Abstract
The finale of Ovid’s Metamorphoses contains a sphragis in which the poet proclaims the immortality of his poetic work and the eternal survival of his pars melior (Ov. Met. 15.871–879). These lines present a number of rather close parallels with excerpts from the seventh suasoria of Seneca the Elder’s collection, whose theme is Deliberat Cicero an scripta sua comburat promittente Antonio incolumitatem, si fecisset. Allusions to this declamatory exercise may activate in the Ovidian passage a reference to the theme of book-burning, evoked especially by the term ignis in line 871: this form of censorship against authors disliked by the imperial regime began to appear toward the end of Augustus’ principate, in the very same years when Ovid completed the composition of his Metamorphoses, before in turn being exiled by Augustus (an event to which the phrase Iovis ira, again in line 871, may allude). But at the same time, in the face of such a possible threat, Ovid affirms the certainty that his work will nonetheless prove stronger than fire and grant him perpetual life.
1. Nella celebre sphragis che chiude le Metamorfosi, Ovidio proclama la certezza della sopravvivenza eterna della sua poesia, preconizzando che dopo la morte, in una sorta di ultima trasformazione del poema, egli sarà elevato con la sua pars melior (identificabile con la sua opera in quanto frutto della sua facoltà poetica, in contrapposizione al corpo mortale) al di sopra degli astri, e continuerà a vivere nella fama per tutti i secoli (Ov. Met. 15.871–879):[1]
Iamque opus exegi, quod nec Iovis ira nec ignis
nec poterit ferrum nec edax abolere vetustas.
Cum volet, illa dies, quae nil nisi corporis huius
ius habet, incerti spatium mihi finiat aevi;
parte tamen meliore mei super alta perennis 875
astra ferar, nomenque erit indelebile nostrum;
quaque patet domitis Romana potentia terris
ore legar populi, perque omnia saecula fama
(si quid habent veri vatum praesagia) vivam.
Questi versi, che si ricollegano alla simile dichiarazione posta da Ovidio a chiusura del libro 1 degli Amores, la sua prima raccolta di poesia (Ov. Am. 1.15.41–42 ergo etiam cum me supremus adederit ignis, / vivam, parsque mei multa superstes erit),[2] intrattengono un fitto dialogo intertestuale con una serie di modelli che svolgono il tema dell’immortalità poetica, a partire dall’autoepitafio di Ennio (Enn. var. 17–18 Vahl.2nemo me lacrimis decoret nec funera fletu / faxit. Cur? Volito vivos per ora virum), fino al precedente più diretto e importante, costituito dall’ode 3.30 di Orazio, che a sua volta ha la funzione di una sphragis posta a chiusura della raccolta dei primi tre libri delle Odi. Dalla puntuale ripresa del carme oraziano, marcata dal reimpiego della forma verbale exegi, derivano a Ovidio i concetti chiave dell’invulnerabilità dell’opera di poesia di fronte all’azione delle forze naturali e del trascorrere del tempo (Hor. Carm. 3.30.1–5 Exegi monumentum aere perennius, / ... / quod non imber edax, non Aquilo impotens / possit diruere aut innumerabilis / annorum series et fuga temporum), e della sua conseguente capacità di non far morire completamente l’autore, ma di permettere che multa pars di sé possa sopravvivere e crescere nella fama per una durata indefinita (Hor. Carm. 3.30.6–9 non omnis moriar multaque pars mei / vitabit Libitinam; usque ego postera / crescam laude recens, dum Capitolium / scandet cum tacita virgine pontifex).[3]
Al contempo, guardando ai paralleli interni alle stesse Metamorfosi, questa sorta di apoteosi astrale del poeta, pur da intendersi in senso più che altro figurato, si pone in continuità, riprendendone in parte motivi e linguaggio, con una serie di scene di apoteosi rappresentate in precedenza,[4] a partire da quella di Ercole, nel libro 9 (Ov. Met. 9.262–272, in part. 268–272 sic, ubi mortales Tirynthius exuit artus, / parte sui meliore viget maiorque videri / coepit et augusta fieri gravitate verendus. / Quem pater omnipotens inter cava nubila raptum / quadriiugo curru radiantibus intulit astris), fino alle due che occupano la sezione del poema che precede immediatamente i nostri versi, quella di Cesare (Ov. Met. 15.840–851, in part. 844–846 ... constitit alma Venus nulli cernenda suique / Caesaris