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I paradisi di Pier Damiani

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Veröffentlicht/Copyright: 15. November 2022
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Zusammenfassung

Der Essay vergleicht die poetische Darstellung von Pier Damiani im XXI. Gesang von Dantes Paradiso mit der paradiesischen Vision, die Pier Damiani im Rhytmus de gaudio paradisi skizziert. In der Commedia spielt die Seele des Heiligen eine entscheidende Rolle bei der Bekehrung von Dante-personaggio. Sie teilt mit ihm die Liebe und die Freude an der Betrachtung Gottes, ohne ihm das Geheimnis der Prädestination erklären zu können. Pier Damiani ist auch ein Beispiel für die Demut, eine wesentliche Tugend, die Dante erlernen muss, um seinen Aufstieg zum Empyreum zu vollenden. In Damianis Rhytmus hingegen ist die Vision des Paradieses mit der Ausübung der Kontemplation durch die Mönche von Fonte Avellana verbunden und zeichnet sich durch eine leuchtende, aber sehr statische Darstellung der Glückseligkeit der Heiligen aus, die keine direkte Beteiligung des Ichs am himmlischen Geschehen impliziert.

1 Pier Damiano nel Paradiso dantesco

La poesia del Paradiso è, anzitutto, poesia della luce; e la luce è intimamente legata a due tratti distintivi della natura e dell’intelligenza divine, l’amore e la gioia: »luce etterna« che »da te intelletta / e intendente te ami e arridi« (Par. XXXIII, 124–126), così Dante descrive Dio nell’ultimo canto, al culmine della sua visione.[1] Amore e luce sono pure il »confine« dell’Empireo (Par. XXVIII, 54), il cielo spirituale che costituisce la realtà sostanziale del Paradiso, dal quale gli spiriti beati scendono per incontrare il pellegrino Dante, manifestandosi alla sua vista nei cieli dei sette pianeti in una proiezione virtuale, che riduce il fulgore abbagliante della piena rivelazione per renderlo fruibile alle deboli facoltà intellettive dello straordinario visitatore vivente. Nel settimo cielo, quello di Saturno, i due movimenti opposti e compenetranti della discesa degli spiriti beati e dell’a scesa di Dante si incontrano in un oggetto di intenso valore simbolico: una scala di luce, risplendente come l’oro, che sale fino al trono di Dio e che rappresenta la contemplazione, ovvero l’attività propria degli spiriti del settimo cielo, ma anche un’attitudine fondamentale della vita di ogni monaco e, più in generale, di ogni cristiano.[2] Nel canto XXI, lo »scaleo«, modellato sulla biblica scala di Giacobbe e sulla scala meditativa della Regula benedettina, è percorso da una moltitudine di ›splendori‹, di anime avvolte di luce, che scendono »giuso«, in giù, portando a Dante un anticipo della gloria dell’intero consesso dei santi: il loro numero appare così elevato da eguagliare quello delle stelle del firmamento, tante da non potersi contare, come la discendenza promessa da Dio ad Abramo nel quindicesimo capitolo di Genesi.[3] Il moto di discesa dei beati, contrapposto alla direzione della scala »in suso«, verso l’alto, costituisce un tacito ammonimento circa la necessità di umiliarsi per poter accedere a una conoscenza crescente, benché inesauribile, della sapienza di Dio, secondo l’insegnamento evangelico per cui solo chi si abbassa sarà innalzato.[4] L’umiltà consente infatti di percorrere una »scala paradossale« che, per san Benedetto, coincide con l’intera vita dell’uomo e, secondo Pier Damiani, consiste nella vita monastica, da lui definita »via aurea, quae hominis reducis ad patriam«, sentiero prezioso, incorruttibile e luminoso che offre una trasfigurazione simbolica della Croce, un condensato mistico dell’iter intellettuale e spirituale compiuto dalla creatura redenta verso la patria ultraterrena.[5] Dante apprende questa lezione durante il colloquio con Pier Damiano nel centro strutturale dell’edificio celeste, raggiunto salendo »le scale / de l’etterno palazzo« insieme alla sua guida, la quale intensifica il proprio fulgore di cielo in cielo in un’anticipazione crescente della piena gloria manifestata nell’Empireo. Dopo aver incontrato san Benedetto nel canto XXII, il pellegrino sarà finalmente pronto per sospingersi in prima persona »su per quella scala« dietro l’invito rassicurante di Beatrice, compiendo un passaggio decisivo dai cieli legati alle quattro virtù cardinali all’ultimo cielo, in cui sosterrà l’esame sulle tre virtù teologali di fronte agli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni.

