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»mostrò ciò che potea la lingua nostra« – il mio Dante

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Published/Copyright: October 1, 2021
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Come ha scoperto Dante?

La domanda, che potrebbe sembrare superflua a qualsiasi italiano anche solo minimamente acculturato, che a rigore non ha avuto bisogno di ›scoprire‹ Dante (così come non ha avuto bisogno, tanto per dire, di ›scoprire‹ Garibaldi o Leonardo o Verdi), giacché Dante – come Garibaldi, ecc. – fa parte integrante di quell’identità nazionale che si comincia ad assorbire fin dai primi anni di scuola, è nel mio caso tutt’altro che inappropriata, perché la mia fu davvero una ›scoperta‹, quasi una folgorazione: che non faceva capo, come sarebbe stato ovvio, naturale e pressoché inevitabile, all’opera maggiore (la cui appropriazione succedette più tardi, progressivamente, e soprattutto attraverso la scuola), ma alle cosiddette opere minori e segnatamente alle rime, quelle della Vita nuova innanzitutto, e poi tutte le altre. Fu il Dante lirico dunque cui mi accostai primamente, e in un certo senso casualmente, grazie a un volumetto rilegato di fine Ottocento che mi capitò fra le mani, nella piccola biblioteca dei miei genitori, quando avevo circa tredici o quattordici anni: Dante Allighieri, La vita nuova. Il convito. Il canzoniere, con prefazione e note [di Francesco Costèro], 5a Edizione stereotipa, Milano, Sonzogno, 1897. Lo conservo ancora, per una sorta di pietas libraria, che però mi consente tuttora di ripercorrere quella mia iniziale esperienza di lettura, rispecchiata nelle sottolineature ed evidenziazioni a matita (rossa!) di innumerevoli passi, che riguardano quasi esclusivamente le parti in verso e assai meno, tolto forse l’inizio del Convivio, quelle in prosa. Stando ad esse, vedo che quello che mi colpiva era soprattutto la perentorietà di certi incipit, cito a caso: O voi che per la via d’Amor passate, Morte villana, di pietà nemica, Ciò che m’incontra ne la mente muore, Negli occhi porta la mia donna amore, e così via, fino alla marcatura di interi inizi delle predilette rime petrose (Io son venuto, l’intera prima stanza di Al poco giorno, e così di seguito, senza risparmio). Quasi nessuna poesia è in realtà immune da queste insistenti e vistose ›tracce di lettura‹, indice del medesimo fervore che in quel periodo mi faceva scoprire (anche qui il termine è congruo) gli Stilnovisti nell’edizioncina popolare della BUR curata da G. R. Ceriello, anch’essa costellata di segni marginali, richiami e sottolineature. Tutto questo andava di pari passo con la scoperta, parzialmente in lingua originale, dei trovatori provenzali, di cui, non capendola, mi affascinava soprattutto il ›suono‹. Da Dante ad Arnaut Daniel, insomma. Quando poi poco tempo dopo lessi lo Spirito romanzo di Pound, il gioco era fatto. E questo forse spiega perché per tutta la mia vita di studioso mi sono occupato soprattutto del genere lirico. Per il senso di ardore, genuinità e sincerità che le sue rime ispirano, persino nei momenti più astrusi e cerebrali, Dante resta per me – con buona pace dei suoi eccelsi ›maestri‹ (Cavalcanti, Arnaut ...) – il maggior poeta lirico del Medioevo (e non solo), seguito a ruota solo da François Villon. Petrarca è un’altra cosa. E la Commedia ovviamente è un’altra cosa.

Quale verso o passo di Dante non potrà mai dimenticare

Malgrado la mia predilezione per le performances liriche di Dante, disseminate non a caso anche nella Commedia, devo confessare che, tra le centinaia di passi – intendo di passi del poema, la cui ›memorabilità‹ è proverbiale – che insistono nella mia memoria di lettore, ce n’è uno di pertinenza tutt’altro che ›lirica‹ che mi torna sempre in mente quale esempio inarrivabile non tanto o non solo del cosiddetto ›realismo‹ di Dante (anzi, come qui, iperrealismo) quanto della sua ineguagliabile e sempre stupefacente creatività verbale, quell’impeto o ardore linguistico che ti lascia ogni volta senza fiato. Si tratta di Inf. XXVIII, 26–27:

[...] e ’l tristo sacco

che merda fa di quel che si trangugia.

