Abstract
Cicero’s Timaeus legitimately stands as the first Latin exegesis of the Platonic dialogue. I shall deal with the interpretation of §§19–21, a passage that departs significantly from the Greek text in several respects. The aim of this paper is to explore the role Aristotelianism might have played in Cicero’s Timaeus. Among the points that support such an analysis is the mention of the Peripatetic Cratippus in the prologue. The interpretative scenario I suggest considers both Cratippus’ role and Antiochus’s philosophical system with its agreement between Platonism and Aristotelianism.
Nell’ambito degli studi dedicati all’interpretazione del Timaeus ciceroniano,[1] l’indagine su elementi riconducibili a una possibile influenza aristotelico-peripatetica è un aspetto finora rimasto ai margini dell’interesse accademico. Di questo piccolo testo, che si presenta come la lacunosa traduzione latina della sezione cosmologica dell’omonimo dialogo platonico (27d–47b), si sono in prevalenza sottolineati i tratti che mostrano il ricorso di Cicerone alla terminologia propria dell’accademia scettica,[2] così come hanno richiamato attenzione alcune connotazioni ritenute d’impronta stoica.[3] Eppure, non sfugge la presenza nel prologo del peripatetico Cratippo, indicato con l’appellativo onorifico Peripateticorum omnium princeps,[4] nella funzione di interlocutore di Cicerone insieme al pitagorico Nigidio Figulo.
Quella dei rapporti di Cicerone con l’aristotelismo è una questione complessa, assai discussa e di non univoca soluzione, considerate da un lato le dichiarazioni dello stesso Cicerone in merito a una sua conoscenza di testi aristotelici,[5] e dall’altro la presenza di passi da cui si desume ora una distanza da alcune dottrine aristotelico-peripatetiche,[6] ora un atteggiamento polemico[7] ora addirittura una lettura distorta.[8] La problematicità dell’argomento si pone almeno a un duplice livello. Anzitutto essa riguarda la conoscenza ciceroniana di (e di quale) Aristotele, nonché più in generale del Peripato, tema su cui gli studiosi da tempo si esprimono e continuano con profitto a indagare,[9] pur senza pervenire a un consenso dinanzi a uno spettro di testimonianze così variegato da indurre piuttosto a riconoscere che “l’aristotélisme que Cicéron a connu présentait […] des traits contradictoires.”[10] Tra forme di dichiarato scetticismo e opportuni inviti alla cautela a vario titolo espressi, un effetto disorientante si giustifica in ragione delle numerose incertezze, complici non da ultimo le controverse notizie relative alle condizioni di circolazione dei testi aristotelici in età ellenistica.[11] Altrettanto problematica è poi la questione della natura e del grado di adesione di Cicerone alla dottrina del Liceo, dato che, a fronte di alcune manifeste espressioni d’ammirazione per lo Stagirita, ritenuto excepto Platone il migliore dei filosofi (Fin. V 7; cfr. Tusc. I 22), su aspetti particolari si registra un dissenso più o meno esplicito,[12] che evidentemente si fonda sul riconoscimento di presunte incongruenze ravvisabili nella dottrina di Aristotele, le cui opere, a suo avviso, non semper idem dicere videntur (Fin. V 12).
In questa sede il problema sarà affrontato da una diversa prospettiva. Si è sostenuto, con un’intuizione felice ma non adeguatamente approfondita, che “le Timée, dans la traduction cicéronienne, pouvait accréditer l’idée d’une cosmologie, d’une physique céleste, communes, les Romains minimisant les antinomies fondamentales, essentielles pour un Grec, entre le theos oratos, cher au ‘premier Aristote’, dieu incréé, qu’on retrouve dans le De caelo, et une cosmologie platonicienne impliquant la genèse du monde.”[13] L’attenzione sarà qui volta a riflettere se, in che termini e fino a che punto questo testo riconducibile alla ‘produzione platonica’ di Cicerone possa registrare i segni di un qualche influsso aristotelizzante, ed eventualmente quali conseguenze se ne traggano, in termini di ricezione delle dottrine, per la tradizione peripatetica ellenistica.[14] Ciò è ben lungi dal pretendere di riscontrare nel Timaeus ciceroniano un’adesione estesa per l’aristotelismo, non foss’altro per l’assunto di fondo ben esplicitato in esordio (Tim. 3) – la generazione del cosmo –, valido di per sé a definire l’orizzonte culturale di riferimento e a respingere il sospetto di un totale cedimento verso tale impostazione.
Trovando giustificazione nelle molteplici aperture del platonismo,[15] l’eventualità di un simile scenario non è di poco conto sul piano storico-filosofico, considerato il tentativo di Antioco di Ascalona di operare una conciliazione fra platonismo e aristotelismo. Peraltro, gioverà ricordare che di Antioco fu allievo non solo Cicerone (e.g. Brutus 315 = F4 Sedley; Fin. V 1 = F9 Sedley; cfr. Plut. Cic. 4.1–4 = T5a Sedley), ma lo stesso Cratippo, a cui la tradizione attribuisce la frequentazione dell’Accademia prima dell’abbandono che fece di lui un autentico Περιπατητικός (Philod. Acad. col. XXXV 2–16 = 1 Dorandi-Verde).[16] Il valore da attribuire a questa ‘triangolazione’ sarà da soppesare con attenzione, poiché apre alla questione di possibili forme di mediazione, ovvero di quale possa essere nel Timaeus la fonte di alcune propensioni aristotelizzanti, se Cratippo o se Antioco, oppure se l’uno e l’altro.[17]
