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Doctus Amyclas. I presagi della tempesta in Luc. 5.539‒560 tra epica, poesia didascalica e retorica

  • Nicolò Campodonico EMAIL logo
Published/Copyright: July 21, 2022
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Abstract

In response to Caesar, who intends to reach Antonius in Italy, the boatman Amyclas sets out the celestial and terrestrial signs that foretell a storm and advises against putting out to sea (Luc. 5.539‒560). In this speech Lucan draws on the treatment of such phenomena in the didactic poems of Aratus and Vergil, but the allusions are remodelled in epic language and adapted to the narrative context of the episode. Further, in the story of Amyclas Lucan develops dramatic ideas mentioned in the specific passages in which Aratus and Vergil reflect on the utility of their teachings. Thus the boatman’s meteorological doctrina is highlighted, though he is unable to gain any advantage from it. In fact, in contrast to Palinurus with Aeneas in Aen. 5 and to the rector ratis with Pompey in Luc. 8, Amyclas does not try to dissuade Caesar from the voyage and agrees to accompany him. His speech shows affinities with declamations on the theme of sailing and the presence of adverse omens; however, the speech of Amyclas sounds like a suasoria that has been interrupted. This aspect focuses the impossibility of communication between the two characters: Amyclas, powerlessly external to the civil wars, can only appeal to the force of nature, which Caesar impiously defies.

Nella seconda metà del libro 5 della Pharsalia di Lucano, Cesare, che non è riuscito a convincere Antonio a seguirlo in Epiro con il resto dell’esercito, cerca temerariamente di raggiungerlo a Brindisi, ma viene fermato da una violenta tempesta in mezzo all’Adriatico (5.476‒721).[1] In cerca di qualcuno che lo traghetti in Italia, Cesare bussa a una povera capanna sulla spiaggia e viene accolto da Amicla, rector dominusque ratis (515): egli incarna, come il narratore stesso precisa, l’immagine positiva di una vita umile, condotta securus belli in una secura domus, in contrapposizione al condottiero.[2] Cesare, camuffando la propria identità,[3] si presenta ad Amicla come una divinità capace di mutare il suo destino e gli promette subitae opes in cambio della traversata (532–537), in una sorta di theoxenia sovvertita.[4] Attraverso l’analisi del discorso con cui il barcaiolo risponde all’imperiosa richiesta di Cesare, enumerando i diversi presagi che suggeriscono di non prendere il mare, vorrei evidenziare come in esso siano rielaborati in chiave epica aspetti contenutistici e formali della poesia didascalica e strutture retoriche caratteristiche della declamazione.

All’arrogante discorso di Cesare (5.532‒539) il povero Amicla replica (540‒559):[5]

‘multa quidem prohibent nocturno credere ponto. 540

nam sol non rutilas deduxit in aequora nubes

concordesque tulit radios: Noton altera Phoebi,

altera pars Borean diducta luce uocabat.

orbe quoque exhaustus medio languensque recessit

spectantis oculos infirmo lumine passus. 545

lunaque non gracili surrexit lucida cornu

aut orbis medii puros exesa recessus,

nec duxit recto tenuata cacumina cornu,

uentorumque notam rubuit; tum lurida pallens

ora tulit uultu sub nubem tristis ituro. 550

sed mihi nec motus nemorum nec litoris ictus

nec placet incertus qui prouocat aequora delphin, [6]

aut siccum quod mergus amat, quodque ausa uolare

ardea sublimis pinnae confisa natanti,

quodque caput spargens undis, uelut occupet imbrem, 555

instabili gressu metitur litora cornix.

sed, si magnarum poscunt discrimina rerum,

haud dubitem praebere manus: uel litora tangam

iussa, uel hoc potius pelagus flatusque negabunt.’

