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Come lavorava Lucano? Su possibili varianti d’autore nel Bellum civile

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Veröffentlicht/Copyright: 12. Juni 2024
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Abstract

That authorial variants survive in the transmission of the works of Lucan is a hypothesis legitimated by some objective data, yet the problem has been given very little attention in research since the important discussion by Fraenkel (1926). The present paper offers an analysis of the question that starts from the cases already identified and discussed by Fraenkel, adding some examples newly identified here. In particular, the goal is not to discuss single cases evaluated separately, but rather to examine the distribution of suspected variants in coherent macro-systems, the shared ratio of which could offer a plausible way of establishing an authorial intervention. In their turn, the systems of variants proposed and discussed here allow us to advance hypotheses about Lucan’s compositional method.

Nel recensire il capitale Lucano di Housman (Oxford 1926), Eduard Fraenkel non poteva fare a meno di rilevarne un limite: l’attenzione quasi inesistente per le varianti antiche, come anche per l’assetto testuale dei primi testimoni dell’opera.[1] Né si può dire che, a quasi un secolo di distanza, la tendenza si sia invertita: pochissimi, dopo la recensione, i contributi dedicati anche solo parzialmente alla possibile presenza di tracce antiche – o d’autore – nei manoscritti dell’opera lucanea.[2]

Eppure il problema c’è, ed è legato in modo particolare a un fenomeno descritto con precisione dallo stesso Fraenkel: la presenza, nei testimoni del Bellum civile, di versi o blocchetti di versi che giudicheremmo, in base allo stile, autentici, ma che non sempre paiono bene adattarsi al contesto in cui sono trasmessi; in più, i codici tendono a restituirli in maniera discontinua.[3] Dal momento che, nel caso del Bellum civile, l’incompiutezza dell’opera è come minimo probabile,[4] nulla può farci escludere con sicurezza che si tratti, almeno in parte, di versi autentici, confluiti disordinatamente in tradizione in quanto traccia di un lavoro che era ancora in fieri quando i manoscritti dell’opera, che verosimilmente documentavano una redazione in larga parte provvisoria e probabilmente corredata di annotazioni a margine e segni diacritici, finirono in mano a copisti e antichi editori.

Scopo delle prossime pagine è l’analisi di alcuni casi significativi, scelti in parte tra gli esempi già segnalati da Fraenkel e in parte selezionati ex novo, nel tentativo di stabilire se sia possibile giustificarli in modo plausibile come tracce del lavoro del poeta sui propri versi. La pretesa non è certo quella di fornire una rassegna completa, quanto piuttosto di gettare, provvisoriamente, le basi per quel contributo critico davvero adeguato al problema di cui già il filologo tedesco si augurava la realizzazione.[5] In particolare, ci proponiamo di raggruppare i possibili interventi autoriali, che Fraenkel esaminava singolarmente, in gruppi di varianti caratterizzati da una ratio condivisa: è evidente che individuare, nella tradizione del Bellum civile, tracce di veri e propri sistemi compositivi (o correttorii), piuttosto che singoli interventi isolati, può forse facilitare la riflessione sull’effettiva possibilità che si tratti di varianti dovute all’autore.

Prima di iniziare la nostra rassegna, è opportuno un breve riepilogo dei dati di trasmissione.[6] Innanzitutto: coerentemente con il successo che l’opera di Lucano riscosse fin dall’antichità, è assai elevata la mole dei testimoni manoscritti, che sono più di 400 tra copie complete e parziali. I principali testimoni medievali sono dodici,[7] ma la ricostruzione del testo dipende in modo particolare da sei tra questi: ZMPGUV (si veda la n. 7 per lo scioglimento dei sigla); di questi, MPU vengono di norma ricondotti, sulla base della sottoscrizione che riportano, alla cosiddetta recensio Paulina, che risalirebbe al 674 d.C.[8] Impossibile tracciare uno stemma:[9] l’assetto del testo fu evidentemente assai disordinato fin dalle prime fasi, verosimilmente anche a causa dello stato di incompiutezza in cui l’autore, morendo, lasciò l’opera; già i codici più antichi, due palinsesti frammentari databili al IV-V sec. (N), sembrano dipendere da un archetipo con varianti.[10] Tra i problemi maggiori c’è proprio quello dei versi intermittenti di stile lucaneo che, come si è visto, Fraenkel riconduceva almeno in parte a possibili modifiche, ripensamenti, tagli o aggiunte dovute all’autore.