L’argomentazione verterà sull’analisi di Timaeus 19–21, dove alcuni tratti lasciano intravedere una possibile sinergia di platonismo e aristotelismo. È indubbio che “vincolare Cicerone al modello greco e imporgli una fredda traduzione senza nulla concedere alla rielaborazione stilistica e tecnica, equivarrebbe a cancellare d’un tratto quella formazione letteraria e oratoria che è peculiare nella lingua e nella personalità stessa dell’Arpinate.”[18] Tuttavia, la rielaborazione agisce anche, e soprattutto, a livello di contenuti. Gli elementi che si presentano consentono di evidenziare l’esprit filosofico di Cicerone, e in tale senso sono utili a precisare la sua personale posizione di Platonis aemulus (Quint. Inst. X 1.123), portavoce di un’esegesi per molti versi distante dal modello originario, ma tale da inserirsi a pieno titolo nell’articolato milieu culturale e filosofico medioplatonico.[19] Il Timaeus ciceroniano, infatti, costituisce una fonte preziosa per il fatto di essere la prima rivisitazione filosofica in lingua latina del dialogo platonico,[20] recettiva delle problematiche sollevate dal dibattito ellenistico. Del resto, lungi dall’essere un interpres indisertus (Fin. III 15), da intellettuale di vasta cultura e bilingue qual era,[21] Cicerone intese il tradurre come operazione condotta non solo “con intendimenti d’arte”, ma al modo consueto dell’antichità, vale a dire come aemulatio,[22] la quale evidentemente non può che essere modulata in una duplice prospettiva, letteraria e filosofica. La ricerca intende dunque soppesare il livello di equilibrio raggiunto nel Timaeus fra sguardo all’auctoritas e personale rimodulazione concettuale, evidenziando quello che è stato definito “un mobile equilibrio fra intelligenza della fonte e libertà del rendere”:[23] insieme al rifiuto di applicare a Cicerone un’accezione deteriore di eclettismo,[24] si renderà possibile precisare alcuni tratti della sua autonomia filosofica, a conferma dell’impossibilità di considerare il Timaeus come un mero esercizio letterario.[25]
Evidenziando la porosità di alcune frontiere filosofiche e le modalità di circolazione dei saperi, sarà favorita la comprensione dell’atteggiamento ciceroniano nei confronti dell’equiparazione allora in voga fra Accademia e Liceo (cfr. Acad. Ι 17), entrambe ricordate come base imprescindibile della propria formazione. Se ne ha un ritratto nell’esametro inque Academia umbrifera nitidoque Lyceo, composto per l’opera De consulatu suo e conservato al verso 73 del grande estratto presente in Div. I 17–22 (= fr. 11 Traglia). Data la difficoltà di riconoscere a Cicerone l’aver studiato all’ombrosa Accademia (cfr. Hor. Ep. II 2.45), che egli afferma essere stata deserta all’epoca del suo soggiorno in Atene (Fin. V 1–2), o in un Liceo in pieno splendore istituzionale, si è sostenuto che l’immagine risente di una venatura metaforica e poetica volta a sottolineare l’ascendenza filosofica di Cicerone mediante l’allusione alla linea dottrinale di Antioco, che proprio nella combinazione delle due scuole ebbe il suo tratto distintivo.[26] Si può supporre un ulteriore livello di interpretazione, che senza contraddire il precedente lo invera in un’altra prospettiva: se la compresenza di Academia umbrifera e nitidum Lyceum conferma i luoghi in cui Cicerone si dice (o ambisce a mostrarsi) allievo di Platone e di Aristotele, l’accostamento fra gli aggettivi umbriferus e nitidus lascia intravedere una ‘opposizione chiaroscurale’, che riflessa nelle due dottrine approderebbe alla contrapposizione fra una ombrosità del platonismo e una forma di maggiore chiarezza da parte della scuola peripatetica. Si tratta di una supposizione, non improbabile se si rammenta quanto Cicerone dichiara a proposito dell’oscurità della dottrina del Timeo platonico (Fin. II 15; Lucul. 123),[27] affermazione controbilanciata dai ripetuti riferimenti al nitore dell’eloquio ricercato nel Liceo,[28] con Aristotele stimato per il suo flumen orationis aureum (Lucul. 119; cfr. Tusc. I 7) e i Peripatetici per l’elegantia dell’esposizione (Orat. 127): il grande merito di Aristotele e Teofrasto, excellentes viri cum subtilitate, tum copia, è l’aver congiunto i dicendi praecepta alla filosofia (Div. II 4).
Una tale lettura potrebbe alludere a un qualche ruolo ausiliario della filosofia peripatetica, a generale beneficio del contesto medioplatonico di un’opera come il Timaeus ciceroniano, che, seppur rimasta a livello progettuale,[29] partecipa a pieno titolo di quella stagione che con felice espressione è stata definita “la grande esperienza metafisica del 45.”[30]
1 Intelligenza e movimento
Al §19 Cicerone scrive:
Itaque ei nec manus adfixit, quoniam nec capiendum quicquam erat nec repellendum, nec pedes aut aliqua membra, quibus ingressum corporis sustineret. Motum enim dedit caelo eum, qui figurae eius esset aptissumus, qui unus ex septem motibus mentem atque intellegentiam cieret maxime; itaque una conversione atque eadem ipse circum se torquetur et vertitur. Sex autem reliquos motus ab eo separavit atque ab omni erratione eum liberavit. Ad hanc igitur conversionem, quae pedibus et gradu non egeret, ingrediendi membra non dedit.[31]
Nel fornire la propria interpretazione del passo platonico, dove è descritto il processo mediante cui il dio artefice forgia il corpo del cosmo come dio visibile, Cicerone precisa, seguendo Platone, che il Demiurgo non lo fornì di membra, ma diede a lui il movimento più confacente al suo sembiante. Considerata la sua natura sferica e tutt’intorno levigata, il tipo di movimento assegnato al cosmo fu quello circolare, uniforme ed eterno, quel motum che l’Arpinate indica come quello, fra i sette tipi di movimento, qui […] mentem atque intellegentiam cieret maxime.
Tornare in modo rapido a Tim. 34a κίνησιν γὰρ ἀπένειμεν αὐτῷ τὴν τοῦ σώματος οἰκείαν, τῶν ἑπτὰ τὴν περὶ νοῦν καὶ φρόνησιν μάλιστα οὖσαν consentirà di osservare la diversa prospettiva ciceroniana.[32] In Platone il punto cardine della frase ruota attorno alla nozione di idoneità (οἰκεῖος): nell’indicare la relazione tra forma e funzione (la forma del cosmo e il movimento che meglio gli si addice), essa evoca la dimensione dell’affinità, quella corrispondenza che lega le cose al loro modello ideale e restituisce anche il senso stesso dell’essere della cosa, la quale proprio nel suo essere ‘conforme a’ recupera a un tempo la vera appartenenza e definisce il carattere suo peculiare.[33] Fra i sette tipi di movimento, al σῶμα del cosmo il Demiurgo assegnò il movimento idoneo alla sua natura, ossia il moto circolare, poiché questo si addice μάλιστα all’intelligenza e al pensiero.
