Abstract
Pietro Aretino constantly flaunts his originality and uniqueness as a writer. This essay seeks to show that, on the contrary, his authorial figure arises from a rewriting and a ‘refiguring’ of Lucian, especially as far as the centrality of paradox and of parrhesia are concerned. The present study reinterprets or adduces hitherto ignored evidence (consisting of both textual and iconographic materials, such as portraits, marche editoriali, and medals) in order to reconstruct some key aspects of Aretino’s relationship to Lucian, thus questioning the traditional idea of the writer’s unfamiliarity with the processes of imitatio of antiquity. Aretino’s approach to Lucian is investigated on three different levels, i.e. the level of intertextuality, of themes and genres, and of authorship. Firstly, the analysis inspects how Aretino’s Dialogo was influenced by a specific collection of vernacular translations of Lucian (I dilettevoli dialogi, 1525). Furthermore, the essay unveils the close relationship between Dialogo and Lucian’s De parasito as a model of paradoxical eulogy, thereby showing that Aretino’s text not only reverses the structures of relevant literary genres (e.g. the Platonic dialogue) but also originates from a ‘positive’ imitation of other generic templates (such as the Lucianistic paradoxical encomium). Finally, new findings about the sources of Aretino’s motto veritas odium parit and of its iconography shed light on the way Aretino fashions himself as a parrhesiastes by reproducing and transforming – and therefore imitating – Lucian’s figura auctoris.
“Io imito me stesso”, scrive Pietro Aretino (1997, 232) in una lettera del 25 giugno 1537, indirizzata originariamente a Niccolò Franco e poi a Lodovico Dolce. Si tratta di uno dei numerosi passi nei quali Aretino insiste con forza sulla novità, originalità e unicità della propria figura. È in particolare nelle Lettere che lo scrittore torna a più riprese a rivendicare queste caratteristiche: “posso giurare d’esser sempre me stesso, e altri non mai”, scrive a Agostino Ricchi nel 1548, precisando che, pur non negando la “divinità” di Boccaccio e pur ammirando il “miracoloso comporre” di Petrarca, non tenta di celare la propria identità dietro la loro (“non cerco però di mascararmi con essi”, Aretino 2001, 217). Aretino, così afferma egli stesso, non porta maschere; non riprende né imita modelli preesistenti, e tantomeno vi si conforma. Se – ed è comunque raro – sembra ispirarsi a qualcuno, non si tratta mai di letterati, ma di condottieri (Giovanni delle Bande Nere), di pittori (Tiziano), di santi (Giovanni Battista), di statue parlanti (Pasquino)[1].
L’idea che la figura autoriale aretiniana non abbia precedenti – idea sbandierata dallo scrittore stesso e rilanciata dagli studi critici su di lui – forma un interessante contrasto con la (altrettanto ostentata) natura derivativa dei suoi scritti. La quantità di riprese, o addirittura plagi, di testi propri e altrui nell’opera di Aretino è rimarchevole, né egli nega queste sue pratiche di riuso o di furto, anzi le consacra a principio di poetica facendo leva proprio sulla originalità e unicità della sua persona (nella già citata lettera a Franco si presenta come qualcuno che è talmente dotato di “furor proprio” da poter indossare vesti rubate ad altri senza che il precedente proprietario le riconosca)[2].
A fronte della pervasività delle pratiche intertestuali nell’opera aretiniana, è legittimo chiedersi in che misura si debba credere ad Aretino quando insiste sul fatto di imitare sé stesso e solo sé stesso: possiamo forse invece considerare la sua figura autoriale – quella che egli presenta come svincolata da qualsivoglia modello – il prodotto di processi imitativi o derivativi, al pari dei suoi testi? È possibile che l’autorappresentazione di Aretino contenga, oltre ad aspetti nuovi e originali, anche caratteristiche mutuate da autorappresentazioni di altri autori? Le rivendicazioni di singolarità e unicità sono modellate su precedenti rivendicazioni di singolarità e unicità? Ed è possibile infine che – se davvero Aretino costruisce consapevolmente il proprio personaggio anche per via di imitatio – egli si ispiri a modelli non solo extra-letterari ma anche letterari (magari appartenenti a quella cultura dell’antichità che egli afferma orgogliosamente di conoscere poco), per poi magari nascondere le tracce di tali processi derivativi così da non intaccare la forza di quella poetica della “naturalezza”[3] e della novità sulla quale appunto verte la sua postura autoriale?
Su tali problemi non sono molti gli studi; non in ultimo, si potrebbe ipotizzare, per via del suddetto camouflage operato dall’autore, oltre che in conseguenza dell’uso di categorie critiche – come quella di “anticlassicismo” – che hanno avallato l’idea di un Aretino sostanzialmente alieno da certi processi di imitatio della classicità greca e latina. Negli ultimi decenni, però, il complessivo riesame delle opere degli scrittori irregolari del Cinquecento – con la contestuale proposta di impiegare categorie che non negano il rapporto con l’antichità ma esaltano l’alterità di tale rapporto (come quella di “classicismo alternativo”) o che ridefiniscono il concetto di “anticlassicismo” in un senso più plurale e variegato[4] – spingono a guardare ad Aretino e alla sua figura autoriale con altri occhi.
Quali sarebbero, dunque, i modelli letterari che Aretino potrebbe aver imitato per dar forma alla propria figura? In uno studio precedente ho esposto alcune ragioni che permettono di individuarne uno in Luciano di Samosata, il cui ruolo nella cultura italiana del Rinascimento, spesso sottovalutato, è stato invece estremamente significativo[5]. Vorrei tornare sulla questione affrontandola da altri e più ampi punti di vista; al contempo, vorrei addurre ulteriori prove concrete dell’importanza del rapporto di Aretino con Luciano, nonché ampliare il discorso ai materiali iconografici oltre che testuali. Il mio scopo è precisare in che modo Aretino costruisca la propria figura autoriale effettuando una “riscrittura” o “riconfigurazione” di quella lucianea[6]. A tal fine esaminerò la relazione tra Aretino e Luciano, prima ancora che sul piano dell’autorialità, a livello dei rapporti intertestuali e delle riprese tematiche e di genere letterario. Difatti, le indagini sui processi autoriali – le quali pure necessitano di un approccio specifico, attraverso il quale si possa ad esempio scandagliare la valenza sul piano pragmatico di certe affermazioni dell’autore nonché tener conto del modo in cui egli si rappresenta anche fuori dal testo e con strumenti diversi da quelli testuali – presuppongono un esame il più possibile rigoroso dei testi letterari, da analizzarsi in rapporto agli altri testi, ai codici, ai generi e al contesto storico di provenienza.
1 Intertestualità
In primo luogo è necessario fare il punto sui contatti che Aretino può aver avuto con l’opera di Luciano. Su questo tema esistono alcuni pioneristici studi di Paolo Procaccioli[7]; ancora manca, però, una ricerca a tutto campo delle tracce lucianee negli scritti aretiniani. Quanto segue, pur non avendo la pretesa di dare una risposta esaustiva alla questione, spera di offrire un contributo a illuminarne alcuni aspetti finora ignorati, concentrandosi in particolare sulla presenza di Luciano nel Dialogo (1536), nelle Lettere (1538) e nei materiali iconografici che l’autore impiega per modellare e promuovere la sua persona.
Vale la pena ricordare che Aretino frequenta i testi degli autori greci e latini soprattutto per via indiretta: o per tramite dei letterati che frequentavano Palazzo Bollani e che disponevano di una più ampia conoscenza delle lingue antiche (come Niccolò Franco o Francesco Coccio), o grazie alla lettura di volgarizzamenti. E negli anni della stesura del Dialogo c’è una raccolta di volgarizzamenti di scritti lucianei che gode di notevole popolarità: I dilettevoli dialogi: le vere narrationi: le facete epistole di Luciano philosopho: di greco in volgare novamente tradotte et historiate. La prima edizione dell’antologia era uscita nel 1525 a Venezia (città che dal 1527 sarebbe stata il luogo residenza di Aretino), per un editore al quale egli era legato sin dagli inizi della sua attività letteraria, cioè quel Niccolò Zoppino al quale aveva affidato il suo esordio (Opera nova, 1512). La raccolta zoppiniana (che riproponeva in gran parte volgarizzamenti ferraresi – e da Ferrara proveniva lo stesso Zoppino – risalenti alla seconda metà del Quattrocento, attribuiti a Niccolò Leoniceno e di cui oggi possediamo un unico testimone, il ms. Chig. L.VI.215 della Biblioteca Apostolica Vaticana) era stata fortunatissima, come dimostrano le sette ristampe presso cinque diversi editori, l’ultima delle quali risale al 1551[8].
Già il Ragionamento (1534) aretiniano si era aperto con un esplicito riferimento a Luciano[9]. Che Aretino abbia letto con profitto proprio la silloge veneziana dei volgarizzamenti lucianei, e che ne abbia reimpiegato alcuni elementi nel Dialogo, lo si evince dal titolo stesso di quest’ultima opera. Tale titolo riprende da vicino una delle succinte introduzioni ai singoli testi presenti nell’edizione zoppiniana, e segnatamente quella preposta al volgarizzamento di uno dei Dialogi meretricii lucianei (D. meretricii VI), dove si parla – pressoché con gli stessi termini che ritroviamo nel titolo del Dialogo – di una “meretrice” (nel caso di Aretino troviamo il nome proprio “Nanna”, che i lettori già conoscevano come meretrice grazie al Ragionamento uscito due anni prima), la quale insegna (il verbo ‘insegnare’ ricorre in entrambi i testi) alla figlia (“figliola” / “figliuola”) il suo stesso mestiere (“ad esser meretrice” / “a esser puttana”):
IN QUESTO DIALOGO LUCIANO introduce una meretrice che exhorta una sua figliola ad esser meretrice, et insegnali la via debba tenire se vuol guadagnare, il nome della madre e Manava, et della figliola Corina. (I dilettevoli dialogi, clxiiiir).[10] | DIALOGO DI MESSER PIETRO ARETINO NEL QUALE LA NANNA IL PRIMO GIORNO INSEGNA A LA PIPPA SUA FIGLIUOLA A ESSER PUTTANA, NEL SECONDO GLI CONTA I TRADIMENTI CHE FANNO GLI UOMINI A LE MESCHINE CHE GLI CREDANO, NEL TERZO E ULTIMO LA NANNA E LA PIPPA SEDENDO NE L’ORTO ASCOLTANO LA COMARE E LA BALIA CHE RAGIONANO DE LA RUFFIANIA. (Aretino 1984, 207). |
I D. meretricii costituiscono una delle novità più significative della raccolta zoppiniana, visto che non erano mai stati tradotti prima in latino, al contrario degli altri scritti inclusi nell’antologia. L’unica ulteriore novità è costituita dagli Amores (denominati “Amori diversi”, I dilettevoli dialogi,iiiiv), anch’essi mai volti in latino in precedenza[11]. Nei Dilettevoli dialogi l’editore dà particolare risalto a D. meretricii e Amores presentandoli come un blocco unitario (si tratta dell’unica modifica che opera sull’ordine dei testi del manoscritto Chig. L.VI.215). Zoppino inoltre, a partire dalla sua seconda edizione (del 1529, quella da cui derivano tutte le ristampe successive), appone un titolo (“dialogi amatori”, I dilettevoli dialogi [1529], iiiv) a tale blocco unitario di testi, rendendolo così ancor più facilmente riconoscibile e mettendone in risalto l’argomento. Con I dilettevoli dialogi, dunque, Luciano per la prima volta si presenta ai lettori italiani come un autore di dialoghi a tema erotico.
