sabine Lange-Mauriège, Die Pilgerfahrt des träumenden Mönchs. Entstehungsgeschichte und kulturhistorische Verortung der Kölner Übersetzung des «Pèlerinage de vie humaine», Köln, Erzbischöfliche Diözesan- und Dombibliothek mit Bibliothek St. Albertus Magnus, 2021, XIV + 421 p.
- Claude Buridant, Grammaire du français médiéval (XIe–XIVe siècles), Strasbourg, Société de Linguistique Romane / ELiPhi, 2019, XXIV + 1173 p.
- Thibaut Radomme, Le Privilège des Livres. Bilinguisme et concurrence culturelle dans le « Roman de Fauvel » remanié et dans les gloses au premier livre de l’« Ovide moralisé » (Publications Romanes et Françaises), Genève, Droz, 2021, 903 p.
- Vincent Balnat, L’appellativisation du prénom. Étude contrastive allemand-français, Tübingen, Narr/Francke/Attempto, 2018, XI + 286 p.
- Antje Lobin / Eva-Tabea Meinke (edd.), Handbuch Italienisch. Sprache – Literatur – Kultur. Für Studium und Praxis, Berlin, Erich Schmidt Verlag, 2021, XIV + 691 p.
- Nuove prospettive sul lombardo antico. Atti del convegno internazionale, Roma, 14–15 novembre 2019, a cura di Elisa De Roberto e Raymund Wilhelm. Con la collaborazione di Lisa Struckl, Heidelberg, Universitätsverlag Winter, 2022, 200 p.
- Kurzbesprechungen
- Eugenio Coseriu, Geschichte der romanischen Sprachwissenschaft, vol. 4: Das 17. und 18. Jahrhundert, Teil 2: «Provenzalisch» – Rumänisch – Rätoromanisch – England – Deutschland – historisch-vergleichende Romanistik – Raynouard – Schlegel, bearbeitet und herausgegeben von Wolf Dietrich, Tübingen, Narr Francke Attempto, 2022, 310 S.
- Kurzbesprechungen
- Peter Haidu, The “Philomena” of Chrétien the Jew. The semiotics of evil, edited by Matilda Tomaryn Bruckner, Oxford, Legenda, 2020, 170 p.
- Francisco Pedro Pla Colomer / Santiago Vicente Llavata, La materia de Troya en la Edad Media hispánica. Historia textual y codificación fraseológica, Madrid/Frankfurt am Main, Iberoamericana-Vervuert, 2020, 278 p.
- L’«Inferno» di Claudio Sacchi, Firenze, Olschki, 2021, 87 p.
- «Nel lago del cor». Letture dantesche all’Università della Svizzera italiana (2012–2016), a cura di Stefano Prandi, Firenze, Olschki, 2021, 273 p.
- Karlheinz Stierle, Dante-Studien, Heidelberg, Winter, 2021, 295 p.
- Matteo Maria Boiardo, Asino d’oro (da Apuleio), a cura di Matteo Favaretto, Novara, Centro Studi Matteo Maria Boiardo-Interlinea, 2021
- Tiziana Plebani (ed.), Il testamento di Marco Polo. Il documento, la storia, il contesto, Milano, Edizioni Unicopli, 2019, 201 p.
- Nachruf
- Christian Schmitt (27. März 1944–4. September 2022)
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- Prefazione
- Aspetti testuali e problemi linguistici (di datazione e localizzazione) dell’antica lingua del cibo
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- Aggiornamenti sulla lingua dei Banchetti di Cristoforo Messi Sbugo
- Il ricettario della Santissima Annunziata di Firenze
- Il cuoco reale e cittadino (1724): un ricettario tradotto e integrato
- Ricettari regionali e lessico gastronomico napoletano d’età borbonica
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- De la V1 à la V2 de la Cité des dames de Christine de Pizan : étude de quelques révisions linguistiques
- The Latin adverb ĭnde and the syntactic functions of the pronoun en from Archaic Catalan to Modern Valencian: Grammaticalisation and linguistic change
- Miszellen
- Fr. pochard adj./s.m. ‘ivrogne’ : étymologie et histoire
- « Mon cors stracoruza » : une note lexicale franco-italienne
- It. mosciame ‘filetto di tonno essiccato e salatoʼ
- Besprechungen
- Eugenio Coseriu, Geschichte der romanischen Sprachwissenschaft, vol. 3: Das 17. und 18. Jahrhundert, Teil 1: Italien – Spanien – Portugal – Katalonien – Frankreich, bearbeitet und herausgegeben von Wolf Dietrich, Tübingen, Narr Francke Attempto, 2021, 660 S.