L’anima di Pier Damiano svolge un compito cruciale nella formazione spirituale di Dante, preparandolo alla visione del trionfo di Cristo nel cielo delle Stelle fisse e, passando per le gerarchie angeliche e la »candida rosa«, alla contemplazione diretta della Trinità. La »lucerna« del santo si distacca impercettibilmente dal brulichio luminoso prodotto dagli spiriti sullo »scaleo«, il cui andirivieni è paragonato ai movimenti delle »pole«, uccelli di aspetto modesto e di colore grigio, identificabili con le cornacchie, le taccole o i corvi:

Vidi anche per li gradi scender giuso

tanti splendor, ch’io pensai ch’ogne lume

che par nel ciel, quindi fosse diffuso.

E come, per lo natural costume,

le pole insieme, al cominciar del giorno,

si movono a scaldar le fredde piume;

poi altre vanno via sanza ritorno,

altre rivolgon sé onde son mosse,

e altre roteando fan soggiorno:

tal modo parve a me che quivi fosse

in quello sfavillar che ’nsieme venne,

sì come in certo grado si percosse. (Par. XXI, 31–42)

Molto è stato scritto sui significati di questa similitudine, in particolare sui riferimenti relativi al triplice movimento degli ›splendori‹, che corrisponderebbe, secondo le interpretazioni più autorevoli, a tre categorie di monaci – i girovaghi, gli eremiti, i cenobiti – o ai tre moti dello spirito contemplativo – diritto, obliquo, circolare – come sono discussi da Tommaso d’Aquino a partire dalle definizioni di Dionigi Pseudo-Aeropagita e Riccardo di San Vittore. Il corvo è inoltre un uccello legato a san Benedetto e alla storia della fondazione del suo monastero, secondo una leggenda agiografica conosciuta e accreditata dallo stesso Pier Damiani.[6] Anche il colore bigio del piumaggio dei corvidi richiamerebbe il grigio del saio benedettino, evocando lo stato monastico delle anime del settimo cielo. L’aspetto sfavillante dei contemplanti potrebbe, d’altronde, sembrare in contrasto con la veste opaca, priva di luminosità, posseduta dai corvi: la dissonanza si potrebbe risolvere considerando che la similitudine permetterebbe di sovrapporre, nella pagina dantesca e nella mente del lettore, la doppia immagine dei contemplanti nella loro sembianza terrena, dimessa e nascosta agli occhi del mondo come quella dei corvi, e nella loro realtà celeste, ricca di onore e di gloria.

La coreografia assai dinamica delle anime, meraviglioso spettacolo offerto al pellegrino, subisce una puntuale battuta d’arresto quando un gruppo di spiriti si ferma su un gradino della scala (»in certo grado si percosse«). L’interruzione del movimento non è accidentale, ma rientra nel complesso piano della predestinazione divina che ha previsto con esattezza il modo e il tempo in cui coinvolgere Dante nell’azione paradisiaca. Uno di questi spiriti entra in relazione diretta con il viaggiatore, mostrandogli con l’intensificarsi del proprio chiarore la gioia di poterlo accogliere e di interloquire con lui:

E quel che presso più ci si ritenne,

si fé sì chiaro, ch’io dicea pensando:

›Io veggio ben l’amor che tu m’accenne‹. (Par. XXI, 43–45)

Il primo scambio tra Dante e Pier Damiano non si esprime a parole, ma appare come un intimo contatto di intelletto amoroso, nel quale il pensiero del pellegrino, già pronto a interrogare l’anima a lui sconosciuta, si accorge subito de »l’amor che tu m’accenne«, dell’ineffabile ardore di carità che il santo prova per lui e che gli rende noto attraverso un ›cenno‹ di luce, un segno o una parola non detta del linguaggio luminoso.[7] Questa comunicazione silenziosa, che rispetta e insieme trascende la taciturnitas o il »senso del limite« propri del cielo dei contemplanti,[8] costituisce una sorta di prologo al dialogo successivo, in cui il monaco pronuncerà tre discorsi in risposta ad altrettante domande di Dante.

