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La grammaticalizzazione dell’it. fa

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Published/Copyright: June 30, 2021
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Abstract

It. fa ‘ago’ represents a rare case of grammaticalization of a finite verbal form and a typical example of what we call ‘preadaptive change’. Its present categorical status, however, is an object of dispute between the different approaches of historical and theoretical linguistics: on the one hand fa is considered an adverbial, on the other hand a postposition, becoming a sort of test of the explanatory power of both the approaches. After a reconsideration of the data throughout the history of Italian and a scrutiny of the literature, we come to the conclusion that in the case of a grammaticalization process both the structural features and the inherited properties are necessary to assign the categorial status and in the case in question converge towards the adverbial function.

...quite often the naturalness or non- arbitrariness of a particular pairing of structure with function is derived from the particular history of the pairing, rather than from synchronic functional explanations.Talmy Givón

1 La locuzione avverbiale con fa

Per esprimere la distanza temporale dal momento dell’enunciazione (nunc) l’italiano usa una locuzione avverbiale composta di un quantificatore temporale che determina l’elemento fa, la cui categorizzazione ovvero l’assegnazione a una delle partes orationis è oggetto di controversia fra le diverse scuole di pensiero che animano la ricerca linguistica fino al punto di diventare una sorta di experimentum crucis delle loro capacità esplicative. Diamo qui di seguito un campionario essenziale dei più comuni contesti d’uso della locuzione:

(1) Quanto tempo fa è avvenuto?

(2) È avvenuto poco fa

(3) È avvenuto molto tempo fa

(4) È avvenuto un anno fa

(5) È avvenuto dieci anni fa

(6a) Ha chiesto quanto tempo fa è avvenuto

(6b) * Chiese quanto tempo fa era avvenuto

(7a) Ha detto che è avvenuto dieci anni fa

(7b) * Disse che era avvenuto dieci anni fa

(8) È un avvenimento di dieci anni fa

(9a) Ha detto che è un avvenimento di dieci anni fa

(9b) * Disse che era un avvenimento di dieci anni fa

La differenza fra (6a) e (6b) e parallelamente fra (7a) e (7b) e fra (9a) e (9b) dipende dalla deissi temporale: in (6a), (7a) e (9a) l’evento è riferito al momento dell’enunciazione, quindi rispetto al nunc, mentre in (6b), (7b) e (9b) è riferito al momento della narrazione e quindi rispetto al tunc; in questo secondo caso, se si vuole mantenere il riferimento al momento della narrazione, per ottenere una frase grammaticale basta sostituire fa con prima.

Vediamo ora come alcuni dei repertori più usati e accreditati dell’italiano definiscono l’elemento fa, riducendo ai termini essenziali le definizioni date nei lemmi e nei luoghi indicati:

GDLI: costrutto sintattico equivalente a ‘prima, dianzi, addietro’;

Devoto/Oli: avverbio ‘addietro, or sono’ [†preposizione posposta];

DISC: avverbio sempre posposto in locuzioni temporali ‘prima d’ora, or sono’;

GRADIT: avverbio posposto in varie locuzioni temporali ‘addietro, da ora’;

DELI: voce usata in varie locuzioni temporali col valore di ‘addietro’;

Serianni (XII, 30): locuzione avverbiale con valore temporale;

Renzi/Salvi/Cardinaletti (III, 2.3.2.1): locuzione temporale deittica.

Si noterà come l’assegnazione esplicita alla categoria dell’avverbio figuri solo in tre repertori su sette, mentre altri tre preferiscono far riferimento all’insieme della locuzione e un quarto (che è poi l’unico dizionario etimologico considerato) ricorre al termine neutrale e non compromettente di «voce». L’unico repertorio discordante era il Devoto/Oli, che parlava di «preposizione posposta», ma è stato allineato agli altri nell’edizione del 2017 curata da Luca Serianni e Maurizio Trifone. Dunque possiamo concludere che le descrizioni ufficiali della lingua italiana a opera di studiosi di formazione storica sono concordi nell’assegnare fa alla categoria dell’avverbio, anche se con qualche prudente reticenza che denota, se non proprio un disagio, una non completa soddisfazione.

2 Il ricorso alla diacronia

Nella Grande grammatica italiana curata da Lorenzo Renzi, Giampaolo Salvi e Anna Cardinaletti (cito dalla 1a ed.) il capitolo sulla deissi è trattato da Laura Vanelli, che riserva a fa una descrizione peculiare quanto insolita chiamando in causa la diacronia, se non proprio la storia della lingua, con un’apertura opportuna e anzi necessaria dal nostro punto di vista, ma che rappresenta un’infrazione piuttosto grave al codice che, dallo strutturalismo in poi, stabilisce che la descrizione di una grammatica deve avvenire in termini di rigorosa sincronia.[1] Seguiamo dunque la sua esposizione (Vanelli 1995, 289–290):

«Alla base della locuzione ‘SN temporale + fa’ c’è l’espressione ‘(oggi/ora) fa SN temporale che...’, in cui si deve riconoscere una struttura frasale con il verbo fare (alla III pers. del pres. indicativo) usato col significato di ‹compiersi› + SN di tempo che funziona come soggetto; il complementatore che può essere sottinteso, un fenomeno tipico di certe fasi dell’it. antico, specialmente quattrocentesco. Questa costruzione, comune nell’it. antico, è marginale nell’italiano contemporaneo:

(a) Oggi fa l’anno che nel ciel salisti (Dante, Vita Nuova)

(b) Fa trent’anni, o più, che io sono stato qui[2] (Vite dei Santi Padri)

(c) Fa ora di questo mese anni sette ti partisti di Firenze (Macinghi Strozzi, Lettere)

(d) ? Oggi fauna settimana che è partito.