Iniziamo, dunque, il nostro tentativo di analisi per sistemi. Una categoria interessante da cui partire è quella dei ‘doppioni’: coppie di versi o di distici che i manoscritti riportano, in modo intermittente, alla stessa altezza, che esprimono con parole diverse lo stesso concetto escludendosi a vicenda o che, semplicemente, risultano in evidente contrasto.

L’esempio di 6.554–557 veniva ricordato già da Fraenkel (1926) 523–524 = (1964) 298–299. Lucano sta descrivendo le modalità con cui la maga Eritto si procura i cadaveri necessari ai riti:

nec cessant a caede manus, si sanguine vivo

est opus, erumpat iugulo qui primus aperto; 555

nec refugit caedes, vivum si sacra cruorem

extaque funereae poscunt trepidantia mensae.

Il v. 556 manca totalmente nei vetustissimi di IV e V secolo;[11]G lo riporta dopo 557. Varie le soluzioni degli editori: de Groot (1614) giudicò inautentici i vv. 556–557; Kortte (1828–18292) i vv. 554–555; Housman (1926) espunse il solo v. 556, che giudicava inserito da un interpolatore con lo scopo di sostituire 554, la cui sintassi sarebbe rimasta in sospeso dopo la caduta di 555 “ob homoearchon est ext” con 557; si accorda con quest’ultimo Shackleton Bailey (1988), mentre Badalì (1992) non intervenne in modo alcuno.[12]

È evidente che un guasto di trasmissione e/o la parafrasi volontaria di un interpolatore non si possono escludere a priori; ma converrà riconoscere che, come già osservato da Fraenkel e Pasquali, si tratta di coppie lucanee nello stile, perfettamente equivalenti sul piano contenutistico.[13] Il fatto che i vv. 556–557 siano trasmessi in modo discontinuo si può forse spiegare immaginando che nelle copie più antiche i due versi fossero trascritti a margine e/o corredati da segni diacritici; ciò avrebbe comportato l’omissione da parte di taluni copisti. Preso singolarmente, comunque, il caso appare arduo da valutare: tentiamo, dunque, di ampliare lo sguardo e di individuarne di simili.

Un altro esempio significativo già ampiamente discusso dagli studiosi è quello di 7.818–824. Il blocchetto di versi chiude una lunga apostrofe a Cesare, che si sta allontanando dal campo di Farsalo:

libera fortunae mors est; capit omnia tellus

quae genuit; caelo tegitur qui non habet urnam.

tu, cui dant poenas inhumato funere gentes, 820

quid fugis hanc cladem? quid olentis deseris agros?

has trahe, Caesar, aquas, hoc, si potes, utere caelo.

sed tibi tabentes populi Pharsalica rura

eripiunt camposque tenent victore fugato.

I vv. 820–822 sono registrati esclusivamente da G e Z2, e risultano per lo più ignorati dagli scholia;[14] Hosius li espunse. Si tratta, però, di versi dal “tipico color lucaneo, e nel contenuto, e nello stile”,[15] oltre che necessari alla comprensione di ciò che segue;[16] ma si tratta anche di versi impossibili da mantenere, almeno nel punto in cui sono tràditi, perché due domande retoriche tanto nette risultano totalmente fuori contesto rispetto alla solenne chiusa del distico precedente.

Insomma: i distici 818–819 e 820–821 risultano in contrasto non tanto perché, come nel caso esaminato in precedenza, esprimono esattamente il medesimo concetto, quanto perché comportano, se recepiti entrambi, un cambiamento eccessivamente brusco nel tono e nello scopo dell’apostrofe.

Si è detto che il caso fu esaminato sia da Fraenkel (1926) 522–523 = (1964) 296–298 che da Pasquali (19522) 433–434: vista la situazione dei testimoni manoscritti, entrambi gli studiosi giunsero alla conclusione che tutti e cinque i vv. 820–825 fossero senz’altro autentici, e che Lucano non avesse fatto in tempo a saldarli, dal punto di vista stilistico, a quanto precedeva; il segno diacritico che in origine contrassegnava l’intero blocco sarebbe stato erroneamente riferito dai copisti solo ai primi tre. A noi interessa aggiungere che, come nel caso precedente, ci troviamo di fronte a due versioni del testo che danno l’impressione di essere, l’una rispetto all’altra, alternative.