I segnali di imminente tempesta qui descritti sono, in primo luogo, celesti: di matrice solare, cioè la frammentazione dei raggi, l’apparente concavità del disco e la debolezza della luce (541‒545), e di origine lunare, vale a dire la forma sottile del corno e il colore rosso scuro (546‒550). Si aggiungono segni di elementi inanimati, come il rumore di boschi e della battigia (551), e di origine animale, ossia i comportamenti inusuali del delfino, dello smergo, dell’airone e della cornacchia (552‒556).[7] La trattazione poetica dei segni per il buono e il cattivo tempo, che ha le sue remote origini nella precettistica delle Opere e giorni di Esiodo, è attestata in ambito greco nella seconda parte dei Fenomeni di Arato, le cosiddette Διοσημεῖαι o Prognostica (778‒1012), e nella produzione latina da Virgilio in Georg. 1.351‒514, dove la rassegna dei presagi culmina in quelli che si manifestarono alla morte di Cesare.[8] Se Virgilio è senz’altro la fonte principale del discorso di Amicla, come è stato rilevato già dai commentatori medievali della Pharsalia,[9] è pur vero che Lucano attinge, in alcuni casi, direttamente ad Arato o concorda con altre fonti in prosa, come pseudo-Teofrasto o Plinio.[10] Il richiamo a tali nozioni, nel contesto narrativo, connota Amicla quale esperto uomo di mare e la sua conoscenza empirica della meteorologia sembra tradursi, sul piano letterario, nelle riprese da Arato e Virgilio.[11]

Il confronto tra i passi di Lucano, Arato e Virgilio rivela, però, anche delle precise differenze, che corrispondono allo scarto tra il genere epico-didascalico e l’epica vera e propria.[12] Una prima variazione nella riscrittura lucanea si coglie sul piano del linguaggio. Amicla osserva che il sole al tramonto non ha i radii concordes e che Noton altera Phoebi, / altera pars Borean diducta luce uocabat (541‒543). Se Virgilio menziona solo i diuersi radii (Georg. 1.450‒451), per Arato è segno di cattivo tempo se il sole sorge con i raggi divisi (829‒830 οὐδ’ ὁπότ’ ἀκτίνων αἱ μὲν νότον, αἱ δὲ βορῆα / σχιζόμεναι βάλλωσι); la ripresa di Arato in Lucano è evidente, soprattutto per la menzione di Noto e Borea, assenti in Virgilio. Se però il poeta didascalico si sofferma sulla frattura perpendicolare dei raggi solari verso sud e nord (indicati come Noto e Borea, i venti che vi spirano), Lucano ricorre al verbo uocare e suggerisce, così, che i raggi chiamino virtualmente i due venti per scatenare la tempesta.[13] Questa modifica, oltre a fornire carica metaforica all’espressione, presuppone l’immagine dei venti personificati, evidenziando così la rilettura del precetto didascalico in forma epica.[14] Ad essa andrà ascritta, altresì, l’accentuazione dell’aspetto funesto degli astri, che sembrano essere intaccati da una sorta di malattia: il sole è languens e infirmo lumine, la luna è gracilis, pallens, tristis e ha lurida ora.[15]

La selezione e disposizione dei presagi nel discorso di Amicla rivela, altrettanto, una significativa rielaborazione. È stato, ad esempio, rilevato che egli espone prima i segni presentati dal sole e poi dalla luna, al contrario dei predecessori (Arat. Phaen. 778‒818 e 819‒891; Verg. Georg. 1.427‒437 e 438‒468). Non è certo il caso di pensare a una tradizione didascalica differente: tale scelta, non casuale, di Lucano si ricollega alle esigenze narrative dell’intero episodio.[16] L’incontro tra Cesare e Amicla avviene di notte (505 Soluerat armorum fessas nox languida curas) ed è naturale che questi ripercorra, in ordine cronologico, i fenomeni che ha potuto poco prima osservare:[17] così ai segni apparsi al tramonto del sole seguono quelli al levarsi della luna e, per lo stesso motivo, non vengono menzionati i presagi che il sole ha manifestato all’alba.[18] Anche tra i fenomeni di altra matrice, il riferimento di Amicla al sinistro suono dei boschi e del lido (551) e l’omissione, rispetto a Verg. Georg. 1.357‒359, dei rumori delle montagne è del tutto coerente con l’ambientazione marina dell’intera scena (Luc. 5.513–514).