- Sabine Lange-Mauriège, Die Pilgerfahrt des träumenden Mönchs. Entstehungsgeschichte und kulturhistorische Verortung der Kölner Übersetzung des «Pèlerinage de vie humaine», Köln, Erzbischöfliche Diözesan- und Dombibliothek mit Bibliothek St. Albertus Magnus, 2021, XIV + 421 p.
- Claude Buridant, Grammaire du français médiéval (XIe–XIVe siècles), Strasbourg, Société de Linguistique Romane / ELiPhi, 2019, XXIV + 1173 p.
- Thibaut Radomme, Le Privilège des Livres. Bilinguisme et concurrence culturelle dans le « Roman de Fauvel » remanié et dans les gloses au premier livre de l’« Ovide moralisé » (Publications Romanes et Françaises), Genève, Droz, 2021, 903 p.
- Vincent Balnat, L’appellativisation du prénom. Étude contrastive allemand-français, Tübingen, Narr/Francke/Attempto, 2018, XI + 286 p.
- Antje Lobin / Eva-Tabea Meinke (edd.), Handbuch Italienisch. Sprache – Literatur – Kultur. Für Studium und Praxis, Berlin, Erich Schmidt Verlag, 2021, XIV + 691 p.
- Nuove prospettive sul lombardo antico. Atti del convegno internazionale, Roma, 14–15 novembre 2019, a cura di Elisa De Roberto e Raymund Wilhelm. Con la collaborazione di Lisa Struckl, Heidelberg, Universitätsverlag Winter, 2022, 200 p.
- Kurzbesprechungen
- Eugenio Coseriu, Geschichte der romanischen Sprachwissenschaft, vol. 4: Das 17. und 18. Jahrhundert, Teil 2: «Provenzalisch» – Rumänisch – Rätoromanisch – England – Deutschland – historisch-vergleichende Romanistik – Raynouard – Schlegel, bearbeitet und herausgegeben von Wolf Dietrich, Tübingen, Narr Francke Attempto, 2022, 310 S.
- Kurzbesprechungen
- Peter Haidu, The “Philomena” of Chrétien the Jew. The semiotics of evil, edited by Matilda Tomaryn Bruckner, Oxford, Legenda, 2020, 170 p.
- Francisco Pedro Pla Colomer / Santiago Vicente Llavata, La materia de Troya en la Edad Media hispánica. Historia textual y codificación fraseológica, Madrid/Frankfurt am Main, Iberoamericana-Vervuert, 2020, 278 p.
- L’«Inferno» di Claudio Sacchi, Firenze, Olschki, 2021, 87 p.
- «Nel lago del cor». Letture dantesche all’Università della Svizzera italiana (2012–2016), a cura di Stefano Prandi, Firenze, Olschki, 2021, 273 p.
- Karlheinz Stierle, Dante-Studien, Heidelberg, Winter, 2021, 295 p.
- Matteo Maria Boiardo, Asino d’oro (da Apuleio), a cura di Matteo Favaretto, Novara, Centro Studi Matteo Maria Boiardo-Interlinea, 2021
- Tiziana Plebani (ed.), Il testamento di Marco Polo. Il documento, la storia, il contesto, Milano, Edizioni Unicopli, 2019, 201 p.
- Nachruf
- Christian Schmitt (27. März 1944–4. September 2022)