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Neapoli commorantes: chiese nazionali e comunità forestiere nel viceregno spagnolo tra Cinque e Seicento

  • Vincenzo Sorrentino

    Vincenzo Sorrentino si è laureato presso l’Università di Pisa nel 2014 e si è poi addottorato nel 2018 presso l’Università di Firenze. Le sue ricerche dottorali sulla famiglia Del Riccio sono trasposte in A Patron Family Between Renaissance Florence, Rome, and Naples: The Del Riccio in the Shadow of Michelangelo; Routledge 2022. Ha pubblicato saggi e articoli sui rapporti tra Firenze e Napoli in età moderna ed è ora assegnista presso l’Università di Roma Tor Vergata.

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Published/Copyright: August 30, 2024
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Abstract

This article deals with national communities in Naples and their churches during the early modern period. Florentine, Lombard, and Genoese merchants had all received special privileges that exempted them from taxes on their trading and from local jurisdiction. These three nationes had different forms of government and the foundations and following stories of their churches differed dramatically. In fact, each of them fostered its own identity in several ways, hiring artists or employing iconographies from the motherland, allowing the coexistence of a ‘pantheon’ of patron saints or decorating their churches with techniques that were more common abroad. The Genoese nation is probably the most difficult to outline, as often its members decided to spread their patronage into the most important Neapolitan churches rather than gather in San Giorgio dei Genovesi.

Il Forastiero di Giulio Cesare Capaccio, pubblicato a Napoli nel 1634, è un dialogo che si sviluppa in dieci giornate e vede protagonisti il Cittadino e il Forestiero, lo stesso che presta il suo nome all’opera. La giornata ottava è dedicata interamente agli stranieri a Napoli e si intitola: Degli habitatori di varie nationi nella cità di Napoli.[1] Vi si parla sia delle passate dominazioni della capitale sia delle diverse comunità forestiere e straniere che, insediandosi in città, la nobilitarono e si aggiunge:

Crederò sicuramente che non sono le stelle, ma i commertii che rendono così illustre Ormus in Persia; e che Goa ha [sic], nell’Indie Orientali, dai varii marcanti che per le gioie vi concorrono, sia nobilitata. In quei paesi, che fe’ così celebre Anversa? E nella Frisia, come si fe’ illustre Amsterledamo? E vedete se in Spagna fusse divenuta così celebre Siviglia e Lisboa, senza il concorso di tante nationi che l’habitano. O pur vedete che direste di Parigi? Havemo pur veduto un picciol castello, con l’habitatione divenir cità, e tutto per il commercio delle genti, che navigando e peregrinando, le ferono popolate e nobili.[2]

Il Cittadino si dice scettico sull’influsso che hanno le stelle sulla fortuna e la prosperità delle città e, di converso, ne nomina alcune, procedendo da Oriente, passando per il Nord Europa e fino ad arrivare alla penisola iberica e alla Francia, che, invece, si fecero “popolate e nobili” per il gran numero di genti straniere che vi si stabilirono. La tesi del Cittadino si sviluppa poi suggerendo che degli stessi effetti benefici si sia giovata Napoli e, proprio a partire da queste considerazioni, è su tre comunità nazionali e, in particolare, sulle rispettive chiese che si concentrerà il presente articolo, provando a mostrare come, anche grazie alla preferenza accordata ad artisti, iconografie, simboli e modelli propri della nazione di appartenenza, il panorama artistico napoletano si sia arricchito di stimoli che non avrebbe ricevuto in mancanza della sua nota vocazione mercantile. L’espressione “Neapoli commorantes” (più frequente al singolare “commorans”), impiegata nel titolo, si ritrova spesso nei protocolli notarili che vedono coinvolti mercanti o artigiani forestieri a Napoli per indicarne la temporanea permanenza in città, contrapposta ad una provenienza extra-viceregno. Attraverso l’incrocio di più tipologie di documenti, conservati in archivi di varia natura di diverse città italiane, lo studio e il raffronto tra le guide napoletane, si evidenzieranno le complesse identità di queste tre nazioni e le modalità impiegate da ciascuna per autorappresentarsi o, per usare le parole di Alexander Koller e Susanne Kubersky-Piredda, per “raffigurare il ‘proprio’ per distinguersi nettamente dall’‘altrui’”.[3]

San Giovanni dei Fiorentini, Sant’Anna dei Lombardi e San Giorgio dei Genovesi, come le omologhe chiese nazionali a Roma, oggetto di studio più sistematico e comparato, rappresentavano non solo il luogo di sepoltura di coloro che morivano a Napoli o dove si concentravano i patronati di cappelle di alcune famiglie fiorentine, lombarde o genovesi, ma fungevano anche da rappresentanze “ufficiose” della madrepatria nel paese ospitante.[4] Si può parlare di rappresentanze ufficiose e non ufficiali, perché la natio o nazione, cioè la comunità straniera all’estero era, in realtà, indipendente dalla madrepatria e teneva pure a bada le ingerenze nella propria amministrazione del paese ospitante.[5] Ciascuna ebbe, in momenti diversi, diversi gradi di autonomia: i consoli della nazione genovese, ad esempio, necessitavano di una ratifica – se non altro formale – della loro elezione da parte del doge in carica a Genova;[6] il granducato di Toscana, invece, mantenne sempre un agente a Napoli come uomo di propria fiducia per servire la corte ed informarla di quanto avveniva nel viceregno, anche all’interno della nazione fiorentina.[7] Viceversa, mancò del tutto una figura simile che informasse la corte milanese: non c’era bisogno, infatti, di mantenere aggiornato sull’andamento della nazione lombarda a Napoli il governatore spagnolo di Milano. Le nationes forestiere – e non straniere – a Napoli si diedero diverse forme di autogoverno, ma queste ricaddero in massima parte sotto la tipologia del consolato, con un console eletto, consiglieri, un tesoriere e alcune altre figure deputate, invece, alla gestione e manutenzione della chiesa nazionale.[8]

Tra la metà del Trecento e la metà del Quattrocento e quindi, per Napoli, tra il periodo angioino e quello aragonese, le colonie straniere e forestiere si concentrarono nella parte bassa della città, quella più vicina alle porte urbiche che affacciavano sulla marina e sul porto. Molto poco rimane di queste prime concentrazioni bassomedievali, se non nella toponomastica cittadina.[9] Lo studio delle chiese dei forestieri a Napoli nel Cinquecento dovrà sempre tener conto di un trasferimento e di un affrancamento: tutte e tre queste nationes, infatti, erano titolari di cappelle (in un caso, di una piccola chiesa) all’interno (o nella disponibilità) di chiese di ordini religiosi (domenicani, francescani e carmelitani). Il desiderio di non essere soggette a questi stessi ordini spinse le tre comunità a scegliere nuove chiese o a edificarne ex novo per mostrare in autonomia la propria identità, rivendicata orgogliosamente come diversa da quella del contesto in cui si trovavano.

Tuttavia, rispetto alle chiese nazionali a Roma, quelle napoletane restituiscono una realtà più frammentaria poiché, solo limitandosi ai tre casi presentati di seguito, l’unica chiesa ad esistere tuttora (sebbene non sia aperta al pubblico) è San Giorgio dei Genovesi, mentre la chiesa dei Lombardi è andata distrutta nei primi anni dell’Ottocento e quella dei Fiorentini è stata demolita nel 1953.[10] Inoltre, per il periodo storico che ci compete, le chiese napoletane s’inserivano in una città che era la capitale di un viceregno spagnolo e non, come quelle romane, nella capitale del Cattolicesimo. I governi di Firenze e Genova dovevano molto della loro stabilità all’approvazione e alla benevolenza di Carlo V d’Asburgo, mentre Milano altro non era che la capitale di un altro dominio spagnolo. Diversamente da Roma, a queste chiese nazionali poteva mancare o essere meno spiccata la vocazione assistenziale e all’accoglienza degli spazi annessi alle stesse, dato che Napoli non era meta di pellegrinaggi.[11] Un altro elemento che distingue lestorie delle chiese nazionali romane e napoletane è poi il ruolo svolto da cardinali o prelati appartenenti alla nazione nella loro decorazione. Con una sola significativa eccezione,[12] infatti, nessun prelato fiorentino, lombardo o genovese investì nella dotazione di una cappella o nella decorazione della propria chiesa nazionale a Napoli.