Come si vede dagli ess. (b-c) il verbo fare rimane alla II pers. sing. anche se il SN temporale è plurale, secondo la regola toscana per cui, quando un soggetto è posposto, il verbo non viene accordato per numero (ad es. Cade le foglie). Questo fatto ha favorito il passaggio dall’espressione frasale alla locuzione moderna (già nota comunque anche in it. antico), in cui fa (oltre ad apparire a destra del SN) non viene più riconosciuto come la forma flessa di fare.

Il valore deittico della frase ‘fa SN che...’ va considerato non intrinseco a questa espressione, ma viene ricavato contestualmente: ed es. in (a-c-d) la locuzione è resa deittica dalla presenza di espressioni inerentemente deittiche come oggi e ora di questo mese, in (b) l’interpretazione deittica è ricavata dal contesto generale. Si trovano anche casi in cui l’interpretazione è anaforica (e il verbo viene regolarmente flesso):

(e) Martedì, fece otto giorni, prese la medicina, ch’ella le ordinò (Rucellai, Saggio di Lettere)».

Ci si domanda come mai nel caso specifico di fa l’Autrice abbia sentito il bisogno di ricorrere ad argomenti di natura diacronica, peraltro correttamente formulati, citando esempi dell’italiano dei primi secoli e la risposta va ricercata nell’insoddisfazione, se non proprio nell’incertezza, della spiegazione sincronica. Dicendo «alla base c’è l’espressione...», lascia indeterminata e quindi aperta l’interpretazione: struttura originaria o struttura soggiacente?

Nell’esposizione notiamo due affermazioni sulle quali la stessa Vanelli ha avuto un ripensamento: la prima consiste nell’assegnazione del ruolo di soggetto al SN che segue il verbo fa, chiosato come ‘compiersi’ e la seconda nell’attribuzione di un valore contestualmente e non inerentemente deittico al verbo fa, in quanto la deissi sarebbe espressa dagli avverbi cooccorrenti, come ora e già. In un intervento successivo (Vanelli 2002)[3] entrambe le affermazioni sono state rivedute, allineandosi alle interpretazioni date di solito dagli storici della lingua (per tutti cf. ora Patota 2018): il ruolo del SN è di oggetto – e quindi fa andrà chiosato con ‘compiere’ – e fa è inerentemente deittico in quanto forma verbale del tempo presente.

Viene invece ribadita negli interventi successivi alla 1a edizione della Grande Grammatica l’interpretazione anaforica e quindi non-deittica di fece in contesti come Martedì fece otto giorni..., interpretazione che non mi sento di condividere: la forma flessa fece testimonia la conservazione piena del valore verbale di fare, che in questo caso ha come riferimento deittico il tunc ovvero un momento diverso da quello dell’enunciazione collocato nel passato e quindi momento della narrazione.

Il punto più importante dell’intervento di Laura Vanelli è l’ipotesi sul processo che avrebbe portato alla grammaticalizzazione di fa come avverbio. Le tre strutture sintattiche nelle quali ricorrono le locuzioni con fa, definite «reggente», «parentetica» e «avverbiale», sono rappresentate dagli esempi seguenti:

(10) Oggi fa XXVI giorni che lo re Marco entrò negli borghi (Tristano)

(11) Io, misera me, già sono otto anni, t’ho più che la mia vita amato (Decameron)

(12) Mangiasti tu in casa tua o in casa altrui oggi fa quindici dì? (Trecentonovelle)

Ordinate in diacronia, esse costituirebbero gli stadi che hanno portato alla grammaticalizzazione di fa in frasi come Io salai un porco forse otto dì fa (Trecentonovelle), dove la sua collocazione finale, allineata con elementi come prima e dopo, ha favorito la sua rianalisi come avverbio.

3 L’evoluzione sintattica dell’italiano e il mutamento preadattivo

Se siamo d’accordo sulla fase finale del processo di grammaticalizzazione, non riteniamo che ci siano supporti testuali sufficienti per sostenere il processo nel suo insieme. L’anello più debole è rappresentato dalle frasi parentetiche prima di tutto per la loro rarità e quindi la loro scarsa rilevanza in rapporto alle strutture sintattiche concorrenti al punto che non è stato possibile trovare un esempio con fare nei repertori del XIV secolo e si è dovuto ricorrere a un esempio con essere. Ma c’è molto di più: il caso di fa si inscrive nel generale mutamento di struttura sintattica che caratterizza il trapasso dalla fase arcaica dell’italiano quale emerge dalle testimonianze dei secoli XIII-XV alla fase moderna che matura nel XVI secolo.