Dai D. meretricii lucianei provengono, oltre al titolo del Dialogo, diversi elementi del testo aretiniano (già Procaccioli, 1987, 55, aveva notato che “I Dialoghi delle cortigiane di Luciano rappresentano forse l’opera più vicina allo spirito del Ragionamento e del Dialogo”). Nella prima giornata del Dialogo, ad esempio, Nanna descrive in dettaglio alla figlia Pippa il modo in cui la meretrice dovrà comportarsi in pubblico, specialmente in occasione di feste e banchetti. Tale descrizione è una ripresa quasi letterale di elementi del volgarizzamento del già menzionato D. meretricii VI. In particolare Aretino ha tenuto presente il brano in cui Manava spiega alla figlia Corina le regole di condotta sociale che la meretrice deve seguire:
Manava [...] perché piangi tu o Corina, non vedi tu quante donne da bene son meretrice, e quanti danari me pigliano, io faccio di una chiamata per nome Daphnide, la quale prima che venissi in eta-de, andava tutta stracciata. Ora tu vedi in qual abito se ne va, ornamenti di oro e vesti di color pretioso non gli mancano, quattro fantesche la serveno. In che modo ha acquistato la Lira tante cose, prima adornandosi el corpo decentemente, et essendo tutta leggiadra, mostrando la faccia allegra verso ogni uomo, non con risi imoderati secondo che tu sei usa di fare, ma avendo una certa maniera de rider suave et attrattiva, et da poi usando parole molto destre, et non inganando niuno che la venisse a trovare, o che gli mandasse inanzi a farglielo assapere, ne ancora andando a pigliar li uomini per li panni, et quando l’andava per premio a cena con qualcuno, la non se imbria-cava, perché questa cosa fa che le donne sono derise, et vengono in odio a gli uomini, ne ancora se impiva di cibo fuora di modo, e prendevalo con la punta delle dita, ne si sentiva mangiare masti-cando li bocconi tacitamente da una mascella sola et beveva a poco a poco, non in uno fiato, ma ripossandosi tra mezzo. Corina Se la avessi avuto gran sete arebbe ella o madre mia fatto questo? Manava Allora più che mai o Corina, et quando la si trova in simili luogi lei non parla più del dovere et non caleffa alcuno de quelli che sono presenti, ma non tien li occhi se non a colui che l’ha condotta per precio, e per questo rispetto le è amata da li uomini, e quando glie tempo de andare a dormire la non farebbe cosa alcuna disonesta ed indecente, solamente attendeva questo in qual modo la faccia che ’l condutore se inamori di lei, per queste cose ogni uomo gli vuole bene, se tu ancora imparerai questa arte, noi saremo beate, perché io non stimo altro se non el viver. (I dilettevoli dialogi, clxiiiiv–clxvr). |
Nanna [...] Intanto la brigata, che si starà giorneando meco, si accostarà a te come bisce che si sdrucciolano su per l’erba, e chi dirà una cosa e chi un’altra, ridendo e motteggiando: e tu in cervello; e tacendo e parlando, fà sì che il favellare e lo star queta paia bello ne la tua bocca; e accadendoti di rivolgerti ora a questo e ora a quell’altro, miragli senza lascivia, guardandogli come guardano i frati le moniche osservantine, e solamente lo amico che ti dà cena e albergo pascerai di sguardi ghiotti e di parole attrattive. E quando tu vuoi ridere, non alzar le boci puttanescamente spalancando la bocca, mostrando ciò che tu hai in gola: ma ridi di modo che niuna fattezza del viso tuo non diventi men bella; anzi accrescile grazia sorridendo e ghignando, e lasciati prima cadere un dente che un detto laido; non giurar per Dio né per santi, ostinandoti in dire «Egli non fu così», né ti adirare per cosa che ti si dica da chi ha piacere di pungere le tue pari: perché una che sta sempre in nozze debbe vestirsi più di piacevolezza che di velluto, mostrando del signorile in ogni atto; e ne lo essere chiamata a cena, se bene sarai sempre la prima a lavarti le mani e andare a tavola, fattelo dire più d’una volta: perché se ringrandisce ne lo umiliarsi. Pippa Lo farò. Nanna E venendo la insalata, non te le avventare come le vacche al fieno: ma fà i boccon piccin piccini, e senza ungerti appena le dita póntigli in bocca; la quale non chinarai, pigliando le vivande, fino in sul piatto come talor veggo fare ad alcuna poltrona: ma statti in maestà, stendendo la mano galantemente, e chiedendo da bere, accennalo con la testa; e se le guastade sono in tavola, tòtene da te stessa, e non empire il bicchiere fino a l’orlo, ma passa il mezzo di poco: e ponendoci le labbra con grazia, nol ber mai tutto. Pippa E s’io avessi gran sete? Nanna Medesimamente beene poco, acciò che non te si levi un nome di golosa e di briaca. E non masticare il pasto a bocca aperta, biasciando fastidiosamente e sporcamente: ma con un modo che appena paia che tu mangi; e mentre ceni favella men che tu puoi: e se altri non ti dimanda, fà che non venga da te il ciarlare, e se te si dona o ala o petto di cappone o di starna da chi siede al desco dove tu mangi, accettalo con riverenzia, guardando perciò l’amante con un gesto che gli chiegga licenza senza chiederla, e finito di mangiare, non ruttare, per l’amor d’Iddio! Pippa Che saria se me ne scappasse uno? Nanna Ohibò! Tu caderesti di collo a la schifezza non che agli schifi. Pippa E quando io farò quello che mi insegnate e più, che sarà? Nanna Sarà che tu acquistarai fama de la più valente e de la più graziosa cortigiana che viva; e ognuno dirà, mentovandosi l’altre, «State queti, che val più l’ombra de le scarpe vecchie de la signora Pippa, che le tali e le cotali calzate e vestite»; e quelli che ti conosceranno, restandoti schiavi, andran predicando de le tue vertù; onde sarai più desiderata che non son fuggite quelle che han i fatti di mariuole e di malandrine: e pensa s’io ne gongolarò. Pippa Che debbo io fare cenato che aremo? Nanna Intertienti un pochettino con chi sarà dove te, non ti levando mai da canto al drudo, e venuta l’ora del dormire, lasciaraimi ritornare a casa, e poi, riverentemente detto «Buona notte a le Signorie vostre», guardati più che dal fuoco di non esser veduta né udita pisciare, né far tuo agio, né portar fazzoletto per forbirtela: perché cotali cose farieno recere i polli, che beccano d’ogni merda. (Aretino 1984, 221–224).[12] |
La cortigiana – spiegano rispettivamente la Manava lucianea e la Nanna aretiniana – deve concedere le proprie attenzioni a tutti, senza però far trapelare alcun segno di lascivia e anzi ostentando moderazione e modestia (I dilettevoli dialogi: “mostrando la faccia allegra verso ogni uomo, non con risi imoderati secondo che tu sei usa di fare”; Dialogo: “accadendoti di rivolgerti ora a questo e ora a quell’altro, miragli senza lascivia, guardandogli come guardano i frati le moniche osservantine”). Similmente, il modo di ridere della meretrice dovrà essere seducente e aggraziato (I dilettevoli dialogi: “ma avendo una certa maniera de rider suave et attrattiva”; Dialogo: “[...] parole attrattive. E quando tu vuoi ridere, non alzar le boci puttanescamente spalancando la bocca, mostrando ciò che tu hai in gola: ma ridi di modo che niuna fattezza del viso tuo non diventi men bella; anzi accrescile grazia sorridendo”). Si noti che Aretino non soltanto riprende il testo di Luciano (prelevando “attrattive”, con modifica del riferimento dai sorrisi alle parole), bensì anche lo espande (l’aggettivo “soave” viene sostituito da una lunga perifrasi di simile significato).
Anche il linguaggio della meretrice dovrà essere decente e misurato (I dilettevoli dialogi: “et da poi usando parole molto destre, et non inganando niuno che la venisse a trovare”; Dialogo: “e lasciati prima cadere un dente che un detto laido; non giurar per Dio né per santi, ostinandoti in dire «Egli non fu così»”). Di seguito si passa a trattare il comportamento da tenere quando invitate a cena (I dilettevoli dialogi: “et quando l’andava per premio a cena con qualcuno”; Dialogo: “e ne lo essere chiamata a cena”). A cena è fondamentale, spiegano rispettivamente Manava e Nanna, mostrare solo una moderata voglia di bere, e in nessun caso ubriacarsi, cosa che avrebbe effetti nefasti sulla propria reputazione (I dilettevoli dialogi: “la non se imbriacava, perché questa cosa fa che le donne sono derise, et vengono in odio a gli uomini”; Dialogo: “chiedendo da bere, accennalo con la testa” [...] “Medesimamente beene poco, acciò che non te si levi un nome di golosa e di briaca”). Altrettanto importante è evitare di abbuffarsi (I dilettevoli dialogi: “ne ancora se impiva di cibo fuora di modo”; Dialogo: “E venendo la insalata, non te le avventare come le vacche al fieno”).
Quest’ultimo passo rende possibile evidenziare un’altra caratteristica del modo in cui Aretino riscrive il suo ipotesto, e cioè non soltanto espandendolo ma anche aggiungendo una o più comparazioni, come appunto quella – contrastiva – tra la cortigiana che si serve con discrezione di insalata e le vacche che si avventano sul fieno (similmente, in uno dei passi sopra riportati Aretino aveva paragonato gli sguardi della cortigiana verso i commensali a quelli delle “moniche osservantine” verso i frati).
La Manava lucianea e la Nanna aretiniana passano poi ai dettami relativi al modo di toccare il cibo. Ciò va fatto usando solo la punta delle dita (I dilettevoli dialogi: “e prendevalo con la punta delle dita”; Dialogo: “fà i boccon piccin piccini, e senza ungerti appena le dita póntigli in bocca”). Altrettanto precise sono le raccomandazioni su come la meretrice debba masticare, vale a dire il più possibile senza far rumore e in modo tale da passare inosservata (I dilettevoli dialogi: “ne si sentiva mangiare masticando li bocconi tacitamente da una mascella sola”; Dialogo: “E non masticare il pasto a bocca aperta, biasciando fastidiosamente e sporcamente: ma con un modo che appena paia che tu mangi”).
Nel brano successivo la somiglianza tra I dilettevoli dialogi e il Dialogo è particolarmente evidente, dato che Aretino riprende da Luciano, oltre ai singoli elementi del contenuto, anche la struttura dell’argomentazione. Prima di tutto la madre consiglia di bere a piccoli sorsi, senza svuotare il bicchiere tutto in una volta (I dilettevoli dialogi: “et beveva a poco a poco, non in uno fiato, ma ripossandosi tra mezzo”; Dialogo: “non empire il bicchiere fino a l’orlo, ma passa il mezzo di poco: e ponendoci le labbra con grazia, nol ber mai tutto”). Poi la figlia nonché apprendista cortigiana (Corina presso Luciano, Pippa presso Aretino) chiede se ella si debba attenere a questa regola anche qualora abbia molta sete (I dilettevoli dialogi: “Corina Se la avessi avuto gran sete arebbe ella o madre mia fatto questo?”; Dialogo: “Pippa E s’io avessi gran sete?”). La madre risponde che tale norma è da osservare anche in quel caso (I dilettevoli dialogi: “Allora più che mai o Corina”; Dialogo: “Medesimamente beene poco”).
Inoltre la madre raccomanda alla figlia di riservare sguardi prolungati o intensi solo a colui che l’ha portata alla cena (I dilettevoli dialogi: “ma non tien li occhi se non a colui che l’ha condotta per precio”; Dialogo: “e solamente lo amico che ti dà cena e albergo pascerai di sguardi ghiotti”). Alla fine si discute il modo migliore di prendere congedo quando è ora di andare a dormire: la cortigiana deve evitare qualsivoglia gesto inappropriato (I dilettevoli dialogi: “e quando glie tempo de andare a dormire la non farebbe cosa alcuna disonesta ed indecente”; Dialogo: “venuta l’ora del dormire, lasciaraimi ritornare a casa, e poi, riverentemente detto «Buona notte a le Signorie vostre», guardati più che dal fuoco di non esser veduta né udita pisciare, né far tuo agio, né portar fazzoletto per forbirtela”).
Da questo confronto si evince una ulteriore caratteristica della prassi aretiniana di rielaborazione della fonte lucianea (e non solo), vale a dire la tendenza a inserire elenchi di esempi concreti che esplicitino chiaramente ciò che nel testo lucianeo viene descritto in modo assai più generale o addirittura per mezzo eufemismi. Se Luciano si limita a menzionare le cose indecenti come tali, Aretino fornisce anche una lista di singoli casi vividamente descritti[13].
Anche nella seconda giornata del Dialogo si ritrovano elementi lucianei. Notevoli sono le somiglianze tra D. meretricii VII – che nella raccolta dei volgarizzamenti porta il titolo “Dialogo nel qual si introduce una madre riprender la figliuola che amava un giovene senza guadagno, non sappendo esercitare l’arte de la meretrice” (I dilettevoli dialogi, iiiir) – e una delle storie che, nella suddetta seconda giornata, Nanna racconta allo scopo di mettere in guardia la figlia dall’ingratitudine e dalla pericolosità degli uomini. In entrambi i testi si narra di un uomo che sfrutta una meretrice ingenua, ingannandola con false promesse. Esse consistono, in entrambi i casi, nell’impegno a sposare e rendere ricca la donna all’indomani della morte di un membro abbiente della propria famiglia (in Luciano il padre, in Aretino si tratta dello zio), il cui patrimonio l’uomo sostiene di dover ereditare. Sulla base di tale promessa, in entrambi i testi il furfante fa in modo che la meretrice gli consegni tutti i beni preziosi che possiede:
Matre E tu glie lo credi, et non havendo lui hieri pegno da ponere per uno convivio con li altri suoi compagni tu gli desti uno anello, ch’io non ne sapeva nulla, e costui avendolo venduto bevete a nostro costo. Tu gli desti ancora doi ornamenti da collo, di quali cadauno valeva doi darici, liquali t’haveva portati da Epheso Nauclero, et questo per che gli era necessario pagasse il scotto insieme con li altri suoi compagni. Che dirò io de drappi delle camise che gli hai donate? Questo è stato el soccor-so e guadagno che ne è capitato a le mani. (I dilettevoli dialogi, clxvir). | Nanna [...] La signora, doppo il tirarselo a dosso un trattuccio, gli diede licenzia che egli andasse a mettersi a ordine di partir seco come le aveva intestata; e non fu sì tosto fuor de l’uscio, che ella apre una cassetta dove, fra gioie, denari, collane e bacini, era il valor di più di trenta centinaia di scudi; e le sue vesti e massarizie passavano milleducento. E spalancato ogni cosa là, eccolo a casa; ed ella a lui: «Consorte mio, questa è la povertà mia e non ve la do per dota, ma per un segno d’amorevolezza». Il traditoraccio prese le cose di valuta, e riposele nel luogo dove stavano e chiusele di man sua. (Aretino 1984, 342–343). |
Si tratta di gioielli (I dilettevoli dialogi: “anello” e “ornamenti da collo”; Dialogo: “gioie, denari, collane e bacini”) e di abiti (I dilettevoli dialogi: “drappi delle camise”; Dialogo: “vesti”). Di tali abiti, in entrambi i testi, si specifica il valore in denaro (I dilettevoli dialogi: “di quali cadauno valeva doi darici”; Dialogo: “era il valor di più di trenta centinaia di scudi; e le sue vesti e massarizie passavano milleducento”), e si racconta di come l'uomo se ne appropri indebitamente.