Infine, proprio come avvenne a Roma, dove le chiese di Francia, Spagna e Impero si concentravano tutte attorno a piazza Navona, così a Napoli quelle di tre nazioni più piccole, ma non meno orgogliose, si insediarono nel territorio di Santa Marta (fig. 1).[13] Allo stesso modo, sorgevano a ridosso di quest’area anche Santi Pietro e Paolo dei Greci, San Giacomo degli Spagnoli e Santa Margherita – poi Santa Maria dell’Anima – dei Tedeschi.[14] Il rilievo della nazione francese, che si riuniva nella chiesa di Sant’Eligio agli Orefici, durante il periodo angioino, ebbe un evidente declino in età moderna, chiara conseguenza della dominazione spagnola che caratterizzò Napoli in questo periodo.[15]

1 Alessandro Baratta, Fidelissimae urbis neapolitanae […] (dettaglio), 1629, incisione su rame, 930 × 2860 mm. Napoli, Certosa e Museo di San Martino (1. San Giovanni dei Fiorentini; 2. Sant’Anna dei Lombardi; 3. San Giorgio dei Genovesi)
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Alessandro Baratta, Fidelissimae urbis neapolitanae […] (dettaglio), 1629, incisione su rame, 930 × 2860 mm. Napoli, Certosa e Museo di San Martino (1. San Giovanni dei Fiorentini; 2. Sant’Anna dei Lombardi; 3. San Giorgio dei Genovesi)

I Fiorentini e la chiesa di San Giovanni

I Fiorentini erano presenti a Napoli fin dal Trecento ed è noto l’impiego del giovane Giovanni Boccaccio presso il banco dei Peruzzi. A Bertuccio Taddei, banchiere di Roberto d’Angiò e console della nazione nel 1309, furono concessi dal sovrano alcuni privilegi, principalmente esenzioni sui dazi doganali e facilitazioni di natura economica, a cui se ne aggiunsero altri di natura giurisdizionale: le cause tra i Fiorentini, grazie all’interessamento di Giovanna II d’Angiò Durazzo, sarebbero, infatti, state decise da un tribunale interno alla nazione.[16] Seguirono altreconferme ed estensioni dei privilegi nel periodo aragonese, certamente facilitati dal ruolo di banchieri di corte svolto da diversi membri della famiglia Strozzi. Invece, i più antichi statuti della nazione fiorentina a Napoli conservatisi risalgono al 1430, furono stilati per iniziativa del console Filippo di Nardo Rucellai e riprendevano e rinnovavano quelli redatti al tempo del re Ladislao nel 1408.[17]

La presenza dei fratelli Filippo, Lorenzo e Matteo di Matteo Strozzi a Napoli è anch’essa nota ed è resa anche più evidente dal fatto che la Tavola Strozzi, tra le più famose vedute della città, oggi conservata al Museo di San Martino a Napoli, sia stata rinvenuta nel palazzo fiorentino di famiglia nel 1901.[18] Filippo Strozzi il Vecchio, il maggiore dei tre, fu agente del banco Medici a Napoli alla metà del Quattrocento e ne fondò uno proprio coi fratelli Lorenzo e Matteo nel 1468. Eve Borsook, rintracciando alcune lettere intercorse tra membri della famiglia tra Firenze e Napoli, attestò come, dopo la morte del fratello più giovane, Matteo, il primogenito Filippo volesse erigere per lui una sepoltura in una chiesa napoletana intitolata alla Vergine.[19] Questo progetto sfumò allorquando Filippo, alla fine del 1478, decise di costruire il sepolcro per Matteo nel coro della chiesa dell’eremo di Lecceto, vicino Siena. La chiesa in cui il sepolcro doveva essere realizzato andrà certamente riconosciuta in quella di Santa Maria ad Portellam (o di San Giovanni alla Marina del Vino) cioè la prima chiesa della nazione fiorentina a Napoli (fig. 2). La stessa sorgeva nei pressi della Porta del Caputo, cioè nella parte bassa della città, quella più vicina al porto, era censuaria alla chiesa domenicana di San Pietro martire e fu, in seguito, inglobata nel chiostro di questa chiesa. Fin dall’ultimo quarto del Quattrocento, quindi, la natio fiorentina possedeva a Napoli una propria chiesa autonoma in cui riunirsi, celebrare messa e seppellire i propri morti.

2 Alessandro Baratta, Fidelissimae urbis neapolitanae […] (dettaglio), 1629, incisione su rame, 930 × 2860 mm. Napoli, Certosa e Museo di San Martino (1. Santa Maria ad Portellam; 2. San Giovanni dei Fiorentini)
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Alessandro Baratta, Fidelissimae urbis neapolitanae […] (dettaglio), 1629, incisione su rame, 930 × 2860 mm. Napoli, Certosa e Museo di San Martino (1. Santa Maria ad Portellam; 2. San Giovanni dei Fiorentini)

Va, in ogni caso, segnalato come Carlo De Lellis, nell’Aggiunta alla “Napoli sacra” dell’Engenio Caracciolo, manoscritto in cinque volumi rimasto incompiuto alla morte dell’autore (1689 circa), menzionasse nella chiesa di Sant’Agostino alla Zecca, prima delle trasformazioni settecentesche, una cappella dedicata a San Raffaele arcangelo e, allora, della famiglia – a suo dire –fiorentina dei Vollaro, ma, originariamente

di tutta la natione fiorentina, onde vi si vedevano l’arme del giglio di Francia, d’oro in campo azzurro, proprie della città di Fiorenza, e che perciò in questa chiesa si veggono molte memorie de’ nobili e cittadini fiorentini; la qual cappella restò poi della famiglia Vollaro, havendo la detta natione altrove fondata la loro propria chiesa sotto il titolo di San Giovanni Battista.[20]

Il brano prosegue riferendo che la sede del “gremio” della nazione fosse all’interno della chiesa e che una “Scola Florentinorum” per le sepolture fosse stata concessa ai Fiorentini nel chiostro attiguo. La dedicazione all’arcangelo Raffaele è comune anche alla cappella nella medesima chiesa che i fiorentini Tommaso di Francesco Ginori e Giovacchino di Biagio Guasconi, soci in affari, ultimarono di decorare nel 1491.[21] Assodata l’identificazione tra le due cappelle, sembra lecito ipotizzare un errore da parte del De Lellis nel riconoscimento degli stemmi e nella lettura delle iscrizioni ancora presenti nella cappella oppure dei passaggi di proprietà avvenuti nei secoli precedenti. Infine, andrà evidenziato come lo statuto di chiesa nazionale per Santa Maria ad Portellam non doveva ancora essersi formalizzato alla fine del Quattrocento e che, in ogni caso, la chiesa in cui farsi seppellire o in cui acquisire un patronato poteva seguire criteri altri rispetto alla semplice appartenenza ad una nazione.

Dal punto di vista organizzativo, la nazione fiorentina aveva a capo un console, eletto la prima domenica di marzo, così che potesse insediarsi all’inizio dell’anno, secondo il calendario fiorentino, e due consiglieri, che, come il console, rimanevano in carica un anno.[22] Altre cariche elettive erano il camerlengo (il tesoriere) e il parroco, il cui incarico, però, poteva essere confermato di anno in anno e durare, quindi, più a lungo. La confraternita dei bianchi, che si riuniva nell’oratorio intitolato alla Pietà attiguo alla chiesa, svolgeva funzioni assistenziali analoghe a quelle della sua omologa (e omonima) romana e comprendeva: un governatore, due consiglieri, un provveditore, un camerlengo, uno scrivano, sei cerimonieri, sei infermieri, sette maestri dei novizi, dieci coristi, quattro sacrestani, due operai, un cappellano e un fattore.[23] Sebbene non si conservi la documentazione della confraternita della Pietà, è accertabile che nel 1599 Lapo Niccolini, console della nazione, fosse anche tra i cerimonieri della confraternita, così come Tomaso Guidetti, uno dei consiglieri, ne fosse corista.

Nel 1557, la nazione decise di trasferire la sede della propria chiesa in una piccola fondazione dedicata a San Vincenzo, già sede della nazione spagnola dal 1540 e lasciata libera per il suo spostamento in una chiesa ancora più “centrale”.[24] A facilitare il trasferimento della chiesa della nazione fiorentina ci fu certamente Pedro di Toledo, viceré di Napoli per vent’anni, che, pur morendo nel 1553, ebbe un occhio di riguardo non solo per la sua nazione, la spagnola, ma anche per quella fiorentina, siccome Eleonora, la sua secondogenita, aveva sposato Cosimo I de’ Medici nel 1539 ed era quindi duchessa consorte di Toscana.[25]

Nel territorio di Santa Marta, l’attuale zona dei Guantai Nuovi, compresa tra via Toledo e via Medina, si concentravano molti terreni di proprietà del convento domenicano di San Pietro martire e questa zona fu interessata, per tutta la seconda metà del Cinquecento, dal trasferimento di diverse nazioni che decisero di insediarsi qui per lo spostamento verso oriente dei luoghi del potere, cioè del palazzo vicereale, che occupava lo spazio compreso tra i successivi Palazzo Reale e Teatro San Carlo. Per facilitare il collegamento con via Toledo, la nuova arteria cittadina che collegava il centro antico con il palazzo vicereale, l’ambiziosa nazione ottenne anche l’autorizzazione dall’ufficio competente – i Deputati di Fortificazione e Mattonata – a demolire un tratto di antiche mura che le negava l’accesso diretto alla nuova strada.

Attraverso una scrittura conservata presso un archivio privato fiorentino, è stato possibile ricostruire con grande precisione quali furono i mercanti fiorentini a Napoli che patrocinarono il trasferimento della chiesa in un nuovo edificio e, verosimilmente, il suo rinnovamento strutturale (in particolare della parte absidale che doveva andare incontro alle nuove disposizioni controriformate).[26] A un pagamento iniziale di 900 ducati seguirono versamenti annuali di 56 per pagarne il censo ai domenicani. Molti tra i primi contribuenti all’acquisizione di San Giovanni dei Fiorentini ottennero diritti di patronato per una cappella all’interno della chiesa, probabilmente anche come forma di ringraziamento per la sovvenzione. Tra questi si segnalano i Del Riccio, i Biffoli, i Del Rosso e i Vecchietti.

Nel 1565, con bolla di papa Pio V, la chiesa fu fatta parrocchia per la nazione tantum, cioè per la sola comunità fiorentina. La sua decorazione avvenne in due fasi, una che risale al 1565–1571, ad opera del pittore senese, ma naturalizzato napoletano, Marco Pino, e una successiva (1575–85) a opera dei pittori dello Studiolo di Francesco I de’ Medici in Palazzo Vecchio: Francesco Morandini detto il Poppi, che completò una tavola iniziata dal suo maestro Giorgio Vasari, Girolamo Macchietti, le cui opere sono andate distrutte, e un suo allievo probabilmente da riconoscere in Giovan Battista Falcandi.[27] Nel primo decennio del Seicento, poi,la chiesa poté dirsi compiuta grazie al soffitto a cassettoni con tavole con Storie della vita del Battista di Giovanni Balducci, Pompeo Caccini e Teodoro d’Errico, commissionate da Jacopo Aldobrandini, nunzio apostolico a Napoli, e a un Apostolato in scultura realizzato da Michelangelo Naccherino, Pietro Bernini, Tommaso Montani e Francesco Cassano.[28] Come anticipato, la chiesa dei Fiorentini godette dell’interessamento di diverse famiglie che acquistarono patronati di cappelle e la situazione nel 1586, a prestar fede alla visita pastorale del cardinale Annibale di Capua, vedeva dieci su dodici cappelle dotate di un proprio patronato (fig. 3).[29]

3 I patronati di San Giovanni dei Fiorentini nel 1586 ca.
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I patronati di San Giovanni dei Fiorentini nel 1586 ca.