Cicerone afferma che il Demiurgo motum enim dedit caelo eum, qui figurae eius esset aptissumus, ma abbandona subito il concetto di idoneità, reso da aptissumus, per propendere verso la nozione di movimento, affermando che si tratta del moto qui […] mentem atque intellegentiam cieret maxime. Nella proposizione l’attenzione risulta spostata sul verbo ciere, sull’aspetto cinetico,[34] con conseguenze non irrilevanti, dato che il movimento idoneo al cosmo non è più quello che per sua natura connota assiologicamente l’intelligenza,[35] ma quello che è detto muovere maxime [36] la ragione e l’intelligenza. In Platone il Demiurgo-nous assegna al cosmo il movimento più consono all’intelligenza, ossia quello più affine a sé, stabilendo un nesso fra la causa e il causato; in Cicerone, invece, il Demiurgo conferisce al cielo il motum che consente alla mens atque intellegentia celeste di muoversi. La peculiarità di questa descrizione non è il movimento dell’intelligenza, ancorché la precisazione restituita da maxime sia originale, ma sono le relazioni causali, nel senso che nella traduzione ciceroniana sembra trasparire, con una distinzione di livelli, la funzione del Demiurgo-nous come causa del movimento dell’intelligenza celeste.
Nella distanza che separa la traduzione ciceroniana dal testo platonico si potrebbe cogliere l’eco di un riferimento all’azione del dio-motore immobile di imprimere l’iniziale impulso di movimento, favorendo l’impressione di una rimodulazione del passo in senso aristotelizzante. Naturalmente, per Aristotele le intelligenze motrici celesti sono eterne e immobili. Tuttavia, come si legge in Metaph. Λ 7.1072b13–14, ἐκ τοιαύτης ἄρα ἀρχῆς ἤρτηται ὁ οὐρανὸς καὶ ἡ φύσις. Dal primo motore immobile dipendono il cielo e la natura, poiché, agendo al modo degli oggetti di desiderio e di intellezione, i quali muovono la volontà e l’intelletto per attrazione, esso muove la prima sfera, la quale indirettamente coinvolge nel proprio movimento le altre. Laddove una tale lettura risulti plausibile, la conseguenza di un tale accostamento di dottrine non potrebbe che riverberarsi sulla stessa concezione demiurgica, dando luogo a una sommatoria di diverse causalità: da artefice dell’ordinata disposizione del cosmo (causa efficiente), il Demiurgo verrebbe ad assumere anche la funzione di conduttore e garante di tale ordinamento (causa motrice).[37] In tal caso, ove risultasse in qualche misura responsabile del dinamismo del cosmo, è inevitabile che si complichi la relazione con l’anima del mondo, dato che a questa Platone riserva la funzione cinetica.[38]
L’interpretazione del passo – alquanto controverso già per gli antichi, viste le lezioni restituite dalla tradizione manoscritta[39] – è di rilievo ai fini della contestualizzazione del Timaeus ciceroniano nell’alveo del dibattito medioplatonico. Giustificata dalla stessa presenza di Peripatetici veteres all’Accademia di Antioco (Fin. V 7), l’esegesi del Timeo da parte di Platonici (anche pitagorizzanti) che lessero il dialogo alla luce di alcune dottrine aristoteliche fu una tendenza che ebbe a prendere corso fin dall’età tardo-ellenistica[40] per proseguire con noti esiti in età romana.[41] Nel passo in analisi, l’azione della divinità che mentem atque intellegentiam cieret maxime può plausibilmente essere letta come appartenente a quella stessa tradizione che si troverà poi esplicitata nel Didaskalikos, opera nella quale è riconosciuta all’autore la capacità di fondere la dottrina platonica con quella aristotelica. In particolare, per quanto concerne il movimento, è interessante la chiusa del cap. 10.2, ove Alcinoo, sulla scia di Metafisica Λ 7, afferma οὕτω γε δὴ καὶ οὗτος ὁ νοῦς κινήσει τὸν νοῦν τοῦ σύμπαντος οὐρανοῦ, ossia che “questo intelletto muoverà l’intelletto di tutto il cielo.”[42]
2 Attività di pensiero
Ai §§20–21 si legge:
Haec deus is, qui erat, de aliquando futuro deo cogitans, levem illum effecit et undique aequabilem et a medio ad summum parem et perfectum atque absolutum ex absolutis atque perfectis. Animum autem ut in eo medio conlocavit, ita per totum tetendit; deinde eum circumdedit corpore et vestivit extrinsecus caeloque solivago et volubili et in orbem incitato complexus est, quod secum ipsum propter virtutem facile esse posset nec desideraret alterum, satis sibi ipsum notum et familiare. Sic deus ille aeternus hunc perfecte beatum deum procreavit.