L’insistenza sul »tacer«, evidente nell’altro confronto inespresso tra Dante, desideroso di soddisfare la propria sete di conoscenza, e Beatrice, che con la sua reticenza ne mette alla prova l’obbedienza, rientra nella più ampia retorica della sottrazione che contraddistingue questo canto, nel quale si verificano eventi eccezionali come la mancanza del sorriso di Beatrice nel passaggio al nuovo cielo e l’assenza della »dolce sinfonia di paradiso«, del canto e della musica di lode intonati regolarmente dai beati nelle altre sfere. Tale rappresentazione in negativo allude al silenzio in cui avviene l’esercizio della contemplazione, tradotto dal pellegrino Dante in una profonda concentrazione sulla »figura« dello scaleo che gli consente di assimilarne il significato più profondo grazie a »un’attività spirituale che armonizza il contenuto intellettivo rispetto alla percezione, per creare una ›riflessione‹ mentale che superi l’immediatezza dell’immagine visiva«.[9] Tale pratica non implica, d’altronde, uno spegnimento dell’espressione o dello scambio:[10] al contrario, nel silenzio è possibile instaurare una comunicazione più profonda, di tipo mistico e ascetico, tra l’anima contemplante e Dio e, di riflesso, tra le singole anime pervase dall’amore divino. Il grande »specchio« del pianeta Saturno, per la sua particolare conformazione, favorisce inoltre tali processi conoscitivi fondati sulla componente, variamente declinata, dell’amore-luce.

Il dialogo con Pier Damiano avviene così, non a caso, su un doppio registro verbale e luminoso, per cui le parole pronunciate dal santo hanno la funzione di spiegare a Dante, in una forma accessibile al suo »udir mortal«, i misteri insondabili della predestinazione e della rivelazione della mente divina; la luce che avvolge l’anima del monaco, invece, diviene un mezzo per esprimere, compatibilmente con la debole vista del pellegrino, i contenuti ineffabili dell’amore e della visione diretta di Dio:

»Tu hai l’udir mortal sì come il viso«,

rispuose a me; »onde qui non si canta

per quel che Bëatrice non ha riso.

Giù per li gradi de la scala santa

discesi tanto sol per farti festa

col dire e con la luce che mi ammanta;

né più amor mi fece esser più presta,

ché più e tanto amor quinci su ferve,

sì come il fiammeggiar ti manifesta.

Ma l’alta carità, che ci fa serve

pronte al consiglio che ’l mondo governa,

sorteggia qui sì come tu osserve«. (Par. XXI, 61–72)

Nel suo primo discorso, Pier Damiano rivela di essere sceso incontro a Dante »per farti festa / col dire e con la luce che mi ammanta«, guidato da un amore intenso, benché non superiore a quello delle altre anime presenti sulla scala. L’accoglienza festosa riservata al viaggiatore, ancora vivente ma destinato a essere anch’egli cittadino dei cieli – nonché esule da una Firenze che, nel »terzo sermo« del santo, è indicata con la deissi sdegnosa »la tua patria« ed è percepita chiaramente come »l’anti-cielo« –,[11] si carica di un’intimità affettiva che ricorda lo slancio di Sordello verso il compatriota Virgilio nel sesto canto del Purgatorio. Il nome di Mantova basta a destare una profonda commozione nel cuore di Sordello, che si affretta a »fare al cittadin suo quivi festa« in una profusione di affetto e di ammirazione per la sua arte poetica che lo trae da uno stato di solitario auto-ripiegamento:

Pur Virgilio si trasse a lei, pregando

che ne mostrasse la miglior salita;

e quella non rispuose al suo dimando,

ma di nostro paese e de la vita

ci ’nchiese; e ’l dolce duca incominciava

»Mantüa ... «, e l’ombra, tutta in sé romita,

surse ver’ lui del loco ove pria stava,

dicendo : »O Mantoano, io son Sordello

de la tua terra!«; e l’un l’altro abbracciava.

[...]