La storia dell’ingenua cortigiana è accostata, sia nel testo lucianeo sia in quello aretiniano, a una invettiva della madre-narratrice – in entrambi i casi donna di lunga esperienza e scevra da illusioni – che rivendica il diritto della meretrice a essere pagata per il proprio lavoro, elencando una serie di beni materiali (cibo, vesti, un luogo dove vivere) che le sono necessari e che ella, al pari di qualsiasi altra persona, certo non riceve gratuitamente:
Matre [...] ma dimmi o Musaria se haveremo biso-gno di scarpe, et il calciolaro ne domandarà due dragme, gli risponderemo noi non havemo argen-to, ma pagativi da noi di speranza, el simile diremo a colui de la farina, et sel ne sarà domandata la pisone de la casa, responderemo aspetta insino a tanto chel sia morto Lachete Colitico, perché io ti pagherò poi che haro fatto nozze con Cherea. (I dilettevoli dialogi, clxvir-v). | Nanna [...] come le puttane avessero a esser tutte sante Nafisse; e non altrimenti che le puttane non pagassero pigion di casa, né comprassero pan né vino né legne né olio né candele né carne né polli né uova né cascio né acqua e fin entro al sole, e andassero ignude o, vestendo, i fondachi le donassero panni, sete, velluti e broccati, e di che hanno elleno a vivere, di spirito santo? e perché hanno esse a darsi in preda a ognuno in dono? I soldati vogliono la paga da chi gli manda in campo; i dottori dicano de le parole per la lite bontà dei soldi, i cortigiani avelenano i lor padroni s’egli non gli provede di benefizi; i palafrenieri hanno il suo salario e la sua colazione, e perciò trottano a la staffa: e si ogni esercizio faticando è sodisfatto, perché doviam noi entrar sotto a chi ci richiede per nonnulla? (Aretino 1984, 344). |
Evidenti sono le somiglianze tematiche e strutturali tra i due testi nonché la ripresa di singoli elementi (come la “pisone de la casa” che grava sulle finanze della meretrice, presente in entrambi i testi). Degna di nota è anche la già menzionata tendenza di Aretino a espandere il testo lucianeo grazie all’inserimento di comparazioni e di elenchi costituiti da esempi concreti (si veda la lista di professioni – soldati, dottori, cortigiani, palafrenieri – che ricevono un compenso per il proprio lavoro, come dovrebbe accadere, sostiene Nanna, a chi esercita il meretricio). Inoltre, un prelievo da questo passo del volgarizzamento lucianeo (“pagativi da noi di speranza”: la meretrice non può pagarsi scarpe e farina con la speranza, quella con la quale i suoi clienti pretenderebbero di ricompensarla, invece di darle denaro) torna, ripreso alla lettera, in un altro brano del Dialogo aretiniano (“pagandogli di speranze e di promesse”, Aretino 1984, 294).
Interessanti sono infine le somiglianze tra un’altra delle storie narrate da Nanna nella seconda giornata – quella di una cortigiana invitata a una cena durante la quale diventa oggetto di violenza da parte di un gruppo di uomini brutali (ivi, 350–352) – e il dialogo lucianeo tra Coclia e Partenia (I dilettevoli dialogi,clxxiv–clxxiir; nell’indice il testo si chiama “Dialogo d’una donna, la qual domanda ad un’altra la cagione per che lei piange”, ivi, iiiir, e corrisponde a D. meretricii XV). Aretino riprende la struttura fondamentale della trama, arricchendola però di descrizioni assai più dettagliate e costellate di elementi scabrosi.
Dal dialogo tra Coclia e Partenia proviene anche un altro lacerto del Dialogo aretiniano. Nella prima giornata ritroviamo difatti, ripetuta quasi alla lettera, la raccomandazione alla meretrice di evitare a ogni costo i soldati:
Coclia [...] Questo guadagno si fa de amorosi soldati, botte, e lite non ci manchano, e ben che dicano siano capitani, e conduttieri, nientedimeno se gli domandi niete ti respondeno aspetta chel me siano date le page e farò ciò che voi, possono adunque morire tutti simili huomini altieri. Io sono più savia delle altre che non ne voglio alcuno in casa. A me piace qualche pescatore o nocchiero o lavorator de terra il quale sia piacevole e porti poco, et spesso, questi squassa penacchi et vanta-tori non sono altro che parole et vento. (I dilettevoli dialogi,clxxiir). | Nanna Mi par sentire sfracassarti la porta da un capitano (o Iddio, oggidì ognun si chiama «il capitano», e mi par che fino ai mulattieri salgano al capitaniato): dico sfracassare, perché lefanno picchiare con bravaria, per parer di esser bestiali, parlando tuttavia con alcuni dettaregli spagnuoli, mescolandoci dei franciosi ancora. Non dare udienza a cotali tentenna-pennacchi; e se pur gli ami, fidati di loro come ti fideresti dei zingani, perché son peggio che i carboni, che o cuocano o tingano: gran gracchiare che fanno con lo aspettar de le paghe. (Aretino 1984, 281). |
La meretrice deve evitare – così leggiamo in Luciano e in Aretino – di far entrare in casa “capitani” (I dilettevoli dialogi: “non ne voglio alcuno in casa”; Dialogo: “Non dare udienza a cotali”), designati con la sineddoche spregiativa del pennacchio (I dilettevoli dialogi: “squassa penacchi”; Dialogo: “tetenna-pennacchi”)[14]. Si tratta difatti di uomini che, per non dar compensi, si trincerano dietro alla scusa di star ancora aspettando la propria paga (I dilettevoli dialogi: “aspetta chel me siano date le page”; Dialogo: “con lo aspettar de le paghe”).
Un ulteriore caso – questo finora ignorato – di intertestualità lucianea (o per meglio dire lucianeo-albertiana, come vedremo subito) nel Dialogo aretiniano è quello che riguarda l’ironica immagine degli dèi che si occupano di far fiorire le zucche invece che di faccende più importanti, ragion per cui il mondo degli esseri umani è dominato dall’ingiustizia. Questa immagine proviene da uno dei volgarizzamenti della raccolta zoppiniana: Virtus. Pur trattandosi di un dialogo di Leon Battista Alberti, esso fu – con la connivenza dell’autore – unanimemente attribuito a Luciano almeno fino alla fine del Cinquecento (e difatti si tratta di un testo chiaramente lucianista). In Virtus si afferma appunto, non senza sarcasmo, che “li Dei sono occupati ad fare che le Zucche in tempo conveniente fioriscano” (I dilettevoli dialogi, xxiiiiv). Similmente, nel Dialogo aretiniano Pippa prega Dio di smettere di occuparsi della fioritura delle zucche (“voglio, per mezzo dei miei paternostri, che Domeneddio da Imola lasci stare il fiorir de le zucche”, Aretino 1984, 382).
È interessante però che, nel Dialogo, questo elemento si trovi inserito in una storia diametralmente opposta a quella narrata in Virtus. Nel dialogo albertiano si racconta di come la Virtù venga brutalmente picchiata, spogliata e abbandonata (“Per laquale cagione essendo io meschina da tutti li huomini, et da quelli Dei liquali se gli trovorono presenti abandonata, se rivoltorono adosso di me con pugni, et calci, et me spogliorno delle mie veste, et poscia gettandome nel fango, se ne andorono, in forma che pareano triumphare de fatti mei”, I dilettevoli dialogi,xxiiiir), nonché del fatto che gli dèi trascurano di proteggerla perché sono appunto impegnati a far fiorire le zucche:
Ma per la Dio gratia glie hormai passato uno mese intiero, de quanto espetto essere introdutta, et non ho lassato de pregare quanti Dei vanno, et vengono che me facciano haver audientia, ma sempre mi è data qualche nuova scusa, et resposta. Alcune fiate dicono che li Dei sono occupati ad fare che le Zucche in tempo conveniente fioriscano. Alcuna volta che hanno cura vedere che li Parpaglioni nascano con le sue ale ben depinte. Può essere che continuamente haranno tante facende che io stia serrata di fuora? et cosi desprecciata? horamai sono pur fiorite tutte le Zucche, et li Parpaglioni volano con le sue ornatissime ale et anche li Ortulani hanno piglato partito che le Zucche non morirano per sete. Ma di me ne huomo, ne Dio alcuno se ne piglia pensiero. (ivi, xxiiiiv).
Aretino, al contrario – siamo nella seconda giornata del Dialogo, durante la quale Pippa impara ad abbandonare le proprie ingenuità e a farsi scaltra per non subire le conseguenze dell’ingratitudine degli uomini – racconta la storia di una cortigiana convocata da un uomo che finge di essere sul punto di morire e mostra un testamento di trecento ducati in favore della persona disponibile a esaudire gratuitamente i suoi ultimi desideri. La meretrice si accorge dell’inganno, avvelena l’uomo ed eredita il denaro. A questo punto Pippa afferma di pregare Dio affinché egli abbandoni la propria attività principale – ironicamente definita come l’impegno a far fiorire le zucche – e conceda il perdono alla meretrice (per un peccato che, secondo Pippa, così terribile poi non è, anzi viene definito “galante”): “Pippa Io vo’ dir la corona per lei; e voglio, per mezzo dei miei paternostri, che Domeneddio da Imola lasci stare il fiorir de le zucche, perdonandole un così galante peccato” (Aretino 1984, 382).
La protagonista dunque, nel testo di Aretino, non è la vittima di una ingiustizia generata dalla trascuratezza degli dei (esemplificata con l’immagine ironica della coltivazione delle zucche), bensì una donna che, dopo essere stata vittima di un tentativo di raggiro, commette un crimine che a Dio si chiede di trascurare (in nome del fatto che Dio con ogni evidenza si occupa solo di cose futili, come appunto il fiorire delle zucche, disinteressandosi di quelle importanti e permettendo che l’ingiustizia trionfi sulla terra). Così, l’episodio della seconda giornata del Dialogo si lascia anche interpretare come una parodia del tono serio e dell’afflato moralizzante che caratterizzano il dialogo lucianista di Alberti[15], da Aretino ritenuto essere di Luciano stesso.
2 Temi e generi
Le affinità tra il Dialogo e I dilettevoli dialogi riguardano anche il piano dei temi (e dei generi, come vedremo dopo). Oltre alla ripresa di singoli lacerti, difatti, si registra una consonanza più generale tra lo scritto aretiniano e alcune parti della silloge veneziana di volgarizzamenti lucianei.
Ancora una volta, la somiglianza più evidente è quella coi D. meretricii, che parlano del mestiere della meretrice e specialmente (per quel che riguarda il D. meretricii VI) dell’apprendimento dello stesso. Le costellazioni motiviche sulle quali si basano rispettivamente Dialogo e D. meretricii risultano analoghe: ci sono i piccoli inganni – architettati o subiti – presenti nel quotidiano della meretrice; la gelosia; l’ingratitudine; il disprezzo subito dal resto della società; l’uso di travestimenti e di cosmetici; il ricorso a trucchi presentati come magie; gli incontri e gli scontri con poveri giovani e anziani ricconi, nonché con soldati senza scrupoli.
Naturalmente Luciano e Aretino affrontano tali temi in modo parzialmente divergente: se nei D. meretricii l’atmosfera è rarefatta e malinconica, piena di sfumature e priva di qualsiasi accenno provocatorio, il Dialogo aretiniano è tutto giocato sullo scandalo e sull’ostentazione dei dettagli scabrosi, il che come si è visto spesso avviene per via di accumulo, cioè enumerando esempi concreti. Eppure, al netto delle suddette differenze, rimane degno di nota il fatto che lo scritto aretiniano presenti quelle caratteristiche fondamentali che Peter von Möllendorff (2010, spec. 83) ha individuato nei D. meretricii: il tono relativamente realistico delle descrizioni, la centralità delle dimensioni della vita quotidiana e della corporeità, l’insistenza sulle dinamiche di fedeltà/infedeltà e di illusione/delusione. Tanto in Luciano quanto in Aretino, inoltre, il mondo delle meretrici è contrassegnato da mancanza di continuità e di stabilità, nonché da imprevedibilità e precarietà dell’esistenza, e al contempo simboleggia queste caratteristiche, stimolando nel lettore una riflessione sulla presenza di tali elementi nella realtà tout court. Infine l’accento cade, in entrambe le opere, sul contesto urbano, e specificamente sulla città come centro della vita sociale e culturale. Il dato è rimarchevole soprattutto nel caso dei D. meretricii: al contrario di tutti gli altri Dialogi minori (si pensi ai Dialogi deorum e ai Dialogi mortuorum), il cui sfondo è l’aldilà senza tempo della dimensione celeste o sotterranea, i D. meretricii sono ambientati in un contesto terreno e precipuamente urbano[16].