Già nei primi decenni del Seicento la nazione subì duri colpi ai suoi “negotî”, chiara conseguenza dello strapotere raggiunto dai Genovesi. Nel 1686, esattamente un secolo dopo la visitapastorale del di Capua, l’abate Lionardo Lionardi, agente del granduca Cosimo III, restituiva un’immagine piuttosto squallida dell’edificio e, a suo dire, la situazione dei patronati era andata modificandosi – tuttavia il Leonardi non si dimostra particolarmente preciso (fig. 4).[30] Pochi anni dopo, il terremoto del 1688 causava danni anche alla chiesa di San Giovanni dei Fiorentini e le venne in soccorso il granduca Cosimo III che, nel frattempo, era stato autorizzato a scegliere personalmente la figura del console.[31] Nel 1764, Ferdinando Fuga fornì il disegno per l’altare ancora visibile nelle fotografie storiche (fig. 5) e nel 1802 Ferdinando IV di Borbone esentò la nazione, ridotta a pochi membri, dal censo annuo ancora dovuto ai domenicani.[32] Infine, alla metà del Novecento, la chiesa fu al centro di uno spiacevole episodio di speculazione edilizia che portò alla sua demolizione.[33]

4 I patronati di San Giovanni dei Fiorentini nel 1686
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I patronati di San Giovanni dei Fiorentini nel 1686

5 San Giovanni dei Fiorentini a Napoli, interno nel 1945 ca.
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San Giovanni dei Fiorentini a Napoli, interno nel 1945 ca.

Il progetto di miglioramento a fini residenziali del quartiere avrebbe dovuto risparmiare in un primo momento le chiese, ma, con i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, la lottizzazione e la vendita dei terreni dell’area, anche San Giovanni dei Fiorentini fu demolita nel 1953. Già prima del secondo conflitto mondiale, le sculture erano state trasferite sull’altare maggiore dell’Incoronata Madre del Buonconsiglio a Capodimonte, mentre nel 1952 le pale d’altare furono traslate in una nuova chiesa fondata con lo stesso nome al Vomero, all’Arenella. Le lapidi in marmo delle sepolture e i monumenti funebri scomposti furono smontati e trasferiti nella cripta dei SS. Apostoli dove si trovano tuttora.[34]

Nel caso della chiesa della nazione fiorentina non furono semplicemente i soggetti rappresentati nelle pale d’altare a essere legati a Firenze o a culti fiorentini; fu, invece, senz’altro toscano-centrica la scelta degli artisti coinvolti nella decorazione della chiesa: senese Marco Pino, fiorentini il Poppi, Macchietti, Balducci e Caccini e pure fiorentini gli scultori Naccherino, Bernini, Dosio e Montani. Ci furono delle eccezioni a questo gusto “autarchico” (Teodoro d’Errico tra i pittori e Francesco Cassano tra gli scultori), ma, in linea di massima, parrebbe che per i Fiorentini la rappresentazione della propria identità passasse in prevalenza attraverso l’impiego di artisti e modelli squisitamente e platealmente toscani. Per limitarci a un solo esempio, si noti come la visita pastorale di Annibale di Capua sia la sola a riportare la presenza di un’Annunciazione, a mo’ di cimasa del Battesimo di Cristo di Marco Pino (fig. 6), del tutto ignorata dalle guide cittadine. Pur in assenza di documentazione visiva che lo confermi, sembra lecito ritenere la composizione fortemente ispirata o una vera e propria replica della famosa icona medievale della SS. Annunziata di Firenze che avrebbe ricevuto tra fine Cinque e inizio Seicento un’imponente produzione di copie. Queste, dietro autorizzazione della corte medicea, erano, poi, distribuite sia perché riproducenti un’immagine miracolosa, sia come segno di benevolenza da parte del principe.[35] Che, d’altra parte, varcando la soglia dell’edificio sacro, il Fiorentino dovesse sentirsi non solo a casa, ma anche, più puntualmente, sotto l’ombra della cupola brunelleschiana lo dimostrerebbe pure l’iconografia della pala sull’altare maggiore della chiesa il cui prototipo si rifaceva in maniera stretta e certamente non casuale al gruppo scultoreo visibile sulla porta orientale del battistero fiorentino: il Battesimo di Cristo di Andrea Sansovino e Vincenzo Danti. Semplicemente osservando come il tema era stato trattato dal pittore senese nella pala in San Domenico maggiore a Napoli solo pochi anni prima, ci si accorge quanto più piana e intellegibile sia la versione che di questo soggetto Pino diede per la chiesa della nazione fiorentina a Napoli. Una simile semplificazione potrebbe essere nata non solo dalla necessità del pittore di venire incontro alla diversa sensibilità dei committenti fiorentini, ma, in questo caso, dal desiderio – impostogli dai consoli della nazione? – di attenersi a un prototipo dichiaratamente fiorentino per la pala dell’altare maggiore della loro chiesa nazionale.[36]

6 Marco Pino, Battesimo di Cristo, 1566–1569, olio su tavola, 465 × 306 cm. Napoli, chiesa di San Giovanni dei Fiorentini
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Marco Pino, Battesimo di Cristo, 1566–1569, olio su tavola, 465 × 306 cm. Napoli, chiesa di San Giovanni dei Fiorentini

I Lombardi e la chiesa di Sant’Anna

Il secondo gruppo nazionale oggetto di approfondimento è quello dei Lombardi, che, così come suggerisce la specificazione, non era esclusivo appannaggio dei Milanesi. Non diversamente da Roma, infatti, anche a Napoli la natione lombarda ospitava una realtà non limitata geograficamente al governatorato di Milano.[37] Alla nazione lombarda afferivano anche i cittadini di Bergamo, Brescia, Torino, Mantova, Bologna, Ferrara e finanche Venezia. Le diverse anime di questa nazione “pan-padana” trovavano espressione anche nella cappella nazionale nella basilica della Madonna del Carmine, originario luogo di aggregazione della natio, e nella pala poi realizzata alla fine del Cinquecento per l’altare maggiore della nuova chiesa di Sant’Anna.[38]

La più antica attestazione di concessione di privilegi ai mercanti lombardi a Napoli risale al 1464 e si ricava da un decreto con il quale Ferrante d’Aragona dichiarava di aver già riconosciuto loro privilegi ed esenzioni e, soprattutto, di aver sottratto anche le cause civili e penali vertenti tra lombardi alla giurisdizione regia.[39] Conferme ed estensioni di questi privilegi sarebbero seguite nel periodo vicereale.[40] La creazione di una “Confrateria de’ Nationali Lombardi” seguì la concessione dei primi privilegi, poiché avvenne solo nel 1492 e il suo atto fondativo mostra, in tutta evidenza, le varie provenienze dei suoi membri.[41] In ogni caso, già al capitolo tre, si specificava la possibilità per i governatori della confraternita di “accettare ogn’uno per Confrate, sia di che natione si voglia, ò sia”, ponendo limitazioni solo all’ammissione di infermi all’interno della confraternita.[42]

Le informazioni sulla vita della nazione e della confraternita – le due espressioni risultano quasi interscambiabili in questo caso[43] – non provengono da documenti, ma, in massima parte, da una silloge pubblicata nel 1626 in forma di libello dal notaio della nazione, Giulio Cesare Aversano, che si servì di documenti antichi andati perduti.[44] Contestualmente alla creazione di una confraternita, i Lombardi cercarono una cappella che fungesse sia da sede della nazione sia da luogo in cui officiare messa. Dopo un primo tentativo all’interno della chiesa di Sant’Eligio maggiore, nel 1493, i Lombardi riuscirono ad ottenere la prima cappella a sinistra nella chiesa di Santa Maria del Carmine, ceduta loro da Antonio Bifulco.[45]

Nell’aprile dello stesso anno, a dirimere una questione di rappresentanza, vale a dire quale santo dovesse trovar posto nella pala d’altare della cappella, già intitolata a Sant’Anna, intervenne Alessandro Carafa, arcivescovo di Napoli. Egli stabilì che sull’altare della cappella andasse collocato un quadro con la santa, sulla destra un quadro di San Marco evangelista per i Veneziani e sulla sinistra uno di Sant’Ambrogio per i Milanesi. Infine, il giorno di Sant’Antonio abate, il 17 gennaio, in onore dei Bergamaschi, sarebbe avvenuta l’elezione di governatori ed economi della confraternita.[46] Per l’occupazione della cappella, i Lombardi avrebbero pagato annualmente ai frati carmelitani dieci ducati, oltre a un dono di dodici “rotola” di carne di vitello e a sei libbre di cera.[47]