Quell’ anima gentil fu così presta,

sol per lo dolce suon de la sua terra,

di fare al cittadin suo quivi festa [...]. (Purg. VI, 67–75, 79–81)

Pur nella diversità delle situazioni narrative, i due incontri sono accomunati dal moto gioioso dell’anima oltremondana, sia essa penitente o beata, nei confronti di un visitatore che è riconosciuto, in modo più o meno esplicito, come appartenente alla propria stessa patria, terrena o celeste. A rafforzare il legame tra i due episodi, vi è la doppia occorrenza in rima della parola »festa«, che compare per la prima volta nella Commedia in riferimento all’abbraccio di Sordello e per la nona e ultima volta a indicare le parole e la luce di Pier Damiano. Mentre Sordello è animato da un sentimento individuale, derivante dalla sua origine terrena e dalla sua attività di poeta, il santo è mosso dall’amore universale di Dio, nel quale è pienamente assorbito e a cui attribuisce la scelta imperscrutabile di averlo inviato ad accogliere il pellegrino. L’anima beata, a differenza di Dante, non prova l’esigenza di interrogarsi su tale mistero, poiché la sua volontà e il suo desiderio sono già del tutto appagati nella contemplazione della volontà e dell’amore divini. L’esempio di Pier Damiano prefigura così l’armonia perfetta che Dante raggiungerà al termine del suo viaggio e del suo percorso di conversione, quando il suo »disio e ’l velle« saranno diretti interamente da »l’amor che move ’l sole e l’altre stelle« (Par. XXXIII, 143, 145). L’unisono del poeta vivente con Dio non si risolve, però, nella semplice unione mistica, come accade per il santo, ma realizza la condizione essenziale per il compimento della sua missione profetica, dunque per il suo ritorno in terra e per la composizione del poema.[12]

Nel settimo cielo, il pellegrino deve ancora affinare la virtù essenziale per proseguire nell’ultimo tratto dell’ascesa: l’umiltà. La sua curiosità lo rende così ardito da porre a Pier Damiano una seconda domanda sulla predestinazione, chiedendogli la ragione specifica per cui sarebbe stato scelto per venirgli incontro; il santo, però, lo avverte che nemmeno l’anima o il serafino più vicini a Dio hanno accesso a un segreto tanto nascosto nell’»abisso« dei decreti divini:

Ma quell’ alma nel ciel che più si schiara,

quel serafin che ’n Dio più l’occhio ha fisso,

a la domanda tua non satisfara,

però che sì s’innoltra ne lo abisso

de l’etterno statuto quel che chiedi,

che da ogne creata vista è scisso.

E al mondo mortal, quando tu riedi,

questo rapporta, sì che non presumma

a tanto segno più mover li piedi. (Par. XXI, 91–99)

Il successivo ammonimento a dissuadere gli altri uomini dalla presunzione di inseguire nel »mondo mortal« una conoscenza inaccessibile anche nel regno celeste è in realtà un punto nodale della conversione di Dante, perché lo induce al pentimento e a chiedere »umilmente« a Pier Damiano notizie della sua vita terrena. Alla domanda »chi fue«, riportata in discorso indiretto, corrisponde la replica »fu’ io Pietro Damiano, / e Pietro Peccator fu’«, costruita in forma chiastica come una sorta di specchio auto-agiografico in cui le due identità, biografica e spirituale, del santo si riflettono tra di loro e, indirettamente, riflettono e convalidano il maturare dell’identità cristiana di Dante.

Il secondo discorso del beato è preceduto, ancora una volta, da una manifestazione di luce e di movimento che esprime l’»allegrezza« derivante dalla contemplazione dell’essenza di Dio, accresciuta dalla letizia particolare di poter condividere con Dante tale rivelazione:

Né venni prima a l’ultima parola,

che del suo mezzo fece il lume centro,

girando sé come veloce mola;

poi rispuose l’amor che v’era dentro:

»Luce divina sopra me s’appunta,

penetrando per questa in ch’io m’inventro,

la cui virtù, col mio veder congiunta,

mi leva sopra me tanto, ch’i’ veggio

la somma essenza de la quale è munta.