eripuit membris nec in aera solvi / passa recentem animam caelestibus intulit astris), e quella di Augusto, già prefigurata nel discorso di Pitagora (Ov. Met. 15.448–449 quo cum tellus erit usa, fruentur / aetheriae sedes, caelumque erit exitus illi), poi annunciata da Giove (Ov. Met. 15.838–839 nec, nisi cum senior Pylios aequaverit annos, / aetherias sedes cognataque sidera tanget), e infine dallo stesso poeta nelle ultime parole prima dell’epilogo (Ov. Met. 15.868–870 tarda sit illa dies et nostro serior aevo, / qua caput Augustum, quem temperat, orbe relicto / accedat caelo faveatque precantibus absens): rispetto a tali precedenti, l’apoteosi di Ovidio costituisce anzi non solo il coronamento, in virtù della sua posizione finale, ma si configura anche come un superamento, nella misura in cui, mentre questi altri personaggi salgono tra le stelle (astra o sidera: Ov. Met. 9.272; 15.839; 15.846),[5] il poeta, elevandosi super alta ... astra (vv. 875–876), si colloca addirittura più in alto di loro.[6]
È stato per primo Philip Hardie a portare l’attenzione su un altro possibile modello, non poetico ma retorico:[7] si tratta della settima suasoria dell’antologia declamatoria di Seneca il Vecchio, che propone il tema Deliberat Cicero an scripta sua comburat promittente Antonio incolumitatem, si fecisset.[8] Come rilevato da Seneca, tutti i declamatori che avevano svolto questo esercizio e di cui sono riportati gli estratti sono concordi nel consigliare a Cicerone di rifiutare il patto proposto da Antonio e salvare i suoi libri piuttosto che se stesso:[9] essi si mostrano ben consapevoli di quale sia la vera posta in gioco nello scenario, pur fittizio e immaginario, della suasoria, insistendo sull’argomento che proprio negli scritti e nelle opere dell’ingegno sta la parte migliore e più importante dell’autore, la sola che può assicurargli una durevole sopravvivenza al di là della morte. Nella declamazione si assiste cioè allo stesso processo di ‘testualizzazione’, di identificazione dell’autore con il suo ingegno e i suoi scritti come premessa dell’immortalità, che è presupposto anche nella sphragis delle Metamorfosi.[10] Il più evidente punto di contatto con i versi ovidiani si ha in un estratto del retore Cestio Pio (Sen. Suas. 7.2):[11]
Intellexit Antonius salvis eloquentiae monumentis non posse Ciceronem mori. Ad pactionem vocaris, qua pactione melior interim pars tui petitur.
Ritroviamo qui lo stesso nesso pars melior tui per indicare l’opera letteraria di Cicerone,[12] che Antonio mira in questo caso a distruggere, nella consapevolezza che, se essa sopravvive, Cicerone non può davvero morire;[13] e interessante è anche la definizione degli scritti ciceroniani come monumenta che, pur assente in Ovidio, è comunque evocata dall’allusione al modello oraziano.[14] Sulla stessa linea si pone anche un altro estratto del retore Arellio Fusco, che insiste in modo ancora più marcato sull’immortalità dell’ingenium di Cicerone e sull’idea che rispetto a esso la vita, che ora può essere concessa o strappata da Antonio, è solo la vilissima pars sui, che non rappresenta il verus Cicero (Sen. Suas. 7.8):
Quoad humanum genus incolume manserit, quamdiu suus litteris honor, suum eloquentiae pretium erit, quamdiu rei publicae nostrae aut fortuna steterit aut memoria duraverit, admirabile posteris vigebit ingenium, et uno proscriptus saeculo proscribes Antonium omnibus. Crede mihi, vilissima pars tui est, quae tibi vel eripi vel donari potest; ille verus est Cicero, quem proscribi Antonius non putat nisi a Cicerone posse. [15]
Al di là del concettismo sul verbo proscribo, specifico di questa declamazione (è proprio grazie alla sopravvivenza dei suoi scritti che Cicerone, pur proscritto e condannato a morire, bollerà per sempre la memoria di Antonio con un marchio d’infamia), è piuttosto evidente la consonanza di idee e di toni con Ovidio: in entrambi i casi la portata della fama e della vita postuma dell’autore è tra l’altro commisurata alle sorti dell’impero romano, anche se Ovidio la pone in parallelo con l’estensione spaziale della Romana potentia (v. 877), mentre Fusco, in questo più affine al modello di Orazio, la lega alla permanenza nel tempo della fortuna o della memoria rei publicae.