I dati statistici che siamo in grado di citare grazie alla tabella compilata da Giuseppe Patota sugli spogli della LIZ e del TLIO (2018, 475–476) sono già di per sé indicativi:

secolo tipo fa un anno tipo un anno fa tipo fa poco tipo poco fa
Trecento 16 4 9 27
Quattrocento 18 15 2 30
Cinquecento 7 33 2 195
Seicento 2 9 37
Settecento 29 50

Appare con tutta evidenza che l’anteposizione di fa rispetto all’indicazione della durata temporale da maggioritaria nei primi due secoli diviene nettamente minoritaria e residuale nel Cinquecento e nel Seicento fino a scomparire nel Settecento. C’è però il caso particolare della locuzione poco fa, dove la posposizione di fa è nettamente maggioritaria fin dal Trecento in controtendenza col resto delle attestazioni, caso che non si spiega se ci si limita all’osservazione miope della reciproca posizione dei costituenti, peggio che mai se si ricorre alle metafore spaziali del tutto fuorvianti di «dislocazione a destra» vs. «dislocazione a sinistra».[4]

Se si allarga la prospettiva al contesto sintattico in cui ricorrono le locuzioni con fa, si osserva che, accertata l’irrilevanza delle frasi parentetiche, le strutture sintattiche più frequenti nei testi del Trecento rispetto all’ordine delle parole sono due: una frase scissa con l’espressione della distanza temporale focalizzata in posizione iniziale conforme al modello di

(10) Oggi fa XXVI giorni che lo re Marco entrò negli borghi (Tristano),

che alterna con frasi giustapposte prive di focalizzazione come

(13) già fa buon tempo udi’ dire che... (Trecentonovelle)

e una frase con l’espressione della distanza temporale giustapposta in posizione finale conforme al modello

(14) ... l’ha signoreggiata con una mula già fa cotant’ anni (Trecentonovelle),

che alterna con frasi con ordine inverso all’interno di quella che è ormai una locuzione avverbiale, come in

(15) Io salai un porco forse otto dì fa (Trecentonovelle).

A questo proposito è opportuno richiamare il parallelismo, proposto dalla stessa Vanelli, con frasi del tipo è andato via saranno dieci minuti, correnti nell’italiano colloquiale, dove la distanza temporale è espressa per mezzo del verbo essere sempre mediante due frasi giustapposte. L’alternativa è espressa dalla frase scissa saranno dieci minuti che è andato via e dipende dalla differenza di prospettiva pragmatica: nella struttura scissa l’informazione prioritaria è rappresentata dalla distanza temporale, nella struttura coordinata dall’evento.

Nei testi medievali si noterà che fa, quando ricorre in posizione iniziale nell’espressione della distanza temporale, è comunque preceduto da un avverbio come già, ora, oggi e via dicendo secondo il principio noto come legge Tobler-Mussafia; l’avverbio si trova sul picco accentuale mentre fa ricorre nella valle immediatamente seguente ed è quindi atono. Anche all’interno della locuzione poco fa il quantificatore temporale poco precede ordinariamente fa portando l’accendo del sintagma, come è dato di vedere dall’esempio seguente tratto dal Decameron VIII, 3:

(16) – Io non so, ma egli era pur poco fa dinanzi da noi.

(17) Disse Bruno: – Benché fa poco, a me par egli esser certo ch’egli è ora a casa a desinare...

Nella nota novella di Calandrino e l’elitropia Bruno e Buffalmacco fingono di non vedere più Calandrino e alla constatazione di Buffalmacco che questi poco prima (pur poco fa) era davanti a loro Bruno risponde che, per quanto sia passato poco tempo, si trova già a casa per il pranzo: nella concessiva l’inversione del sintagma fa poco è resa possibile dalla presenza della congiunzione benché, che porta l’accento iniziale della frase. Allo stesso modo la frase minima ricorrente bene sta, formata anch’essa da un avverbio e da un verbo monosillabico con significato affine a ‘essere’, aveva presumibilmente l’intonazione discendente bène sta, che si è invertita in sta bène quando nella fase moderna l’intonazione è divenuta ascendente.

Quanto abbiamo appena detto va collocato nel quadro generale della sintassi dell’italiano dei primi secoli, caratterizzato dalla forte incidenza, se non dalla predominanza, di strutture di tipo focus-prominent con accento iniziale e intonazione discendente, tratto che pone le fasi iniziali delle lingue romanze in continuità con la sintassi del latino.[5] L’abitudine, ormai divenuta prassi in tutti gli studi di sintassi, a prendere in considerazione la lingua solo attraverso la sua rappresentazione grafica tralasciando come non pertinenti i cosiddetti tratti soprasegmentali, ci ha allontanato dalla realtà viva della lingua precludendoci in qualche caso la comprensione di alcuni aspetti essenziali.