Quinci vien l’allegrezza ond’ io fiammeggio;

per ch’a la vista mia, quant’ ella è chiara,

la chiarità de la fiamma pareggio. (Par. XXI, 79–90)

La rotazione circolare, rapidissima, dell’anima su sé stessa indica l’intensificarsi della chiarezza della visione divina ed è descritta con la similitudine della »veloce mola«, della macina da mulino che, nonostante il suo peso, gira con estrema rapidità. Il comparante, di natura quotidiana ma di tradizione biblica, richiama la figura cristologica del grano e del pane e allude alla necessità di triturare ogni orgoglio umano per raggiungere la piena comunione con Dio. L’immagine si potrebbe considerare antitetica a quella delle »cocolle« o delle tonache dei monaci corrotti che san Benedetto definisce »sacca [...] piene di farina ria« (Par. XXII, 78) quali esiti ponderosi e grotteschi di una vita governata da principi opposti a quelli della Regula e della santità evangelica. Al contrario, l’anima luminosa di Pier Damiano, indicata con la metonimia totalizzante »amor«, che materializza di fronte agli occhi dell’interlocutore quella »compenetrazione amorosa nella divina essenza« in cui consiste il fine della contemplazione,[13] illustra a Dante il processo dell’unione mistica e della visione. La »luce divina« converge e penetra nel mantello luminoso che avvolge l’anima come un ventre materno – il santo usa un verbo di grande concretezza, coniato da Dante: »in ch’io m’inventro« –, con un’immagine sfolgorante che richiama il tema della nuova nascita e l’intimità sponsale con Cristo riservata alla Chiesa. L’unione della »virtù« di Dio e del »veder« dell’anima consente al beato di innalzarsi fino alla sorgente della luce divina, alla »somma essenza« da cui la luce è »munta«, con un altro termine del lessico generativo e materno, per fluire come un fiume, »in forma di rivera«, come si dirà nel trentesimo canto del Paradiso.[14]

Pier Damiano non riserverà più a Dante altre manifestazioni del suo »fiammeggiar«, dovute all’elevatezza tematica dei primi due discorsi. Il »terzo sermo«, pronunciato con gli occhi idealmente rivolti in basso, alla realtà terrena e alla dissolutezza dei prelati, sarà invece seguito dallo sdegno collettivo dei beati che, accendendo il proprio splendore in moti vorticosi, accorreranno giù dalla scala per stringersi attorno a Pier Damiano ed emetteranno un »grido« assordante, fragoroso come il tuono, a invocare l’intervento divino.

2 La visione celeste nel Rhytmus de gaudio paradisi di Pier Damiani

Quello dantesco non è l’unico paradiso a cui è legato il nome di Pier Damiani: il monaco è stato infatti autore di un nutrito corpus di poesie latine di tipo spirituale e liturgico, connotate da una raffinata tecnica retorica improntata alle artes dictandi e da una peculiare sensibilità cristologica propria del monastero avellanita. Tra i molti generi metrici e ritmici praticati dal santo si distinguono i ritmi, un »›genere di confine‹, aperto in più direzioni alla sperimentazione contenutistica ed espressiva«.[15] Uno dei più significativi è il Rhytmus de gaudio paradisi (»Ritmo sulla gioia del Paradiso«), un carme assai corposo, composto da venti strofi di tre versi ciascuna, ognuna delle quali rinsaldata al suo interno da rime e assonanze a fine verso. La coincidenza con la misura della terzina è solo un dettaglio curioso, che non implica alcuna anticipazione del metro coniato da Dante. La forma aperta, non rimata, delle strofi dei ritmi e l’impiego di versi più estesi rispetto a quelli presenti nei componimenti metrici hanno comunque un portato originale poiché introducono elementi dinamici e innovativi che consentono all’autore »maggior mobilità di pensiero, maggior ricchezza dei particolari descrittivi e narrativi«[16] e dunque una maggiore apertura alla dimensione della visualità. Dal punto di vista ritmico-performativo, il Rhytmus ha un’andatura di marcia, fortemente scandita, che lo rendeva particolarmente adatto a essere recitato o cantato durante le processioni o il cammino penitenziale dei monaci nell’eremo di Fonte Avellana.[17] La visione paradisiaca prospettata da Pier Damiani, analoga a quella da lui descritta nell’epistola 66 alla contessa Blanca o Institutio monialis,[18] ha un’impronta escatologica e didattica assai lontana dall’invenzione poetica dantesca, né possiamo immaginare che Dante abbia tratto qualche spunto da questo testo, che di certo non conosceva; nondimeno, esistono alcuni interessanti punti di contatto che sollecitano un confronto, anche sommario, tra le due rappresentazioni del Paradiso.