Oltre a questi confronti, addotti da Hardie,[16] se ne possono aggiungere anche altri. Così l’idea del nomen destinato a restare indelebile (v. 876) trova il suo rovescio nell’oblivio nominis che, secondo una sententia di un declamatore non identificato, si prospetta per Cicerone nel caso egli accetti il patto (Sen. Suas. 7.8 qualis est pactio? ... Promittuntur pro oblivione nominis tui pauci servitutis anni). Ancora il motivo del corpus soggetto alla morte, in antitesi implicita con l’ingenium e le sue opere (vv. 873–874), figura espressamente in un’altra sententia del retore Argentario (Sen. Suas. 7.7 ut corpus, quod fragile et caducum est, servetur, pereat ingenium, quod aeternum est?). Ma soprattutto questo stesso motivo è svolto in un ulteriore estratto, appartenente di nuovo ad Arellio Fusco, ma derivato stavolta dalla precedente Suas. 6 (Deliberat Cicero an Antonium deprecetur), una declamazione che si presenta come una sorta di ‘gemella’ della Suas. 7, a essa molto affine nello sviluppo e nelle argomentazioni svolte dai retori, anche se qui manca la condizione del rogo degli scritti in cambio della vita; questo dunque il testo dell’estratto (Sen. Suas. 6.5–6):
Non te ignobilis tumulus abscondet, nec idem virtuti tuae <vitae>que finis est: immortalis humanorum operum custos memoria, qua magnis viris vita perpetua est, in omnia te saecula sacratum dabit. Nihil aliud intercidet quam corpus fragilitatis caducae, morbis obnoxium, casibus expositum, proscriptionibus obiectum. Animus vero divina origine haustus, cui nec senectus ulla nec mors, onerosi corporis vinculis exsolutus ad sedes suas et cognata sidera recurret. [17]
Ancora una volta sono quanto mai evidenti i punti di contatto con l’epilogo delle Metamorfosi, sia sul piano lessicale (il nesso in / per omnia saecula) che tematico (il corpo come unico elemento mortale; l’idea della vita perpetua assicurata dalla memoria o dalla fama);[18] in particolare i due testi convergono nella rappresentazione della finale ascesa al cielo dell’autore, destinato a ricongiungersi agli astri – o, nel caso di Ovidio, a salire al di sopra di essi – con il suo animus, ovvero con la sua parte immortale.[19] Se è vero che il brano di Fusco è riconoscibilmente ispirato al Somnium Scipionis ciceroniano e alla dottrina lì esposta del cielo (e nello specifico della Via Lattea) come sede delle anime degli uomini benemeriti nei confronti della patria,[20] e guarda quindi alla figura di Cicerone nel suo complesso, non solo e non tanto come scrittore, è anche vero che esso, soprattutto se visto in rapporto con gli estratti della Suas. 7 dove l’immortalità di Cicerone è propriamente legata al suo ingenium e attività letteraria,[21] offre un precedente significativo per l’idea, per niente banale, dell’apoteosi astrale di un poeta o letterato.[22] Tale motivo encomiastico è infatti di norma riservato a uomini di stato, sovrani e imperatori – come accade anche nella sezione delle Metamorfosi che precede immediatamente l’epilogo, dove esso è applicato a Cesare e Augusto[23] –, mentre il suo trasferimento a poeti o uomini di lettere risulta affatto eccezionale:[24] tanto più che sia in Ovidio che nella suasoria si delinea un antagonismo più o meno esplicito tra il destino dell’autore e quello dei potenti o regnanti a lui connessi, svolto nel primo caso in termini di superamento, come si è visto, nel secondo di netta antitesi, dato che ad Antonio spetta, al contrario di Cicerone, una sorta di eterna damnatio memoriae. Che del resto Ovidio avesse precisamente nella memoria questo brano declamatorio è confermato dallo strettissimo parallelo tra la conclusione dell’estratto (ad sedes suas et cognata sidera recurret) e le parole con cui Giove annuncia a Venere l’assunzione in cielo di Augusto in Ov. Met. 15.839 aetherias sedes cognataque sidera tanget: in particolare l’esatta ripresa della locuzione cognata sidera, mai attestata in precedenza, difficilmente può essere casuale.[25]