La rappresentazione vivace della città con la sua umanità varia – donne e uomini, vecchi e giovani, ricchi e poveri, colti e incolti – è probabilmente uno degli aspetti dei D. meretricii ad aver spinto Zoppino a mettere in risalto i suddetti dialoghi all’interno di una antologia, I dilettevoli dialogi, che voleva rivolgersi a un pubblico il più possibile ampio e eterogeneo, sia dal punto di vista dell’età e del genere di appartenenza (l’editore scrive nella prefazione: “Et certamente tal degno auttore [Luciano] da huomini valorosi, da gioveni leggiadri, da donne gentili, da vecchi annosi, et parimenti da teneri fanciulli, può essere letto et studiato”, I dilettevoli dialogi, iiv) sia per quanto concerne il livello di istruzione (il libro si rivolge tanto agli “huomini volgari” quanto agli “huomini letteratissimi”, ivi,
iiv–iiir). Così come dietro ai D. meretricii c’è un concetto di paideia vista come qualcosa che è, e deve essere, accessibile non soltanto agli strati più alti della popolazione bensì a ogni individuo (almeno potenzialmente), dietro alla silloge veneziana di volgarizzamenti lucianei (che non a caso mette in evidenza i suddetti dialoghi) c’è una idea plurale e inclusiva di cultura intesa come un patrimonio che – grazie ai potenti mezzi della stampa nonché alla legittimazione del volgare come lingua ‘alta’ – può e deve essere messo a disposizione di un più ampio bacino di lettori e di lettrici, prescindendo per quanto possibile dalle loro condizioni di istruzione e sociali[17]. Luciano quindi diventa, con I dilettevoli dialogi, una sorta di auctoritas non autoritaria che presiede al tentativo di promuovere un approccio più aperto e anti-elitario alla tradizione letteraria e culturale; un tentativo certamente in consonanza, come sappiamo, con la visione del mondo di Aretino.
Possiamo accostare il Dialogo ai volgarizzamenti lucianei anche per quel che riguarda il genere letterario? Da più parti è stato messo giustamente in luce come lo scritto aretiniano costituisca un ‘capovolgimento’ dei generi della novellistica e del dialogo, e più specificamente dei capolavori par excellence di tali generi, ovverosia rispettivamente il Decameron (di cui inverte il rapporto gerarchico tra la cornice e le singole novelle, rendendo la prima più significativa delle seconde[18]) e gli Asolani nonché il Cortigiano (di cui parodizza il tentativo di rinvenire nel mondo una qualsivoglia forma di “disegno”[19], rovesciando in tal modo il dialogo come inteso dal primo Cinquecento italiano – un momento storico nel quale, sulla scorta di Platone, si ascrive a tale genere la capacità di fungere da strumento di ricerca della verità)[20].
D’altra parte vale la pena chiedersi se Aretino, oltre a capovolgere generi di indubbia centralità nella sua epoca quali la novellistica e il dialogo platonizzante, non compia col Dialogo anche una imitazione e rielaborazione per così dire ‘in positivo’ di altri generi (o sottogeneri) letterari, a loro volta rappresentati da uno o più modelli a lui noti. Per quello che concerne Luciano, a livello di genere letterario si nota una affinità di massima, ancora una volta, con i D. meretricii e specificamente con il D. meretricii VI che, come il Dialogo, può essere ascritto al sottogenere del dialogo tra prostitute con intento pedagogico. I dialoghi lucianei e aretiniani sulle meretrici pertengono alla stessa tipologia aperta, pluralizzante e ironizzante di dialogo alla quale mancano sia una cornice ideologica stabile sia le formule tipiche di apertura e di chiusura (tant’è che le conversazioni finiscono spesso ex abrupto – ad esempio perché interrotte da eventi esterni – e senza giungere a solide conclusioni)[21]. Eppure, è anche vero che l’importanza dei D. meretricii come prototipo generico del Dialogo è limitata agli aspetti appena menzionati.
Ci sono, invece, altre opere di Luciano assai più significative per Aretino sul piano del genere letterario. Il loro ruolo non è stato finora mai messo in evidenza. Rilevante per il Dialogo è in particolare, come vedremo di seguito, un altro dei volgarizzamenti contenuti nella silloge zoppiniana, il De parasito lucianeo, e con esso il genere dell’encomio paradossale in forma dialogica. Quello del De parasito e del dialogo basato su una laudatio paradossale è un modello che nel Dialogo viene tutt’altro che capovolto: al contrario Aretino lo riproduce emulandolo da vicino e per così dire ‘in positivo’.
Il Dialogo può essere considerato afferente al genere del discorso epidittico paradossale, nella misura in cui – lodando la meretrice come tale – l’opera esprime un giudizio valutativo che contraddice in modo manifesto l’opinione dei più. Più specificamente si tratta di adoxografia, cioè dell’encomio di un oggetto o di una figura che la communis opinio ritiene non meritevole di lode; un genere letterario che, sin dall’inizio della prima età moderna, in Italia si associa strettamente a Luciano. Difatti, tra i primi scritti del Samosatense ad essere tradotti da un umanista italiano ci sono proprio Musca e De parasito, le cui versioni latine di Guarino Veronese (redatte rispettivamente nel 1403–1408 e nel 1418) avevano circolato ampiamente in Italia[22] ed erano state oggetto di celebri riscritture (in primis quella che Leon Battista Alberti aveva fatto di Musca)[23].
Notevoli sono in particolari le affinità del Dialogo con il De parasito. Si tratta di un dialogo (Musca è invece uno pseudo-trattato), e al contempo di un encomio paradossale di stampo adoxografico, visto che loda il parassitismo definendolo l’arte più nobile in assoluto. Tanto lo scritto aretiniano quanto quello lucianeo presentano una demostratio con scopi pedagogici che esalta un modo di vivere generalmente considerato indegno di lode. L’encomio prende forma per mezzo di una conversazione tra due figure: qualcuno che pratica tale ‘professione’ da tempo e che intende riscattarla dal disprezzo che la circonda narrando le proprie esperienze, e qualcuno che, inesperto, pur essendo inizialmente scettico rispetto alla scelta di un tale modo di vivere, alla fine si convince della giustezza delle argomentazioni della controparte, le quali decostruiscono pezzo per pezzo la doxa consolidata sull’argomento.
Sia nel De parasito che nel Dialogo, inoltre, si ritrova un altro tratto fondamentale del genere dell’encomio paradossale: il contrasto tra contenuto ‘basso’ e stile ‘alto’. Tale contrasto porta in massima evidenza l’abbondanza di figure retoriche (iperboli, ossimori, litoti e tutto lo strumentario del discorso ironico antifrastico – del tutto assente, lo si noti, nei D. meretricii) che, in entrambi i testi, rende possibile lo sguardo straniato sulla communis opinio. La conseguenza è che le due opere si presentano al lettore come capolavori di virtuosismo linguistico; ad essere oggetto di encomio, pur implicitamente, è – ancor prima del parassitismo o del meretricio – l’arte del parlare che l’autore dimostra di dominare alla perfezione, persino quando si confronta con contenuti ‘bassi’.
Oltre alle affinità generali, ci sono anche riscontri puntuali in base ai quali è possibile ragionevolmente ipotizzare che il De parasito sia stato un modello del Dialogo sul piano (anche) del genere letterario. Colpisce in particolare la congruenza pressoché perfetta tra le strategie argomentative rispettivamente impiegate da Luciano e Aretino. In entrambi casi il primo ragionamento del protagonista consiste nell’affermare che persino le professioni generalmente ritenute onorevoli sono, in realtà, per molti aspetti simili – o addirittura uguali! – alla propria, che invece è socialmente disprezzata. Così nel De parasito e nel Dialogo le attività infamanti (rispettivamente quella di parassita e quella di meretrice o di ruffiana) sono comparate ad altre considerate assai dignitose (rispettivamente quella di filosofo e di medico); un paragone che, pur essendo in apparenza azzardato, svela invece come tra tali mestieri non vi sia alcuna sostanziale differenza. Così Eschine – allievo di Socrate, tra i migliori e più stimati filosofi – altro non era che un parassita, sostiene Luciano, ricordando che il sapiente si fece invitare da Dioniso a risiedere per lungo tempo in Sicilia ricevendo da lui gratuitamente vitto e alloggio. Parimenti secondo Aretino il medico è, di fatto, nient’altro che una cortigiana, e viceversa: entrambi vanno di casa in casa, offrendo i propri servizi dietro compenso, consolando le persone più diverse e aiutandole a sentirsi meglio.
Simone [...] di molti philosophi si fa mentione li qualli hanno havuto desiderio de parasitare. Tichiade Et di quali philosophi sapresti dire che si habbiano sforzato di parasitare? Simone Quali, tali o Tichiade che tu li sai ma fingi di credere ch’io anchora non lo sapia come chel sia vergogna, e non più tosto honore nel parasitare. Tichiade Io non fingo ma ti giuro per Giove o Simone, anzi dubito molto chi sian quelli che tu possi nominare. Simone O valent’huomo, il par che tu non habbi letto coloro che han scritte le vite di philosophi, per che tu potresti molto ben discernere qual siano quelli ch’io dico. Tichiade Per hercule io son molto desideroso di conoscerli. Simone Io te li numerarò, et sapi che non sono de li più vili, ma di megliori de quali tu non pensaresti per niente. Eschine primamente, quello discipulo di Socrate, ilquale Eschine scrisse quelli dialogi così longhi et faceti, andoe con questi dialogi medesmi in Sicilia, accio che con questo mezzo, il si facesse conoscere a Dionisio Tiranno, et havendogli letto uno dialogo intitolato Miciade, poi chel parve che piacesse a Dionisio el si restete il resto del tempo in Sicilia, parasitando con Dionisio ben chel dicesse chel fosse fortificato da le conversatione de Socra-te. Aristippo Cireneo non ti pare che egli fosse uno de li comendati philosophi? Tichiade So per certo. Simone Costui etiamdio in uno tempo medesimo dimorò in Saragosa, parasitando a Dionisio, et haveva gratia seco sopra tutti li altri parasiti, per che gliera più ingenioso e più destro in questa arte, si che ogni giorno Dionisio mandava li suoi cuochi ad Aristippo accio che imparasseno da lui, in tanto chel mi pare che costui nobilitasse molto l’arte nos-tra. Il vostro Platone più generoso che niuno altro, vene anchora lui in Sicilia a questo effetto et poi che l’hebbe parasitato con Dionisio alquanti giorni el si destolse di questa arte, per non essergli troppo esperto donde chel ritornoe in Athene dove haven-dosi affaticato de imparar meglio, poi ch’el foe in ordine il navicoe la seconda volta in Sicilia, et ha-vendo de novo mangiato con Dionisio pochi giorni, el discadette per ignorantia, et parve che questa desgratia la quale accadette a Platone in Sicilia fosse simile ala calamitade di Nicia. Tichiade Et chi parla di questo o Simonide? Simone Molti altri ma spetialmente Aristosseno mu-sico, il quale similmente fo parasito di Neleo, per che tu sai come Euripide perseveroe in sino ala morte parasitando ad Archelao et Anassarcho, et Alessandro, Aristotele comincioe solamente parasi-tare ma non seguitte, quello ch’el fece etiamdio ne le altre arti. Io adunque ti ho dimostrato veramente philosophi che se hano dati a parasitare. (I dilette-voli dialogi,lir– liir). |
Comare Guarda a una ruffiana riputata bontà de le sue vertù e vedrai un medico dei più famosi del mondo: stammi pure a udire, se vuoi che io ti imbocchi la mia sapienzia. Ecco là un medico savio ne lo andare, saputo ne lo stare: parla per lettera, scrive per ricette e fa ogni cosa per punti di seste; onde la brigata corre a lui come corre a me la gente, la quale mi conosce per astuta, per sufficiente e per maestra. Un medico va con scigurtà per tutte le case, e una ruffiana che ci sa essere fa il simigliante; un medico conosce le complessioni, i polsi, i difetti, e collere e le malatie di questo e di quello: e la ruffiana i fernetichi, gli umori, le nature e le magagne di chi si voglia; il medico ripara al mal del fegato, del polmone, del petto e del fianco: e la ruffiana al mal de la gelosia, del martello, de la rabbia e del core de le donne e degli uomini. Il medico conforta, e la ruffiana consola, il medico sana, e la ruffiana con il menar l’amica a letto fa il medesimo. La cera lieta del medico rallegra lo ammalato, e la faccia balda de la ruffiana ravviva lo amante e tanto più merita la ruffiana del medico, quanto son più pazzi e più indiavolati i mali d’amore che quelli del madrone. Il medico tocca tuttavia denar nuovi, e la ruffiana ancora, e buon per chi si ammala, se il medico vedesse ne la orina quel che vede la ruffiana nel viso di coloro che vengano a lei per aiuto e per consiglio. E sì come il medico vuole essere motteggero, parlante e pieno di facezie, così la ruffiana non vale se non ha sempre in punto cento novellette. Il medico sa promettere di sanare chi si more de l’altro dì, e la ruffiana pone in isperanza colui il qual s’impicca. Balia Non se ne perde una. Comare Il medico ha di più sorte robe: e queste porta le pasque, quelle i dì santi, altre i giorni solenni e altre le domeniche; e la ruffiana muta abito secondo non i tempi, ma secondo le persone con le quali si abocca per condurle a chi le spetta. Caso che io vada a parlare a una gentildonna o a una cortigiana ricca, mi vesto da poverina, per muoverla prima a compassione de la miseria mia e poi d’altrui; a le basse di condizione e di robba comparisco inanzi addobbata in su le forge, e ciò faccio per dar credito a me e speranza a loro. Balia Come speranza a loro? Comare Speranza di arricchirsi, parendole io ricca, con i partiti che io gli pongo in mano. Balia Bisogna nascerci. Comare E per tornare a dirti, il medico ha in camera polvere, acque, lattovari, erbe, radici, bossoletti, scatolini, lambicchi, campane, caldaie e simili ciabattarie; e la ruffiana non pure ha di cotali bazzicature, ma fino agli spiriti costretti da la bugia che le fa giurare di averlo in una verghetta. Il medico, con le sue medicine, cava il tristo e il buono di corpo a lo infermo; e la ruffiana, con le sue salle-fare, cava de le scarselle i ducati e i piccioli. Il medico vuole esser di mezza età per esser creduto e la ruffiana di mezzo tempo perché se le dia fede. (Aretino 1984, 406–407). |