L’itinerario spirituale tracciato nel Rhytmus de gaudio paradisi è una visione saldamente ancorata alla terra, nella quale l’anima del monaco, ancora imprigionata nel carcere del suo corpo mortale e del suo peccato, contempla la gioia della propria dimora eterna o della vera »patria«. Il regno dei beati è raffigurato secondo l’immagine della Gerusalemme celeste, descritta in Isaia e in Apocalisse, una città d’oro e di gemme, governata dall’Agnello che è »luce perenne per la sua felice città«:

3. Nam quis promat, summae pacis quanta sit laetitia,

Ubi vivis margaritis surgunt aedificia,

Auro celsa micant tecta, radiant triclinia?

4. Solis gemmis pretiosis haec structura nectitur,

Auro mundo tamquam vitro urbis via sternitur;

Abest limus, deest fimus, lues nulla teritur.

3. Qualcuno può esprimere quanta sia la gioia della pace del cielo,

ove le dimore sono ornate di vivide perle,

alti, i tetti, brillano d’oro, sfavillanti sono le mense?

4. Questo edificio è incastonato soltanto da gemme preziose;

le vie della città sono ricoperte d’oro puro come vetro,

non c’è fango, non c’è melma, niente di corrotto da calpestare.

L’architettura paradisiaca assume i contorni e i volumi di una città simile a quelle terrene, in una rappresentazione che attribuisce alla luce il compito di dipingere nella fantasia del lettore o dell’orante una beatitudine di per sé inesprimibile: le perle »vivide«, i tetti che »brillano«, le mense »sfavillanti« riflettono una luminosità soprannaturale, che si lascia percepire solo dagli occhi della mente.

Una seconda immagine, strettamente connessa alla prima, è quella dell’hortus deliciarum, del giardino rigoglioso dove vige una primavera perenne, che costituisce una trasfigurazione dell’eremo di Fonte Avellana nell’Eden, in un autentico paradiso in terra dove i monaci, attraverso la contemplazione, possono godere della gioia eterna anche durante la vita mortale:

5. Hiems horrens, aestas torrens illic numquam saeviunt;

Flos purpureus rosarum ver agit perpetuum;

Candent lilia, rubescit crocus, sudat balsamum.

6. Virent prata, vernant sata, rivi mellis influunt;

Pigmentorum spirat odor liquor et aromatum;

Perdent poma floscidorum non lapsura nemorum.

5. Mai vi imperversa il rigido inverno, mai la torrida estate;

il rosso delle rose offre un aspetto di perenne primavera;

biancheggiano i gigli, il croco rosseggia, trasuda il balsamo.

6. Verdeggiano i prati, rifioriscono le messi, scorron rivoli di miele,

spira profumo di erbe, e stillano linfe aromatiche;

dagli alberi vigorosi pendono frutti non destinati a cadere.

La luce è protagonista anche nella rappresentazione paradisiaca di Damiani, ma i riferimenti sono molto più convenzionali e, soprattutto, mancano di quella fantasia coreografica che caratterizza il paradiso dantesco. I santi del Rhytmus »splendono qual sole vivo«, trionfanti dopo il martirio, e abitano sicuri nell’»eternità« che »produce giorno senza fine«, in un’»esistenza sempre immutabile; / luminosi, pieni di vita, gioiosi«; la loro attività è quella di contemplare »il volto della verità«, in una pace statica e abbagliante che ricorda le pose ieratiche e gli sfondi di lamina d’oro con cui sono raffigurati Cristo e i santi negli splendidi mosaici bizantini delle chiese ravennati:

8. Nam et sancti quique velut sol praeclarus rutilant,

Post triumphum coronato mutuo coniubilant

Et prostrati pugnas hostis iam securi numerant.

9. Omni labe defaecati carnis bella nesciunt;

Caro facta spiritalis et mens unum sentiunt;

Pace multa perfruentes scandala non perferunt.