La familiarità di Ovidio con queste declamazioni risulta tutt’altro che sorprendente, data la sua lunga consuetudine con i retori e le scuole di retorica, testimoniata ancora da Seneca il Vecchio (Contr. 2.2.8–12);[26] a livello cronologico, sebbene i diversi estratti riportati nella raccolta senecana non siano databili con certezza e coprano probabilmente un arco temporale assai ampio, che attraversa l’intera durata dei regni di Augusto e Tiberio, è ben possibile che almeno in parte essi precedano la composizione delle Metamorfosi, e dunque potessero essere noti a Ovidio:[27] ciò anche tenendo conto che quella conservata da Seneca è certamente solo una piccola porzione del materiale prodotto nelle scuole di retorica attorno a questi temi, vista anche la tendenza dei retori a riproporre nel corso del tempo sempre gli stessi esercizi, e a trattarli ricorrendo a una topica che rimane più o meno costante. In questo senso è comunque significativo che i due estratti che mostrano il maggiore grado di affinità con il testo ovidiano appartengano ad Arellio Fusco, che sempre da Seneca sappiamo essere stato uno dei maestri di retorica del giovane Ovidio, e che anche in altri casi pare avere esercitato un influsso diretto sulla sua poesia.[28]
2. Se dunque bisogna ammettere la presenza di un riferimento alle suasoriae sulla morte di Cicerone nella sphragis delle Metamorfosi, resta da interpretarne il significato. Secondo Hardie, Ovidio intenderebbe in tal modo accreditarsi “come il successore di tutta la tradizione letteraria latina”, includendo nel novero dei suoi predecessori e modelli anche una figura come quella di Cicerone, simbolo dell’eloquenza romana; l’idea di una sorta di passaggio di consegne sarebbe favorita anche dalla coincidenza tra la data di morte di Cicerone e quella di nascita di Ovidio, che cadono nello stesso anno (il 43 a.C.), e “forse sono abbastanza vicine da incoraggiare pensieri di una successione”.[29]
Una tale spiegazione risulta a mio parere fin troppo semplicistica, e credo che, come in parte è stato visto già da Florence Klein,[30] i significati attivati da questo rimando possano essere altri e più profondi. Non va dimenticato il contesto soprattutto della Suas. 7, in cui il patto (fittizio) proposto da Antonio implica la minaccia della distruzione materiale degli scritti di Cicerone: da qui l’unanime appello dei retori a non cedere alla crudeltà quasi tirannica del triumviro, che dimostra così la sua ira verso l’ingenium di Cicerone (cfr. la sententia di Argentario in Sen. Suas. 7.7 ignoscere tu illum tibi putas, qui ingenio tuo irascitur?), ma scegliere piuttosto la morte, per non pregiudicare la sopravvivenza dell’unica sua parte davvero immortale.
Il richiamo allo scenario della settima suasoria può allora gettare una nuova luce sui vv. 871–872 di Ovidio, e in particolare sui primi due agenti che secondo il poeta non potranno abolere la sua opera, Iovis ira e ignis.[31] Come noto, in Iovis ira molti interpreti hanno visto un’allusione ad Augusto, soprattutto alla luce del riuso della stessa espressione nei Tristia per fare riferimento alla ‘divinità’ dalla cui ira Ovidio è perseguitato come una sorta di novello Ulisse (Ov. Tr. 1.5b.33–34 cumque minor Iove sit tumidis qui regnat in undis, / illum Neptuni, me Iovis ira premit; 3.11.61–62 crede mihi, felix, nobis collatus, Ulixes, / Neptunique minor quam Iovis ira fuit);[32] e in ciò alcuni hanno anche voluto vedere la prova che questi versi sarebbero stati composti e aggiunti al poema al tempo dell’esilio, dopo che Ovidio era stato colpito dal provvedimento di relegatio disposto dal princeps.[33] Ma a prescindere dal problema cronologico, e anche ammettendo che la composizione dell’epilogo risalga, come tutto il resto del poema, a prima dell’8 d.C., nell’immagine dell’ira di Giove è comunque difficile non cogliere un riferimento al potere imperiale:[34] tanto più che l’equiparazione tra Augusto e Giove, che nella poesia dell’esilio diventerà corrente, era stata esplicitamente stabilita da Ovidio appena pochi versi prima (Ov. Met. 15.858–860 Iuppiter arces / temperat aetherias et mundi regna triformis, / terra sub Augusto est; pater est et rector uterque).[35]