In mancanza di documenti sonori, la legge di Tobler-Mussafia è una delle spie principali che ci permettono di inferire quali fossero le caratteristiche prosodiche dell’italiano dei primi secoli, caratteristiche che hanno conseguenze dirette sulla sua struttura sintattica. Che l’italiano di Dante e Boccaccio non avesse la stessa grammatica dell’italiano del Novecento è universalmente noto, ma non altrettanto universalmente note sono le differenze fra i due sistemi. Ebbene, una di queste la stiamo toccando con mano nell’affrontare il caso di fa. Il trapasso fra le due fasi, che ha la sua chiave di volta nel XVI secolo, è segnato dalla progressiva inefficienza della legge Tobler-Mussafia, segno del mutamento da una sintassi prevalentemente focus prominent con intonazione discendente a una sintassi prevalentemente topic prominent con intonazione ascendente.[6]

È in questo quadro che si è realizzata la grammaticalizzazione di fa: in un contesto come Io salai un porco forse otto dì fa la sequenza forse otto dì fa acquisisce un’intonazione ascendente con accento principale sull’elemento finale fa e da frase giustapposta diventa sintagma esprimente un complemento circostanziale. Nel contempo fa, verbo sostantivo al tempo presente con valore aspettuale telico, viene reinterpretato come avverbio equivalente a prima con riferimento al nunc e il suo complemento diretto diventa il suo modificatore con funzione di quantificatore temporale.

La sproporzione della frequenza a favore di poco fa, evidente nella tabella riportata sopra, induce a supporre che questa sia la struttura minima contenente gli elementi essenziali, che ha subito per prima il processo di rianalisi e sia stata l’innovazione trainante, sempre in grazia della sua maggior frequenza, per le sequenze simili secondo il modello diffusionista dei mutamenti linguistici.[7] Alle stesse conclusioni è giunto Giuseppe Patota (2018, 476), il quale aggiunge ai fattori che hanno favorito l’adozione delle strutture con fa posposto la selezione operata da Pietro Bembo nelle Prose delle quali si ragiona nella volgar lingua, dove figura solo il tipo poco fa.

Il processo di grammaticalizzazione appena descritto è uno degli innumerevoli casi di mutamento linguistico che consiste nell’adattamento di vecchie strutture a nuove funzioni; mutuando il termine dalle scienze che studiano i meccanismi evolutivi, prima di tutto la biologia, l’ho definito a suo tempo «mutamento preadattivo» (Nocentini 2014 a, 67).[8] Il mutamento preadattivo avviene col minimo dispendio di energie: sul piano sintattico l’ordine della sequenza poco fa esisteva come alternativa a fa poco, poi è divenuto progressivamente dominante e infine si è fissato come unica possibilità; sul piano fonetico il mutamento ha riguardato i tratti soprasegmentali e come conseguenza fa da atono è divenuto tonico. La principale condizione esterna perché un mutamento preadattivo si realizzi è l’esistenza di strutture e di funzioni a cui l’innovazione si possa allineare: nella fattispecie il verbo fa ha assunto la funzione di avverbio modellandosi sugli avverbi di tempo già esistenti, come prima e dopo.

Per dovere di completezza sono obbligato a citare una voce dissonante dal coro: in un articolo dedicato allo sp. hace da Charles Elerick (1989), si avanza l’ipotesi che esso derivi dal lat. abhinc ‘di qui, da questo momento’, successivamente identificato con hace da hacer; una sorte simile sarebbe toccata a fa come esito ipercorretto di *ha da ab ‘da’ (Elerick 1989, 93). Non intendo perdere tempo a confutare un simile sproposito, ma non posso fare a meno di rimanere stupito che gli sia stato dato credito in alcuni studi di linguistica teorica.

4 Le indicazioni della comparazione

Sarà utile, prima di affrontare la questione sul piano teorico, procedere a una ricognizione, senza la pretesa di essere esaurienti o di proporre universali, delle strategie sintattiche messe in atto dalle lingue più note per esprimere la distanza temporale mediante una comparazione contrastiva. Ma prima di tutto partiamo dalla comparazione intralinguistica.

Un possibile sostituto di fa in frasi come (5) è la locuzione avverbiale or sono, formata dalla variante tronca dell’avverbio ora e dalla 3a persona plurale del presente di essere, che richiede il plurale del quantificatore temporale:[9]

(5a) Il fatto è avvenuto dieci anni or sono,

frase che mantiene il valore deittico del verbo e quindi il riferimento al momento dell’enunciazione, ma è limitata nell’uso a un registro marcatamente formale e letterario. Altri sostituti di fa sono gli avverbi addietro e prima, ma l’occorrenza del secondo, come abbiamo visto al §1, è limitata a frasi come (7b) con riferimento al momento della narrazione.

L’espressione della distanza temporale nel futuro è affidata alle preposizioni fra e tra, che presuppongono il riferimento al momento dell’enunciazione pur non essendo inerentemente deittiche e alterna con l’avverbio dopo quando il riferimento si sposta al momento della narrazione:

(18) Il treno partirà fra/tra dieci minuti

(19) Dissero che il treno partiva dieci minuti dopo.