Inoltre, sia nel De parasito sia nel Dialogo il/la protagonista si impegna a dimostrare di fronte all’interlocutore meno esperto che la propria professione, pur considerata disonorevole, è l’unica che possa garantire davvero una vita felice. Tale mestiere infatti – così si afferma in entrambi in testi – garantisce accesso a tutti i possibili piaceri, senza però portarsi dietro gli obblighi e le preoccupazioni che la ricchezza e il potere invece necessariamente implicano. A riprova di questa convinzione si menziona tra le altre cose il fatto che il parassita e la ruffiana ricevono lo stesso cibo dei loro signori:
Simone [...] Il dice finalmente Idomeneo descen-dente da Giove parasito di Agamennone, tu sai similmente queste cose, ma come mi pare tu non intendi anchora bene come questi doi homini era-no parasiti di Agamennone. Ricordati o generoso huomo di quelli versi liquali Agamennone istesso dice ad Idomeneo. Tichiade De quali? Simone La tua tazza sta sempre piena come che a mi, e poi bevere quando te ne vien voglia, e queste parole non importano questo in veritade che la tazza stesse piena sempre ad Idomeneo, et mentre che dormiva e chel combatteva, ma che tutto il tempo della vita sua il poteva mangiare con il Re non come li altri huomini d’arme ch’erano invitati certi giorni [...] (I dilettevoli dialogi,liiiir). |
Comare E quante ne ho beccate su ai miei dì per cotal via: insomma tutti i buon bocconi son trangusciati dai cuochi, e noi ruffiane aviamo, ruffianando, il medesimo piacere che ha colui che fa le cialde, il qual si mangia tutte quelle che si rompano; anzi quello dei buffoni, i quali vestano e mangiano de le robe e dei cibi dei signori. (Aretino 1984, 437). |
De parasito e Dialogo hanno in comune anche una terza linea argomentativa. L’attività disonorevole del/della protagonista viene lodata in quanto arte basata sulla profonda conoscenza della varietas del mondo: il parassita e la meretrice o la ruffiana sono detentori (pressoché unici, peraltro) di un sapere che da una parte garantisce loro accesso alla conoscenza delle diverse sfaccettature della natura umana, e dall’altra consente loro di padroneggiare tutti i diversi modelli di comportamento, ragion per cui queste figure riescono, in qualsiasi situazione, ad adottare l’atteggiamento giusto e a trovare le parole più adeguate. Così Luciano definisce il parassitismo un’ “arte” (nel senso di “apprensione”, “inquisizione”, “sapienza”) che permette di “conoscere li huomini falsi da li boni, non manifestandosi specialmente cossi presto li huomini come le monete” e di “saper ritrovare parole atti e fatti accorti” (I dilettevoli dialogi, xxxxviv). Similmente Aretino (1984, 406) insiste sulla “sapienza” della cortigiana e della ruffiana intesa come “il compre<n>domine che cerca di avere con tutte le qualità degli uomini e de le donne”, esaltandone la capacità di parlare a ciascuno diversamente, e quindi in modo perfettamente adeguato. Così la ruffiana si congratula con la guardia per aver arrestato un ladro e al mariuolo fornisce consigli su come tagliare le borse in modo più scaltro; chiede informazioni alla suora su come vadano le cose in convento, al contadino sul raccolto e al soldato sugli sviluppi della politica francese; rallegra il furfante e piange con la vedova il marito di lei morto da un decennio; raccomanda al sarto di non rubare la stoffa, al fornaio di non bruciare il pane, al fanciullo di studiare di più, al frate di non accendere troppo presto il cero durante la messa, dato che costa caro:
Simone Diremo che uno banchiero habbi l’arte de discernere le monete bone da le false, et chel pa-rasito senza niuna arte conosca li huomini falsi da li boni, non manifestandosi, specialmente cossi presto li huomini come le monete, onde il saggio Euripide si lamenta dicendo, il non è impressa bolla niuna nel corpo de l’homo per laquale il si possa conoscere, tanto maggiore adunque è l’arte del parasito il quale più che uno indivino conosce et prevede cose cossi occulte et obscure. Ma sapere ritrovare parole atte et fatti accorti, per liquali il si faccia familiare, et dimostre di volere grandissimo bene al suo patrone, e non ti pare questo giudicio sufficiente de una grande apprensione e sapienza? Tichiade Sì per certo. Simone Pensi tu anchora che senza grande intellet-to et prudentia, lui sappia trovar modo ne conviti di riportare sempre la meglior parte, et farsi honore sopra tutti li altri, liquali non sanno simil arte. Tichiade Non. Simone La cognitione etiamdio di cibi boni et cativi, e inquisitione di varie vivande, credi tu che la sia senza artificio dicendo specialmente il generoso Platone queste parole. Uno che sia chiamato al convito se il non ha del cuoco, il non potrà ben giudicare della mensa apparecchiata. Ma che in la parasitica intervenga non solamente apprensione et cognitione, ma oltra di questo essercitio et prati-ca facilmente intenderai si tu consideri che nelle altre arte se intermette lo essercitio giorni et notte et mesi e spesse volte anni, ne per questo li artifici si smenticano, le intelligentie del parasito se non sono in continuo essercitio essercitate non sola-mente l’arte perisce, ma insieme l’artifice. [...] Simone La parasitica adunque in noi è una arte?Tichiade Come appare sì. (I dilettevoli dialogi, xxxxviv– xxxxviir). |
Comare [...] Con tutte le persone che passano per la via, la ruffiana si pone a cicalare: né ti parlo di quelli che salutano col capo, coi cenni, col gombito e con gli occhi. Balia Io la piglio pel verso, e so che vuoi che io sia tale. Segue pure. Comare S’intoppa un birro, gli dice «Da paladino ti portasti ieri nel pigliar quel ladro»; imbattendosi in un mariuolo, si gli accosta a l’orecchio con dirgli «Tagliale destramente», dà di petto in una monica, e le fa di capo dimandando de la badessa e dei digiuni che fanno. Ecco che vede una puttana, e fermatasi seco, la prima cosa le dà del «Voi sète più bella che mai» ne la testa. S’incontra uno oste, dicegli «Trattate bene i forestieri»; a uno spenditore, «Comprate buona carne»; a un sarto, «Non robbate il panno»; a un fornaio, «Non abbrusciate il pane»; a un fanciullo, «Tu sei fatto uno omicciuolo, impara bene»; a una bambina, «Tu vai a la maestra, eh? Or fatti insegnare il punto incrociato»; a quel de la scuola, «Date le palmate e i cavalli con discrezione, perché dove non son gli anni non ci pò essere intelletto»; a un converso, «Adunque voi dite la corona in cambio de lo uffizio: che, non sapete leggere?»; a un contadino, «Sarà uguanno buona ricolta?»; a un soldato, «Sì che Francia farà de le sue?». Ecco ella incontra un servidore, e dicegli «Il tuo salario corre; hai tu troppa fatiga?», e «Il tuo padrone è strano?». Eccola dimandar un chierico s’egli è a pìstola o a vangelo. Trova un furfante, e a un tratto gli fa squillare le sette allegrezze. Eccoti che dice a un fraticino «Non risponder sì forte a la messa» e «Non accendere il cero se non quando si leva il Signore, perché costano troppo». S’abocca con un vecchio dicendogli «Non mangiate aceto per amor de la tossa»; poi gli entra a dire «Ricordivisi quando...ah?». Vede un garzonetto, e dice «Dàlla qua, perché tua madre e io fummo carne e unghia; quanti basci e sculacciate che io ti ho date! due anni a la fila sei dormito ai miei piedi, e mi pare ne la tua faccia veder le sue fattezze sputate». Ora ella ha incontrato un giovane e dettogli «Io ho trovato una bella cosetta che se ne contentaria un conte»; appena scorge un romito, che ella gli dice sospirando «Iddio a voi ha tocco il core, e a noi le mondanità»; s’imbatte in una vedova, e si mette a piagner seco il marito che le morrì dieci anni fa; vede uno sbricco, e gli dice «Lascia andar le quistioncelle»; trova un frate, e domandagli se la quaresima viene alta l’anno seguente. Balia Ora sì che l’hai dette tutte. Comare Credi tu che la ruffiana entri in cicalamento con tante brigate per piacere? Tu non ci sei: ella il fa per il compre<n>domine che cerca di avere con tutte le qualità degli uomini e de le donne. (Aretino 1984, 416–418). |
Questa duttilità della ruffiana, questo suo talento nel reinterpretare diversamente il principio dell’aptum adattandosi allo specifico contesto col quale si confronta nel quadro vivace ed eterogeneo della città, è evidentemente liminare alla sua capacità di fingere, illudere, dissimulare e addirittura di ingannare e di mentire. A tal riguardo il testo aretiniano è assai più radicale di quello lucianeo: all’apprendista viene esplicitamente consigliato di essere “doppia” e di non disdegnare truffe e menzogne (“sei piena di motti, di proverbi, prosuntuosetta, doppia, spiatrice di quel che ognun fa; sai dar la quadra, negar da ladro; la bugia è il tuo occhio dritto”, ivi, 419–420). Aretino insiste, per bocca della ruffiana, sull’importanza del sapersi trasformare e adattare (persino mentendo, se necessario) alle situazioni nelle quali ci si ritrova, specificando anche – concordemente alla propria predilezione per gli elenchi e per il discorso che procede per via di accumulo – una nutrita casistica. Luciano si era invece limitato a discutere il principio, fornendo al massimo dei paragoni, ma non, appunto, degli esempi. Ciò è spia di una differenza più generale tra il modo in cui Luciano e Aretino interpretano il genere dell’encomio paradossale in forma dialogica: la struttura maieutica mantiene nel De parasito un’aura nitidamente filosofica, mentre nel Dialogo essa viene ibridizzata in misura assai maggiore con elementi novellistici, che spesso generano carrellate di variegate micro-narrazioni.
Ciononostante, le consonanze tra De parasito e Dialogo sono considerevoli, e diventano tanto più evidenti se si tiene conto del fatto che il testo di Aretino ha più punti di contatto con quello di Luciano che con gli altri encomi paradossali noti a quell’epoca. Né il Moriae Encomium erasmiano né il Musca di Alberti hanno forma dialogica; inoltre, in questi ultimi due testi l’intersezione tra la demonstratio per absurdum e gli scopi (paradossalmente) pedagogici è meno accentuata di quanto non sia nel De parasito e nel Dialogo, anche per via dell’assenza della figura dell’apprendista, e quindi della mancanza dello schema della conversazione tra figure di sophoi e di idiotai.
Le affinità tra De parasito e Dialogo mettono dunque in luce la centralità di Luciano per Aretino, e al contempo permettono di rilevare la presenza di processi di imitatio ‘in positivo’ che – così si può ragionevolmente ipotizzare – hanno contribuito a forgiare il Dialogo dal punto di vista del genere letterario. Come si vedrà di seguito, inoltre, le consonanze tra il testo lucianeo e quello aretiniano contribuiscono a chiarificare quale sia la figura autoriale immanente all’opera di quest’ultimo scrittore.
3 Figure autoriali
Leggere il Dialogo come un’opera che pertiene (anche) al genere dell’encomio paradossale permette di far emergere la presenza, nello scritto di Aretino, della figura autoriale tipica di tale tipologia di testi. L’epidittica paradossale presuppone difatti la presenza di un autore che decide di dar corpo a un giudizio di valore nonostante tale giudizio sia in palese contrasto con la communis opinio. Si può dire addirittura, per i motivi esposti in seguito, che il Dialogo miri – assai più che al riscatto della meretrice dalla pessima fama di cui gode in società, che non è certo l’obiettivo primario di Aretino – a un self-fashioning dell’autore come parrhesiastes: vale a dire a una consapevole autorappresentazione dell’autore come qualcuno che ha il coraggio di opporsi al parere della moltitudine esponendo apertamente valutazioni scomode o sinora taciute (valutazioni, si noti, mai presentate come soggettive, bensì come oggettive: come delle verità, dunque). Questo ‘parlar franco nonostante tutto’[24] è lo stesso gesto autoriale su cui si fonda il De parasito, dove Luciano, argomentando per bocca del suo alter ego Simone in favore di una opinione contraria alla doxa (la vera arte è quella del parassitismo e i filosofi sono solo – o sono peggio dei – parassiti), veicola una immagine di sé come intrepido e solitario latore di verità non convenzionali, e/o falsificatore di verità condivise (tale imago auctoris, come si sa, si ritrova spesso nell’opera del Samosatense)[25]. Riprendendo il genere – eminentemente lucianeo – dell’elogio paradossale in forma dialogica, e specificamente ispirandosi al De parasito, dunque, Aretino compie anche una ripresa della tipologia autoriale – quella del parrhesiastes – pertinente a tale tipologia di testi.