Se questo è giusto, anche ignis, che in prima battuta si può intendere come un riferimento al fulmine di Giove (in una sorta di endiadi con ira),[36] oppure a un generico incendio (a fare coppia con ferrum del verso seguente),[37] si carica di risonanze diverse, contenendo una possibile allusione a un altro fuoco molto più concreto, quello dei roghi decretati dal potere politico, che miravano a distruggere le opere di autori scomodi o invisi al regime.[38] È importante considerare il quadro storico: se la suasoria senecana propone uno scenario non solo totalmente fittizio e controfattuale, dato che nella realtà storica una tale condizione non fu mai posta da Antonio, ma anche anacronistico, nel senso che a questa altezza (e anche all’epoca in cui l’esercizio fu presumibilmente ideato) non sono ancora attestati casi di roghi di libri decretati dall’autorità pubblica per motivi di censura, questi diventano però una realtà proprio nella parte finale del principato augusteo.[39]
Il primo esempio, testimoniato ancora da Seneca il Vecchio (Contr. 10 praef. 4–8), risulta essere quello dell’oratore e storico Tito Labieno, noto per le sue simpatie pompeiane e per la parresia spinta fino all’eccesso, i cui libri furono messi al rogo per iniziativa di non meglio precisati nemici (ma verosimilmente non senza il benestare di Augusto);[40] a esso dovette seguire non molto tempo dopo il caso di Cassio Severo, condannato all’esilio in un processo per lesa maestà (come forse anche Labieno, che però anticipò la condanna dandosi volontariamente la morte) a causa di alcuni libelli diffamatori composti contro esponenti di famiglie nobili (Tac. Ann. 1.72.3; 4.21.3), e a sua volta incorso nella pena accessoria della distruzione dei suoi scritti, come si evince da una notizia di Svetonio, che ricorda che le opere di Severo, insieme a quelle di Labieno e anche di Cremuzio Cordo, furono rimesse in circolazione da Caligola (Suet. Cal. 16.1). Anche se la data precisa di questi episodi non è nota, sembra che essi debbano essere posti proprio intorno all’8 d.C. (o poco prima):[41] siamo cioè esattamente negli stessi anni in cui Ovidio completava la stesura delle Metamorfosi e subiva poi a sua volta la condanna all’esilio, fondata tra l’altro, come è ben noto, sull’accusa della composizione di un carmen (cioè l’Ars amatoria, anche se c’è chi ha pensato che le stesse Metamorfosi possano avere avuto un ruolo),[42] ritenuto moralmente indegno e offensivo per il regime, e sottoposto anch’esso a un provvedimento di censura come l’esclusione dalle biblioteche pubbliche (cui Ovidio accenna a più riprese nelle opere dell’esilio).[43]
A giudicare dalle parole di Seneca il Vecchio, che pur scrivendo a distanza di tempo dagli eventi deplora con toni indignati la pena inflitta ai libri di Labieno, presentata tra l’altro, con un’immagine che può ricordare quella usata da Ovidio, come un ignis sottoposto al nomen anziché al corpo dell’autore (Sen. Contr. 10 praef. 7 veritus scilicet ne ignis, qui nomini suo subiectus erat, corpori negaretur), questi casi dovettero suscitare notevole scalpore nell’opinione pubblica; ed è pensabile che essi avessero anche riportato di attualità un esercizio declamatorio come la Suas. 7, che in un certo senso aveva anticipato quasi profeticamente la realtà;[44] di fatto non si può escludere che tra gli estratti riportati da Seneca alcuni siano successivi a tali episodi, risentendo dell’eco da essi generata (e del resto anche la tirata di Seneca sulla sorte di Labieno mostra chiaramente il suo debito, a livello di schemi di pensiero e di linguaggio, verso questi modelli declamatori).[45]
Letti in questo quadro, i versi conclusivi delle Metamorfosi, con le allusioni in essi contenute alle suasoriae su Cicerone, assumono un significato di particolare pregnanza: essi si configurano come una sorta di monito e quasi di sfida rivolta ad Augusto e al potere imperiale a non voler esercitare la propria ira contro l’opus eretto da Ovidio e pensare di annientarlo con il fuoco (o con il ferro), dato che a esso, come anche al suo autore, è comunque garantita un’esistenza immortale.[46] E d’altra parte – sembra ancora sottintendere il poeta –, vista la capacità eternante della poesia, un eventuale tentativo di distruzione delle Metamorfosi si rivelerebbe controproducente per lo stesso Augusto, andando a cancellare anche la sua celebrazione contenuta subito prima della sphragis. Naturalmente le parole di Ovidio risulterebbero ancora più pregnanti nell’ipotesi che l’epilogo delle Metamorfosi sia davvero stato composto in esilio; ma anche in caso contrario il discorso resta valido, se si ammette che già prima della punizione che lo colpì nell’8 d.C. il poeta potesse sentirsi in qualche modo ‘sotto osservazione’ da parte del regime.