Le indicazioni che ci vengono dalla comparazione intralinguistica non sono decisive né a favore né contro l’interpretazione di fa come avverbio e ancor meno lo sono le indicazioni provenienti dalla comparazione interlinguistica nell’ambito della famiglia romanza. Di origine verbale sono il fr. il y a, il port. (entrambi dal significato originario di ‘esserci’) e lo sp. hace (omologo dell’it. fa), tutti interpretabili come preposizioni. Se ne discosta il rumeno, che utilizza il sostantivo urmă ‘traccia, orma, seguito’ con un complemento di stato in luogo di tipo avverbiale:

(20) Am văzut pe Ion cucinci zile în urmă‘ho visto Giovanni cinque giorni fa (indietro)’

Peculiare è anche la situazione del sardo, come ci si deve attendere da un’area isolata. In mancanza di uno standard a cui far riferimento, prenderemo a campione la varietà nuorese,[10] che all’it. dieci giorni fa risponde con [ˈdεkε ˈdiεz aˈkkͻmmͻ], dove [ˈkkͻmmͻ] vale ‘adesso’ e in alternativa con [ˈdεkε ˈdiεz kͻˈlaͻzͻ], dove [kͻˈlaͻzͻ] vale ‘passati’; è anche usata la variante italianizzata [ˈdεkε ˈdiεz ˈfakεtε], dove [ˈfakεtε] corrisponde a fa, mentre poco fa è reso con [ˈkkͻmmͻ paˈkͻra], dove [paˈkͻra] vale alla lettera ‘poco ora’. In breve la forma più comunemente usata è la prima ed è quindi un avverbio con valore deittico riferito al momento dell’enunciazione.

La difformità delle strutture per esprimere la distanza temporale che si riscontra nel dominio romanzo, nonostante le concordanze parziali fra italiano e spagnolo da un lato e francese e portoghese dall’altro, è dovuta in primo luogo alla discontinuità col latino: perduta la sua eredità, ogni lingua neolatina ha innovato secondo una propria deriva. Per esprimere la distanza temporale nel passato il latino usava le preposizioni ante ‘prima, avanti’, non deittica, e abhinc ‘di qui, da qui’ inerentemente deittica, entrambe col caso accusativo.

Un po’ diversa è la storia della distanza temporale nel futuro. Il latino si serviva per lo più dell’ablativo semplice: p.es. quinque annis, colla possibile interposizione del dimostrativo di prossimità his, equivaleva a ‘fra/tra cinque anni’ e più raramente ricorreva alla preposizione intra ‘dentro’, da cui intra quinque annos continuato dall’it. tra cinque anni; il fr. dans ‘in, dentro’, lo sp. e port. dentro de hanno reintrodotto una preposizione semanticamente equivalente a intra, mentre il rumeno usa la preposizione peste ‘sopra’.

Al di fuori del dominio romanzo un campionario sufficientemente indicativo dell’espressione della distanza temporale nelle lingue del mondo è offerto dal saggio di Martin Haspelmath, che dice a proposito dell’origine dei marcatori della distanza nel passato e nel futuro:

«[...] the majority type is clearly the formal identity between distance-past markers and anterior markers on the one hand, and distance-future and posterior markers on the other hand» (Haspelmath 1997, 80).

Ciò vuol dire che la maggioranza delle lingue censite si serve di avverbi o di preposizioni (o posposizioni) col significato di ‘prima, avanti’ e ‘dopo, dietro’, come abbiamo visto nel latino, e che il comportamento delle lingue romanze tradisce quest’aspettativa. Ma anche quando l’aspettativa è rispettata, resta aperta l’opzione fra preposizione (o posposizione) e avverbio; così, p. es., all’interno della famiglia slava, il ceco před, il polacco przed e l’ukraino перед sono tutte preposizioni col significato di ‘prima’ che esprimono la distanza temporale (non deittica) al passato a differenza del russo, che usa l’avverbio назад ‘addietro’, preceduto facoltativamente dal pronome тому ‘a ciò’.

La rassegna potrebbe continuare estendendosi alle lingue meno note e familiari senza un apprezzabile indicazione a favore di una strategia sintattica nettamente prevalente; anzi, più la nostra conoscenza si estende e più dobbiamo esser pronti a incontrare soluzioni inaspettate. Coloro che constatassero con disappunto l’impossibilità di un universale si devono accontentare di indicare tendenze e si possono consolare col detto aureo variatio delectat.

5 L’intervento della linguistica teorica

Lo status categoriale di fa figura in due trattazioni generali nell’ambito di quella che potremmo definire comparazione tipologica funzionale a opera di due eminenti studiosi, Martin Haspelmath e Claude Hagège. Il primo prende in considerazione gli avverbi di tempo di origine spaziale, il secondo le adposizioni (categoria che comprende preposizioni e posposizioni), fondandosi su una vasta e varia campionatura delle lingue del mondo.

Entrambi gli studiosi classificano fa come posposizione: Haspelmath (1997, 88–89) lo pone fra i marcatori di distanza temporale di origine verbale insieme al fr. il y a e allo sp. hace, Hagège (2009, 161–162) lo annovera fra le adposizioni di origine verbale, considerandolo funzionalmente equivalente all’ingl. ago e al fr. il y a e omologo dello sp. hace, del port. e del creolo haitiano .

A questa conclusione i due studiosi sono arrivati sulla base del fatto che fa, diversamente da quello che succede a un avverbio, ricorre solo in presenza di determinanti nominali che vengono interpretati come il complemento o l’argomento retto dalla posposizione; il sintagma dieci giorni fa viene allineato al suo equivalente ted. vor zehn Tagen, da cui si deduce l’equivalenza funzionale di fa con vor.