Questa rifunzionalizzazione epica di elementi caratteristici della poesia didascalica avviene anche nell’ambito dell’esposizione di Amicla. Nel ripercorrere la sequenza dei presagi riconosciuti, egli non spiega quali siano le conseguenze del loro apparire, se non che essi suggeriscono di non partire, come dice fin dall’inizio. Viene cioè omessa proprio la tensione didascalica intrinseca ai brani di Arato e Virgilio: è il lettore, assieme a Cesare, che deve colmare il riferimento al segno, da Amicla identificato e compreso, con l’interpretazione positiva o negativa che ne aveva offerto la trattazione meteorologica.[19] Proprio perché non offre una precettistica, ma un’analisi empirica, Amicla enumera insieme i fenomeni di cattivo tempo che ha visto e, a riprova della sua doctrina, quelli di buon tempo che non si sono manifestati, scanditi dai non e nec.[20] Queste differenze linguistiche, narrative e strutturali, rispecchiano due tipologie di esposizione di uno stesso contenuto: didascalica e onnicomprensiva quella di Arato e Virgilio, epica e selettiva quella di Lucano.[21] Ciò mostra, altresì, la finezza di quest’ultimo nell’adattare al genere epico tratti propri di un altro, dando ad essi coerenza nella sequenza narrativa.

Il contatto con la poesia didascalica non si limita, in questo discorso, alle riprese o variazioni già evidenziate, ma si apre a una riflessione più ampia su alcune strutture tipiche di quel genere. Al di là dei riferimenti ai presagi, il povero Amicla sembra, infatti, riprendere le caratteristiche allocuzioni al lettore-discepolo, nelle quali viene valorizzata l’utilità degli insegnamenti esposti;[22] a questo aspetto pratico sembra alludere il consapevole esordio del discorso, multa quidem prohibent nocturno credere ponto (540). Sempre in Georg. 1, Virgilio precisa che grazie all’osservazione dei segni della luna i marinai, sani e salvi, potranno ringraziare le divinità marine (436‒437 uotaque seruati soluent in litore nautae / Glauco et Panopeae et Inoo Melicertae): viene cioè istituita una correlazione tra la conoscenza dei fenomeni e la sicurezza nella navigazione. Più oltre, elencando i presagi di tempesta che si manifestano al tramonto, Virgilio osserva (456‒457): Non illa quisquam me nocte per altum / ire neque a terra moueat conuellere funem; facendosi partecipe del proprio insegnamento, egli immagina una situazione in cui qualcuno lo esorti a prendere il largo di notte, nonostante i presagi negativi che si sono palesati al tramonto.[23] Questo scenario presenta palesi affinità con quello costruito da Lucano intorno ad Amicla, costretto da Cesare a salpare durante la notte (nocturno ponto) nonostante i segni di maltempo. Inoltre, l’utilizzo del verbo credere in relazione al mare richiama la vicenda del nocchiere virgiliano Palinuro, il quale, pur sapendo di non doversi fidare del mare (Aen. 5.849‒850 mene huic confidere monstro? / Aenean credam (quid enim?) fallacibus auris?), ne è stato vittima, come Enea stesso erroneamente deduce (Aen. 5.870 o nimium caelo et pelago confise sereno). Palinuro funge così da ulteriore monito per Amicla, assieme all’esplicito avvertimento di Virgilio, dei rischi di una navigazione imprudente.[24]

Ancora più preciso è, però, il riscontro tra Luc. 5.540 multa quidem prohibent nocturno credere ponto e il cosiddetto ‘secondo proemio’ dei Fenomeni, dove Arato riflette sui vantaggi che si possono trarre dai suoi insegnamenti e, in particolare, dalla conoscenza dei σήματα di cattivo tempo (758‒764):[25]

τῷ κείνων πεπόνησο. μέλοι δέ τοι, εἴ ποτε νηῒ

πιστεύεις, εὑρεῖν ὅσα που κεχρημένα κεῖται

σήματα χειμερίοις ἀνέμοις ἢ λαίλαπι πόντου. 760

Μόχθος μέν τ’ ὀλίγος, τὸ δὲ μυρίον αὐτίκ’ ὄνειαρ

γίνετ’ ἐπιφροσύνης αἰεὶ πεφυλαγμένῳ ἀνδρί.

Αὐτὸς μὲν τὰ πρῶτα σαώτερος, εὖ δὲ καὶ ἄλλον

παρειπὼν ὤνησεν, ὅτ’ ἐγγύθεν ὤρορε χειμών.