Che queste riflessioni fossero del resto ben presenti nella mente di Ovidio è confermato da un brano dell’elegia 1.7 dei Tristia, risalente alla prima fase dell’esilio, in cui egli narra il noto aneddoto del suo tentativo di dare alle fiamme le Metamorfosi, o per odio nei confronti delle Muse, che erano state la causa della sua rovina, o perché insoddisfatto per lo stato di incompiutezza del poema (Ov. Tr. 1.7.15–26):
Haec ego discedens, sicut bene multa meorum, 15
ipse mea posui maestus in igne manu;
utque cremasse suum fertur sub stipite natum
Thestias et melior matre fuisse soror,
sic ego non meritos mecum peritura libellos
imposui rapidis viscera nostra rogis: 20
vel quod eram Musas, ut crimina nostra, perosus,
vel quod adhuc crescens et rude carmen erat.
Quae quoniam non sunt penitus sublata, sed extant
(pluribus exemplis scripta fuisse reor),
nunc precor ut vivant et non ignava legentum 25
otia delectent admoneantque mei.
Attraverso questa elegia dei Tristia, in cui si prospetta l’eventualità di una distruzione nel fuoco (in igne, v. 16) della sua opera per ragioni di (auto)censura, Ovidio sembra in qualche modo offrire retrospettivamente una precisa chiave di lettura per il finale delle Metamorfosi, indirizzando a vedere nell’ignis lì citato un riferimento al rogo deliberato dei libri, e rafforzando così anche la connessione con le suasoriae ciceroniane.[47] La situazione nell’elegia è ovviamente diversa, poiché qui è l’autore stesso che vuole distruggere il proprio poema, senza l’intervento di agenti esterni,[48] ma l’esito è in definitiva analogo: anche nei Tristia l’opera letteraria si rivela più forte del fuoco, se non altro perché diffusa in molte copie (v. 24), e vive poi di vita autonoma, divenendo garanzia della sopravvivenza postuma del poeta (vivant del v. 25 sta in parallelo con il vivam finale delle Metamorfosi).[49] Questa idea della sostanziale inutilità di ogni azione, da qualunque parte essa venga, che mira a cancellare con il fuoco l’esistenza fisica di un’opera di letteratura può anch’essa provenire dalla Suas. 7: come rilevano infatti i più avvertiti tra i declamatori, la minaccia di Antonio di eliminare ogni traccia degli scripta di Cicerone imponendo di bruciarli è realisticamente insensata, dato che la loro circolazione in tutto il mondo ne assicura in ogni caso la conservazione (cfr. soprattutto Sen. Suas. 7.11 Silo Pompeius sic egit, ut diceret Antonium non pacisci sed illudere: non esse illam condicionem sed contumeliam. Combustis enim libris nihilominus occisurum. Non esse tam stultum Antonium ut putaret ad rem pertinere libros a Cicerone comburi, cuius scripta per totum orbem terrarum celebrarentur).[50] Tale motivo diventa poi topico nelle riflessioni di autori più tardi a proposito di altri casi di roghi di libri, fino a trovare la sua formulazione più acuta in una celebre pagina degli Annales di Tacito, nel commento conclusivo all’episodio del processo dello storico Cremuzio Cordo: qui Tacito, dopo aver rilevato che i libri di Cremuzio sopravvissero nonostante la condanna al rogo, irride la follia di coloro che, in virtù della loro presente potentia, credono di poter disporre del controllo sulla memoria delle future generazioni, mentre l’unico esito della loro saevitia è di accrescere l’auctoritas e la gloria degli ingenia puniti, e di procurare per contro dedecus a loro stessi.[51]
Anche il finale delle Metamorfosi sembra inquadrarsi nello stesso orizzonte concettuale, e anzi in qualche modo inaugura, pur in forma indiretta e velata, questo tipo di riflessioni sul destino di autori e opere eventuali vittime di censura: in esso Ovidio proclama la certezza assoluta dell’immortalità della sua opera, capace di resistere non solo agli agenti del tempo, ma anche a più immediate minacce e provvedimenti punitivi, come può essere il rogo dei libri, provenienti da un potere ostile.