Più articolato nelle argomentazioni è il saggio di Bernd Kortmann e Ekkehard König (1992), dedicato espressamente alle adposizioni di origine verbale. Nel considerare le preposizioni derivanti da un participio, nella fattispecie l’ingl. during e il fr. pendant, equivalenti all’it. durante, i due studiosi mettono in evidenza il ruolo dell’ordine delle parole: mentre nelle fasi medievali dell’inglese e del francese l’ordine delle parole relativamente libero consentiva una collocazione dei participi sia prima che dopo il verbo reggente, l’irrigidimento a favore dell’ordine SVO avvenuto nelle fasi moderne ha provocato la fissazione della collocazione e la specializzazione delle funzioni di modo che la posizione preverbale o postverbale è divenuta un fattore discriminante per l’attribuzione delle funzioni.

Così, p.es. l’ingl. notwithstanding, equivalente all’it. nonostante, ricorre nelle frasi sinonime:

(21a) We did it, his objections notwithstanding

(21b) We did it, notwithstanding his objections

Ma in base alla posizione rispetto al verbo in (21a) funziona da avverbio e in (21b) da preposizione. A dispetto di questa premessa e del fatto che nel medio inglese la sua posizione fosse libera, l’ingl. ago, antico participio passato del verbo ago, derivato di go col preverbio a- (= on) caduto in disuso nella fase moderna, viene classificato come adposizione e in particolare posposizione; nella stessa categoria finiscono il fr. il y a, lo sp. hace e l’it. fa. Vero è che in inglese la preposizione può essere collocata dopo il verbo nelle frasi relative come the man I rely on ‘l’uomo su cui faccio affidamento’, ma si tratta di strutture marcate e minoritarie e in ogni caso, rispetto a queste, la posizione postverbale di ago è la sola possibile.

Ma c’è un’altra anomalia che i due studiosi non mancano di rilevare: nel sintagma three years ago il determinante nominale three years viene interpretato non già come argomento (o complemento) di ago, ma come suo specificatore (o modificatore), interpretazione che appare pienamente motivata nel caso di long ago (strutturalmente identico a poco fa), dove long non può che essere un avverbio o un aggettivo e comunque un modificatore nominale. Di conseguenza ago presenta due proprietà singolari: è una posposizione ed è priva dell’argomento o, in altri termini, non regge nessun complemento. La singolarità di questa proprietà è stata successivamente ribadita da Edwin Williams (1994) e lo status di posposizione è accettato dalla maggior parte degli studi e delle grammatiche con preoccupazioni di rigore teorico.

Sulla stessa linea si muove l’intervento di Dennis Kurzon (2008), che però se ne discosta in non pochi punti. A proposito di notwithstanding l’esempio (21a) in cui ricorre dopo il suo argomento (o complemento) è citato non per distinguere la sua natura avverbiale, ma per confermare l’esistenza di posposizioni in inglese oltre ad ago. Coerentemente coll’interpretazione preposizionale di ago, nel sintagma three years ago la funzione di three years è di complemento e non di specificatore e a questo proposito il caso di long ago è giustificato come «eccezionale».

Kurzon rileva un’ulteriore difficoltà a considerare ago una preposizione, che consiste nell’impossibilità di reggere un pronome come sostituto del suo complemento: in altre parole three years ago non ammette la sostituzione *them ago. Quanto a long in long ago, più che un avverbio o un aggettivo, si tratterebbe di una pro-forma generica che sostituisce l’espressione precisa della quantità. E a conclusione delle sue argomentazioni l’Autore enuncia un sillogismo con una progressione logica stringente che farebbe impallidire un filosofo scolastico: (i) in inglese esistono preposizioni transitive (cioè che reggono un complemento), (ii) nelle lingue del mondo esistono le posposizioni, (iii) ago è la testa di un sintagma con complemento.

Non mancano tentativi di spiegazione nell’ambito della teoria generativa, come quello di Ludovico Franco (2012), che si fonda sulla nozione di movimento e si colloca quindi sulla stessa linea di Vanelli (2002), distinguendosene per il maggior numero di implicazioni teoriche e, di conseguenza, per la maggior difficoltà di decrittazione. Il punto di partenza è rappresentato da frasi scisse come (19a), corrispondenti a (10), che hanno subito il movimento verso frasi come (19b), corrispondenti a (12):

(22a) Fanno due anni che Gianni è partito

(22b) Gianni è partito due anni fa.

Il movimento comporta sul piano morfologico l’erosione della concordanza del verbo con un soggetto plurale fissando fa come forma unica, e la cancellazione della congiunzione subordinante che col conseguente declassamento della frase reggente a complemento, la cui testa è la posposizione fa.