Il dio che doveva nascere è presente all’attenzione del dio-Demiurgo, che pensò di farlo liscio, in ogni parte uguale, composto di parti compiute e perfette. Rispetto alla figura etimologica λογισμὸς θεοῦ λογισθείς di Tim. 34a–b, la formula deus cogitans appare compendiata, ma non inaridita. Per quanto dalla prospettiva dell’efficacia letteraria la resa latina implichi una perdita di icasticità dell’immagine,[43] sotto il profilo del senso il guadagno non sembra insipido: ciò che risalta, in conseguenza del cambio di soggetto, è l’esplicitazione del dio come soggetto pensante (deus cogitans), che non è lo stesso che conferire l’azione al ragionamento divino personificato (λογισμὸς θεοῦ; cfr. Phaedr. 247d: θεοῦ διάνοια). A meno di considerare tale differenza una scelta stilistica priva di rispondenza filosofica, il passaggio da λογισμὸς θεοῦ λογισθείς a deus cogitans dice della centralità del soggetto divino, ritratto nell’attività di pensare. Questa sottolineatura potrebbe risultare tanto più interessante tenendo conto della fortuna nella tradizione ellenistica della iunctura λογισμὸς θεοῦ, attorno alla quale sorsero ampie disquisizioni.[44]
Nell’interpretazione ciceroniana non minore attenzione merita il nesso causale fra l’attività di pensiero del dio e la plasmazione demiurgica, dato che ben emerge come l’azione del Demiurgo di efficere il dio-cosmo sia conseguenza dell’aver esercitato su di lui un preciso cogitare. Una tale posizione in un certo senso fa corrispondere la causalità efficiente del dio e la sua funzione noetica, evidenziando come il Demiurgo plasmi il mondo grazie all’attività di pensiero. Poiché il ruolo della “attività dell’intelligenza” (νοῦ ἐνέργεια) nella quale consiste la vita eterna e ottima del dio è un tratto della dottrina aristotelica (Metaph. Λ 7.1072b26–28), potrebbe forse essere qui implicata una coloritura aristotelizzante del messaggio platonico. Come nel caso precedente, la resa di Cicerone avrebbe una sede privilegiata nella sensibilità filosofica medioplatonica.[45] Essa sarebbe da porre nel solco di quella tradizione che porterà l’autore del Didaskalikos (cap. 10.2) ad affermare che ὁ πρῶτος θεός, in quanto nous, è la causa “τοῦ ἀεὶ ἐνεργεῖν dell’intelletto di tutto quanto il cielo” e, secoli più tardi, un pensatore come Proclo (In Tim. I 421–422) a sostenere, con un linguaggio di derivazione aristotelica, che “se [il Demiurgo] pensa, e ogni νόησις del Demiurgo è una ποίησις, allora di necessità egli anche agisce αὐτῷ τῷ νοεῖν.”[46]
Nel Timaeus ciceroniano il verbo cogitare è attestato in altri due luoghi, al §34 dove precisa l’attività intellettiva del dio-Demiurgo, e al §36 dove si riferisce al movimento dell’identico, che è in sé e nel medesimo modo e si caratterizza per la stabilità di pensiero: in ambedue i casi esso traduce διανοεῖν (39e, 40a–b). In quest’opera, dunque, con cogitare Cicerone rende le sfumature lessicali sia di λογισμός/λογίζειν (34a–b) sia di διανοεῖν (39e, 40a–b),[47] vocaboli che per lo più esprimono qualità epistemologiche diverse, nella misura in cui il primo indica un tipo di calcolo possibile per tutti i possessori di logos, mentre il secondo richiama la dianoia.[48] Tale scelta è da ricondurre alla tendenza di Cicerone a ridurre le caratteristiche intellettuali attribuite da Platone al dio-Demiurgo, smorzando le sfumature del greco a vantaggio dell’immediatezza di pochi termini chiave, anzitutto iudicare e cogitare.[49] Un rapido sguardo all’impiego ciceroniano di cogitare sarà utile per richiamare la pertinenza del vocabolo e mostrare quanto la semplificazione non sia banalizzante. Cogitare indica l’attività riflessiva e meditativa propria dell’essere umano, peculiare sia della sua formazione (hominis mens discendo alitur et cogitando: Off. I 105) sia della riflessione filosofica (cum mecum ipse de immortalitate animorum coepi cogitare: Tusc. I 24). Esso assume anche una valenza metafisica, dato che fra i verbi di pensiero cogitare ben esprime la profondità del processo noetico della divinità: ne evidenzia il momento riflessivo, un ‘agitarsi’ della mens divina, ne precisa la ponderata meditazione che porta alla deliberazione, ovvero annuncia una progettualità intellettiva, la quale nel caso del Demiurgo si realizza nell’ordinamento del cosmo. Non a caso cogitatio sarà l’espressione tecnica indicante l’attività noetica della divinità, dal medioplatonismo latino in avanti.[50]
Ulteriori elementi che favoriscono la tesi di un platonismo ciceroniano in dialogo con influenze filosofiche di altra provenienza sembrano potersi ravvisare nel menzionato §34: Quot igitur et quales animalium formas mens in speciem rerum intuens poterat cernere, totidem et tales in hoc mundo secum cogitavit effingere. Il secum precisa come l’attività di pensiero del dio-Demiurgo sia condotta ‘tra sé e sé’. Questo rivolgimento interiore, seppur non accostabile a una forma di auto-pensiero, denota la meditazione profonda della divinità, impegnata in una progettualità cosmica. Se il secum cogitare quale restituzione di διανοεῖν si può spiegare in un’ottica platonica richiamando l’interiorità della dianoia,[51] l’accostamento di questa introspezione alla progettualità cosmica accentua la compresenza di attività noetica e operativa della divinità. Come si è detto, Cicerone instaura una stretta correlazione fra l’attività di pensiero del dio e la realizzazione demiurgica che ne consegue: laddove in Platone si legge διενοήθη δεῖν καὶ τόδε σχεῖν (39e) – espressione che privilegia l’intenzione del Demiurgo e la convenienza della sua scelta (sc. la conformità del cosmo al modello intelligibile) – con secum cogitavit effingere l’Arpinate non esita a conferire all’immagine un effetto plastico, restituendo l’immagine di un Demiurgo all’opera (cfr. §20 haec cogitans […] effecit).
Ancora una volta, Cicerone ritrae non il ragionamento del dio, ma il dio nell’atto di pensare. Al §34 il secum cogitare non tratteggia più tanto la dimensione intellettiva del Demiurgo platonico come contemplazione delle idee, ma pare allusiva di una fase progettuale che si realizza in dio. È ben nota l’importanza che Filone di Alessandria assegnerà al ruolo del Dio-Demiurgo come Artefice e come Architetto, il quale non solo plasma il cosmo, ma prima di tutto pianifica i dettagli della propria opera.[52] Nel Timaeus ciceroniano non passa inosservata la qualifica del Demiurgo come ‘Architetto’, oltre che come Artefice, peraltro in passi privi di corrispondenza con Platone, rispettivamente al §7 aedificator (29a ὁ δ’ ἄριστος τῶν αἰτίων) e al §17 effector mundi et molitor deus (33a ἐτεκτήνατο).[53] È plausibile che questa simile caratterizzazione del Demiurgo in Cicerone e Filone sia espressione di una linea di pensiero che va sviluppandosi.
Estendendo lo sguardo ad altri luoghi del corpus ciceroniano, si ricava l’indicazione della ‘trasversalità filosofica’ del nesso deus cogitans. La nozione è presente in due passi, entrambi polemici. Il primo è in Nat. deor. I 54, nell’interrogativo Quis enim non timeat omnia providentem et cogitantem et animadvertantem et omnia ad se pertinere putantem curiosum et plenum negotii deum? rivolto dall’epicureo Velleio a Balbo, dove il riferimento sarcastico è al dio stoico che “a tutto provvede, pensa e vigila”, ovvero agisce al modo di un implacabile tiranno, dato che, fra necessità del fato e catena delle cause, questo sempiternus dominus è sempre pronto a stare col fiato sul collo degli uomini. Il secondo è in Nat. deor. I 114, dove l’accademico Cotta, nel presentare i tratti della divinità epicurea, sostiene che tale dio, esente dal dolore, cogitat […] adsidue beatum esse se; habet enim nihil aliud quod agitet in mente, ossia pensa e non ha altro per la mente che l’essere costantemente felice; si tratta di un deum nihil aliud in omni aeternitate nisi ‘mihi pulchre est’ et ‘ego beatus sum’ cogitantem.[54] L’argomentazione dà modo a Cotta di concludere che il dio epicureo, senza sosta urtato da un eterno scontro di atomi, non è né beatus né aeternus, opponendosi così alla presentazione di Velleio, nelle cui parole la beatitudine e l’eternità del dio sono sottolineate a più riprese (cfr. Nat. deor. I 45), come eco di salienti passi epicurei (e.g. RS 1; Men. 123–124; et alia).