Arato ipotizza che il suo lettore, avendo necessità di viaggiare per mare, possa riconoscere, grazie all’ἐπιφροσύνη acquisita, l’arrivo di una tempesta e salvare così sé stesso e gli altri. L’espressione εἴ ποτε νηῒ / πιστεύεις sembra essere riecheggiata nel credere ponto di Amicla, la cui sussistenza dipende proprio dall’attività di barcaiolo, come rileva Cesare in 5.534‒535 non ultro cuncta carinae / debebis. La situazione che Arato ipotizza per il lettore coincide quasi perfettamente con quella in cui si trova Amicla, che, prima di mettersi in mare, osserva i fenomeni e rileva il pericolo incombente su di sé e su Cesare.[26] L’incipit del discorso di Amicla può essere dunque letto in relazione a questi passi programmatici di opere didascaliche, a cui sembra richiamarsi direttamente: non solo la conoscenza dei segni del tempo dipende espressamente da questi poemi, ma gli stessi scenari immaginati da Arato e Virgilio (evitare di salpare in presenza di segni di tempesta e persuadere altri in tal senso) sembrano influenzare la struttura dell’episodio lucaneo, nel quale viene data forma narrativa ed epica a una sezione propria del dialogo didascalico. L’insegnamento che Amicla potrebbe trarre da Arato e Virgilio non viene, però, posto in pratica ed egli accetta, infine, di partire; l’impossibilità di far valere gli argomenti di matrice meteorologica di fronte agli ordini di Cesare invita a ulteriori considerazioni sulla costruzione retorica del discorso di Amicla.

Il barcaiolo, infatti, non tenta di persuadere Cesare a non partire, come suggeriva Arato, e, al contrario di quanto affermava Virgilio, si lascia convincere a salpare. Solo quando sono al largo e la tempesta è già scoppiata (5.560‒567), Amicla cerca di convincere Cesare che la sola salus è far ritorno indietro (568‒576); questi, allora, rivela la sua identità e, sapendo di godere del favore degli dèi e della Fortuna, esorta il nocchiere a proseguire senza timore la navigazione. Se Amicla, esibendo ancora le sue conoscenze meteorologiche, richiama il condottiero all’osservazione empirica della tempesta (5.568‒576 e 568‒569 aspice saevum / quanta paret pelagus), Cesare nega recisamente che il barcaiolo conosca veramente le cause del fenomeno (5.578‒593 e 591‒592 quid tanta strage paretur / ignoras): per lui, infatti, la tempesta non è altro che uno strumento della Fortuna.[27]

In tale contrasto tra Cesare e Amicla è stato valorizzato il completo rovesciamento, ad opera di Lucano, del rapporto tra Enea e il già ricordato Palinuro.[28] In particolare, nell’analogo contesto di tempesta in Aen. 5.11‒34, Palinuro persuade Enea a deviare dalla rotta e andare in Sicilia e, di fronte all’esperienza quasi sovrannaturale del nocchiere, Enea si sottomette. Anche in Aen. 3.513‒520 è Palinuro a stabilire, con osservazioni astronomiche, quando si può partire ed Enea vi presta fede. Cesare, che impone la partenza ad Amicla e di fatto non chiede alcun consiglio, si caratterizza anche in questo caso come anti-Enea;[29] la sua arroganza, soprattutto quando minimizza le conoscenze marittime del nocchiere, assume i tratti di una vera empietà.[30] Rispetto a Palinuro, Amicla non riesce a imporre a Cesare la propria volontà, né nel discorso sui presagi né in quello successivo durante la tempesta.

Sotto questo aspetto, è possibile istituire un raffronto, interno al Bellum Ciuile, tra l’episodio di Amicla e il dialogo tra Pompeo e il suo nocchiere nel viaggio successivo alla disfatta di Farsalo (8.167‒192).[31] Il condottiero consulta il rector ratis, come era stato definito anche Amicla (in 5.515 e 568), sugli astri da seguire nella rotta e questi risponde con uno specimen di orientamento su base astronomica, ben più dotto della conoscenza empirica del pauper Amyclas.[32] In questo caso è il rector ratis a chiedere a Pompeo di comandargli dove andare (8.185‒186 sed quo uela dari, quo nunc pede carbasa tendi / nostra iubes?) e non riceve come Amicla da Cesare un ordine inappellabile (5.533‒534 si iussa secutus / me uehis Hesperiam e 558‒559 uel litora tangam / iussa). Inoltre, se Amicla non tenta nemmeno di dissuadere Cesare, Pompeo rimane estremamente dubbioso alle parole del nocchiere (8.186 dubio ... pectore Magnus) e lo invita a prendere genericamente il largo: l’esplicito invito a lasciarsi alle spalle l’Hesperia sembra rievocare direttamente l’episodio che aveva vissuto Cesare, desideroso di raggiungerla ad ogni costo.[33] Il confronto con il nocchiere, esperto del cielo, diventa dunque un luogo significativo per testare le diverse reazioni dei condottieri: di fronte alle conoscenze dei rectores ratis, Cesare e Pompeo rappresentano due poli opposti tra loro, tra sprezzante indifferenza e dubbiosa rassegnazione, e in contrasto con Enea, il solo che in Aen. 5.1‒34 beneficia degli insegnamenti del timoniere.[34]