APPENDICE – Pars melior sui: per la storia di una iunctura
Come si è visto, uno dei più significativi punti di contatto tra il finale delle Metamorfosi e la Suas. 7 sta nella definizione di pars melior sui (mei, tui) per indicare la parte immortale dell’autore, incarnata dalla sua opera letteraria, che sfugge al destino di annientamento fisico e materiale, e si apre a una vita imperitura. Credo sia pertanto interessante ripercorrere la storia di questa iunctura, per definirne l’origine e il significato.
Possiamo prendere le mosse nuovamente dall’ode 3.30 di Orazio, che rappresenta un vero e proprio archetipo dei motivi legati all’immortalità poetica, dove ricorre l’espressione multa pars mei per indicare la parte di sé che si sottrae alla morte (Hor. Carm. 3.30.6–7 non omnis moriar, multaque pars mei / vitabit Libitinam): come notano Nisbet e Rudd, rispetto all’idea di matrice filosofica della possibile sopravvivenza di una qualche parte del proprio essere (cioè l’anima) dopo la morte,[52] “Horace gives this platitude a different meaning: that he will live on in his poems, which are part of what he is”.[53]
Come sappiamo, la frase oraziana è ripresa alla lettera da Ovidio nella sua prima sphragis, quella degli Amores (Ov. Am. 1.15.42 vivam, parsque mei multa superstes erit). Se nella sphragis delle Metamorfosi (Ov. Met. 15.875), che pure si rifà direttamente sia a Orazio che agli Amores, Ovidio varia l’espressione riformulandola in termini qualitativi (parte ... meliore mei) anziché quantitativi (multa pars), è probabilmente anche per il recupero del modello delle declamazioni su Cicerone, che avevano introdotto questa nuova forma della iunctura: la presenza dell’esatta espressione melior pars tui nella sententia di Cestio Pio (Sen. Suas. 7.2), ma anche di quella che si può considerare la sua antitesi (vilissima pars tui) nell’estratto di Arellio Fusco (Sen. Suas. 7.8), lascia immaginare ulteriori possibili variazioni sul tema da parte anche di altri retori, che potevano avere reso popolare l’idea e la formulazione a essa associata. Nella suasoria la pars melior si identifica precisamente con i monumenta eloquentiae (come si esprime Cestio), o anche più in astratto con l’ingenium, il talento letterario di Cicerone, che secondo Fusco è ciò che è destinato a durare (Sen. Suas. 7.8 admirabile posteris vigebit ingenium).[54] Quando dunque l’espressione è ripresa da Ovidio nel finale delle Metamorfosi, essa può incorporare entrambi questi significati, denotando non solo l’opus, il monumento poetico dell’autore, ma anche il suo ingenium immateriale, di cui l’opera poetica è appunto il frutto; mentre il parallelo con la declamazione mi pare escluda la possibilità di intendere melior pars come l’anima, come vogliono alcuni interpreti.[55]
Prima di applicarla a se stesso nell’epilogo del poema, Ovidio aveva tuttavia già impiegato la formula a proposito dell’apoteosi di Ercole (Ov. Met. 9.268–269 sic, ubi mortales Tirynthius exuit artus, / parte sui meliore viget). Qui il significato è necessariamente un po’ diverso, ma Ovidio sembra comunque già essersi ispirato alla nostra suasoria, come può segnalare l’uso del verbo viget, che si trova, detto dell’ingenium di Cicerone, anche nel citato estratto di Fusco.[56] Anche in questo contesto la iunctura non indica semplicemente l’anima, ma qualcosa di più complesso, come debitamente illustrato dalle parole di Giove che preannunciano l’apoteosi (Ov. Met. 9.250–254 omnia qui vicit vincet quos cernitis ignes, / nec nisi materna Vulcanum parte potentem / sentiet: aeternum est a me quod traxit et expers / atque immune necis nullaque domabile flamma):[57]pars melior è insomma la porzione divina e immortale della persona di Ercole, che gli deriva dall’essere figlio di Giove, in opposizione alla pars materna, la parte umana e mortale tratta dalla madre Alcmena, di cui si spoglia al momento della morte. La stessa spiegazione può valere anche nel caso della successiva apoteosi di Enea, dove di nuovo ricorre una formula simile (Ov. Met. 14.600–604 hunc [sc. Numicium] iubet Aeneae quaecumque obnoxia morti / abluere et tacito deferre sub aequora cursu. / Corniger exsequitur Veneris mandata suisque / quidquid in Aenea fuerat mortale repurgat / et respergit aquis; pars optima restitit illi): anche Enea è figlio di una dea e di un mortale, e la pars optima che rimane dopo che la madre Venere ha ordinato al fiume Numicio di lavare via tutto quanto in lui era mortale e che è destinata a essere divinizzata si può intendere come l’impronta di questa discendenza divina.