10. Mutabilibus exuti repetunt originem

Et praesentem veritatis contemplantur speciem;

Pace multa perfruentes scandala non perferunt.

11. Inde statum semper idem exsistendi capiunt:

Clari, vividi, iucundi nullis patent casibus;

Absunt morbi semper sanis, senectus iuvenibus.

8. Anche i santi splendono qual sole vivo,

dopo il trionfo si rallegrano reciprocamente della loro corona

e ormai al sicuro rammentano gli attacchi molteplici del vinto nemico.

9. Liberati da ogni corruzione della carne non conoscon più guerra;

la carne, ormai fatta spirituale, e l’anima hanno un unico sentire;

di molta pace godono, e non recano segni di male.

10. Liberi da ogni mutamento, tornano all’origine

e contemplano il volto della verità, sempre al loro cospetto;

donde attingono la dolcezza vitale della fonte viva.

11. Da questa traggono un’esistenza sempre immutabile;

luminosi, pieni di vita, gioiosi, a nessun accidente sono esposti;

sempre sani, non conoscono malattie; sempre giovani, non conoscono vecchiaia.

L’attività della contemplazione è rivolta, sia da parte dell’anima del soggetto, sia da parte dei beati nel Cielo, alla »fonte di eterna vita«, al flusso di luce, acqua e rivelazione che sgorga dal trono di Dio e che riprende il fiume di acqua viva di Apocalisse, al quale si richiama pure la »rivera« luminosa di Dante. Da questa fonte i beati gustano la »dolcezza« della vita eterna e ricevono una sapienza perfetta riguardo alla mente divina e ai pensieri delle altre anime nel Paradiso.

Questo quadro, compiuto e immutabile, non consente però al contemplante terreno di interagire con esso, a differenza di quanto è concesso al pellegrino Dante nel corso della sua visione: il monaco è infatti prigioniero del corpo e può solo trarre coraggio dallo spettacolo celeste per proseguire nella »lotta ancor lunga« contro il peccato, al termine della quale potrà ascendere al Cielo e conquistare in premio lo stesso Cristo, definito »palma dei lottatori«:

19. Christe, palma bellatorum, hoc in municipium

Introduc me post solutum militare cingulum;

Fac consortem donativi beatorum civium.

20. Praebe vires inexhausto laboranti proelio,

Ut quietem post procinctum debeas emerito,

Teque merear potiri sine fine praemio.

19. O Cristo, palma dei lottatori, in questa assise

introducimi, una volta assolto il servizio della mia milizia;

mettimi a parte del dono dei cittadini beati.

20. Dammi forza mentre mi affatico in questa lotta ancor lunga,

affinché a chi il suo servizio ha finito, dopo la lotta, tu conceda la pace,

e io meriti di conquistare te in premio senza fine.

Solo Cristo può infatti introdurre l’anima piena di desiderio nell’»assise« dei »cittadini beati« e portarla a quelle altezze per cui potrà contemplare il movimento »sotto i suoi piedi« della »gran mole del mondo«, del sole, della luna e delle stelle »nel loro duplice corso«:

18. Felix, caeli quae presentem regem cernit, anima

Et sub sede spectat altam orbis volui machinam,

Solem, lunam et globosa bini cursus sidera.

18. Felice l’anima che scorge davanti a sé il re del cielo,

e contempla muoversi, sotto i suoi piedi, la gran mole del mondo,

il sole, la luna e le stelle nel loro duplice corso.

La prospettiva è analoga a quella raggiunta da Dante dopo essersi issato sullo »scaleo«, in Paradiso XXII, quando, prima di presentarsi alla »turba trïunfante« che gli verrà incontro nel cielo delle Stelle fisse, guarda ancora una volta »in giù«, ripercorrendo a ritroso le sette sfere celesti fino al »globo« terrestre, ora tanto vile nella sua apparenza: l’»aiuola che ci fa tanto feroci« è l’antitesi ideale sia dello sconfinato, »angelico templo« dell’Empireo a cui Dante avrà accesso grazie alla lezione di amore e umiltà di Pier Damiano, sia del giardino edenico del Rhytmus, nel quale la scala della contemplazione è il privilegio di un altro tempio, il monastero di Fonte Avellana, dove è possibile salire e scendere dalle altezze paradisiache in un duplice movimento tra la terra e il Cielo.