A differenza di Palinuro, che persuade Enea a cambiare rotta, e del rector ratis di Pompeo, che ha le certezze che mancano al condottiero, Amicla non interferisce con l’ordine ricevuto da Cesare, pur sotto mentite spoglie. Se il suo discorso è costituito dalla martellante rassegna dei presagi che suggeriscono di evitare la traversata, la struttura stessa evidenzia il fallimento della dissuasio: il quidem iniziale (540) crea una sospensione, che viene bruscamente interrotta con il sed del v. 557, con cui Amicla accetta di accompagnarlo.[35] È ormai acquisito quanto sia profonda e pervasiva l’influenza della retorica e, in particolare, delle forme declamatorie sul poema di Lucano;[36] anche in questo caso, il confronto con tale genere può rivelarsi significativo. Seneca il Vecchio riporta un passo di una suasoria di Arellio Fusco, che contiene riferimenti ai signa presentati dalla luna (Suas. 3.1):[37]

luna ... quae siue plena lucis suae est splendensque pariter adsurgit in cornua, imbres prohibet, siue occurrente nubilo sordidiorem ostendit orbem suum, non ante finit quam in lucem redit.

L’evidente contiguità tra questo passo e l’elenco dei presagi lunari nel discorso di Amicla (5.546–560) è stata per lo più riportata alla comune dipendenza da Virgilio, rilevata, nel caso di Arellio, da Seneca stesso.[38] È però significativo che le trattazioni astronomiche della poesia didascalica vengano riprese anche in ambito declamatorio, poiché da ciò Lucano potrebbe essere stato ulteriormente influenzato nella sua riscrittura. Nel contesto della suasoria gli elementi meteorologici costituiscono una digressione, parzialmente aliena, come nota Seneca stesso (Suas. 3.4), allo sviluppo dell’argomento di Arellio, cioè che le condizioni del mare avverse alla navigazione non dipendono dagli dèi, ma da altri fattori, come l’influenza della luna. La loro funzione è parzialmente differente, dunque, da quella che hanno nel discorso di Amicla, il quale utilizza i signa come prove a sostegno della sua avversione, almeno iniziale, al viaggio per mare. Non si può negare, però, che siano riscontrabili diverse somiglianze formali, anche a livello tematico, con questa e altre suasoriae che hanno per oggetto la necessità di navigare e la presenza di segni avversi.

In primo luogo, appare interessante il confronto con il tema di Suas. 3 che Arellio Fusco aveva sviluppato: deliberat Agamemnon, an Iphigeniam immolet negante Calchante aliter nauigari fas esse. Sia in questo tema sia nella scena di Lucano, infatti, la vicenda ruota intorno a una navigazione che deve essere compiuta nonostante l’opposizione di determinati presagi. I riferimenti alla navigazione costituiscono una struttura declamatoria particolarmente comune: la Suasoria 1, riportata da Seneca, ha per tema deliberat Alexander, an Oceanum nauiget e lo stesso tema è ricordato in altri casi con l’aggiunta della precisazione cum exaudita vox esset: quousque, invicte? (Controv. 7.7 ed exc. Controv. 7.7); anche in questo caso, al tema della navigazione è associato l’elemento prodigioso che tenta di stornare l’azione. Tale aspetto ritorna anche in Suas. 4: deliberat Alexander Magnus, an Babylona intret, cum denuntiatum esset illi responso auguris periculum, dove si ha una vera e propria quaestio de futuri scientia attraverso riferimenti astrologici.[39]