La prima obiezione che viene in mente è che (22a) è possibile in italiano moderno, ma non trova posto nella lingua del XIV secolo, dove due anni, come abbiamo avuto modo di mostrare sopra, non rappresenta il soggetto, ma l’oggetto di fa, che in principio non potrebbe ricorrere e di fatto non ricorre mai all’inizio assoluto di frase; non c’è dunque nessuna «erosione» della flessione verbale. Ma non ci sono nemmeno prove testuali o motivazioni strutturali cogenti a sostegno di un movimento che derivi (22b) da (22a): si tratta di due opzioni previste dal sistema e, se proprio dobbiamo porle in una relazione dinamica, sarà semmai (22a) a derivare da (22b) tramite un processo di scissione (clefting) motivato dalla focalizzazione della distanza temporale.

In generale poi, l’obiezione che inficia in partenza l’approccio generativista, è di muoversi in una dimensione metacronica preoccupandosi di dimostrare la validità di applicazione di alcuni principii a priori e ponendo in secondo piano i dati testuali e cronologici, che rappresentano invece la realtà primaria da considerare, a maggior ragione quando si tratta di stadi di lingue di cui non abbiamo più la competenza attiva.

6 Il nocciolo della questione: avverbio o posposizione?

Prima di affrontare il nocciolo della questione, mi sia concesso di fare un paio di considerazioni super partes. I seguaci delle due correnti di pensiero, che abbiamo indicato genericamente colle etichette di linguistica storica e linguistica teorica, riguardo alla risposta da dare al dilemma posto nel titolo, sono compatti nel proporre due soluzioni contrastanti: fa è un avverbio per gli uni e una posposizione per gli altri. La prima considerazione è di carattere etico: salvo rare eccezioni le due correnti procedono ignorandosi reciprocamente e i loro seguaci prendono in considerazione quasi esclusivamente gli studi che appartengono alla propria corrente con un atteggiamento settario che nuoce al progresso della disciplina.

La seconda considerazione riguarda i risultati: ci si chiede come sia possibile, disponendo di strumenti di analisi così precisi e raffinati, giungere a conclusioni discordanti in una questione che a prima vista non si presenta particolarmente problematica. Credo che la cosa migliore da fare sia ripartire dalle definizioni delle due categorie di avverbio e adposizione nella prospettiva funzionale.

Cercando di dare definizioni che abbiano il minimo di implicazioni teoriche, diremo che la funzione primaria di un avverbio è quella di complemento di un verbo, mentre la funzione primaria di un’adposizione è quella di relatore fra i costituenti di una frase; si tratta di definizioni prototipiche che contemplano la scalarità delle due categorie, ma escludono la loro sovrapposizione. Va da sé che la stessa forma può essere associata a entrambe le funzioni, come avviene p. es. con gli avverbi prima e dopo, che possono fungere da preposizioni; nel loro caso la posizione prima o dopo il complemento è un fattore discriminante, come sostenuto da Kortmann e König a proposito dell’ing. notwithstanding negli esempi (18a) e (18b).[11]

A questo punto è utile richiamare la citazione di Talmy Givón posta in esergo e riproposta in questi termini: «spesso l’abbinamento naturale o non-arbitrario di una funzione con una forma particolare è dovuto alla storia particolare dell’abbinamento piuttosto che a spiegazioni funzionali» (Givón 1984, 41), proposizione in linea con quanto abbiamo detto al §3 a proposito del mutamento preadattivo. Nel nostro caso al verbo fa è stata assegnata la funzione di indicare, insieme a un quantificatore specifico, la distanza temporale nel passato dell’azione espressa dal verbo principale rispetto al momento dell’enunciazione, funzione tipicamente assolta da un complemento.

Nella fase precedente alla grammaticalizzazione, cioè nell’italiano del Trecento, fa in quanto verbo reggente il complemento che quantificava la distanza temporale, poteva essere collocato prima o dopo il verbo esprimente l’azione, opponendo il tipo fa un anno al tipo un anno fa secondo la prospettiva dell’informazione o, in termini francesi, della visée communicative. Il sistema contemplava dunque due opzioni in prospettiva diacronica: o fissare fa in posizione iniziale assegnandogli la funzione di preposizione o fissarlo in posizione finale assegnandogli la funzione di avverbio; un’alternativa che preclude a fa la possibilità di essere grammaticalizzato come posposizione.

Tutto questo è diverso dall’affermazione che fa non può essere interpretato come una posposizione poiché le posposizioni sono incoerenti col tipo sintattico italiano; ciò che si sostiene qui è che nel sistema grammaticale dell’italiano del Trecento l’assegnazione a fa della funzione di preposizione o, in alternativa, di avverbio era naturale o non-arbitraria, mentre sarebbe risultata non-naturale o arbitraria l’assegnazione della funzione di posposizione. La selezione operata a favore del tipo un anno fa costituisce l’argomento più forte per l’interpretazione di fa come avverbio.

Del resto già nei primi studi sulla tipologia dell’ordine dei costituenti era stata contestata la validità degli universali implicazionali come «se una lingua ha un ordine basico VSO è preposizionale, se ha un ordine basico SOV è posposizionale». Così, p. es., a proposito dell’apparente incoerenza tipologica del cinese, che possiede sia preposizioni che posposizioni, Claude Hagège ha mostrato la naturalezza del fenomeno nei termini indicati da Givón in quanto casi ordinari di mutamento preadattivo: le preposizioni derivano dalla grammaticalizzazione di verbi transitivi in una struttura sintattica Verbo-Oggetto, mentre le posposizioni derivano dalla grammaticalizzazione di nomi in una struttura sintattica Genitivo-Nome (Hagège 1975).