3 Eternità e perfezione
I temi di Nat. deor. I 114 introducono all’esame di un altro luogo del Timaeus ciceroniano,[55] offrendo indizi per una sua possibile interpretazione, anch’essa forse in chiave anti-epicurea.
L’inizio del §21 Sic deus ille aeternus hunc perfecte beatum deum procreavit, in corrispondenza di 34b διὰ πάντα δὴ ταῦτα εὐδαίμονα θεὸν αὐτὸν ἐγεννήσατο, evidenzia due elementi estranei al testo greco. Il primo è l’eternità del dio-Demiurgo (deus ille aeternus), aggiunta sulla cui giustificazione si è per lo più glissato,[56] con l’eccezione di chi ha ritenuto la perifrasi un espediente impiegato da Cicerone per distinguere il Demiurgo dagli dèi generati,[57] e di chi invece ha sottolineato come l’eternità sia implicita nella stessa nozione di dio.[58] Secondo elemento introdotto è l’avverbio perfecte a precisare la felicità del cosmo.
In questa caratterizzazione del dio-Demiurgo e del dio-cosmo, l’uno aeternus e l’altro perfecte beatus, il conferimento della perfetta felicità a un ente fisico, per quanto eminente, non passa inosservato.[59] Platone considera il cosmo come dio εὐδαίμων, ma non gli attribuisce la suprema εὐδαιμονία, come si osserva in Timeo 92c, dove il κόσμος, ζῷον ὁρατόν nonché εἰκὼν τοῦ νοητοῦ θεὸς αἰσθητός, è così descritto: μέγιστος καὶ ἄριστος κάλλιστός τε καὶ τελεώτατος γέγονεν εἷς οὐρανὸς ὅδε μονογενὴς ὤν, da cui si evince che il cosmo è dotato delle più nobili qualità quanto a grandezza, bellezza e perfezione, mentre nulla si dice della massima felicità.[60] Le possibili ragioni di una tale resa sono varie. Cicerone potrebbe aver ripreso la nozione di perfezione esplicitata al §20, intendendola non solo in riferimento al corpo del cosmo, ma anche in relazione alla felicità. Secondo una proposta interpretativa, con la formula perfecte beatum deum egli avrebbe inteso ridurre le differenze fra il Demiurgo e il cosmo in quanto dio creato.[61]
La perfetta felicità del cosmo è un tratto peculiare dell’esegesi di Cicerone, come mostra il fatto che Calcidio e Marsilio Ficino, interpreti del dialogo platonico, si muovono in altra direzione, il primo restituendo il passo in summe beatum […] genuit (In Tim. I 26), il secondo traducendo mundum opifex eius beatum deum efficit. La sottolineatura, tutta ciceroniana, di questo connotato invita dunque a non escludere che perfecte sottenda un significato filosofico. La possibilità che l’avverbio non si riduca a comunicare un grado massimo di intensità, come nel caso della lettura calcidiana, è sostenuta dall’importanza conferita da Cicerone nel Timaeus alla nozione di perfezione, restituita in un modo, vario e articolato, che lascia intuire uno sforzo interpretativo. A fronte di pochi casi di piena rispondenza fra τέλειος e perfectus,[62] nell’ambito della rielaborazione del modello si osservano casi di introduzione della nozione dove essa manca nel greco.[63] Significativa è la constatazione di come Cicerone sembri avvertire l’imprecisione del vocabolo perfectus,[64] e si adoperi per rinforzarne l’efficacia mediante l’accostamento ad absolutus, dando così luogo a una iunctura ampiamente documentata.[65] Anche la proposizione caeli absolutio perfecta non erit §41, quale resa di οὐρανὸς ἀτελὴς ἔσται 41b, con il cambio di soggetto (non il cielo, ma la perfezione del cielo), conferma l’attenzione di Cicerone per il tema e la sua predilezione per un accostamento terminologico che, al di là delle valutazioni stilistiche, può ritenersi d’interesse filosofico, se ricorre sovente e per lo più in contesti che risentono di influenze stoiche o tendono ad accentuare la sinergia dell’insegnamento accademico-peripatetico con lo stoicismo.[66]
Premesso che Cicerone non opera a livello di pedissequa riproduzione del concetto, ma è solito filtrare l’eredità del passato restituendone una personale rielaborazione, in via congetturale vorrei sondare l’ipotesi che il termine conferisca qui all’espressione una tonalità aristotelizzante.[67] L’avverbio perfecte, per etimo connesso a perficere, esprime la condizione di eccellenza come compiutezza. Più che la somma felicità della divinità e la sua beatitudine,[68] è la perfezione di tale stato in quanto compiuta realizzazione a richiamare l’attenzione. La tesi da esplorare riguarda la concezione di un cosmo perfecte felice (come a dire, dotato di una beatitudo perfecta), poiché la sua felicità è essa stessa un perficere o l’esito di tale attività. Cicerone, sulla scia di Platone, spiega che la felicità del cosmo deriva dall’apporto vivificante dell’anima, in conseguenza del quale il cielo si muove di moto circolare, bastevole a se stesso, sufficientemente autocosciente e dotato di amor proprio (§20 satis sibi ipsum notum et familiare/34b γνώριμον δὲ καὶ φίλον ἱκανῶς αὐτὸν αὑτῷ). Spostando il focus dal causato alla causa, si può riflettere sul fatto che l’azione procreativa del dio aeternus (Demiurgo) sul dio sensibile (cosmo) sia tale da dotare quest’ultimo di una condizione felice perfettamente attuata; infatti, pur vertendo su beatum, sotto il profilo del senso l’avverbio perfecte può considerarsi non disgiunto da procreavit, con la conseguenza di riverberarsi sull’attività del dio. Tenuto conto della rispondenza fra opera e Artefice, dinanzi a una felicità del cosmo perfetta, in quanto risultante del perficere divino, si dovrà supporre che l’ottimo Artefice sia anche compiutamente felice e tale sia il suo agire.[69] In tal caso, se l’argomentare è platonico, implicito nel principio per cui all’ottimo è lecito fare solo ciò che è bellissimo (§10/30a), altre sfumature sembrano implicate. In Metaph. Λ 7.1072b14–30 Aristotele descrive la vita sempre eccellente del motore immobile, dio eternamente felice, la cui attività è di per sé piacere (ἐπεὶ καὶ ἡδονὴ ἡ ἐνέργεια τούτου), non solo perché – come si legge in Eth. Nic. VII 15.1154b26–28 – l’atto dell’immobilità indica perfezione ed è piacevole, ma anche perché la θεωρία, l’attività noetica che egli esercita in quanto intelligenza che pensa se stessa, costituisce τὸ ἥδιστον καὶ ἄριστον.[70] Ad accentuare la qualità della vita del dio, eterna e ottima, sta il fatto che egli non solo εὖ ἔχει, ma vive tale vita felice in modo duraturo, come si chiarisce nella celebre chiusa φαμὲν δὴ τὸν θεὸν εἶναι ζῷον ἀΐδιον ἄριστον, ὥστε ζωὴ καὶ αἰὼν συνεχὴς καὶ ἀΐδιος ὑπάρχει τῷ θεῷ· τοῦτο γὰρ ὁ θεός.[71] Una familiarità con tali dottrine, o con altre orientate in simile direzione, potrebbe aver suggerito gli elementi per l’originale esegesi ciceroniana. Qualora l’ipotesi di una rielaborazione in prospettiva aristotelizzante sia fondata, un sotteso intento polemico nei riguardi dell’epicureismo è plausibile.[72]