Nel Dialogo, l’autorappresentazione di Aretino come parrhesiastes è evidente sia alle soglie del testo sia dentro di esso. Per dimostrare ciò prenderò in considerazione in primo luogo alcune affermazioni dell’autore stesso, contenute nei paratesti e specificamente nella lettera dedicatoria a Bernardo Valdaura; affermazioni attraverso le quali Aretino comunica non soltanto un certo contenuto ma anche una determinata concezione di sé. In secondo luogo esaminerò alcuni discorsi di Nanna e della Comare, personaggi che con ogni evidenza – e come ribadito da numerosi studi[26] – rappresentano, in gran misura, dei doppi dell’autore. In forza della loro quantomeno parziale valenza di alter ego, Nanna e Comare danno voce, specialmente in certi passaggi del Dialogo, ad asserzioni dalla valenza pragmatica, la funzione delle quali è di disegnare di fronte a colui che legge il profilo di colui che scrive[27].
Tanto nella dedicatoria di Aretino quanto nei discorsi di Nanna e della Comare si insiste sulla propria capacità di parlare in modo libero e dunque di disvelare le verità che l’opinione comune nasconde o nega[28]. Così nella lettera a Valdaura l’autore afferma di mandare in stampa opere che contengono parole franche, non edulcorate con abbellimenti (“Lascio stampare le mie cose così fatte, né mi curo punto di miniar parole”, Aretino 1984, 211) e si compiace di essere in tal modo riuscito a far giungere delle verità nelle stanze e nelle orecchie dei signori (“merito pur qualche poco di gloria per avere spinto la verità ne le camere e ne le orecchie dei potenti, a onta de l’adulazione e de la menzogna”, ivi, 212). E Nanna non fa che ribadire, conversando, come il suo modo di parlare sia immediato e diretto (“io favello alla improvisa”, ivi, 281) e quindi diverso da quello dei più, perché libero e non assoggettato alle convenzioni. Tra i molti esempi possibili di quest’ultimo aspetto basti ricordare il passo nel quale Nanna – avendo Pippa domandato “Che, non si pò favellar com’altri vole?” – risponde con una satira feroce sulle “cornacchie” (coloro che si adeguano al modo di discorrere della maggioranza, riproducendolo magari in peggio) e afferma con forza il principio del “favello come mi pare”, facendovi seguire parole che ricordano il già menzionato “io imito me stesso” aretiniano: “Ma io, che son io, favello come mi pare [...]: e perciò la Nanna è la Nanna” (ivi, 240–241)[29].
Questa figura auctoris aretiniana, veicolata per bocca della Nanna e incentrata sull’ostentazione del diritto/dovere di piena libertà di parola, non nasce certo col Dialogo, ma affonda le radici nell’attività precedente dello scrittore, già autore di pasquinate nonché di commedie a tema anticortigiano. Ma è nel Ragionamento e nel Dialogo e ancor più poi nelle Lettere (un libro incentrato proprio sui processi di self-fashioning)[30] che il processo di auto-stilizzazione del profilo di Aretino come alfiere della verità raggiunge la sua acme, allacciandosi con la poetica dell’originalità e dell’unicità sopra menzionata[31].
Nelle Lettere, per qualificarsi come parrhesiastes Aretino sfrutta tanto i testi quanto i paratesti, compresi gli apparati figurativi. Per quanto concerne i primi mi limito a ricordare – oltre ai passi dove l’autore si descrive come il capitano di una “milizia [...] col vero dipinto ne le sue insegne” (Aretino 1997, 216)[32] o afferma “Io son uomo verace, e scrivo quel che mi par che sia” (ivi, 161) – la lettera a Fausto Longiano del 17 dicembre 1537 (ivi, 407–409). In essa si tratteggia un ritratto di Aretino libero dalle convenzioni vigenti in ambito letterario (“Ma io mi rido dei pedanti [...]”) e svincolato dall’influenza dei modelli (“Io non mi son tolto dagli andar del Petrarca, né del Boccaccio per ignoranza, ché pur so ciò che essi sono, ma per non perder il tempo, la pacienza e il nome ne la pazzia del volermi trasformar in loro, non essendo possibile”). Aretino si presenta quindi come una figura originale, unica e in contrasto con la moltitudine (“Più pro fa il pane asciutto in casa sua che l’accompagnato con molte vivande a l’altrui tavola”) e afferma di rifiutare ogni tipo di maschera falsificante, mostrandosi piuttosto per quello che è davvero (“Io porto il viso de l’ingegno smascarato”). Menziono questa missiva, giustamente famosa, soprattutto per evidenziare che l’unico autore ivi citato da Aretino in qualità di auctoritas positiva è proprio Luciano, le cui opere – afferma Aretino – hanno una durevolezza e un significato (e un contenuto di verità) ben superiori a quelli delle “ciance” (testi basati sul non-senso, come i capitoli dei Cardi o degli Orinali del nemico Francesco Berni) scritte da coloro che, del tutto a torto, si professano imitatori del Samosatense, e che, al contrario di quest’ultimo, saranno presto dimenticati[33]. Con questa critica ai cattivi discepoli di Luciano, Aretino implicitamente si candida a essere riconosciuto come colui che invece ha colto e restituito appieno nei propri testi il valore (anche nel senso di valore di verità) delle opere e della figura del Samosatense. Pur tutta basata su accenti ‘singolarizzanti’, dunque, la strategia aretiniana di self-fashioning autoriale implica, paradossalmente, che egli in certa misura possa e voglia ‘sodalizzare’[34] con figure analoghe – cioè altrettanto ‘singolarizzanti’ –, in primis appunto quella lucianea.
Similmente, nei paratesti delle Lettere Aretino si mette in scena come parrhesiastes, e, come vedremo, lo fa anche rielaborando e imitando elementi lucianei (o meglio del Luciano che circolava in Italia nel primo Cinquecento italiano). Il ritratto dell’autore sul frontespizio e sulla controcopertina[35] è accompagnato da due figure entrambe sormontate da una maschera, “una bella per la virtù e l’altra brutta per il vizio”, come scrisse Vasari (1986, 843); assieme al motto divvs p. aretinvs acerrrimvs virtvtvm et vitiorvm demonstrator (leggibile nel frontespizio e anche già nella cornice del ritratto di Aretino ad opera di Sebastiano del Piombo, 1524–1525), le raffigurazioni suggeriscono l’idea di un autore inflessibile nello smascherare coraggiosamente, nel bene e nel male, il vero stato delle cose. Ma è soprattutto il motto della controcopertina – veritas odivm parit – a conferire all’autore il gesto fondamentale del parrhesiastes: quello di dire la verità a ogni costo, persino cioè qualora tale disvelamento generi odio da parte dei consimili. Quest’ultimo motto fa eco a una serie di dichiarazioni contenute nelle Lettere, come “Io vi amo, e amandovi voglio più tosto che mi odiate per dirvi il vero che mi adoriate dicendovi la bugia” (Aretino 1997, 259, corsivi miei); non troppo diversi sono i passi dove Aretino si descrive come qualcuno che, per amor di verità, è disposto a farsi “odiare” dalle ricchezze, cioè a essere povero (“un che per amar la verità è odiato da le ricchezze”, ivi, 73, corsivi miei). Inoltre, l’idea che la verità possa e debba, nonostante gli ostacoli, essere disvelata come tale e salvata dai suoi detrattori è il cardine dell’iconografia impiegata dall’editore (nonché cruciale alleato di Aretino) Francesco Marcolini, il quale tra l’altro designa la propria tipografia come la “Bottega de la Verità”[36]. La marca editoriale di Marcolini – nella quale Quondam (1980, 108) ha riconosciuto una “marca totale del discorso dell’editore” e un “segno che ne illustra ed orienta l’attività e la presenza” – rappresenta difatti la nuda veritas perseguitata da una figura con la coda di dragone. A porgerle aiuto è la personificazione del Tempo, come si evince anche dal motto veritas filia temporis[37].

Marca editoriale di Francesco Marcolini usata in Pietro Aretino, Lettere, Venezia, Francesco Marcolini, 1538.
Questa marca – “di ascendenza certamente aretiniana” (Quondam 1980, 108) – trova impiego, oltre che nelle Lettere, in tutte le opere di Aretino uscite tra il 1538 e il 1542 presso Marcolini[38].
Aretino e il suo editore, insomma, si mettono in scena, nelle Lettere (e non solo), a partire dall’idea che la verità debba essere svelata e fatta trionfare a ogni costo. A questo punto è opportuno chiedersi: fino a che punto questa idea è di effettiva provenienza lucianea? In che misura questa postura autoriale di Aretino e di Marcolini può essere considerata una ripresa di quella del Samosatense?
La storia della ricezione rinascimentale delle opere di Luciano ci mostra che proprio a partire dal primo Cinquecento in Italia questo autore è il parrhesiastes per eccellenza[39]. Se il Quattrocento aveva conferito a Luciano l’aura di un filosofo morale (si pensi alla grande notorietà del Calumnia[40]), il sedicesimo secolo legge, commenta e traduce testi lucianei soprattutto d’altro stampo. Tra i molti esempi possibili (oltre agli scritti tradotti per la prima volta da Erasmo da Rotterdam e Thomas More nel 1506, tra i quali Alexander seu Pseudomantis e Philopseudes – testi basati proprio sullo smascheramento della menzogna in favore della verità) basti menzionare questo lacerto del volgarizzamento del Deorum concilium, un dialogo anch’esso divenuto noto solo nel primo Cinquecento e segnatamente con la pubblicazione dell’antologia veneziana letta anche da Aretino (nella quale porta il titolo “Dialogo nel qual si essamina quali siano li veri dei e qual no”, I dilettevoli dialogi,iiiir). In questo dialogo Momo – e con lui Luciano, che lo usa come controfigura – descrive sé stesso come qualcuno che parla liberamente anche a costo di essere reputato fastidioso da parte di tutti:
Et io ti domando o Giove chel mi sia licito parlar liberamente, per che io non potrebbe altramente apprir la boccha, cadauno sa quanto io sia libero de la lingua, et che io non potrebbe tacere, quando io vedo una cosa mal fatta, per che io riprovo ogni difetto, et dico il parer mio ala perta, non guardando in faccia de niuno, ne coprendo per vergogna quel che io sento, donde che molti mi reputano essere fastidioso, et di natura cavillatore, et io son chiamato lo accusator publico, tutta via poi che per il vigor della crida, e per la licentia tua o Giove io posso parlar liberamente, io dirò il tutto, ne lascierò cosa alcuna di quello che io sento. (ivi, cxvr).
Ma ci sono prove anche più concrete del fatto che nel self-fashioning aretiniano e marcoliniano si possano rinvenire dirette riprese e trasformazioni di elementi provenienti dall’opera del Samosatense. Già Felix Saxl (1936, 201) aveva definito la marca editoriale di Marcolini una rielaborazione del Calumnia lucianeo (“The design is, in fact, essentially a modified Calumia Apellis. According to Lucian, Calumny drags her victim by the hair [...] and Truth stands in the background, raising her eyes towards Heaven”). Tracce lucianee ancora più evidenti (e passate finora del tutto inosservate) sono presenti nel motto aretiniano veritas odivm parit e nell’iconografia alla quale Aretino decide di associarlo. Il motto – così affermano gli studi sul tema[41] – avrebbe come fonte Terenzio (Andria,i i 41) e Cicerone (De amicitia, xxiv 89); Aretino l’avrebbe appreso grazie alla mediazione di Erasmo, che negli Adagia lo inserisce e lo analizza ricostruendone la genealogia, appunto menzionando Terenzio e Cicerone[42]. Eppure, come vedremo subito, la linea Terenzio-Cicerone-Erasmo non spiega l’uso aretiniano del motto se non in misura minima, il che porta a pensare che l’autore delle Lettere possa averlo mutuato da un’altra fonte. Di seguito vorrei mostrare che tale fonte è un testo lucianeo (o più precisamente un testo lucianista che Aretino riteneva essere di Luciano). Ciò rafforza l’ipotesi che la figura auctoris aretiniana – in particolare per quanto concerne l’aspetto del parlar franco disvelando verità anticonvenzionali – possa essere considerata, almeno in parte, una rielaborazione di quella del Samosatense.