Come anticipato, anche gli statuti dei Lombardi a Napoli furono ampliati e corretti in più occasioni. Nel 1554, furono aggiunti altri sei capitoli a quelli del 1493; altre modifiche furono apportate nel 1612 e nel 1624.[48] Sebbene solo negli Statuti del 1743 si faccia espressa menzione di due classi di confratelli – una prima costituita da fratelli di “distinta condizione” (nobili, altolocati e ricchi mercanti) e una seconda di modeste condizioni (operai e “artisti”) – sembra verosimile che due strati sociali convivessero all’interno della nazione fin dal suo costituirsi.[49] Oltre alla provenienza variegata dal nord Italia dei suoi membri, la compresenza di due classi è un’altra caratteristica che la nazione lombarda a Napoli condivise con quella romana.[50] I Lombardi, in particolare quelli provenienti dalla regione dei Laghi, erano, infatti, anche manovali, scalpellini, stuccatori e scultori: Cosimo Fanzago (1591–1678) fu tra i membri più celebri di questa categoria professionale.[51] I componenti di questa seconda classe non potevano aspirare a rivestire incarichi di rilievo all’ interno dell’arciconfraternita, ma avevano diritto alla sepoltura in chiesa.[52]

A capo della confraternita dei lombardi c’erano più maestri (o governatori), eletti il 17 gennaio di ogni anno. Nel 1582, quando fu deciso il trasferimento della confraternita in una nuova chiesa, i governatori erano tre;[53] alla fine del secolo erano cinque[54] e il loro numero fluttua tra quattro e cinque durante il Seicento.[55] I mastri della confrateria decidevano chi tra loro avrebbe svolto il ruolo di cassiere (omologo al camerlengo per i Fiorentini) e provvedevano all’individuazione di un sacrestano.[56]

Nel 1582, “per uscire dalla soggezione dei frati”, dietro iniziativa dei tre governatori della cappella di Sant’Anna, i milanesi Adriano delle Terre e Battista Morone e il bolognese Niccolò Basso, i Lombardi decisero di trasferirsi anche loro nella parte orientale della città, nei pressi della porta Reale.[57] Qui trovarono uno spazio verde edificabile, detto “al bianco mangiare”, che acquisirono dall’ospedale dei Pellegrini (fig. 7).[58]

7 Alessandro Baratta, Fidelissimae urbis neapolitanae […] (dettaglio), 1629, incisione su rame, 930 × 2860 mm. Napoli, Certosa e Museo di San Martino (1. Santa Maria del Carmine; 2. Sant’Anna dei Lombardi)
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Alessandro Baratta, Fidelissimae urbis neapolitanae […] (dettaglio), 1629, incisione su rame, 930 × 2860 mm. Napoli, Certosa e Museo di San Martino (1. Santa Maria del Carmine; 2. Sant’Anna dei Lombardi)

Una lettera del nunzio apostolico a Napoli, Jacopo Aldobrandini, scritta nel novembre 1594 a Cinzio Passeri Aldobrandini, cardinal nepote di papa Clemente VIII, fa luce su diversi aspetti legati all’edificazione del tempio, sulle modalità per pagarne le spese di mantenimento e pure sull’organizzazione interna della nazione.[59] Implicitamente, facendo più volte riferimento alla chiesa dei Fiorentini, che lo scrivente ben conosceva, questi sembra suggerire la chiara emulazione da parte della comunità lombarda delle strategie insediative e del modello rappresentato dai Fiorentini. Assicurando, poi, che la concessione dello status di parrocchia alla chiesa dei Lombardi non avrebbe causato malumori tra le altre chiese della zona, l’Aldobrandini sottolineava la particolare natura di una parrocchia nazionale, quella, cioè, di non insistere su di un’area specifica, ma di rivolgersi, piuttosto, a singoli fedeli provenienti dalla Lombardia e alle loro famiglie: “Non si reputa che questa possa essere di pregiuditio tale alle altre parrocchie che se ne deva sentire querele perché detta natione è sparsa per tutta la città, et poco toccherà a perder per ciascuna, et con quella dove è situata la detta chiesa sperano di poter facilmente convenire.”

Nel 1599, anno della visita pastorale del cardinale Alfonso Gesualdo, la chiesa era stata completata (vi si officiava già dal 1594), il patronato di alcune cappelle era già stato concesso e Fabrizio Santafede doveva aver già realizzato la pala sull’altare maggiore (fig. 8).[60] Per i Lombardi, così come per i Genovesi, non disponiamo di un elenco preciso di coloro che, attraverso donazioni, permisero ai governatori di Sant’Anna l’acquisto del nuovo terreno edificabile. Tuttavia, i nomi dei primi patroni di cappelle, così come gli stemmi sulla suppellettile ecclesiastica elencata in un inventario allegato alla sacra visita del 1599, possono suggerire quali famiglie guidarono questa operazione e fossero maggiormente motivate a raggiungere l’autonomia dai carmelitani e a dare più ampia visibilità alla rappresentazione collettiva della propria nazione.[61]

8 Fabrizio Santafede, Madonna col Bambino e i Santi Anna, Marco e Ambrogio, 1596 ca., olio su tavola, 235 × 153 cm. Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte, depositi
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Fabrizio Santafede, Madonna col Bambino e i Santi Anna, Marco e Ambrogio, 1596 ca., olio su tavola, 235 × 153 cm. Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte, depositi

L’Aversano, notaio della nazione, riporta precisamente la sequenza di concessione dei patronati all’interno della chiesa di Sant’Anna dei Lombardi. Il primo a sovvenzionare la costruzione della chiesa fu l’architetto regio Domenico Fontana, originario di Melide, con un prestito di 600 ducati nel 1594. Otto anni dopo, nel 1602, il debito sarebbe stato estinto dai governatori della chiesa concedendo al Fontana i diritti di patronato sulla terza cappella a destra della chiesa.[62] La prima concessione era, però, già avvenuta il 19 marzo 1593, allorquando ad Antonio Bonelli, bergamasco, era stata affidata per 400 ducati la seconda cappella a destra, poi ornata prima del 1599 con una pala con la Madonna di Costantinopoli e i SS. Giacomo e Sebastiano.[63] Ante 1596 può datarsi, invece, la realizzazione della pala sull’altare maggiore, Sant’Anna, la Vergine col Bambino e i Santi Ambrogio e Marco, già affiancata da due quadri attribuiti a Jacopo Bassano con San Francesco e Santa Chiara e coronata dallo stemma della famiglia Carcano.[64] Nel giugno 1600, Giacomo Filippo della Robba acquisì la quinta cappella a destra (ma la stessa passò tra il 1609 e il 1610 al fiammingo Baldassarre Noirot che la rinnovò);[65] il 29 dicembre 1602 Sebastiano Longhi acquisiva per 600 ducati la quarta cappella a destra, intitolata al suo santo eponimo.[66] Infine, con tre contratti distinti, ma sottoscritti lo stesso giorno – il 24 dicembre 1607 – davanti allo stesso notaio, furono concesse la terza, la quarta e la quinta cappella a sinistra alle famiglie Fenaroli, Correggio ed eredi di Giovan Giacomo Noris e Curtoni, ciascuna per 600 ducati.[67] Nel primo decennio del Seicento, su quasi tutte le cappelle – a eccezione delle due nel transetto – insisteva un patronato; più avanti, nel 1634, la visita pastorale dell’arcivescovo Boncompagni confermava la medesima situazione (fig. 9).[68]

9 I patronati in Sant’Anna dei Lombardi nel 1634
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I patronati in Sant’Anna dei Lombardi nel 1634

Nel 1611, grazie a un lascito di 1000 scudi di Loise (Luigi) Biancardo “di Milano, ma commorante per lungo tempo in Napoli”, iniziò a erigersi, nel braccio destro del transetto, un altare dedicato al neo-canonizzato San Carlo Borromeo.[69] La decorazione proseguì grazie all’interessamento di Giovan Donato Correggio che provvide alle spese per i marmi mischi dell’altare per 400 scudi, all’istituzione di un cappellano e alla decorazione dell’altare con una pala, anch’essa realizzata a sue spese (fig. 10).[70] Tra il 1615 e il 1620 la volta della chiesa veniva ornata da stucchi di Giacomo Peraca, Andrea Merliano e di altri “stuccatori della natione lombarda” e, nel 1620, Giovanni Balducci realizzava ad affresco, nella cupola, “otto quadri dei protettori di Venezia e Lombardia” e un Dio padre nel lanternino, grazie al contributo di molti “nazionali”.[71] Nel 1625 ebbe inizio la costruzione di un oratorio attiguo alla chiesa intitolato anch’esso a San Carlo Borromeo.[72] L’oratorio era costituito da un’aula unica a cui si accedeva dalla sacrestia e il suo progetto si doveva al lavoro congiunto di Giulio Cesare Fontana, figlio di Domenico e anche lui architetto regio, e Bartolomeo Picchiatti, altro architetto regio di origini ferraresi e, quindi, membro della nazione lombarda.[73] La congregazione dell’oratorio si dotò di propri statuti ancor prima di avere una sede in cui potersi riunire e, in questo caso, una lista dei sottoscrittori che pagarono per sovvenzionare la nuova fabbrica illustra sia i mercanti lombardi più abbienti sia i più devoti al nuovo santo milanese.[74]

10 Giovan Geronimo d’Arena, San Carlo Borromeo, 1620–1630 ca., olio su tela, 300 × 200 cm. Napoli, chiesa di Santa Maria di Monteoliveto, già in Sant’Anna dei Lombardi
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Giovan Geronimo d’Arena, San Carlo Borromeo, 1620–1630 ca., olio su tela, 300 × 200 cm. Napoli, chiesa di Santa Maria di Monteoliveto, già in Sant’Anna dei Lombardi