La proposizione al §21 solleva altri spinosi interrogativi, potenzialmente significativi della collocazione del Timaeus ciceroniano nel solco della tradizione platonica e delle molteplici influenze sue peculiari. Si è visto come Cicerone tratti qui in modo autonomo i concetti di eternità e perfezione, a cui dà particolare enfasi, attribuendo il primo al Demiurgo e il secondo al dio sensibile. Questione ineludibile è se nell’affermazione sia da ravvisarsi una qualche forma di contrapposizione o se ambedue le caratterizzazioni, il dio-Demiurgo eterno e il dio-cosmo perfettamente felice, siano da leggere sotto la lente dell’eternalismo. Per l’esegesi del passo è decisivo comprendere se hunc perfecte beatum implichi di per sé anche l’eternità del cosmo oppure se, valorizzando un’antitesi assente in Platone, Cicerone delinei un quadro in cui l’eternità si predica solo del dio-Demiurgo.[73] Quest’ultimo scenario, con un platonismo dagli spiccati influssi stoici, si incontra in effetti in Somnium Scipionis 26, passo che può essere confrontato con quello del Timaeus anche per l’affine formula ipse deus aeternus indicante il dio-Demiurgo. Nell’ambito di un parallelismo fra l’anima e il dio, così come fra il corpo umano e il corpo del mondo, nel Somnium Scipionis alla guida del cosmo è presentata la figura di ille princeps deus, del quale si dice che et ut mundum ex quadam parte mortalem ipse deus aeternus, sic fragile corpus animus sempiternus movet. Tale descrizione, che non lascia spazio a dubbi circa una distinzione dal sapore stoico fra il mundum mortalem e il deus aeternus,[74] evidenzia anche, a metà strada fra concezione aristotelica e platonismo-stoicizzante, la causalità cinetica del dio eterno nei confronti del cosmo corruttibile. Che Cicerone adombri un siffatto scenario anche nel Timaeus sembra però incompatibile con la sentenza sic deus ille aeternus hunc perfecte beatum deum procreavit, non solo perché la beatitudine della divinità è per tradizione espressione della sua natura eterna,[75] ma anche perché l’eternità del cosmo è deliberatamente precisata al §7, dove senza equivoco si legge: ex quo efficitur, ut sit necesse hunc, quem cernimus, mundum simulacrum aeternum esse alicuius aeterni. Ciò nondimeno, proprio introducendo per ben due volte la nozione di eterno assente nel corrispondente greco τούτων δὲ ὑπαρχόντων αὖ πᾶσα ἀνάγκη τόνδε τὸν κόσμον εἰκόνα τινὸς εἶναι (29b), l’Arpinate dà prova di far slittare la concezione platonica su di un altro piano filosofico, come la connotazione di per sé stridente di simulacrum aeternum evidenzia.[76]
Quanto alla difficoltà interpretativa che ne deriva, il darsi di un mondo generato dal Demiurgo e al contempo eterno, se un influsso paneziano non è da escludere,[77] la giustapposizione di elementi filosofici eterogenei modulati in un intreccio di posizioni accademico-peripatetiche e stoiche suggerisce quale possibile precedente Antioco di Ascalona. In bilico fra dissenso e amore quasi in una sorta di odi et amo,[78] con una vis almeno sospetta, Cicerone (Lucul. 132 = F5 Sedley) ricorda come Antioco fosse Accademico ‘di nome’ ma per il resto germanissimus Stoicus; in modo simile, per sottolineare la distanza da Filone di Larissa, Sesto Empirico (PH I 235 = F1 Sedley) attribuisce ad Antioco un traghettamento della Stoa verso l’Accademia (ἀλλὰ καὶ ὁ Ἀντίοχος τὴν Στοὰν μετήγαγεν εἰς τὴν Ἀκαδημίαν), fondato sul riconoscimento della presenza di dogmi stoici già in Platone. Eppure, al di là delle enfasi polemiche implicate nelle testimonianze,[79] fermo restando il suo qualificarsi come fautore di un ritorno alla vetus Academia, si è riconosciuto ad Antioco un sapiente impiego della terminologia stoica e di alcune concezioni della Stoa, rielaborate in modo da non risultare in aperto conflitto con l’insegnamento di Platone e Aristotele.[80] Questa lettura di Platone, “which conforms largely to the Stoic agenda”, trova efficace esemplificazione proprio nell’interpretazione antiochea del Timeo, dove, per il poco che è dato sapere, si ravvisa la tendenza ad interpretare il dialogo alla luce di uno schema dualistico di principio attivo e passivo.[81]
In nota a queste considerazioni si aggiunga un tassello a riguardo della probabile conoscenza ciceroniana della nozione aristotelica di atto. Ai nostri fini, è utile non tanto tornare alla celebre e controversa testimonianza riguardante la confusione fra ἐντελέχεια e ἐνδελέχεια (Tusc. I 22 = Aristot. Περὶ φιλοσοφίας fr. 27b Ross, 30 Untersteiner; ma 994 Gigon),[82] ma ricordare piuttosto l’impiego del termine actio a rendere ἐνέργεια,[83] e soffermarsi su quella che sembra la presenza di questo concetto negli Academica I 6. In veste di portavoce del messaggio di Antioco di Ascalona,[84] Varrone sostiene: nostra tu physica nosti; quae cum contineantur ex effectione et ex materia ea quam fingit et format effectio, adhibenda etiam geometria est. Il termine effectio sta qui a indicare, in senso platonico, la causa efficiente che plasma (fingit et format) il ricettacolo materiale, ma potrebbe altresì adombrare, in accezione aristotelica, la capacità dell’atto di dare forma compiuta alla potenza, ovvero di dare effectus alla potenzialità della materia, giacché questa ne è il luogo specifico.[85] Si tratta di un accostamento di prospettive nemmeno troppo audace, se si considera la posizione di Antioco, secondo cui, una et consentiens duobus vocabulis philosophiae forma instituta est Academicorum et Peripateticorum, qui rebus congruentes nominibus differebant (Cic. Acad. I 17 = F7 Sedley).