Nell’Andria e nel De amicitia, e poi negli Adagia ritroviamo, in effetti, la formula veritas odium parit. Eppure Terenzio e Cicerone, e di conseguenza anche Erasmo, ne danno una interpretazione profondamente diversa, se non addirittura antitetica, rispetto a quella che sarà poi aretiniana. Quando Terenzio scrive “obsequium amicos, veritas odium parit” (Andria, I I 41), infatti, è per giustificare la decisione di Panfilo di non rivelare la verità, dato che ciò farebbe scaturire odio e genererebbe conflitti. Cicerone, citando Terenzio, impiega la formula per mettere in guardia dall’ipocrisia, ma al contempo sottolinea – conformemente al suo modello – che la verità è potenzialmente molesta, poiché può far sorgere odio, che è il veleno dell’amicizia (De amicitia, xxiv 89). Riprendendo e sistematizzando queste e altre fonti, Erasmo interpreta la formula come un invito alla cautela, ricordando che portare alla luce la verità – un gesto che tra amici è fonte di gioia – non sempre è opportuno, anzi può risultare oltremodo dannoso, specialmente se si agisce in modo inappropriato. L’autore degli Adagia raccomanda di essere prudenti e di tenere in considerazione il carattere altrui quando si decide se e come dire il vero. Colui che è saggio, scrive Erasmo, preferisce tacere la verità fino al momento in cui c’è concreta speranza di ottenere, disvelandola, dei risultati concreti:
1853. Obsequium amicos, veritas odium parit
«Obsequium amicos, veritas odium parit». Senarius est proverbialis apud Terentium in Andria, non admonens, quid oporteat fieri, sed ostendens, quid vulgo fiat. Vulgaris enim amicitia constat obsequiis; nam invicem connivere ad familiarium vitia, «Haec res et iungit iunctos et servat amicos». At inter verso amicos nihil est veritate iucundius, modo absit asperitas agrestis et inconcinna gravisque. Porro qui vulgo plurimis studet amicus esse, moribus alienis absecundet caveatque iuxta Persium «Auriculas teneras mordaci radere vero». Non probari vero sententiam hanc poetae, satis indicat, cum ait: «Namque hoc tempore», id est his corruptis moribus. Eandem sententiam in Adelphis idem aliter extulit «Ut homo est» inquiens, «ita morem geras». Donatus admonet proverbialiter dictum. M. Tullius in sermone De amicitia: «Sed nescio quomodo verum est, quod in Andria familiaris meus Terentius dixit: “Obsequium amicos, veritas odium parit”. Molesta veritas est, siquidem ex ea nascitur odium, quod est venenum amicitiae; sed obsequium multo molestius, quod peccatis indulgens praecipitem amicum ferri sinit; maxima autem culpa in eo est, qui et veritatem aspematur et in fraudem obsequio impellitur». Pindarus in Nemeis hymno quinto: Οὒτοι ἇπασα κερδίων ϕαίνουσα πρόσωπον ἀλάθειʼ ἀτρεκής, καὶ τὸ σιγᾶν πολλάκις ἐστὶ σοϕρώτατον ἀνθρώπων νοῆσαι. Sentit simplicem veritatem non semper ut est proferendam, quod damnosa sit, sed sapientis esse nonnumquam celare suam sententiam, in tempore prolaturus, quum fructus spes ostenditur. Apud Athenaeum libro quinto citatur hic trimester ex Agathone: Εἰ μὲν ϕράσω τἀληθές, οὐχί σʼεὐϕρανῶ, / Εἰ δʼεὐϕρανῶ τί σʼ, οὐχί τἀληθὲς ϕράσω, id est «Si vera dicam, tibi voluptati haud ero, / Si sim voluptati, haud tibi vera dixero. (Erasmo 2013, 1526–1527).
Che Aretino interpreti e impieghi la formula veritas odium parit in modo radicalmente diverso – cioè per esprimere la convinzione che la verità debba essere resa manifesta sempre, persino qualora ciò generi odio – lo si evince, oltre che dai lacerti delle Lettere già citati, anche dai materiali figurativi coi quali lo scrittore correda il motto. Se spesso veritas odium parit compare assieme solo al ritratto dell’autore,[43] infatti, in altri casi Aretino fa aggiungere alla formula una iconografia ad hoc che ci aiuta a chiarirne l’interpretazione che egli ne ha dato.
Uno di tali casi merita un’analisi più approfondita. Si tratta di una medaglia, e non c’è bisogno di ricordare il ruolo cruciale che Aretino conferisce a questo tipo di manufatti: la possibilità di combinare elementi testuali e figurativi gli permette di modellare la propria imago auctoris sin nei dettagli[44]. È una medaglia in bronzo di artista anonimo, prodotta intorno al 1536; un lato è occupato dal ritratto di Aretino, la cui rilevanza – sociale e politica ancor prima che letteraria – è ribadita dalla ricca veste, dalla collana e dall’iscrizione divus petrus aretinus. Sull’altro lato, il motto veritas odivm parit è illustrato da una raffigurazione che vede al centro la personificazione della Verità (rappresentata nuda) la quale viene incoronata vincitrice per mezzo di una corona d’alloro, nonostante debba difendersi da una figura dalle sembianze assai meno armoniose (un satiro). Al contempo, la Verità volge lo sguardo al cielo verso Giove. La raffigurazione sulla medaglia deriva da una incisione su legno che Marcolini aveva già impiegato in un liber missarum per Alessandro de’ Medici del 1536.
![Fig. 2
Veritas odium parit (xilografia), Cantus liber quinque Missarum Adriani Willaert, Venezia, Francesco Marcolini, 1536, 2v [Bibliothek Regensburg].](/document/doi/10.1515/roja-2023-0007/asset/graphic/roja-2023-0007_fig_002.jpg)
Veritas odium parit (xilografia), Cantus liber quinque Missarum Adriani Willaert, Venezia, Francesco Marcolini, 1536, 2v [Bibliothek Regensburg].
![Fig. 3
Anonimo, Medaglia di Pietro Aretino (veritas odium parit), (bronzo), 59 mm (1536?) [Firenze, Museo Nazionale del Bargello]. Cfr. Bisceglia/Ceriana/Procaccioli (2019, 242).](/document/doi/10.1515/roja-2023-0007/asset/graphic/roja-2023-0007_fig_003.jpg)
Anonimo, Medaglia di Pietro Aretino (veritas odium parit), (bronzo), 59 mm (1536?) [Firenze, Museo Nazionale del Bargello]. Cfr. Bisceglia/Ceriana/Procaccioli (2019, 242).
Questa medaglia ha dato adito a numerose e controverse interpretazioni[45]. Recentemente si è giunti a escludere che la figura inginocchiata davanti alla nuda veritas rappresenti la satira come genere letterario (come aveva affermato Waddington)[46]. Si ritiene che, assai più probabilmente, si tratti di una personificazione della falsità o dell’invidia, che agisce mossa dall’odium provocato dall’apparizione della nuda verità e menzionato esplicitamente nel motto[47]. Invece, è rimasto sinora misterioso (come ha rilevato Walter Cupperi[48]) il ruolo della figura di Giove nella scena nonché la sua relazione con la Verità. E la presenza di Giove è tanto più enigmatica se si considera che egli non compare in nessuno dei testi indicati dagli studi critici come possibile fonte della formula veritas odium parit (Terenzio, Cicerone, Erasmo).
A mio avviso, la chiave per comprendere l’interpretazione aretiniana della formula veritas odium parit (dando così ragione della sua diversità dagli utilizzi precedenti), nonché per spiegare la presenza di Giove nella scena rappresentata sulla suddetta medaglia assieme al motto, si trova in realtà in un altro testo, e specificamente in una imitazione di Luciano ritenuta ai tempi di Aretino un testo genuinamente lucianeo: Philalites. Tale dialogo era assai celebre nel Cinquecento italiano; a quell’altezza cronologica veniva unanimemente attribuito al Samosatense, pur trattandosi di una imitazione latina quattrocentesca di Luciano ad opera di Maffeo Vegio[49]. Il volgarizzamento di Philalites era contenuto nei Dilettevoli dialogi; un libro che, come si è detto, Aretino senza dubbio conosceva.
Il “Dialogo di Philalithe, il qual fu cacciato dalla sua patria, et da poi dalla corte di Xerse Re di Persia, per la veritade, qual lui diceva in publico et in privato” (I dilettevoli dialogi, iiiv) vede protagonisti la personificazione della Verità e il nobile Demarato, detto Philalite (‘amico della verità’). Questi viene bandito dalla sua patria per aver detto il vero; giunto tra le montagne, dove pascola le capre, Philalite incontra la Verità – “di transparenti drappi vestita” (ivi, xvir) – la quale gli racconta la sua storia. Prima di tutto la Verità svela chi è suo padre: si tratta, come narra ella stessa, del “sommo Giove” (ibidem), che l’ha generata assieme alla Sapienza.
Veritade Ma accio che tu cognosca qual sia veramente il patre mio, io so che gia intendesti il sommo Giove havere generata del suo proprio cerebro la sapientia, quella che per altro nome Pallade viene appellata, di quello proprio seme, e nel medesimo parto nacque io con lei, et tra noi germane, e tanta simiglianza, et convenienza di costumi, che vedendo alcuno qual si voglia di noi, non direbbe esservi cosa differente, eccetto l’appellatione de nomi (ivi, xvir).
Un giorno, racconta la Verità, Giove decise di mandare tra gli esseri umani, che perseveravano nei loro errori, quattro vergini che incarnavano altrettante virtù (Concordia, Pace, Giustizia, Pudicizia). Ma gli esseri umani – e specificamente i principi, i signori, gli avvocati e le donne – scacciarono le quattro vergini rimandandole in cielo. Vedendo che le quattro virtù rappresentate dalle vergini venivano rifiutate, Giove decise di mandare sulla terra la Verità, convinto che l’umanità avrebbe cambiato corso una volta avuta la possibilità di discernerla chiaramente. Ma gli uomini riservarono anche alla Verità un trattamento crudele:
Philalite Ma perché la tua conditione mi sembra della mia assai peggiore, esponi tu a me primieramente perché di tanto sangue sei bagnata, et cotante ferite veggio nella tua bella persona, che io non ti scorgo membro sano, ne parte alcuna senza lesione, la tua formosità haveva già inteso essere simile a quella delli immortali dei, et la maestade della faccia tua, o detti essere essimigliata alla chiarezza del sole. Come è che tanto squallida te ritrovi, charicha de fango, e piena di lordura? chi forno quei ribaldi che ardirno di ferirti, et chi te hanno condotta in tanto male?
Veritade Molte parole bisognerebbeno a narrarti per ordine li affanni mei. Ma brevemente ti posso esprimere colloro dalli quali già maltrattata fui, li huomini del mondo a questo modo me hanno aconcia. Queste piaghe che tu vedi, e queste tante percosse da quelli immeritamente ho recevute. [...]
Veritade Odesti mai alcune vergene celesti dal sommo Giove essere state tramesse alli huomini mortali?
Philalite Questo desidero io de intendere.
Veritade Fo già gran tempo mandata, in terra la concordia, fovi mandata la pace, la iustitia, et la pudicitia; li principi e Signori le due prime scacciarno, la terza li advocati, et la ultima le femine. Onde revolarno tutte quattro al cielo. Allora el patre mio amantissimo delli huomini, volse che vi scendesse tra loro, stimando che la dignitade, et riverentia del mio uso dovesse retenere la humana gente da farmi ingiuria, ma grande errore prese egli. Sì come lo effetto ha dimostrato. Però che (da tutti non dico io) ma da gran parte di loro fui trattata con tanta crudeltade, et tante pene ho patite, et tanti opprobrii, che a pena credere lo potresti, ben che io che sono la propria veritade veracissimamente te gli dicessi. (ivi, xviv–xviv).
In Philalites troviamo dunque il tema della Verità personificata che, quando si mostra nuda, viene accolta con odio (“essendo a ciascuno spiacevole et odiosa spiacevolissima fui, et più despregiata mentre che nuda me dimostrai”). Inoltre, in questo testo la figura della Verità nuda e odiata viene messa in stretta connessione con quella di Giove, di cui si dice essere addirittura la figlia. Così si spiega la presenza di Giove sul retro della medaglia aretiniana del 1536, nonché la sua relazione con la Verità: quest’ultima alza gli occhi al cielo verso colui che ella ha poco prima svelato essere “el patre mio”.
Altrettanto rilevante è il fatto che dialogo Philalites esprima un approccio alla verità (e alla decisione di dire il vero) perfettamente consonante con quello di Aretino e di Marcolini: un approccio basato sull’idea che la nuda veritas debba essere onorata e fatta vincere, anche quando ciò comporta doverla (e doversi) difendere dall’odio che ciò genera da parte degli altri uomini. Da essi e dalle loro opinioni, in tal caso, è doveroso distinguersi; così ritiene appunto Aretino, ma anche Philalite, visto che egli decide di rimanere sulle montagne abbandonando il consorzio umano, con l’unica compagnia della Verità:
Philalite Io sono come tu vedi in questo locho solo, di così pochi panni vestito, che mezzo ignudo, quasi a te ne lo habito me assimiglio. Onde te suado che mecho te adimori in questa selva ne laquale pascolando queste poche capre, meno povera vita, ma quieta. Il latte et il mele dolcissimo cibo me notriscono, e pomi, et nuce (da gli grandissimi Re desiderati alcuna volta) ho sempre in copia, l’acqua fredissima di quella chiara fonte me caccia la sete. Ma quello che avanza ogni magnificentissimo apparato, mecho è sempre la contentezza, et molte fiate la iocunditate, quivi non è fraude mai, né il suspetto che mi spaventi, ucelli cantanti suppliscono alla già tanto desiata musica, et li varii fiori pascono gli occhi mei in cambio dell’ostro, et della porpora tenuti dalli sciocchi in tanto pretio. Questi sono i mei thesori, et le mie delicatezze, delle quale participevole fare ti posso, quando non le disprezzi et habbi in fastidio. (ivi, xxiiv–xxiiir).