Mi sono sempre chiesto – e me lo chiedo ora scrivendo queste righe – il perché di questo mio ricorrente e quasi imbarazzante flash memoriale. Credo che a colpirmi non sia stata tanto la spietata precisione dell’assunto, lo spiegamento di quella bona anotomia già commendata da qualche commentatore antico – in Dante si trova questo e ben altro – o la presenza di un termine ›basso‹ che prima di lui compare in poesia solo, se non erro, in Iacopone da Todi, quanto la geniale impalcatura lessicale e retorica su cui si regge l’inaudita perifrasi. Quel trangugiare, hapax per ›mangiare‹, che va di pari passo con i vari manducare, manicare, brucare, rodere ecc. che Dante alterna con i più neutri mangiare e cibarsi; e soprattutto – anche perché non vincolato alla rima come il precedente lemma – quel tristo sacco, dove non sai se ti sorprende di più l’uso figurato del sostantivo (peraltro già in Brunetto e in Guittone) o invece la scelta dell’aggettivo, del tutto imprevedibile e straniante, visto che fino a quell’epoca tristo stava di norma solo per ›dolente, triste, depresso‹, dunque un astratto (di tristo core, anima trista ecc. abbonda la rimeria duecentesca), mentre ora viene applicato a una materia – anche in senso letterale – di per sé sommamente concreta e repellente: da cui, quasi per ipallage, il nuovo senso del termine (copyright dantesco). Ma il suggello è fornito dall’allitterazione ›a cornice‹ (una specialità di Dante, con funzione spesso, come qui, iconica o fonosimbolica) che lega TRisto a TRangugia, determinandone la scelta e il legame. Scrivendo queste righe dunque qualcosa mi si è chiarito, a incrementare comunque l’ammirazione per un’altra componente essenziale della lingua poetica dantesca: le meravigliose perifrasi, qualcosa in cui Dante è maestro incomparabile. E qui c’è solo da pescare a piene mani, dal passo in questione, in fondo minimale, alle transumptiones mozzafiato, tipo »leccar lo specchio di Narcisso« (Inf. XXX, 128), alle perifrasi astronomiche fino agli undici versi che servono a Folchetto (Par. IX, 82 sgg.) per dire semplicemente: sono nato a Marsiglia. Straordinario.

Che cosa Le piacerebbe chiedere a Dante?

Temo di dover dare a questa domanda una risposta alquanto disarmante, o ingenua se si vuole. Chiederei a Dante: Ugolino ha mangiato o no i figli? Le penne evocate da Bonagiunta (Purg. XXIV, 58) sono ali o strumenti di scrittura? A chi è rivolto veramente il disdegno di Guido (Inf. X, 63)? E potrei continuare a lungo con i proverbiali enigmi danteschi, croce e delizia di filologi e commentatori. Ma forse il Poeta non risponderebbe, o risponderebbe evasivamente, fedele fino in fondo a quel perfido gusto per l’anfibologia poetica (o, se si vuole, plurivocità, polivalenza) in cui eccelle. E forse è meglio così, per continuare a tenerci occupati in quella fatica di Sisifo, in quella ›lunga arrampicata‹ (Pound) che è la comprensione e l’esegesi del Poema.

Per che cosa ama/odia Dante?

Penso che il quesito vada intesa nel senso di »che cosa mi piace/non mi piace« di Dante, ma anche questa è una domanda imperfetta. Come dire: »per che cosa amo/odio« Shakespeare o Cervantes o Virgilio, ecc. Non c’è nulla che non mi piaccia in Dante, mi piace persino la sua faziosità, mi piacciono, ammesso che davvero esistano, le sue mistificazioni. Ma prendendo alla lettera la questione posta, e sorvolando sull’impatto dei contenuti, cercherò di spiegare ›per che cosa‹ (tra le altre infinite cose) amo Dante ricorrendo di nuovo al passo di Inf. XXVIII richiamato più sopra. Perché mi piace quel passo, al di là delle motivazioni già esposte, o meglio: che cosa, in aggiunta a quelle motivazioni, me lo rende così emblematico, così memorabile? Non sarà il suo timbro, il suo sound, il suo disegno fonoritmico, la sua ›forma‹ insomma? Accennavo già alla decisiva allitterazione TRistoTRangugia. Ma se rileggiamo l’intero distico:

la corata pareva e ’l tristo sacco

che merda fa di quel che si trangugia,

ci si accorge che se tristo anticipa e sovradetermina trangugia, allo stesso modo, con mossa diversa ma equivalente, la -co finale di sacco riprende e ripete la co- iniziale di corata creando un ulteriore incastro degli echi ›a cornice‹; o meglio, questo è il motivo per cui Dante sceglie e combina proprio questi due termini (forse inconsciamente indottovi anche dalla circostanza che nel linguaggio della lirica tristo andava allora quasi sempre con core...). La jakobsoniana proiezione dell’asse della selezione su quello della combinazione non potrebbe essere meglio esemplificata. Sempre in tema di similarità sonore, è evidente poi l’assonanza limitrofa che lega merda a pareva (che a sua volta riprende il pendevan del verso precedente). Riflettendo infine sull’alternanza delle vocali toniche coincidenti con gli accenti principali dei versi, si nota che l’ordine -à-é- nel primo emistichio del primo verso (coràta paréva) è esattamente invertito nel primo emistichio del secondo: -è-à-(mèrda fà). Tralascio altri dettagli, ma ce n’è già abbastanza per cogliere quel sistema di simmetrie e corrispondenze che contribuisce a rendere ›poetico‹, e diciamo pure ›bello‹ il passo. Spero di non avere ecceduto in formalismo, ma è proprio per questo – anche per questo – che amo Dante. Un contenuto tremendo in una forma così raffinata, armoniosa. Potrei portare tanti altri esempi in questo senso. E beninteso anche l’arte della rima – Reimbildung, rithimorum relatio ecc. –, che è il vero punto di partenza del comporre dantesco, ne farebbe parte integrante.

Che cosa significa l’opera di Dante per Lei oggi?

Qui sarò oltremodo sintetico. Per me significa la forza, la bellezza, l’amplitudine della lingua: della lingua di Dante, il suo fantastico italiano, e della ›lingua‹ tout court. Dante è soprattutto il suo linguaggio, e in quello vive. Applicare a lui il blasone identificativo di Virgilio: »mostrò ciò che potea la lingua nostra«, sembrerà ovvio e banale, ma è proprio così. Sotto o meglio dentro questa ›lingua‹ c’è un ›mondo‹ (un universo) tanto, a noi lettori ostinati, familiare e aperto quanto distante, insondabile: che solo grazie ad essa lingua ci raggiunge e si fa nostro, rinnovandosi continuamente: ci prende e ci sorprende — e ci oltrepassa. In questo senso faccio mia la conclusione di un famoso scritto di Gianfranco Contini del 1965: »L’impressione genuina del postero, incontrandosi in Dante, non è d’imbattersi in un tenace e ben conservato sopravvissuto, ma di raggiungere qualcuno arrivato prima di lui«.

Published Online: 2021-10-01
Published in Print: 2021-09-24

© 2021 Furio Brugnolo, publiziert von Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston

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  31. Rezensionen
  32. Heather Webb, Dante’s Persons: An Ethics of the Transhuman, Oxford, Oxford University Press 2016, 223 pp.
  33. Claude Lefort, Dante’s Modernity. An Introduction to the Monarchia, translated from the French by Jennifer Rushworth. With an Essay by Judith Revel. Edited by Christiane Frey/Manuele Gragnolati/Christoph F. E. Holzhey/Arnd Wedemeyer, Berlin, ICI Berlin Press 2020, 114 S.
  34. Luigi Spagnolo, »A piè del vero«. Nuovi studi danteschi, Roma, Aracne 2018, 356 pp.
  35. Dante e la cultura fiorentina. Bono Giamboni, Brunetto Latini e la formazione intellettuale dei laici, a cura di Zygmunt G. Barański/Theodore J. Cachey Jr./Luca Lombardo, Salerno Editrice, Roma 2019, 254 S.
  36. Dantesque. Sur les traces du modèle, sous la direction de Giuseppe Sangirardi et Jean-Marie Fritz, Paris, Classiques Garnier 2019 (rencontres; 406), 305 pp.
  37. Alessandro Vettori, Dante’s Prayerful Pilgrimage. Typologies of Prayer in the Comedy, Leiden/Boston, Brill 2019 (Medieval and Renaissance Authors and Texts; 22), 266 S.
  38. Giovanni Boccaccio, Das Büchlein zum Lob Dantes, übersetzt und eingeführt von Moritz Rauchhaus, Berlin, Das kulturelle Gedächtnis 2021, 112 S.; Ruedi Imbach, Porträt des Dichters als Philosoph. Eine Betrachtung des philosophischen Denkens von Dante Alighieri, Basel, Schwabe 2020, 69 S.
  39. Giulio Ferroni, L’Italia di Dante. Viaggio nel paese della Commedia, Milano, La nave di Teseo 2019, 1126 pp.
  40. Per il testo e la chiosa del poema dantesco, a cura di Giorgio Inglese, Ravenna, Longo Editore 2018 (Letture classensi; 47), pp. 103.
  41. Bibliographie
  42. Deutsche Dante-Bibliographie 2020
Downloaded on 13.10.2025 from https://www.degruyterbrill.com/document/doi/10.1515/dante-2021-0008/html
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