Oggi, le opere sopravvissute al crollo del soffitto della chiesa e all’incendio si concentrano, per la maggior parte, nella chiesa di Santa Maria di Monteoliveto, nuova sede della confraternita di Sant’Anna dal 1801 e che, per questo, fu ribattezzata Sant’Anna dei Lombardi.[75] Vi si conservano tuttora due quadri con storie della vita di San Pietro di Carlo Sellitto provenienti dalla cappella Curtoni (figg. 1112), il San Carlo di Girolamo d’Arena e il monumento funebre di Domenico Fontana (fig. 13).[76] Altre opere provenienti da Sant’Anna sono, oggi, nei depositi di Capodimonte e, più della pala di Santafede già sull’altare maggiore, sulla quale puliture troppo energiche hanno lasciato segni indelebili,[77] merita una certa attenzione la Madonna col Bambino e Santi mutila di Teodoro d’Errico.[78]

11 Carlo Sellitto, San Pietro salvato dalle acque, 1610–1612, olio su tela, 240 × 178 cm. Napoli, chiesa di Santa Maria di Monteoliveto, già in Sant’Anna dei Lombardi
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Carlo Sellitto, San Pietro salvato dalle acque, 1610–1612, olio su tela, 240 × 178 cm. Napoli, chiesa di Santa Maria di Monteoliveto, già in Sant’Anna dei Lombardi

12 Carlo Sellitto, Cristo consegna le chiavi a San Pietro, 1610–1612, olio su tela, 240 × 178 cm. Napoli, chiesa di Santa Maria di Monteoliveto, già in Sant’Anna dei Lombardi
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Carlo Sellitto, Cristo consegna le chiavi a San Pietro, 1610–1612, olio su tela, 240 × 178 cm. Napoli, chiesa di Santa Maria di Monteoliveto, già in Sant’Anna dei Lombardi

13 Bartolomeo Argenti e Vitale Finelli, Monumento funebre a Domenico Fontana, 1625 ca., marmi policromi, 400 × 240 cm. Napoli, atrio della chiesa di Santa Maria di Monteoliveto, già in Sant’Anna dei Lombardi
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Bartolomeo Argenti e Vitale Finelli, Monumento funebre a Domenico Fontana, 1625 ca., marmi policromi, 400 × 240 cm. Napoli, atrio della chiesa di Santa Maria di Monteoliveto, già in Sant’Anna dei Lombardi

La vicenda umana di Sebastiano Longhi, il suo committente, ci porta a Viggiù, in provincia di Varese, nella cui chiesa di Santo Stefano Longhi possedeva anche una seconda cappella familiare (figg. 1415).[79] Questa, come ha felicemente intuito Margherita Fratarcangeli alcuni anni fa, fu decorata con opere del d’Errico ancora perfettamente leggibili e conservate in un contesto inalterato.[80] Pagamenti già noti, ma mai finora collegati alle opere viggiutesi e alla pala di Capodimonte, permettono di datare con precisione le due commissioni parallele e di scalarle quasi agli stessi anni. Infatti, nell’aprile 1603, Teodoro d’Errico fu pagato dal Longhi per le opere da inviare a Viggiù e nel marzo 1605 lo stesso gli saldò la pala per la cappella familiare in Sant’Anna dei Lombardi.[81] Questa doppia commissione appare come un unicum nella storia delle chiese delle nazioni forestiere a Napoli: in nessun altro caso, pare, un forestiero commissionò ad artisti viceregnicoli – come si può considerare d’Errico – opere che sarebbero andate a ornare la propria cappella familiare in patria.[82]

14 Teodoro d’Errico, La Madonna col Bambino in gloria e i SS. Giovanni Battista e Orsola, 1603, olio su tela. Viggiù (VA), chiesa di S. Stefano
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Teodoro d’Errico, La Madonna col Bambino in gloria e i SS. Giovanni Battista e Orsola, 1603, olio su tela. Viggiù (VA), chiesa di S. Stefano

15 Teodoro d’Errico e maestri stuccatori, Cappella Longhi, 1603 ca. Viggiù (VA), chiesa di S. Stefano
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Teodoro d’Errico e maestri stuccatori, Cappella Longhi, 1603 ca. Viggiù (VA), chiesa di S. Stefano

Nelle guide cittadine, diversi degli altri altari sono detti ornati con pale di Battistello Caracciolo, apparentemente non conservatesi; andrà, tuttavia, rilevato come nelle quattro edizioni della Guida de’ forestieri curiosi di Pompeo Sarnelli, l’autore scriva dapprima “Caracciolo”, per passare poi a “Caraccio”, a “Caracci” e, di nuovo, a “Caraccio”, forse ipotizzando che la chiesa, siccome “lombarda”, potesse contenere opere di uno dei tre Carracci, tanto più che alcuni dipinti del Sellitto erano da taluni ricondotti a Domenichino, a Napoli negli anni Trenta del Seicento.[83] Tra le attribuzioni al Caracciolo più interessanti ce n’è una, da smentire, per un Matrimonio mistico di Santa Caterina da Siena, già nella prima cappella a destra della chiesa e sfortunatamente non rintracciata. Questa pala, grazie ad alcuni pagamenti del 1621, potrà riconoscersi come un’opera di Ippolito Borghese, pittore umbro molto attivo a Napoli.[84] Il suo committente, Giacomo Antonio Coppellini, monsignore e residente del duca di Parma a Napoli, era il patrono di questa cappella e la presenza di un funzionario del medesimo ducato nella chiesa dei Lombardi non fa che confermare la natura composita della “Lombardia” che si riuniva nella chiesa di Sant’Anna.[85]

Intorno al 1626, Massimiano Alchima, mantovano, donava al costruendo oratorio di San Carlo un dipinto rappresentante il Salvatore ritenuto di Raffaello;[86] mentre assai più difficile da quantificare è la componente veneziana della nazione, probabilmente non così forte e numerosa da avanzare pretese.[87] A tal proposito, sembra opportuno evocare le parole di Giulio Cesare Capaccio che, riferendosi a questo gruppo nazionale, chiosava: “Venetiani, se ben non può dirsi che facciano colonia, tutta volta quella serenissima republica tiene una propria casa, dove habitano i suoi residenti.”[88] E, in effetti, le energie dei residenti veneziani avvicendatisi a Napoli tra il Cinque e il Seicento si concentrarono maggiormente sul mantenimento del Palazzo di Venezia in via San Biagio dei Librai, donato loro da Giovanna d’Angiò Durazzo, che sulla chiesa di Sant’Anna.[89] Dopo alcuni interventi decorativi a spese del residente Giacomo Gerardo nel 1587,[90] le richieste di fondi per la messa in sicurezza del palazzo avanzate dai residenti furono continue, ma, evidentemente, ritenute poco urgenti dal Senato.[91]

È solo da un inventario di suppellettili allegato ad una visita pastorale del 1634 che risulta che a Domenico Domenici, residente della repubblica di Venezia presso il viceré, fosse appartenuto un tappeto per l’altare maggiore.[92] La morte del Domenici, avvenuta a Napoli nel 1628 e puntualmente registrata dai dispacci inviati al Senato veneto, potrebbe aver motivato il lascito del tappeto alla chiesa di Sant’Anna.[93] Assai più tardi, nel 1675, Guglielmo Samueli, un mercante veneziano, acquisì il patronato sulla cappella nel braccio sinistro del transetto, appartenuta per qualche tempo a Giovanni Lanfranco e alla sua famiglia e già decorata da una tela del pittore medesimo, modificata, su richiesta del Samueli, da Luca Giordano (fig. 16).[94]

16 Giovanni Lanfranco (con interventi di Luca Giordano nel 1675 ca.?), Madonna del Rosario con San Domenico e San Gennaro (già Madonna con il Bambino, Sant’Ugo e Sant’Antelmo), 1638, olio su tela, 300 × 205 cm.
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Giovanni Lanfranco (con interventi di Luca Giordano nel 1675 ca.?), Madonna del Rosario con San Domenico e San Gennaro (già Madonna con il Bambino, Sant’Ugo e Sant’Antelmo), 1638, olio su tela, 300 × 205 cm.

Apparentemente, la nazione lombarda non contò al proprio interno membri che avrebbero poi legato le loro fortune al viceregno; tuttavia, è lecito chiedersi se l’obliterazione della chiesa di Sant’Anna non possa aver contribuito anch’essa in maniera determinante a questa assenza. La variegata compagine lombarda fece un uso meno “autarchico” dei propri artisti. Il tentativo di impiegarne di lombardi si limitò a qualche episodio isolato (Caravaggio, Fede Galizia, gli stuccatori, Giulio Cesare Fontana) e, talvolta, nemmeno del tutto dipendente dalla volontà dei committenti.[95] Viceversa, dall’impiego di Carlo Sellitto, Battistello Caracciolo e Belisario Corenzio sembrerebbe che i Lombardi fossero meno auto-riferiti nella scelta degli artisti.[96] Anzi, rivolgendosi a Giovanni Balducci per gli affreschi della cupola della chiesa, forse in virtù del fatto che il pittore aveva già realizzato, all’inizio del secolo, le tavole per il soffitto di San Giovanni dei Fiorentini e per le sue abilità da frescante, dimostrerebbero un certo ritardo nell’aggiornamento del gusto. Senza dubbio questo è un caso eclatante in cui l’emulazione da parte dei governatori lombardi delle scelte compiute dai consoli fiorentini, in una competizione consapevole innescata tra le nazioni, si rivelò non al passo coi tempi.

Un elemento particolarmente agglutinante per la nazione lombarda fu, certamente, la canonizzazione del Borromeo, resa evidente dalla solerzia con cui gli fu dedicato un altare e fu, poi, costruito ex novo un oratorio. Purtroppo, l’assenza della corrispondenza continuativa di un agente lombardo a Napoli si fa sentire particolarmente in questo caso. Certamente, un osservatore “di parte” non avrebbe mancato di riportare i festeggiamenti legati alla canonizzazione del santo o le celebrazioni che, probabilmente, iniziarono a svolgersi regolarmente dal 4 novembre 1610 in avanti e sulle quali, senza dubbio, i Milanesi costruivano larga parte della loro immagine pubblica.