Non sorprende che Erasmo, nonostante la sua accurata conoscenza dell’opera lucianea, non abbia mai dato segno di aver letto questa descrizione della ‘verità che genera odio’, e non l’abbia citata né discutendo l’adagio “veritas odium parit” né in altro luogo: Philalites circola difatti principalmente in Italia[50], ed è in Italia che, tra la fine del quindicesimo e l’inizio del sedicesimo secolo, viene ascritto a Luciano, come testimonia l’inclusione del volgarizzamento del testo prima nel manoscritto ferrarese tardoquattrocentesco attribuito a Leoniceno e poi nel volume a stampa I dilettevoli dialogi.
La raccolta di traduzioni di Luciano in volgare I dilettevoli dialogi è dunque, come si è visto, assai significativa per Aretino (e lo sarà poi anche per i letterati del suo circolo)[51]. Lo scrittore la usa come fonte di riprese intertestuali e tematiche nonché di genere letterario; ed è anche a partire da questa silloge che egli costruisce – spesso operando sinergie di parole e immagini, e spesso in combutta con Marcolini – determinati aspetti della propria autorappresentazione autoriale, tra i quali la postura del parrhesiastes. L’ostentazione dell’unicità della propria figura, che Aretino presenta come ‘originale’ anche proprio nel senso di ‘svincolata da precedenti modelli’, va letta dunque più come una presa di posizione poetologica che come la descrizione di un dato di fatto, visto che il sé stesso che lo scrittore afferma di imitare è almeno in parte costruito producendo una imitatio di figure autoriali preesistenti – persino di letterati, tra i quali Luciano. La figura autoriale di Aretino ha quindi, come i suoi testi, una natura anche derivativa, au second degré, poiché nasce anche da processi di “riconfigurazione”.
È necessario fare, in chiusura, una precisazione. Aretino si dichiara “nuncio e profeta”[52] della verità (e tale ruolo fu non solo da lui millantato ma gli venne riconosciuto pubblicamente, generando concreti vantaggi economici per lo scrittore)[53]; Aretino si presenta, insomma, come qualcuno che dice la verità o delle verità. Eppure non è facile determinare in che cosa esattamente tali verità consistano. Le verità svelate da Aretino infatti, a ben guardare, non hanno un contenuto preciso e stabile; un po’ più stabile e precisa, casomai, è la loro struttura formale, è il modo in cui sono state pensate. Le verità di cui Aretino si dichiara “nuncio e profeta” sono difatti principalmente autoriflessive e paradossali (o addirittura sono proprio paradossi autoriflessivi, come quel “io imito me stesso” citato all’inizio).
Sono verità autoriflessive perché si tratta di affermazioni funzionali a processi di self-fashioning: l’oggetto dell’affermazione coincide col soggetto che afferma. Il contenuto delle verità che Aretino veicola consiste nel dichiarare che una determinata persona è “verace” (Aretino 1997, 161), ma tale persona è la stessa che compie tale gesto di investitura, cioè è Aretino stesso. Non diversamente, nel Dialogo l’encomio della meretrice viene pronunciato da una meretrice, e nel De parasito a lodare il parassita è il parassita stesso (come, d’altra parte, in un testo lucianeggiante quale il Moriae Encomium erasmiano è la Follia a tessere il suo stesso elogio).
Sono inoltre verità paradossali poiché colui che le pronuncia afferma sì di essere qualcuno che dice la verità, ma anche qualcuno che mente; addirittura, afferma di essere qualcuno che dice la verità proprio nella misura in cui ammette in modo esplicito di mentire. Nel Dialogo, come si è detto, Aretino evidenzia sia la capacità della meretrice e della ruffiana (suoi alter ego) di conoscere le cose per quel che davvero sono, sia il talento che tali figure dimostrano nel fingere, nel dissimulare e addirittura nell’ingannare e nel mentire. È il caso di puntualizzare che questi due aspetti (conoscere e dire la verità vs. saper mentire) non sono semplicemente caratteristiche contrarie e mutualmente esclusive. Si tratta piuttosto di elementi interdipendenti, poiché costitutivi di un paradosso strutturato secondo quello di Epimenide: la cortigiana afferma di essere qualcuno che dice la verità in primis proprio poiché ammette la propria natura di mentitrice. Così ad esempio nella chiusa del Ragionamento, e cioè nel passo dove si descrive la ragion d’essere del Dialogo, si legge:
Antonia Il mio parere è che tu faccia la tua Pippa puttana: perché la monica tradisce il suo consagramento; e la maritata assassina il santo matrimonio; ma la puttana non la attacca né al monistero né al marito: anzi fa come un soldato che è pagato per far male, e facendolo non si tiene che lo faccia, perché la sua bottega vende quello che ella ha a vendere; e il primo dì che uno oste apre la taverna, sanza metterci scritta s’intende che ivi si beve, si mangia, si giuoca, si chiava, si riniega e si inganna: e chi ci andasse per dire orazioni o per digiunare, non ci troveria né altare né quaresima. Gli ortolani vendono gli erbaggi, gli speziali le speziarie, e i bordelli bestemmie, menzogne, ciance, scandoli, disonestà, ladrarie, isporcizie, odi, crudeltade, morti, mal franciosi, tradimenti, cattiva fama e povertà ma perché il confessore è come il medico, che guarisce più tosto il male che si gli mostra in su la palma che quello che si gli appiatta, vientene seco alla libera con la Pippa, e falla puttana di primo volo: che a petizione di una penitenzietta, con due gocciole di acqua benedetta, ogni puttanamento andrà via dell’anima; poi, secondo che per le tue parole comprendo, i vizi delle puttane son virtù. (Aretino 1984, 203).
Antonia consiglia a Pippa di fare la meretrice perché quest’ultima – al contrario della suora e della sposa, che tradiscono il loro “consagramento” – è quel che è e fa quel che deve fare (“la sua bottega vende quel che ha da vendere”) senza negare di esserlo e di farlo, e quindi è l’unica a dire la verità. La meretrice viene comparata a un oste che – se fa quel che fanno gli osti, cioè aprire una taverna – non ha bisogno di mettere un’insegna per avvertire la clientela che da lui si beve, si mangia, si gioca e si inganna; “e chi ci andasse per dire orazioni o per digiunare, non ci troveria né altare né quaresima”. Con la solita dovizia di comparazioni, Aretino rimarca come al bordello pertengano menzogne, inganni e quant’altro, senza che chi vi lavora tenti di negarlo. Tale coincidenza tra apparire ed essere garantisce alla meretrice una più rapida salvezza dell’anima: il confessore difatti, secondo Antonia, è come il medico, che guarisce più in fretta il male che non gli si cela, quindi basteranno “due gocciole di acqua benedetta” a salvare colei che è la sola a confessare pubblicamente il proprio peccato. E la conclusione del ragionamento di Antonia, che già di per sé è paradossale, è un vero e proprio paradosso: “i vizi delle puttane son virtù”[54].
L’argomentazione adombra, con ogni evidenza, il discorso altrettanto paradossale che Aretino porta avanti su di sé come scrittore. L’autore dunque si autorappresenta come l’alfiere di una verità detta ad ogni costo, e al contempo esplicitamente confessa di strumentalizzare la propria scrittura per lodare o minacciare gli altri – anche mentendo – in cambio di denaro, abiti o favori. Ma ancor più che il contenuto di tale discorso, interessante è la struttura formale dello stesso: Aretino veicola messaggi composti da elementi mutualmente esclusivi (il vizio e la virtù, la verità e la menzogna, l’imitare e l’esser solo sé stesso) ma reciprocamente indispensabili, che instaurano tra loro un gioco di oscillazione perenne e non risultano mai in grado di annullarsi definitivamente a vicenda, rimandando piuttosto l’uno all’altro in un gioco infinito di rispecchiamenti[55].
Questo meccanismo non è soltanto una delle principali basi della imago auctoris di Aretino; è anche qualcosa che, nell’Italia del primo Cinquecento, viene da, e rimanda a, un modello preciso, vale a dire quel Luciano di Samosata che, a partire dal 1525 e cioè dalla pubblicazione dei Dilettevoli dialogi, è per eccellenza l’autore che afferma “veramente confesso mentire” (così nel proemio del volgarizzamento della Vera Historia, cfr. I dilettevoli dialogi, cxxxxv). Certo, quando si tratta di rintracciare processi imitativi sul piano dell’autorialità difficilmente si trovano prove incontrovertibili come avviene sul piano dell’analisi intertestuale o dei generi; inoltre, la figura di Aretino e quella di Luciano sono caratterizzate anche da evidenti divergenze che non è certo necessario mettersi a ricapitolare. Eppure, rimane interessante il fatto che per quanto concerne certi aspetti (la centralità della parrhesia, l’approccio simile all’idea di verità e dello svelamento della stessa, la predilezione per i meccanismi del paradosso autoriflessivo) si possa pensare – una volta accertati, come si è fatto, i contatti sul piano intertestuale, dei temi e dei generi – a una connessione di Aretino con Luciano più profonda e incisiva di quanto non sia stato rilevato in precedenza; una connessione, vale la pena ribadirlo, non necessariamente con Luciano tout court, bensì col Luciano che circola in Italia all’inizio del secolo sedicesimo, quello con cui Aretino viene a contatto. Aretino e il Luciano dell’Italia primocinquecentesca sono due autori che similmente e parimenti insistono sulla necessità dello scrittore di parlar franco e dire il vero a dispetto dell’opinione della moltitudine; due autori che, però, non hanno alcuna verità stabile da rivelare, al di là della constatazione che verità e menzogna sono due concetti legati da una dialettica complessa, che li rende reciprocamente interdipendenti pur mantenendoli mutualmente esclusivi. Più importante del contenuto della verità è dunque, per Aretino e per questo Luciano, il modo in cui ci si rapporta ad essa. Si tratta, insomma, di riflettere da prospettive nuove e meno convenzionali sulla verità, anche quando tale riflessione significa dover relativizzare tale concetto o addirittura falsificarlo, nella misura in cui si mostra la fragilità di ogni pretesa di enunciazione diretta del vero, o addirittura il coefficiente di illusione di fatto ineliminabile dalla verità stessa.
Nota
Questo lavoro è nato nell’ambito del progetto di ricerca Lukian von Samosata in der italienischen Literatur der Frühen Neuzeit. Ein antiparadigmatisches Paradigma (Freie Universität Berlin, finanziato dalla Deutsche Forschungsgemeinschaft). L’autrice desidera inoltre ringraziare Bernhard Huss e Paolo Procaccioli per i preziosi suggerimenti.
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© 2023 Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston
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- In Memoriam Christian Schmitt (1944–2022)
- In Memoriam Harald Weinrich (1927–2022)
- Chronik 2022
- Humanness, pronoun types, and orphan prepositions in French
- Elaborazione e cambio linguistico: considerazioni sulle ‘lingue minori’ sull’esempio della scritturalità friulana
- The epistemic future in exported grammars: a comparison between two Italo-Romance speech communities
- Pietro Aretino e Luciano di Samosata. Paradosso e parrhesia tra parola e immagine
- Machiavellis Kriegskunst: Die Lehren des Libro dell’arte della guerra
- Buchbesprechungen – Buchanzeigen
- Wendy Ayres-Bennett/John Bellamy (eds.), The Cambridge Handbook of Language Standardization. Cambridge, Cambridge University Press, 2021 (Cambridge Handbooks in Language and Linguistics). XVI+802 Seiten.
- Elissa Pustka, Französische Sprachwissenschaft. Eine Einführung, Tübingen, Narr Francke Attempto, 2022 (Narr Studienbücher). 290 Seiten.
- Considerazioni intorno a un recente contributo della critica mariniana Clizia Carminati: Tradizione, imitazione, modernità. Tasso e Marino visti dal Seicento. Pisa, ETS, 2020 (Res litteraria 18). 178 pagine.
- Jenny Haase: Vitale Mystik. Formen und Rezeptionen mystischen Schreibens in der Lyrik von Anna de Noailles, Ernestina de Champourcin und Antonia Pozzi, Berlin/Boston, De Gruyter, 2022. 545 Seiten.
- Claudia Jacobi: Mythopoétiques dantesques: une étude intermédiale sur la France, l’Espagne et l’Italie (1766–1897), Strasbourg, ELiPhi, 2021. 417 Seiten.
- Gerhard Regn: Poetik des Aufschubs. Augustinus, Dante und die antiken Klassiker in Petrarcas Canzoniere, Heidelberg, Universitätsverlag Winter, 2022 (Neues Forum für allgemeine und vergleichende Literaturwissenschaft, Bd. 60). 597 Seiten.
- Aufsätze und Berichte
- The romance in Hispano-Jewish Communities (Tenth to Thirteenth Centuries)
- Citación, relaciones textuales y tradicionalidad en el discurso preeconómico español
- Perspectiva teatral y simbólica de la figura del emperador Carlos V en los dramas históricos renacentistas: de la Égloga real (1518) a la Comedia del saco de Roma (1579)
- Ziel und Zweck als Ursachen im Siglo de Oro
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