Ci pare che si possa assimilare a questi il caso di 7.151–157. Il poeta sta descrivendo i sinistri presagi naturali che accompagnano il fatidico scontro a Farsalo:

non tamen abstinuit venturos prodere casus

per varias Fortuna notas. nam Thessala rura

cum peterent, totus venientibus obstitit aether

inque oculis hominum fregerunt fulmina nubes

adversasque faces inmensoque igne columnas 155

et trabibus mixtis avidos typhonas aquarum

detulit atque oculos ingesto fulgure clausit.

Il v. 154 è omesso in ZMP e non interpretato dai Commenta Bernensia e dalle Adnotationes; già Kortte (1828–18292) ad loc. e Bentley (1760) ad loc. lo consideravano superfluo, dal momento che il medesimo concetto viene espresso, in forma stilisticamente più raffinata, dal v. 157; senza dire che, posizionato dove lo trasmettono i codici, interromperebbe una serie di coordinate col medesimo soggetto (aether).[17] Eppure si tratta di un verso non soltanto adeguato, ma anche caratterizzato da una certa ricercatezza stilistica.[18] Vero è che resta impossibile, a livello di constitutio textus, mantenerlo all’altezza in cui è trasmesso; ci limitiamo a rilevare che, come negli altri casi esaminati supra, esso costituisce, a suo modo, un ‘doppione’; e che, viste le caratteristiche stilistiche e quelle di tradizione, nulla vieta di ipotizzare che possa trattarsi di un doppione d’autore.[19]

Si potrebbe aggiungere ancora il caso di 5.230–236, preso in esame dal solo Fraenkel (1926) 524–525 = (1964) 300. Il contesto è l’episodio della consultazione dell’oracolo di Delfi da parte di Appio Claudio, cui il poeta si rivolge qui direttamente:

secreta tenebis 230

litoris Euboici memorando condite busto,

qua maris angustat fauces saxosa Carystos

et, tumidis infesta colit quae numina, Rhamnus,

artatus rapido fervet qua gurgite pontus

Euripusque trahit, cursum mutantibus undis, 235

Chalcidicas puppes ad iniquam classibus Aulin.

È evidente, anche in questo caso, l’articolazione parallela – e necessariamente alternativa – dei due gruppi di versi 232–233 e 234–236, poiché entrambi spiegano, in modo equivalente, la notazione geografica litoris Euboici (v. 231); ed è altrettanto evidente la piena accettabilità, sul piano stilistico, di entrambe le versioni.[20] La differenza sostanziale rispetto agli esempi riportati supra è che il blocco viene riportato in maniera continua e concorde dalla tradizione manoscritta. Certo non si può escludere che la ripetizione fosse voluta: ma un’altra possibilità da tenere in considerazione è che si tratti ancora una volta di doppioni dovuti al lavorio di Lucano, in questo caso confluiti indenni in tradizione perché i segni diacritici che dovevano segnalarli, se presenti nel modello, furono dimenticati, fraintesi o ignorati.

Fin qui abbiamo esaminato versi che hanno tutta l’aria di rappresentare, per ragioni formali e contenutistiche, due versioni alternative dello stesso passo; versioni che nel testo risultano, proprio perché ripetitive o in opposizione l’una rispetto all’altra, incompatibili. Lo stile è lucaneo; in tutti i casi trattati tranne uno, la trasmissione è in varia misura accidentata dall’omissione in due o più testimoni. Presi singolarmente, sono casi che richiedono al critico una precisa scelta: e si è visto come, in effetti, gli editori del testo di Lucano si siano regolarmente espressi contro una delle due versioni – quella peggio attestata nei testimoni, o peggio integrata nel contesto. In un caso (5.230–236), entrambi i doppioni sono sopravvissuti indenni in tradizione: il dato può portarci a concludere che ulteriori esempi della categoria andrebbero eventualmente ricercati badando all’equivalenza o alla reciproca esclusione più che all’assenza dei versi in questo o quel codice.[21]

Gli esempi che abbiamo esaminato – che implicano, lo ribadiamo, una scelta editoriale a livello di constitutio textus –, se considerati nel loro complesso, come sistema, potrebbero essere l’indizio significativo di una precisa modalità compositiva. La loro presenza in tradizione potrebbe infatti suggerire che la stesura di Lucano procedesse, tra l’altro, per accumulo di versioni alternative; in altre parole, il poeta non rinunciava, se necessario, a esprimere lo stesso concetto con perifrasi caratterizzate da scelte stilistiche, lessicali e contenutistiche differenti, tra cui si riservava, in sede di revisione, di selezionare la più efficace.