4 Bilancio conclusivo
Nell’ambito della cornice platonica nella quale il Timaeus ciceroniano si inscrive, i pochi e sparsi segnali di possibili sfumature peripatetizzanti non sono privi di interesse, né per la coerenza strutturale dell’opera né per la storia dell’aristotelismo tardo ellenistico.
Se le considerazioni avanzate sono valide, si tratterebbe di un fatto meritevole di attenzione non solo per l’aggiunta di tessere al problematico mosaico della conoscenza ciceroniana dell’aristotelismo, ma anche perché potrebbe offrire ulteriori piste in merito alla complessa questione della circolazione degli scritti aristotelici alla metà del sec. I a.C.[86] Come le altre opere del 45 a.C., il Timaeus costituisce una sede privilegiata per valutare luci e ombre della posizione di Cicerone nei confronti della cosiddetta rinascenza metafisica dopo la fase ellenistica segnata da un prevalente materialismo; più dei trattati filosofici, proprio per il suo carattere progettuale, il Timaeus restituisce la percezione di un’opera collocata sul crinale di una svolta. Considerato che la presenza nel Timaeus di un esponente della scuola peripatetica nel contesto di una discussione filosofica rappresenta un unicum nella produzione ciceroniana,[87] è lecito presumere che l’Arpinate avesse a disposizione gli argomenti e una documentazione testuale sufficienti almeno a giustificare l’inserimento di un tale personaggio.
Certamente restano da accertare i contorni e la provenienza di tali dottrine, e non pochi problemi persistono in ragione proprio delle incertezze riguardanti le vicende degli scritti aristotelici, incluse quelle relative alla redazione andronichea del corpus Aristotelicum.[88] Andrà però riconosciuto che l’edizione di Andronico, a buon diritto elevata dalla tradizione a pietra miliare nella riscoperta della dottrina aristotelica, se rappresenta l’ideale avvio di una nuova stagione del pensiero, costituisce altresì il punto di approdo di un’esigenza filosofica e di un percorso esegetico ben anteriori allo stesso Andronico,[89] esito dei progressi della filologia ellenistica. Ciò impone di non escludere a priori la sopravvivenza di circoli di sapere aristotelico, in forme ed estensione tuttora oggetto di indagine.[90] Accanto ad influssi dell’Aristotele essoterico, non è impossibile che Cicerone (formatosi sia ad Atene sia a Rodi) abbia potuto fare sue concezioni presenti nelle opere di scuola, all’epoca in corso di ‘riscoperta’. A beneficio della coerenza d’impianto del Timaeus, non è quindi senza fondamento che un accademico quale l’Arpinate abbia potuto recepire il senso di alcune annotazioni aristotelico-peripatetiche. Per tale ragione si può ipotizzare che, nella consapevolezza del potenziale della lingua latina (cfr. Fin. I 10; Tusc. I 1), egli ne abbia tentato una coraggiosa trasposizione proprio nel suo Timaeus, abbozzando una cornice in cui sono ritratti il pitagorico Publio Nigidio Figulo e il peripatetico Cratippo.
Pari interesse, e non minore difficoltà, solleva la questione di una possibile imputabilità delle allusioni aristotelizzanti a Cratippo, lo stimato precettore del figlio Marco (cfr. 7–13 Dorandi-Verde). Il terreno su cui ci si muove è incerto, ma alla luce dei dati esaminati si può tentare di tratteggiare un percorso orientativo. Da un lato, a fronte delle poche reliquiae disponibili, si sa che la filosofia di Cratippo era volta principalmente alla divinazione; poiché però questo tema nelle sue linee essenziali si riduce all’indagine sull’anima e il nous,[91] un qualche interesse di Cratippo per il Timeo potrebbe essere fondato. Un argomento a supporto è fornito da De officiis III 121 (= 13 Dorandi-Verde): nella dedica conclusiva, Cicerone prega il figlio Marco di accogliere di buon animo i suoi tre volumi, dedicando loro del tempo inter Cratippi commentarios. Dalla testimonianza è legittimo concludere che Cratippo compose altre opere, benché se ne ignorino i titoli e il contenuto.[92] D’altro canto, una traduzione quale il Timaeus che rivela un platonismo non solo vagamente stoico, ma a tratti aristotelizzante, potrebbe ragionevolmente (e con maggiore agio) essere ricondotta all’operazione conciliante di Antioco di Ascalona, che anche nella fisica cercò di mediare fra le posizioni di Platone e di Aristotele, argomentando a favore di una strutturale affinità tra le due scuole.