Note

Il saggio sviluppa alcune idee presentate e discusse in occasione della lettura Pier Damiani (Par. XXI), tenuta congiuntamente da Matthias Bürgel e da chi scrive all’interno dei Dialoghi danteschi / Dante-Dialoge (Accademia di studi italo-tedeschi di Merano / Akademie deutsch-italienischer Studien Meran, 26 giugno 2021), di cui è stato squisito organizzatore John Butcher. Queste pagine si intendono quale grato proseguimento di quell’esperienza e sono pensate in continuità con l’articolo di Matthias Bürgel qui pubblicato.


Published Online: 2022-11-15
Published in Print: 2022-10-24

© 2022 Ester Pietrobon, published by Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston

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Artikel in diesem Heft

  1. Frontmatter
  2. Frontmatter
  3. Schwerpunkt Dante Lesen
  4. »Inderseelefolgen«: wie August Kopisch die Commedia übersetzt
  5. Zur deutschen Danteforschung im 19. Jahrhundert
  6. »Die Welt von Blut und Wunden«: Dantes Kriegsdichtung aus der Perspektive Karl Vosslers und Erich Auerbachs
  7. Giorgio Pasquali und die Filologia dantesca
  8. Das Lachen im Himmel
  9. Weitere Beiträge
  10. Zum Verhältnis von Staat und Religion bei Dante: Das heikle Beispiel König Sauls
  11. Pier Damiani zwischen vita eremitica und vita apostolica
  12. I paradisi di Pier Damiani
  13. Rezensionen
  14. Karl Philipp Ellerbrock, Die Poetik des Ungesagten in Dantes Commedia, Paderborn, Brill/Wilhelm Fink Verlag 2021, 450 S.
  15. Claudia Jacobi, Mythopoétiques dantesques – une étude intermédiale sur la France, l’Espagne et l’Italie (1766–1897), Strasbourg, Éditions de linguistique et de philologie 2021 (Travaux de Littératures Romanes – Poétique et littérature moderne), 417 S.
  16. Andrea Renker, Streit um Vergil. Eine poetologische Lektüre der Eklogen Giovanni del Virgilios und Dante Alighieris, Stuttgart, Steiner 2021 (Hamburger Studien zu Gesellschaften und Kulturen der Vormoderne; 8), 348 S.
  17. Thomas Klinkert, La modernità di Dante. Prospettive semiotiche sulla Commedia, Ravenna, Longo editore 2021 (Memoria del Tempo; 71), 226 S.
  18. Franziska Meier, Besuch in der Hölle. Dantes Göttliche Komödie. Biographie eines Jahrtausendwerks, München, C. H. Beck 2021, 214 S.
  19. Cornelia Klettke (ed.), Dante e Botticelli. Atti del Convegno internazionale di Potsdam (29.–31.10.2018), Firenze, Cesati 2021 (Dante visualizzato; 4), 405 pp.
  20. Marco Grimaldi, Filologia dantesca. Un’introduzione, Roma, Carocci 2021 (Collana Studi Superiori), 176 S.
  21. William Franke, Dante’s Paradiso and the Theological Origins of Modern Thought: Toward a Speculative Philosophy of Self-Reflection, New York, Routledge 2021, 364 pp.
  22. Manuele Gragnolati/Francesca Southerden, Possibilities of Lyric: Reading Petrarch in Dialogue. With an Epilogue by Antonella Anedda Angioy, Berlin, ICI Berlin Press 2020.
  23. Judith Kasper, Andrea Renker und Fabien Vitali (Hrsg.), Dante Alighieri. 1 Sonett – 30 Übersetzungen, Wien/Berlin, Turia+Kant 2021, 154 S.
  24. Sibylle Lewitscharoff, Warum Dante? Mit Illustrationen und Collagen von Sibylle Lewitscharoff, Berlin, Insel Verlag 2021 (Insel-Bücherei; Nr. 1503), 103 S.
  25. Bibliographie
  26. Deutsche Dante-Bibliographie 2021
Heruntergeladen am 19.12.2025 von https://www.degruyterbrill.com/document/doi/10.1515/dante-2022-0012/html
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