L’idea della composizione per accumulo parrebbe incoraggiata da una seconda categoria di varianti. Anche in questo caso siamo di fronte a versi o blocchetti di versi di stile lucaneo che i codici trasmettono in modo intermittente; ma più che a doppioni, qui l’impressione è quella di trovarsi davanti a piccole aggiunte, o espansioni del discorso, che hanno sul testo effetti variabili.

Vediamone subito un paio di esempi, e iniziamo da 7.792–799, già individuato e discusso da Fraenkel (1926) 522 = (1964) 297. Farsalo, dopo lo scontro; Cesare fa preparare una mensa davanti al campo di battaglia, in modo da poter vedere i cadaveri dei nemici durante il banchetto:

epulisque paratur

ille locus, voltus ex quo faciesque iacentum

agnoscat. iuvat Emathiam non cernere terram

et lustrare oculis campos sub clade latentes. 795

fortunam superosque suos in sanguine cernit.

ac, ne laeta furens scelerum spectacula perdat,

invidet igne rogi miseris caeloque nocenti

ingerit Emathiam.

7.796, presente nel solo codice V, risulta aggiunto da manus alterae in MZUG; Hosius, ancora una volta, espunge. Il verso, definito già da Housman “Lucano dignus et sententiae accomodatus”,[22] è stato difeso da Narducci, secondo cui a questo verso e a 7.786–793 alluderebbe direttamente un passo di Tacito,[23] e, più di recente, da Lanzarone, che ha rilevato l’aggiunta di un dettaglio legato a un tema importante, ovvero il favore degli dèi nei confronti di Cesare.[24]

A prescindere dalla discussione sull’opportunità di mantenere o meno il verso nella posizione in cui è tràdito – contro cui si pronunciava, peraltro, lo stesso Fraenkel[25] –, ciò che importa rilevare è il suo carattere di aggiunta, e, più nello specifico, di aggiunta che implica un affondo nella psicologia del personaggio. Dal v. 796, infatti, apprendiamo non soltanto che Cesare gode alla vista dei cadaveri che affollano il campo di battaglia, ma anche che interpreta con soddisfazione il suo successo come una prova della benevolenza degli dèi nei suoi confronti.[26]

Ci pare forse anche più significativo un caso ulteriore, che precede di una manciata di versi quello appena esaminato. Terminato con successo lo scontro, Cesare invita i suoi al saccheggio dell’accampamento nemico (7.746–750):

sic milite iusso

impulit amentes aurique cupidine caecos

ire super gladios supraque cadavera patrum

et caesos calcare duces. quae fossa, quis agger

sustineat pretium belli scelerumque petentis? 750

Il v. 747 (impulit amentes etc.) manca nella maggior parte dei testimoni manoscritti: lo riportano solo GZ2. Non basta: al v. immediatamente precedente, la pericope sic milite iusso, preferita dalla maggior parte degli editori, è solo in una parte dei testimoni (MPZG, oltre ai Commenta Bernensia); UVZ2 la sostituiscono con nec plura locutus. Anche per questo caso sono varie le soluzioni degli editori: se Hosius decise di espungere solo il v. 746 e Bourgery il 747, Housman cancellò l’intero blocco che va da 746 sic a 749 duces, sostenendo che la pericope non soltanto non arricchisce in nessun modo il passo, ma anzi lo guasta.[27]

Una discussione approfondita del caso si deve a Perrotta, il primo a rilevare esplicitamente un dato fondamentale: “mentre la variante nec plura locutus non solo ammette, ma richiede dopo di sé il v. 747 inpulit amentes aurique cupidine caecos, la variante sic milite iusso esclude dopo di sé il v. 747” (Perrotta 1965, 8). In altre parole: siamo di fronte a tracce di interventi solidali sul testo, che come tali vanno accettati o respinti in blocco. Da parte sua, Perrotta giudicò senz’altro autentico il v. 747, e con esso l’emistichio nec plura locutus, sulla base di una serrata analisi stilistica, metrica e contenutistica, di cui riportiamo rapidamente gli argomenti principali: le sette attestazioni, nel poema, della formula nec (o non) plura locutus, con variazioni minime, nella stessa posizione di verso (2.490; 4.544; 5.593; 7.329, vix cuncta locuto; 382, tam maesta locuti; 615; 8.453); l’impiego di inpulit in otto casi ulteriori, di cui cinque nel primo piede (1.575; 4.35; 5.146; 8.454, peraltro preceduto da non plura locutus; 9.40); la presenza della clausola cupidine caecos anche in 1.87 (ma anche quella dell’accostamento tra i due aggettivi amens e caecus in 10.146); il largo uso lucaneo di sequenze allitteranti (nel medesimo libro, cfr. ad es. 7.469; 805; 864).