L’impiego estensivo di maestri stuccatori lombardi potrebbe, invece, corrispondere a un particolare gusto che i connazionali avevano per gli stucchi e a un tentativo di dare una connotazione “lombarda” alla chiesa. Potrebbe sorprendere, infine, che Cosimo Fanzago, massimo esponente dell’architettura e della scultura barocca a Napoli e pure bergamasco d’origine, non sia stato coinvolto in prima persona nella decorazione della chiesa della sua nazione.[97] Tuttavia, va sottolineato come molta della documentazione relativa alla storia della chiesa, già conservata nell’archivio della parrocchia e successiva al sunto redatto dal notaio Aversano nel 1626, sia andata persa durante le sfortunate traversie vissute dalla chiesa tra la fine del Sette e l’inizio dell’Ottocento.

I Genovesi e la chiesa di San Giorgio

I Genovesi a Napoli godono della più estesa e varia bibliografia, riflesso di una presenza massiccia nel viceregno, di strategie insediative diverse rispetto alle famiglie fiorentine – loro principali competitor nei prestiti a re e viceré – e dell’inserimento sia nel sistema feudale sia nelle maglie dell’amministrazione viceregnicola.[98] Questa pratica avrà due conseguenze principali: da una parte i Genovesi, tra i gruppi nazionali presi in considerazione, sono quelli che più di tutti penetrarono nella società napoletana, facendosi ascrivere progressivamente alla nobiltà di seggio e stabilendosi a Napoli;[99] dall’altra, questo processo di “camuffamento” o “ibridazione”, finì con indebolire la nazione genovese di Napoli rendendola, già alla metà del Cinquecento, se non la compagine di forestieri con l’identità nazionale meno forte, certamente quella meno interessata ad imporsi esclusivamente attraverso quest’identità condivisa.

Già nel periodo normanno-svevo, ai Genovesi erano stati accordati alcuni privilegi; viceversa, nel periodo aragonese, con l’aggregazione del regno napoletano all’impero catalano-aragonese, il ruolo di Genova nell’economia napoletana subì un’evidente contrazione.[100] Un successivo miglioramento sostanziale avvenne con re Ferrante, ma fu solo nel 1493 che ai Genovesi fu concesso il privilegio di poter avere consoli in tutti i regni soggetti ai re cattolici, privilegio confermato anche da Carlo V nel Cinquecento.[101] Oltre ai benefici riguardanti la libertà di commercio, il divieto di sequestrarne le merci e una serie di salvacondotti e immunità, il viceré Fernando Consalvo di Cordoba escludeva dalla competenza dei tribunali locali le controversie tra i Genovesi residenti a Napoli.[102]

Nonostante la perdita degli statuti del consolato genovese a Napoli, è risultato evidente che il mandato del console della nazione potesse durare molto più del singolo anno che accomunava sia il console dei Fiorentini sia i governatori della nazione lombarda. Tra il Cinque e il Seicento, furono in particolare membri dei diversi e numerosi rami della famiglia Spinola ad avvicendarsi alla guida del consolato napoletano e, talvolta, a creare potentati lunghi anche decenni.[103]

Della peculiarità che mostravano i Genovesi rispetto agli altri gruppi nazionali erano perfettamente consapevoli i contemporanei e, di nuovo, Capaccio, ne Il Forastiero, si concentra per svariate pagine sulle numerose famiglie genovesi che avevano rallegrato e rallegravano ancora Napoli con la loro presenza.[104] Il fenomeno era già noto da tempo e, nel 1597, Girolamo Ramusio, ambasciatore veneziano a Napoli, nella sua Relazione del Regno di Napoli, aveva scritto molto lucidamente che non solo i Genovesi nel viceregno erano numerosissimi, ma avevano anche “gran prurito d’ambizione” e

comprano feudi e si fanno titolati, che poi senza dubbio son molto più cari al re che gli altri, perché non gli sono sospetti per altezza di spiriti, e servono alla disunione de’ baroni del Regno, e a far che il re tenga sempre maggiormente la città di Genova nella sua dipendenza colla minaccia di sospendere le entrate che hanno i suoi cittadini nel Regno.[105]

Infatti, Filippo II d’Asburgo, seguendo gli insegnamenti paterni, facilitava la concessione di feudi nel viceregno napoletano a munifici banchieri genovesi con la doppia finalità di indebolire i baroni regnicoli e di legare sempre più a sé la città di Genova.

I primi Genovesi a cui furono concessi o che acquistarono feudi nel viceregno furono membri delle famiglie Pinelli e Doria. Il principe Andrea Doria era, infatti, signore di Melfi e Tursi dal 1531, Cosimo Pinelli era duca di Acerenza e signore di Giugliano, mentre, più avanti, Agostino Grimaldi divenne duca di Eboli, feudo che lasciò alla sua unica figlia andata in sposa a Marcantonio Doria, secondo duca di Eboli e primo principe d’Angri.[106] Feudi di Genovesi si concentrarono soprattutto in Terra di Bari, Terra d’Otranto e Calabria Ultra.[107]

Prima di “farsi titolati”, comunque, i Genovesi a Napoli furono mercanti e a Napoli avevano una propria loggia, una sorta di mercato coperto, nell’attuale via Loggia di Genova, nella stessa area dove si trovavano le rue Toscana, Francesca e Catalana.[108] I Genovesi possedevano anche una cappella, oggi non più esistente, nei pressi dell’infermeria della chiesa francescana di Santa Maria la Nova e in questa stessa zona si concentravano alcune case le cui rendite assicuravano il sostentamento della chiesa della nazione (fig. 17).[109] Nel 1585, all’interno di una lettera scritta al governo della repubblica da Marcantonio Lomellino, console della nazione genovese a Napoli in quel momento, si fa riferimento per la prima volta al desiderio di parte della comunità ligure di “pigliar nuovo luoco dove si fondi miglior chiesa, et ospitale”, ma, si aggiunge, sarà possibile raggiungere l’intento solo attraverso l’imposizione di “qualche gravezza nelli negotj”, cioè di una piccola tassa, che andrà approvata dal Senato genovese, sulle transazioni dei suoi mercanti. La nuova chiesa nazionale, quindi, prevedeva, fin dalla sua fondazione, spazi legati all’accoglienza dei “poveri della natione” che, fino ad allora, non avevano trovato il trattamento che avrebbero meritato.[110]

17 Alessandro Baratta, Fidelissimae urbis neapolitanae […](dettaglio), 1629, incisione su rame, 930 × 2860 mm. Napoli, Certosa e Museo di San Martino (1. Santa Maria la Nova; 2. San Giorgio dei Genovesi)
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Alessandro Baratta, Fidelissimae urbis neapolitanae […](dettaglio), 1629, incisione su rame, 930 × 2860 mm. Napoli, Certosa e Museo di San Martino (1. Santa Maria la Nova; 2. San Giorgio dei Genovesi)

Nel 1587 la natio decise di trasferirsi anch’essa nel quartiere di Santa Marta e di modificare l’edificio che era una cavallerizza reale in piazza dell’Incoronata, l’attuale via Medina (fig. 18).[111] La spesa per il suo acquisto fu di 4.700 ducati, già quello stesso anno, al suo interno si celebravano le funzioni religiose e si progettavano migliorie da effettuarsi grazie a tassazioni da imporre alla vendita di ogni balla di seta da parte di mercanti genovesi in città.[112] Alcuni anni dopo, nel 1593, il console Pietro Francesco Saluzzo, per onorare ancora 2000 ducati di debiti, proponeva al governo genovese una tassa della durata di soli cinque anni su tutte le transazioni che avvenivano a Napoli da parte di mercanti genovesi, ma nemmeno questa proposta raggiunse un buon esito.[113] Nel 1606, la costruzione della chiesa continuava a procedere a rilento, nonostante l’acquisto dai padri certosini di un nuovo terreno che avrebbe permesso di costruirne una “più grande e più magnifica”.[114] Quello stesso anno, grazie ai buoni uffici del cardinale Domenico Pinelli, si aspettava speranzosi il breve papale con cui la chiesa sarebbe diventata parrocchia della nazione e ci si rallegrava, nel 1607, per la sua ricezione.[115] Ancora nel 1614, a più di dieci anni di distanza dalla demolizione del più antico edificio, la costruzione della chiesa era molto indietro e “gente trista”, poveri e mendicanti, si erano accampati nell’edificio in costruzione, arrecando “pregiuditio a natione così florida e numerosa, habitante in città così principale”.[116] Nonostante l’ausilio di diversi notabili genovesi “pij et pronti al soccorso di opra così necessaria”, con il cui denaro i governatori della chiesa avevano completato l’erezione delle mura perimetrali, delle cappelle e la copertura della navata, il console Lagomarsino si vedeva costretto ad avanzare al governo genovese un’ulteriore proposta di raccolta fondi per raggiungere la somma di 5.000 o 6.000 ducati indispensabili al completamento della fabbrica.[117] Infine, solo nel 1619, il console Michele Cavo poteva scrivere a Genova che, “con l’aiuto oltremodo grande che ha dato, e tuttavia dà il s. Cornelio Spinola”, la chiesa sarebbe stata presto completata e la lapide tuttora visibile nella controfacciata di San Giorgio conferma la previsione del console, indicando il 1620 come l’anno di compimento dell’edificio (figg. 1920).[118]

18 San Giorgio dei Genovesi, Napoli, esterno
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San Giorgio dei Genovesi, Napoli, esterno

19 San Giorgio dei Genovesi, Napoli, interno, 1940 ca.
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San Giorgio dei Genovesi, Napoli, interno, 1940 ca.

20 San Giorgio dei Genovesi, Napoli, interno, 1940 ca.
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San Giorgio dei Genovesi, Napoli, interno, 1940 ca.