La cautela impone di non escludere l’una e l’altra soluzione. Poiché molti dettagli sfuggono, converrà adottare una strategia in utramque partem e, procedendo per approssimazione, rilevare quanto segue. Nel Timaeus ciceroniano la modalità con cui tracce di aristotelismo affiorano accanto a motivi stoici e accademici suggerisce quale via interpretativa preferenziale la mediazione di colui che fu l’interprete chiave (ma non esclusivo)[93] della sinergia fra le dottrine di Platone e Aristotele: Antioco di Ascalona. D’altro canto, se fonti e studi confermano il platonismo aristotelizzante di Antioco, e il suo indubbio interesse per Aristotele e Teofrasto, incerta è la valutazione del tipo di aristotelismo antiocheo. Si è rilevato che dalle testimonianze antiochee “non emerge alcuna familiarità con i trattati”, mentre invece Cratippo ebbe conoscenza del Περὶ φιλοσοφίας e forse anche dei trattati, pur essendo “assai meno documentabile.”[94] Ma si è visto nel corso di questa indagine come alcuni tratti ai §§19–21 evochino affinità non solo con il Περὶ φιλοσοφίας, ma, a quanto sembra, anche con le concezioni di Metafisica Λ. Sotto questo profilo, e anche per l’elevata familiarità con Cicerone, l’aristotelismo platonizzante di Cratippo risulterebbe in un qualche modo favorito.[95]
Nessuna ipotesi può essere accolta senza riserve. Tuttavia, l’impasse non è insormontabile. Poiché Cratippo ne fu allievo, è plausibile risalire comunque ad Antioco, ed eventualmente ipotizzare che su questi temi cosmologici l’aristotelismo cratippeo possa essere stato debitore del maestro. Del resto, se Cratippo attuò un cambio di affiliazione, da accademico divenendo peripatetico, è da presumersi che un qualche interesse per la dottrina di Aristotele sia sorto già presso Antioco.[96] In ogni caso, muovendosi qui a livello congetturale, lo scoglio da affrontare non è lieve, poiché impone almeno di rivalutare la triangolazione Cicerone-Cratippo-Antioco e, in conseguenza, assegnare al cosiddetto aristotelismo ‘non tecnico’ – ammesso di considerare ‘tecnico’ solo quello dei commentatori –, un peso storico maggiore di quanto solitamente convenuto. Gli studi recenti tendono sempre più a evidenziare la presenza, più o meno in filigrana, di alcune dottrine cardine della Metafisica aristotelica in autori attivi nel sec. I a.C.: è stato dimostrato, sulla base di Alessandro di Afrodisia (In Metaph. 58.25–59.8) e di Simplicio (Ιn Phys. 181.7–30), che un platonico pitagorizzante come Eudoro conobbe piuttosto bene la Metafisica, o almeno alcune sezioni (libri α e Λ);[97] parimenti, si è dimostrata la conoscenza da parte del peripatetico Boeto di Sidone della dottrina del primo motore immobile, e si è sostenuto che la energeia sia da lui intesa anzitutto come attività (motrice) che non come attualità.[98] Se ciò conferma la trasmissione di alcune dottrine, proprio perché risulta favorita la circolazione autonoma di alcuni testi, in età tardo-ellenistica la lettura dei trattati non è da escludere nemmeno per autori ‘non tecnici’, a patto di precisare che “si trattava di una lettura effettuata con modi e finalità diverse rispetto a quelle dei primi commentatori.”[99]
È chiaro che quanto detto apre a un ulteriore spinoso interrogativo, quello delle eventuali conseguenze drammaturgiche ossia, grosso modo, il presunto impianto dell’opera. Stante la presenza nel prologo di tre ‘attori’ (Cicerone, Nigidio e Cratippo), si è supposto che il Timaeus fosse stato pensato per avere una struttura dialogica.[100] A mio avviso, poiché il testo pervenuto ha una forma monologica,[101] ma ancor più data la sua natura di semplice abbozzo, postulare una qualche distinzione di ruoli è questione assai ardua da precisare, a cagione dell’elevata arbitrarietà implicata.[102] Ciò non toglie che le argomentazioni presentate possano aiutare a rivalutare la figura di Cratippo nel Timaeus, che David Sedley ha relegato a una funzione meramente simbolica, vuoi per prestigio vuoi per ruolo di spalla. Stando all’interpretazione da lui suggerita, è “hardly plausible” che Cicerone possa aver attribuito a Cratippo “the role of translating a Greek text into Latin”; pertanto, “the role of delivering a Latinised Aristotelian passage was to be assigned either to a minor Roman speaker, or possibly to Cicero himself”, mentre il compito di Cratippo sarebbe quello “both to give the enterprise his blessing and to provide a suitably august counterweight to Nigidius.”[103] Assegnare a Cratippo una funzione accessoria per le ragioni addotte significa quantomeno pesare sulla creatività letteraria e il ruolo di regia di Cicerone, riducendolo a cronista di un evento (datato al 51 a.C.).
In conclusione, si è detto che “l’enquête sur l’aristotélisme romain implique […] de déterminer dans quelle mesure les diverses générations culturelles ont perçu la spécificité de l’École au sein de la familia Platonica.”[104] Ebbene, tentando di dare un filo conduttore di carattere eminentemente interpretativo a particolarità testuali del Timaeus ciceroniano ritenute per lo più ingiustificate o di difficile spiegazione, sullo sfondo di questa mia ricerca si sono delineati alcuni tratti che potrebbero favorire la partecipazione di Cicerone alle dinamiche esegetiche medioplatoniche; fatto di non poco conto per un autore sovente apprezzato per la sua opera di dossografo e criticato per la scarsa dimensione teoretica.
Se gli argomenti proposti hanno validità, la presenza ai §§19–21 di elementi riconducibili alla tradizione aristotelica e il loro sinergico impiego in combinazione con la dottrina platonica potrebbe anzitutto rafforzare il peso di un atteggiamento ermeneutico che ruotò attorno all’insegnamento di Antioco di Ascalona (Antioco, Cratippo, Cicerone), o di questo fu in qualche modo debitore. Sotto questo profilo, l’immagine nel complesso restituita sembrerebbe quella di un platonismo ‘dialogante’ anche nella sua svolta dogmatica, un platonismo che, tutto sommato, cercò di stare al passo con i tempi più di quanto non si sia propensi a ritenere. Al contempo, pur non essendo assimilabile al gusto e alla prassi esegetici della seconda metà del sec. I a.C., la vis filosofica di Cicerone nel Timaeus con le sue probabili aperture anche all’aristotelismo potrebbe in qualche misura fare di lui una sorta di ‘precursore’ in lingua latina di una linea interpretativa tipica della stagione successiva del platonismo. In ogni caso, rivelando una sensibilità filosofica compatibile con l’epoca, risulta senza dubbio valorizzato il carattere per nulla pedissequo di Cicerone nel confrontarsi con la tradizione di un testo chiave quale il Timeo di Platone.
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- Notes
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