Nel discorso di Amicla ritornano sia il tema della navigazione sia la presenza di presagi che suggeriscono di non intraprenderla, in forma simile ai casi di suasoria conservati.[40] Amicla sembra svolgere il ruolo di chi cerca di dissuadere, in questo caso Cesare, da un’azione imprudente e pericolosa; come Arellio Fusco, egli usa come argomento i signa di tempesta, che già la trattazione didascalica presentava come elementi in base ai quali decidere se salpare.[41] Nonostante queste somiglianze formali con la declamazione, la conclusione del discorso è inaspettata: Amicla non si oppone ai discrimina rerum che impongono il viaggio del suo interlocutore e accetta di partire.[42] Il suo discorso assume così la configurazione di una suasoria interrotta, in cui gli argomenti, che sembrano escogitati e presentati a sostegno di una certa tesi (multa prohibent credere ponto), vengono improvvisamente accantonati e si propone la soluzione opposta.[43] Lucano sembra così evidenziare quanto le situazioni fittizie e le forme argomentative della declamazione, così come le riflessioni sull’utilità del genere didascalico, risultino del tutto inefficaci, soprattutto davanti a un ordine di Cesare.[44] Di fronte alla sua tracotanza è destinato a venir meno ogni tentativo di persuasione da parte di Amicla, men che mai in virtù di una conoscenza quasi sovrannaturale dei fenomeni, e anche la velata minaccia finale sui pericoli della tempesta (559 hoc potius pelagus flatusque negabunt) non sortisce alcun effetto.

Tutti i dialoghi tra Amicla e Cesare sono connotati da una totale incomunicabilità, già evidente nel camuffamento da plebeo di Cesare (538‒539) e nell’erronea identificazione di Cesare con un naufragus da parte di Amicla (521‒523). Il divario tra i due personaggi si configura su più aspetti, dalla scelta di vita alle concezioni filosofiche, e resta in ogni caso incolmabile.[45] Amicla non ha possibilità di sottrarsi ai iussa di Cesare e nessun tentativo di persuasione può funzionare; egli ha, però, due fattori di garanzia. Da un lato, la povertà lo mette al riparo dalle guerre civili, che Amicla chiama genericamente e con disinteresse magnarum discrimina rerum (5.557); per questo motivo, egli non prende in alcuna considerazione l’offerta di denaro di Cesare: se questi lo invitava a offrire al condottiero i suoi destini (536 ne cessa praebere deo tua fata) per non dover più lavorare con le sue manus (534‒535), Amicla risponde offrendo proprio le sue mani (558 haud dubitem praebere manus), in un esplicito e quasi orgoglioso riconoscimento della propria umile attività.[46] D’altra parte, egli si appella al potere della natura, di cui conosce i vari fenomeni, e ammonisce Cesare che saranno flatus pelagusque a impedire la traversata (561), a riprova dei signa palesati; la responsabilità viene così riversata su Cesare e la sua indifferenza, così come la sfrontata fiducia nella Fortuna, ne contrassegna ulteriormente l’empietà.[47]

In conclusione, il discorso di Amicla a Cesare in 5.540‒559 è costruito su una fitta rielaborazione di elementi propri della trattazione dei segni meteorologici in poesia didascalica, che vengono tradotti nel linguaggio dell’epica e inseriti nella narrazione stessa dell’intero episodio. Amicla, nonostante la sua peculiare paupertas, che resterà emblematica fino a Dante,[48] dà mostra di una notevole doctrina meteorologica, ma non può farne valere l’utilità nelle situazioni che avevano immaginato Arato e Virgilio. Per altri aspetti, il discorso di Amicla presenta alcune affinità con temi di suasoriae riguardanti navigazioni e presagi; il contrasto con Cesare rende, però, impossibile ogni forma di dialogo e di persuasione retorica. Sotto questo aspetto, Amicla può essere confrontato con altri nocchieri docti, come Palinuro e il rector ratis di Pompeo; rispetto ad essi egli dà conferma di quanto le conoscenze empiriche (e didascaliche) non hanno voce in capitolo di fronte a una figura gigantomachica come Cesare e nel furor della guerra civile.

Ringraziamenti

Desidero ringraziare G. Rosati, E. Berti e gli anonimi referee della rivista per i preziosi consigli ricevuti durante la stesura di questo articolo.

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Published Online: 2022-07-21
Published in Print: 2022-07-05

© 2022 Nicolò Campodonico, publiziert von Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston

Dieses Werk ist lizensiert unter einer Creative Commons Namensnennung 4.0 International Lizenz.

Downloaded on 23.9.2025 from https://www.degruyterbrill.com/document/doi/10.1515/phil-2022-0107/html
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