Di una costruzione e di un passaggio alla fase decorativa avvenuti a rilento sembrano dare conferma anche le visite pastorali conservate presso l’archivio diocesano napoletano.[119] Nella prima visita pastorale a descrivere la chiesa, quella del cardinale Gesualdo del 1599, non viene menzionato il patronato di nessuna cappella, come a suggerire che, nonostante il trasferimento in un’altra area della città, fossero mancati gli ulteriori sforzi necessari a completare l’edificio e a procedere all’acquisto e all’assegnazione dei patronati delle cappelle. Viceversa, l’allegato inventario delle suppellettili, attraverso gli stemmi impressi sui metalli o ricamati sui tessuti preziosi, restituisce la proprietà dei parati d’altare trasferiti dalla precedente cappella o realizzati ex novo.[120] Qui vi figurano cognomi quali Giustiniani, Spinola, Grillo e Serra e, come già per Sant’Anna dei Lombardi, sembra potersi desumere che furono membri di queste famiglie tra le più motivate a trasferirsi e a occupare una nuova chiesa.[121] A tal proposito, in una lettera del maggio 1600, il console Bartolomeo Saluzzo lamentava che Paolo Giustiniani richiedesse indebitamente il rimborso per i donativi e le migliorie apportate alla chiesa, aggiungendo che, “per essere ornamenti allora fatti per gusto e divotione sua et sotto suo nome et con le sue insegne”, nulla gli era dovuto.[122] Nello stesso inventario, numerosi sono anche i riferimenti a “l’arme della Serenissima Signoria”, cioè allo stemma della Repubblica di Genova, da sola o combinata con quella di singole famiglie, ben riconoscibili anche dall’estensore dell’inventario. Nella chiesa dei Genovesi, la presenza dello stato di provenienza dei “nazionali” era assai più evidente di quanto non avvenisse in quella dei Fiorentini o dei Lombardi e, verosimilmente, questi simboli erano anche più esibiti in occasione di feste pubbliche e processioni, quando, cioè, la chiesa si apriva a fedeli spagnoli, napoletani o di altre nazioni oppure era la nazione genovese stessa ad attraversare la città con i propri culti civici e le proprie insegne.[123] Rispetto alle altre due chiese nazionali, quella dei Genovesi era, senz’altro, quella più organica all’amministrazione del paese di provenienza; la nazione fiorentina a Napoli difendeva la propria autonomia anche dalle ingerenze provenienti da Firenze, mentre le diverse patrie che facevano capo alla nazione lombarda dovevano rendere assai difficoltoso l’accordo sui simboli di quale stato padano dovessero ricevere maggiore visibilità.

Solo dal terzo decennio del Seicento, le cappelle della chiesa di San Giorgio si popolarono di pale d’altare e il pavimento della chiesa di tombe terragne, quasi tutte riportate con una data post 1620 da Carlo De Lellis nella sua Aggiunta alla Napoli sacra dell’Engenio Caracciolo.[124] Recentemente, Ben Yessef ha notato come l’assoluta maggioranza dei Genovesi sepolti in San Giorgio non fosse titolata, un elemento su cui sarà necessario tornare alla fine di questa sezione.[125]

La chiesa, chiusa da tempo dopo un temporaneo affido all’Università “Parthenope”, presenta un’unica navata a croce latina e su ciascun lato si aprono quattro cappelle a pianta rettangolare. La navata centrale è coperta da una volta a botte, mentre in corrispondenza del transetto si eleva una cupola dall’accentuato verticalismo che poggia su di un alto tamburo finestrato e che rendeva ben riconoscibile l’edificio sacro, prima degli interventi urbanistici della seconda metà del Novecento che ne hanno pesantemente modificato la leggibilità.[126]

Tra gli autori di guide cittadine, Carlo Celano è il primo a riferire il progetto della chiesa alla mano di Bartolomeo Picchiatti, il già menzionato architetto regio di origini ferraresi.[127] Quest’ultimo, arrivato a Napoli alla fine del Cinquecento e presto impiegato da Domenico Fontana, sarebbe stato nominato luogotenente di Giulio Cesare Fontana, a sua volta architetto regio alla morte del padre, e avrebbe poi collaborato col Fontana junior a diversi interventi nella propria chiesa nazionale di Sant’Anna dei Lombardi.[128] L’ascrizione al Picchiatti della facciata originaria di San Giorgio non può sostanziarsi attraverso disegni o documenti, ma il riferimento a un “già dessignato et principiato modello” della chiesa, cui si allude in una lettera del marzo 1614, potrebbe ben conciliarsi con un progetto del Picchiatti.[129] Infatti, quello stesso anno e, poi, di nuovo, alcuni anni dopo, tra il 1618 e il 1619, il Picchiatti sarebbe stato l’architetto di fiducia della famiglia Serra, banchieri genovesi a Napoli.[130] Inoltre, non solo la frequentazione della corte vicereale potrebbe aver permesso ad alcuni magnati genovesi l’impiego di uno degli architetti di corte, ma anche la prossimità fisica e la competizione consapevole con la comunità lombarda potrebbero motivarne il coinvolgimento. A tal proposito, è da segnalare il tentativo, non andato a buon fine, di cooptare Giulio Cesare Fontana al servizio della Repubblica genovese. Una lettera del giugno 1626 scritta al Senato genovese da Cornelio Spinola forniva il profilo identificativo del regio architetto e aggiungeva che solo attraverso una particolare licenza questi avrebbe potuto lasciare il viceregno.[131] Pochi anni prima, il Fontana aveva progettato anche il nuovo oratorio di San Carlo per i Lombardi, un dato che certamente non era sfuggito al console Spinola; in ogni caso, il suo trasferimento a Genova non si concretizzò e l’architetto morì a Napoli nel giugno del 1627.

Almeno dal 1593, all’interno della nazione genovese venivano individuati i governatori della chiesa.[132] Ad un sistema di elezione di tre governatori più complesso, proposto dal console Paolo Giustiniani e da altri notabili genovesi nel 1587, dovette esserne preferito, almeno dal 1599, uno semplificato.[133] Nella visita pastorale del 1599, i governatori della chiesa erano detti essere solo due – quell’anno Giovan Francesco Spinola e Giovan Carlo Doria –, l’elezione di entrambi avveniva per voto segreto, tra i soli nobili della nazione e durante le festività natalizie.[134] Viceversa, al completamento della chiesa, nel 1620, il loro numero era salito a tre e tale dovette rimanere in seguito.[135] Con un breve di Paolo V, confermato da Gregorio XV, la chiesa fu dotata di un parrocchiano, un cappellano maggiore, tredici preti e quattro chierici.[136]

Attiguo alla chiesa era un oratorio al quale si accedeva dal coro della chiesa. Qui si svolgevano le riunioni della nazione e venivano eletti i consoli.[137] In questo stesso oratorio, si riunivano i disciplinati, una compagnia di battenti che accompagnava i morti della nazione alla sepoltura, ma nota, soprattutto, per una processione che si svolgeva il giovedì santo.[138] Nel 1638, Cornelio Spinola, console quasi ininterrottamente dal 1617 al 1649, si lamentava con la Repubblica che il tribunale dell’arcivescovo avesse sequestrato temporaneamente il cortile che permetteva ai nazionali l’accesso al loro oratorio “con che la nostra natione non ha il suo solito luogo da congregarsi per l’elettione del novo console”.[139] In ogni caso, a queste date, l’oratorio andava perdendo la sua funzione religiosa, siccome la visita pastorale del 1692 rilevava che al suo interno non si celebrava più e che era “dismesso da quarant’anni”.[140]

Com’era lecito aspettarsi, non meno lenta della fase costruttiva della chiesa fu quella che ne riguardò la decorazione. La pala tuttora sull’altare maggiore, tra le poche opere ancora presenti nella chiesa, non accessibile, è la sola a provenire dalla precedente cappella intitolata allo stesso santo ed è opera di Andrea da Salerno e Severo Ierace (fig. 21).[141] Il trasferimento della pala d’altare dalla piccola cappella alla nuova chiesa nazionale potrà interpretarsi come la rivendicazione della sua provenienza da una cappella di più antica fondazione e che poteva sopravanzare per prestigio e antichità di fondazione le rivali; il suo soggetto – la Madonna col Bambino, i SS. Giovanni Battista ed Evangelista e S. Giorgio che uccide il drago e libera la principessa – manca di una veduta di Genova che potesse legarla più puntualmente alla madrepatria, eppure, potrebbe non esser stato casuale che il vessillo crociato del santo, identico allo stemma della Repubblica genovese, sia collocato esattamente al centro della scena.