Più complesso, ma sulla stessa linea, è il meccanismo evolutivo che spiega la cooccorrenza di preverbi e preposizioni nelle lingue indoeuropee in quanto prodotti dalla grammaticalizzazione di avverbi. Le strutture sintattiche formate da verbi, avverbi e complementi che ricorrono con maggior frequenza nelle lingue indoeuropee antiche sono quattro su sei combinazioni possibili:

(a) Complemento-Avverbio-Verbo

(b) Avverbio-Verbo-Complemento

(c) Avverbio-Complemento-Verbo

(d) Verbo-Avverbio-Complemento

(e) *Complemento-Verbo-Avverbio

(f) *Verbo-Complemento-Avverbio

Usando materiali lessicali latini per rendere esplicita l’esemplificazione, risulta evidente come l’allineamento di (a) e (b) abbia prodotto preverbi e l’allineamento di (c) e (d) abbia prodotto preposizioni:[12]

(a) urbeex ire (c) ex urbeire

(b) ex ireurbe (d) ireex urbe

(e) *urbeire ex

(f) * ireurbe ex

Nel caso di fa la tabella posta al §3 mostra come la struttura sintattica dell’italiano del Duecento e del Trecento, data la prevalenza statistica di fa un anno su un anno fa coll’eccezione di poco fa, fosse favorevole alla sua grammaticalizzazione come preposizione, ma la scelta è andata verso la funzione avverbiale. Suggeriamo a questo punto che la stessa soluzione si prospetta per l’ingl. ago, che mostra una fenomenologia del tutto simile all’it. fa, anche se, non avendo la competenza nativa della lingua, lasciamo volentieri l’ultima parola ai grammatici inglesi.

Vengono così eliminate le anomalie messe in evidenza, quali la collocazione posposta, la mancanza di un complemento e, nel caso specifico di long ago, l’occorrenza di un aggettivo col valore di quantificatore. Non costituisce invece un’anomalia l’impossibilità di reggere un pronome come sostituto del suo complemento, che dipende dal significato del complemento ed è quindi un fatto di natura semantica.

La considerazione di fa come avverbio comporta anch’essa un’anomalia, che è la cooccorrenza obbligatoria di un determinante nominale; diremo allora che fa è il costituente di una locuzione avverbiale, la cui funzione è esprimere il punto terminale della distanza temporale (eredità dell’aspetto telico del verbo) e il riferimento al momento dell’enunciazione (eredità della deissi temporale), mentre al determinante o ai determinanti nominali spetta la funzione di esprimere la quantità della distanza temporale.

7 Conclusioni

Riassumendo, sul piano della sincronia l’it. fa esprimente la distanza temporale nel passato mostra alcune evidenti proprietà avverbiali e al tempo stesso antipreposizionali, che si possono cogliere anche in un contesto minimo come la locuzione poco fa: (i) la collocazione posposta; (ii) l’accento principale; (iii) la possibilità di essere determinato da un quantificatore. Queste proprietà sincroniche si sommano alle condizioni diacroniche che hanno convertito la forma verbale fa in avverbio e la cospirazione delle due dimensioni rafforza in maniera decisiva l’interpretazione a favore della funzione avverbiale.

Tornando alla questione di metodo sollevata all’inizio del §2 e riguardante l’utilizzo della dimensione diacronica per spiegare la struttura di una lingua, il non liquet espresso dalla linguistica teorica di matrice direttamente o indirettamente saussuriana e che ha nel Cours del caposcuola ginevrino il suo presupposto, esplicito o implicito che sia, non ha ragione di sussistere proprio in virtù di quanto è esposto in questo testo capitale.

Non intendo qui suscitare una querelle di natura ermeneutica su determinati passi del Cours né citare qualche inedito saussuriano dimenticato, ma semplicemente richiamarne le linee generali. Il metodo inaugurato dal Cours procede, come è noto, per dicotomie e stabilisce che ogni unità linguistica si identifica per mezzo di due dimensioni disposte secondo gli assi cartesiani in modo da trovarsi nel loro punto d’intersezione. Se le due dimensioni sono il paradigma e il sintagma, un’unità si identifica sull’asse delle ordinate mediante i rapporti colle altre unità coesistenti in un paradigma, cioè con riferimento al sistema, e sull’asse delle ascisse mediante i rapporti colle le altre unità cooccorrenti in un sintagma, cioè con riferimento ai testi.

Collo stesso criterio va applicata l’altra fondamentale dicotomia costituita dalla dimensione sincronica sull’asse delle ordinate e dalla dimensione sincronica sull’asse delle ascisse, nel cui punto d’intersezione si colloca l’unità linguistica da identificare. Ed è quello che abbiamo cercato di fare nel caso specifico dell’it. fa sviluppando le indicazioni implicite nel programma saussuriano.

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Published Online: 2021-06-30
Published in Print: 2021-06-29

© 2021 Alberto Nocentini, published by Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston

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Downloaded on 24.9.2025 from https://www.degruyterbrill.com/document/doi/10.1515/zrp-2021-0021/html
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