Se, da un lato, l’autenticità del passo risulta in effetti fortemente sostenuta dagli argomenti di Perrotta,[28] occorre segnalare che lo studioso si pronunciava con altrettanta decisione contro l’ipotesi di una variante d’autore: sic milite iusso sarebbe, come già per Housman, una zeppa penetrata nel testo dopo la caduta di 747, “una ricucitura fatta alla meglio, per salvare senso e costruzione” (Perrotta 1965, 17): ma a favore di questa variante potremmo rilevare, oltre al diffuso impiego, da parte di Lucano, di analoghi sic ‘riassuntivi’,[29] la presenza del medesimo participio nella stessa sede anche in 1.339, 4.802 e 8.575, e la somiglianza, rilevata dallo stesso Perrotta (ibid.), con la clausola di esametro milite multo (4.254). Né paiono chiare le dinamiche per cui la presunta zeppa, generata dalla caduta del verso, sarebbe confluita solo in una parte dei testimoni manoscritti, tra cui G, che riporta regolarmente il v. 747: occorre ipotizzare che le varianti, oltre a essere entrambe assai antiche, siano sopravvissute congiuntamente perché una delle due era annotata a margine dell’antico modello (che però conservava anche 7.747, se il verso è sopravvissuto in G ed è stato aggiunto dalla seconda mano di Z2); e che i copisti abbiano poi scelto tra l’una e l’altra versione senza preoccuparsi troppo della coerenza del testo (nec plura locutus figura anche in UV, testimoni in cui manca il v. 747).

Si noti che l’ipotesi di una variante d’autore, per quel che concerne questo passo, è già stata avanzata – seppure timidamente – da più voci: così già de Groot (1614) ad loc. e Francken (1896–1897) ad loc. e così, più di recente, Luck (1969) 280; (1985) ad loc. ed Ehlers (19782) 544. Resta ovviamente arduo esprimersi con sicurezza sul caso: ma ci pare di poter aggiungere alcune riflessioni ulteriori. Dal punto di vista concettuale, quel che differenzia le due versioni del testo è lo sguardo sull’interiorità dei soldati, come giustamente osservato dallo stesso Perrotta: “il tono del discorso di Cesare diventa tanto più verosimile psicologicamente se gli uditori folli sono accecati dalla cupidigia” (Perrotta 1965, 13). Il dato, che di per sé rende piuttosto arduo attribuire l’espansione a un interpolatore, diventa anche più significativo se messo a sistema con esempi di aggiunte analoghe,[30] come quello discusso supra, poiché proverebbe che qualcuno intervenne in più punti del testo allo scopo di approfondire la psicologia di questo o quel personaggio; impossibile escludere che si trattasse di un editore, di un copista o di un interpolatore, ma è forse più verosimile che si trattasse dell’autore stesso.[31]

Passiamo ora all’ultima categoria di varianti – e, dunque, all’ultimo possibile residuo di sistema compositivo. L’esempio di 5.805–810 era già il punto di partenza della discussione di Fraenkel (1926) 520 = (1964) 295 (ma cfr. anche Luck 1969, 266–267; 1985, ad loc.). Il poeta si rivolge direttamente a Cornelia, moglie di Pompeo, analizzandone lo stato d’animo al momento della separazione dal marito:

quae nox tibi proxima venit 805

insomnis; viduo tum primum frigida lecto

atque insueta quies uni nudumque marito

non haerente latus. somno quam saepe gravata

deceptis vacuum manibus conplexa cubile est

atque oblita fugae quaesivit nocte maritum. 810

L’ultimo verso manca in due tra i testimoni principali, ovvero ZM. Fraenkel, che imputava il dato alla presenza, negli esemplari a monte della tradizione, di un segno diacritico a margine, metteva in evidenza un punto di importanza non secondaria: 5.810 richiama da vicino un verso delle Troades senecane (459, oblita nati misera quaesivi Hectorem). Se di aggiunta lucanea si trattò, in questo caso la ratio si individua con facilità: lavorando al passo, il poeta volle impreziosirlo con un’allusione a un verso del celebre zio.