[58] Il parallelo interno con l’apoteosi di Ercole consente comunque di attivare nuovi significati per la sphragis: innanzitutto la resistenza all’ignis (qui del rogo funebre) della pars melior di Ercole si replica anche nel caso di Ovidio, contribuendo anzi a indirizzare l’attenzione su questo elemento; in secondo luogo l’implicita equiparazione con la componente divina di Ercole può veicolare l’idea della natura e origine divina dell’ingenium e dell’ispirazione poetica, secondo un motivo ben presente in Ovidio.[59]
La storia della iunctura non termina con Ovidio, ma presenta alcuni sviluppi ulteriori. In primo luogo va considerato un passo della Consolatio ad Polybium di Seneca, in cui il filosofo, nel consolare il destinatario per la morte del fratello, introduce una patetica apostrofe alla fortuna, denunciando che essa non avrebbe potuto arrecare a Polibio nessun dolore più grave, neppure se gli avesse strappato la sua stessa vita (Sen. Dial. 11.2.6):
Eriperes spiritum? Quantulum nocuisses! Longissimum illi ingeni aevum fama promisit; id egit ipse ut meliore sui parte duraret et compositis eloquentiae praeclaris operibus a mortalitate se vindicaret. Quamdiu fuerit ullus litteris honor, quamdiu steterit aut Latinae linguae potentia aut Graecae gratia, vigebit cum maximis viris quorum se ingeniis vel contulit vel, si hoc verecundia eius recusat, adplicuit.
Questo passo, di evidentissima matrice declamatoria e direttamente ispirato alla Suas. 7,[60] funziona come una sorta di collettore di tutti i motivi che abbiamo visto (l’opposizione tra la vita mortale e la fama ingeni; la sopravvivenza alla morte e la garanzia di una durata imperitura assicurata dalle opere letterarie), sfruttati da Seneca per svolgere uno smaccato elogio delle doti d’ingegno e dell’attività letteraria di Polibio: non è certo un caso che in esso ricorra anche l’espressione melior pars sui, che nuovamente si identifica con l’ingenium e gli eloquentiae opera dell’autore.
In opere successive Seneca riutilizza ancora l’espressione, ma la reinterpreta in senso più strettamente filosofico, riferendola alla mens o all’animus dell’uomo, talora con la connotazione della loro divinità o immortalità.[61] Al valore originario della iunctura si torna invece da ultimo in un epigramma di Marziale (10.2.5–8):
... lector, opes nostrae: quem cum mihi Roma dedisset
“Nil tibi quod demus maius habemus” ait;
“pigra per hunc fugies ingratae flumina Lethes
et meliore tui parte superstes eris”.
In questa personale rivisitazione della sphragis, posta all’inizio di un libro (il carme è concepito come introduzione alla seconda edizione del libro 10 degli Epigrammi), Marziale combina l’allusione ai due modelli ovidiani degli Amores e delle Metamorfosi, ma tenendo probabilmente conto anche della tradizione declamatoria (oltre che dell’immancabile ode 3.30 di Orazio), per rivendicare a propria volta la sopravvivenza della sua pars melior, consistente negli immortali monumenta della sua poesia (v. 12). Una nota originale nello sviluppo di questo motivo ormai topico sta nel fatto che qui tale sopravvivenza è affidata specificamente al lector, i lettori presenti e futuri, che hanno la facoltà di sottrarre il poeta alla morte e all’oblio; anche se lo spunto può venire ancora dal finale delle Metamorfosi, dove pure emerge l’idea della lettura come fattore di immortalità dell’autore (Ov. Met. 15.878 ore legar populi).[62]
Da Orazio a Marziale, passando per Ovidio, si dipana dunque la storia di questa iunctura particolarmente pregnante e densa di significati: e in questo percorso uno snodo cruciale è costituito dalla suasoria su Cicerone, a cui risalgono la coniazione e la determinazione del preciso significato dell’espressione.
Ringraziamenti
Ringrazio Mirko Donninelli e Nicolò Campodonico per l’aiuto nelle ricerche bibliografiche e gli utili scambi di vedute; un ringraziamento anche agli anonimi referees per i loro proficui suggerimenti.
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