Ci pare che il quadro tracciato da Fraenkel possa essere arricchito. Il passo appena preso in considerazione segue di poco il racconto del commiato doloroso tra i due coniugi; così i vv. 5.795–797:

praecipitantque suos luctus, neuterque recedens

sustinuit dixisse vale, vitamque per omnem

nulla fuit tam maesta dies.

La porzione di testo compresa tra neuterque e vale è presente nei soliti GV, e fu pertanto espunta da Kortte (1828–18292), Hosius (19133), Bourgery (19623). Housman, da parte sua, difese il verso, affermando con ragionevole sicurezza: “interpolandi causa nulla apparet”.[32]

Piuttosto che pensare alla caduta del nesso, avvenuta in maniera indipendente nei testimoni che non lo riportano (così Housman; cfr. n. 32), è forse più economico ipotizzare che si trattasse di un’espansione annotata a margine e/o corredata da segni diacritici; e può essere interessante notare che si tratterebbe, come nel caso del v. 810, di un’espansione che prevede l’inserimento di un nesso allusivo, che ricorda ben due passi ovidiani (Her. 5.52, quam vix sustinuit dicere lingua ‘vale’; 13.14, vix illud potui dicere triste ‘vale’).[33]

L’episodio del commiato tra Pompeo e la moglie Cornelia, dalla forte carica patetica, è significativamente collocato alla fine del quinto libro e prepara il terreno alle cupe narrazioni degli eventi di guerra; è pertanto verosimile che Lucano avesse deciso di dedicargli cure particolari. Forse, parte del suo lavoro attorno a questi versi ha lasciato traccia nei casi appena discussi: i due esempi segnalerebbero la volontà, da parte del poeta, di arricchire il passo con allusioni a precedenti illustri.[34]

Un ultimo esempio, meno ovvio ma comunque riconducibile al medesimo ipotetico sistema compositivo. Il principio del libro 4 è dedicato al racconto della battaglia di Ilerda; segue una lunga digressione sui fenomeni atmosferici che avrebbero portato all’inondazione del Segre e all’isolamento dell’accampamento dei cesariani (vv. 76–78):

iamque polo pressae largos densantur in imbres,

spissataeque fluunt: nec servant fulmina flammas,

quamvis crebra micent: exstinguunt fulgura nimbi.

L’ultimo verso del blocchetto, 4.78, è presente nei soli codici GU (ma aggiunto da manus altera in VM), peraltro con varianti: exstinguunt ... nimbi in GM2, stampata, tra gli altri, da Housman (1926), Shackleton Bailey (1988), Badalì (1992); exstinguit ... nimbus in UV2G2, che è versione scelta da Hosius (19133), che comunque espunge; in pochi testimoni secondari (FDL) moriuntur ... nimbis, che è la lezione scelta da Kortte (1828–18292). Espunsero il verso de Groot (1614), Bourgery (19622) e, come si è detto, Hosius.

La situazione dei testimoni lascia intendere che molto probabilmente si trattava, già nei modelli antichi, di un verso di collocazione e assetto incerti. Housman (1926) ad loc. riteneva che potesse essere caduto a causa della somiglianza tra fulmina e fulgura: possibile, ma è strano che il fenomeno si sia verificato indipendentemente in tanti testimoni, così come è strano che il v. 77 non abbia subito perturbazioni. E in ogni caso: come spiegare le molte varianti in cui il v. 78 si presenta?

Si aggiungano un paio di osservazioni sul contenuto: non soltanto la notazione lucanea parrebbe richiamare le teorie di Seneca sull’origine dei fulmini,[35] ma, come ben visto da Esposito (2009) 93, sulla scorta di quanto già osservato da Martindale a proposito di un passo simile,[36] il verso si potrebbe anche leggere in antitesi a uno tratto dal primo libro dell’Eneide (1.90, intonuere poli et crebris micat ignibus aether). Se di citazione (anti-)virgiliana si tratta, e se si ammettesse l’ipotesi che lo stato dei testimoni manoscritti si può meglio spiegare con un’aggiunta marginale nel modello piuttosto che come interpolazione o risultato di caduta meccanica, saremmo di fronte a un’ulteriore variante da inserire nel sistema che stiamo analizzando.

Conclusioni

Tiriamo le somme, per forza di cose parziali. Abbiamo passato in rassegna solo pochi possibili esempi di un fenomeno che meriterebbe un’indagine capillare: la possibile presenza, nella tradizione del Bellum civile, di residue varianti d’autore; o meglio, visti la natura delle varianti analizzate e lo stato di incompiutezza dell’opera, di vere e proprie tracce genetiche del lavoro di Lucano attorno ai propri versi.[37]

Si tratta di un caso in cui ci pare più che mai cruciale tenere ben distinti i dati oggettivi dalla loro possibile interpretazione. Ricapitoliamo, dunque, i primi. Nei manoscritti che riportano l’opera di Lucano non è infrequente l’omissione di versi o interi blocchetti di versi che dal punto di vista strettamente stilistico non danno motivo particolare di dubitare della paternità lucanea; semmai può trattarsi, in qualche caso, di versi che male si saldano al contesto del passo in cui sono trasmessi, oppure che risultano ripetitivi rispetto ad altri trasmessi indenni. In ciascuno dei casi presentati, gli editori si dividono, come è naturale, tra chi considera i versi autentici e di conseguenza tenta di individuare motivazioni (quasi sempre di natura meccanica) per la loro caduta in parte dei testimoni, e chi li espunge come interpolati.

Pochi studiosi hanno tentato di ricondurre il problema a una fase più antica della storia del testo immaginando che, visto lo stato di incompiutezza in cui l’opera fu quasi certamente abbandonata, versi autentici figurassero, nei testimoni a monte della tradizione, relegati in margine o affiancati da segni diacritici che ne avrebbero condizionato la sopravvivenza in tradizione: Eduard Fraenkel (1926) 519–530 = (1964) 293–306 e, sulla sua scia, Pasquali (19522) 433–434; più di recente, Luck (1969).[38]

L’analisi che abbiamo presentato ha come punto di partenza proprio quest’ultima ipotesi. Abbiamo preso in esame alcuni tra i casi più significativi già proposti, e a questi ne abbiamo affiancati alcuni altri, individuati ex novo, con le medesime caratteristiche di base: stile lucaneo, adattabilità al contesto più o meno difettosa, intermittenza in tradizione. Partendo dal presupposto (ipotetico) che tali varianti possano costituire tracce autentiche del lavoro di Lucano, abbiamo provato a interpretare i dati evitando di procedere caso per caso e sforzandoci di individuare sistemi di varianti caratterizzati da plausibile ratio condivisa.

Questi i risultati. I casi analizzati si possono dividere in tre categorie: doppioni, espansioni, citazioni. Nel primo gruppo è possibile includere tutti quei casi in cui il verso (o il gruppo di versi) trasmesso in modo discontinuo risulta incompatibile col contesto in cui è tràdito, o perché ridondante, o perché in contraddizione con altri versi o gruppi di versi, o, semplicemente, perché mal collegato al passo. Fanno parte del secondo gruppo tutti quei versi che potremmo censire come generiche espansioni testuali, dagli intenti variabili. Nelle pagine precedenti abbiamo individuato una possibile sottocategoria – aggiunte che paiono mirare ad approfondire la psicologia dei personaggi – ma è evidente che si tratta dell’insieme potenzialmente più complesso da analizzare: le aggiunte di dettagli possono avere caratteristiche diverse e motivazioni varie; possono soddisfare necessità isolate, o avere scopi non sempre interpretabili. Infine: ci sono i versi che, se accolti, comportano una citazione o un voluto rovesciamento di precedenti letterari illustri (abbiamo visto, tra i casi individuati, Virgilio, Seneca, Ovidio); se di ritocchi d’autore si tratta, è agevole classificarli come ritocchi allusivi di carattere migliorativo, che ben si adattano a quanto osservato dalla critica sulle raffinate modalità allusive lucanee.[39]

Se, dunque, i versi che abbiamo discusso possono davvero essere ricondotti al poeta, se la loro trasmissione accidentata si può giustificare con l’incompiutezza dell’opera, se sono validi i sistemi correttori e compositivi che abbiamo individuato: come lavorava Lucano?

Forse per sostituzione e per aggiunta, piuttosto che per sottrazione: forse annotando, a margine di una stesura già ben strutturata e sostanzialmente completa, rielaborazioni parziali o versioni alternative di un medesimo passo, espansioni di genere vario, paralleli o versi allusivi a modelli letterari ben noti.[40]

I doppioni, come abbiamo visto, non consistono sempre nella mera riscrittura di un passo che forse non suonava soddisfacente: nel caso di 7.818–824, le due versioni dell’esortazione a Cesare de militibus Pompeianis sepeliendis si escludono a vicenda non tanto perché ridondanti o ripetitive l’una rispetto all’altra ma per via dell’incompatibilità del tono, oltre che dei messaggi veicolati. Nel caso di 7.151–157, il presunto doppione risulta, con ogni evidenza, mal collegato al contesto: il dato spinge a immaginare che espansioni e versioni alternative venissero provvisoriamente annotate a margine, in attesa di opportuna integrazione nella versione definitiva. Altro dato interessante e, forse, in grado di dirci qualcosa in più sul modo in cui la Pharsalia fu composta: in due casi (4.677–678; 5.795–797) le possibili aggiunte vanno da un emistichio all’altro e risultano, dunque, incastonate in un’unità preesistente. In altre parole: oltre ai doppioni, che parrebbero rispecchiare riscritture parziali e alternative di un medesimo blocco, abbiamo casi in cui il dettaglio trovava posto in quanto già scritto senza che l’aggiunta fosse necessariamente circoscritta all’unità di un nuovo verso.

Un rilievo a margine. Ampliamenti, aggiunte progressive di dettagli e, soprattutto, annotazioni di stesure alternative sono frequentissime in tutti quei casi in cui lo scenario che qui ci limitiamo a ipotizzare per il caso di Lucano è una certezza: gli ‘scartafacci’ autografi dei moderni, veri e propri laboratori genetici in cui le varianti costituiscono un documento sicuro della pluralità delle volontà dell’autore. In particolare, può essere interessante osservare che l’insieme dei casi che noi abbiamo classificato come doppioni presenta affinità sorprendenti con una categoria specifica di annotazioni presenti nei manoscritti leopardiani: la così detta varia lectio. Si tratta di “varianti genetiche, alternative, glosse e catene di sinonimi” (Gavazzeni 2006, 410), cui Leopardi riservava, di norma, il margine inferiore della pagina e di cui si serviva, in fase di elaborazione, come di un vero e proprio serbatoio linguistico.[41] Meno sorprendente, per un poeta latino, il ricorso ai meccanismi dell’intertestualità esterna in funzione di connotazione stilistica (cfr. supra, n. 39): ma anche in questo caso un parallelo significativo si trova nelle carte del poeta di Recanati.[42]

Si è detto che i tre sistemi individuati non sono che una proposta: per proseguire, servirà un’indagine a tappeto che consenta di censire casi ulteriori che possano supportare, arricchire, modificare il quadro fin qui presentato; è verosimile che risultino individuabili altri sistemi, da ricondurre ad altrettanti movimenti compositivi (o correttori) attribuibili a Lucano.

Inoltre: se, da un lato, la trasmissione intermittente di certi versi andrà sempre valutata e discussa oggettivamente, escludendo, per l’omissione, altre possibili ragioni, dall’altro andrà tenuto a mente che, come abbiamo visto in un caso (5.230–236), possono costituire una possibile aggiunta anche versi confluiti indenni in tradizione. Pertanto, una volta individuati, con buon margine di plausibilità, i vari sistemi compositivi, l’indagine andrebbe estesa anche a versi che non sono caduti, poiché a cadere – o a essere ignorato da un copista – potrebbe esser stato il segno diacritico che doveva contrassegnare i versi o, tra una copia e l’altra, la consapevolezza che i versi che si copiavano come parte del dettato erano notazioni marginali.[43]

L’analisi abbozzata in queste pagine porterebbe necessariamente, anche se ampliata, a risultati ipotetici: ma i dati che abbiamo illustrato supra sono oggettivi, incrementabili, e paiono, in qualche caso, promettenti.

Ringraziamenti

Sono grata a Federico Condello e Lucia Floridi, che hanno letto e discusso con me una versione preliminare di questo lavoro, contribuendo a migliorarlo in più punti; a Paola Italia devo suggerimenti e indicazioni fondamentali. Con loro, ringrazio gli anonimi revisori della rivista per i preziosi consigli.

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Online erschienen: 2024-06-12
Erschienen im Druck: 2024-05-15

© 2024 the author(s), published by Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston

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