21 Andrea Sabatini da Salerno e Severo Ierace, Madonna col Bambino, i Santi Giovanni Battista ed Evangelista e San Giorgio che uccide il drago e libera la principessa, 1525 ca., olio su tavola. Napoli, chiesa di San Giorgio dei Genovesi
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Andrea Sabatini da Salerno e Severo Ierace, Madonna col Bambino, i Santi Giovanni Battista ed Evangelista e San Giorgio che uccide il drago e libera la principessa, 1525 ca., olio su tavola. Napoli, chiesa di San Giorgio dei Genovesi

Francesca Romana Gaja, in un saggio recente, ha precisato efficacemente il ruolo svolto nella decorazione della chiesa da parte di Cornelio Spinola, console genovese per circa un trentennio, ma, soprattutto, tra i più influenti mercanti di stanza a Napoli nella prima metà del Seicento e importante trait-d’union tra diverse compagini della società napoletana.[142] La studiosa ha fatto luce sul milieu culturale cui apparteneva lo Spinola, che decorò il suo altare con una pala di Giovan Francesco Romanelli con la Guarigione dell’ossesso – presenza eccentrica non solo in chiesa, ma anche, più in generale, nel contesto napoletano –, ma ha anche chiarito come, sempre grazie a lui, giunse a Napoli la pala d’altare di Domenico Fiasella, già sul quarto altare a destra di San Giorgio dei Genovesi e oggi nella chiesa della Pietà dei Turchini (fig. 22).[143] Nel dipinto può riconoscersi la “Madonna regina di Genova”, un’iconografia che era stata appena ideata dallo stesso Fiasella per farla trasporre in bronzo allo scultore Giovanni Battista Bianco. La sua monumentale scultura, compiuta nel 1651, è oggi collocata sull’altare maggiore della cattedrale di Genova.[144] L’iscrizione “Et Rege Eos” allude alla proclamazione del Senato genovese del 1637 con cui la Madonna fu fatta anch’essa patrona della città; la parte sottostante della pala, con la rappresentazione della città di Genova, a volo d’uccello invece che con l’usuale silhouette, mette in valore alcune nuove emergenze monumentali, principalmente le nuove mura e il nuovo molo costruito nel 1638 presso la lanterna: un’immagine dal forte senso civico collocata in una sorta di ambasciata genovese all’estero.[145]

22 Domenico Fiasella, Madonna regina di Genova, 1640 olio su tela, 319 × 219 cm. Napoli, Pietà dei Turchini, già in San Giorgio dei Genovesi
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Domenico Fiasella, Madonna regina di Genova, 1640 olio su tela, 319 × 219 cm. Napoli, Pietà dei Turchini, già in San Giorgio dei Genovesi

Altra presenza “nazionale” era la Crocifissione dello stesso Fiasella, pure dei primi anni Quaranta, nella quarta cappella a sinistra della chiesa, mentre tra le primissime opere che entrarono in San Giorgio dei Genovesi, da poco portata a termine, vi fu, verosimilmente, il Miracolo di Sant’Antonio di Padova di Battistello Caracciolo, nella cappella della famiglia Serra, baroni di Carovigno, oggi al museo di Capodimonte (figg. 2324).[146] Resta di difficile spiegazione come mai, alla fine del Seicento, nelle visite pastorali dei vescovi Antonio Pignatelli del 1688 e Giacomo Cantelmo del 1692, tutti gli altari, eccettuati quelli del transetto, risultassero, al contempo, decorati con una pala d’altare e pure, per la maggior parte, “senza obligo di messa”, suggerendo che nessun patronato insistesse su di loro.[147] Tuttavia, che anche in San Giorgio dei Genovesi alcuni patronati fossero stati donati a benefattori della chiesa lo suggerisce il testamento di Cornelio Spinola, laddove l’ex-console alludeva alla “Cappella de San Bernardo che io tengo in essa Chiesa donatami dalla mia Cara, et amata natione Genuese”.[148]

23 Domenico Fiasella, Crocifissione, 1640–1645, olio su tela. Napoli, Pietà dei Turchini, già in San Giorgio dei Genovesi
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Domenico Fiasella, Crocifissione, 1640–1645, olio su tela. Napoli, Pietà dei Turchini, già in San Giorgio dei Genovesi

24 Battistello Caracciolo, Miracolo di sant’Antonio da Padova, 1620–1622, olio su tela, 288 × 220 cm. Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte
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Battistello Caracciolo, Miracolo di sant’Antonio da Padova, 1620–1622, olio su tela, 288 × 220 cm. Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte

È con una vocazione eminentemente mercantile che nacque la chiesa di San Giorgio.[149] Infatti, con la sola eccezione del ramo della famiglia Serra titolare del feudo di Carovigno, in Terra d’Otranto, fino al Settecento, la chiesa dei Genovesi fu esclusivo appannaggio di una classe sociale che, pur accumulando ingenti capitali, non solo non rinunciò alla mercatura, ma nemmeno acquisì feudi nel viceregno (fig. 25). Neppure aver ricoperto la carica di console della natione rendeva consequenziale la sepoltura in San Giorgio dei Genovesi.[150]

25 Gli altari (e i patronati) di San Giorgio dei Genovesi tra 1688 e 1692
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Gli altari (e i patronati) di San Giorgio dei Genovesi tra 1688 e 1692

A questo punto, si rendono necessarie alcune brevi considerazioni sulla chiesa della nazione genovese a Roma al fine di istituire alcuni parallelismi con quella napoletana. Deve osservarsi, infatti, come manchi, a tutt’oggi, uno studio che, servendosi del patrimonio archivistico della confraternita, insista sui caratteri identitari della chiesa dei Genovesi a Roma.[151]

La chiesa di San Giovanni Battista dei Genovesi si trova nel rione Trastevere e la fondazione di un ospedale per i Genovesi si può far risalire al 1482, grazie al testamento del banchiere genovese Meliaduce Cicala, reso esecutivo grazie a una bolla di Sisto IV.[152] Nel 1553 si formava una confraternita dei Genovesi e, sei anni dopo, il Senato genovese concedeva alla confraternita di poter costituirsi come consolato ed esigere un tributo dai marinai genovesi che sbarcavano nel porto di Ripa.[153] Più avanti, nel 1576, l’assetto della confraternita fu codificato da uno statuto che poneva al suo vertice un cardinale protettore, di origine genovese, e, subito sotto di lui, due governatori, un laico e un religioso.[154] Anche per questa chiesa non sono note le vicende che portarono alla dotazione e decorazione delle sue cappelle; sono, tuttavia, interessanti alcune commissioni artistiche legate al prestigio dei loro committenti o alla nazionalità degli artisti. Infatti, il Battesimo di Cristo sull’altare maggiore è conteso tra Nicolas Regnier, un protetto del banchiere Vincenzo Giustiniani, a sua volta imparentato con Giannettino Giustiniani, governatore ecclesiastico della confraternita negli anni del soggiorno romano del pittore francese, e Domenico Fiasella, un’attribuzione di Roberto Longhi tornata recentemente in auge.[155] Di un certo interesse per l’iconografia legata a culti tipicamente liguri sono, poi, l’Apparizione della Madonna di Savona, opera del 1698 di Giovanni Odazzi, un allievo del Gaulli, e il San Giorgio e il drago, opera del 1696 di Filippo Zucchetti sul lato destro della chiesa.[156] È sfortunatamente andato perduto, ma ne reca traccia un inventario settecentesco, un altro dipinto pure dal forte valore identitario e rappresentante la Madonna col Bambino coi SS. Giovanni Battista e Giorgio e, in lontananza, la città di Genova. Non era semplicemente l’iconografia a rendere peculiare questo dipinto; esso, infatti, “fu dipinto e donato al nostro oratorio da Bernardo Castello, celebre pittore genovese, come si vede nell’inscrizzione dallo stesso fatta in detto quadro”.[157] Nei primi anni del Seicento, il pittore genovese era stato membro della confraternita, visitatore delle zitelle e, contemporaneamente, aveva ottenuto commissioni nelle più prestigiose chiese romane.[158] In tutta evidenza, anche San Giovanni Battista dei Genovesi a Roma non fu interessata da commissioni di importanti famiglie di cardinali e banchieri liguri che, il più delle volte, le preferirono chiese più prestigiose e prossime alle loro lussuose abitazioni.[159] Anche la chiesa dei Genovesi a Roma pare esser stata appannaggio di uno strato della popolazione più basso – d’altra parte era nata proprio per soccorrere e dare sepoltura ai marinai liguri a Roma – e si fregiò di alcune commissioni di qualche pregio solo alla metà e, soprattutto, alla fine del Seicento.[160] Un altro elemento in comune tra la colonia genovese a Napoli e quella romana fu la grande partecipazione alla celebrazione del giovedì santo che, a Roma, giungeva fino a San Pietro e durante la quale i confratelli genovesi si “disciplinavano”, fustigandosi.[161]

Tornando alla natione genovese a Napoli, dalla metà del Cinquecento, come anticipato in apertura, i suoi membri, diversamente dai Fiorentini e dai Lombardi, stavano entrando nel sistema feudale viceregnicolo e acquistavano feudi nel viceregno fin dal secondo quarto del Cinquecento. Diverse famiglie liguri, infatti, decisero di ottenere la cittadinanza napoletana e pure l’iscrizione ad uno dei cinque seggi nobiliari. All’iscrizione seguiva (o precedeva) l’acquisto di un giuspatronato all’interno di chiese più vicine all’abitazione di famiglia oppure in quelle più prestigiose. Per questo motivo, una cappella dei Pinelli era in San Domenico maggiore, una cappella Ravaschieri in San Giovanni maggiore, la cappella di un altro ramo dei Ravaschieri in Santa Teresa agli studi, la cappella di Lanfranco Massa, agente di Marcantonio Doria, era nella chiesa dei SS. Severino e Sossio, mentre la committenza del Doria medesimo si orientò soprattutto verso la chiesa della SS. Trinità delle Monache.[162] Questa disseminazione in diverse chiese napoletane potrà, quindi, suggerire una nazione se non da sempre “disunita”, come lamentava il console Paolo Grillo nel 1606, certamente orientata fin dall’inizio a infiltrarsi nelle maglie del ceto dominante locale appropriandosi anche dei luoghi che non le sarebbero stati di competenza.[163] Per fare questo, i banchieri genovesi seguivano anche un’accorta politica matrimoniale che, come notò per primo Aurelio Musi, imponeva anche a Napoli unioni endogamiche per i maschi della famiglia ed esogamiche per le femmine.[164]

Infine, tra Sette e Ottocento, la situazione in San Giorgio dei Genovesi mutava ulteriormente: le nuove famiglie che godettero del patronato di una cappella – gli Imperiali e i Saluzzo – non appartennero più ad un’élite internazionale, ma ad un’élite che, ormai, attraverso matrimoni e assennati acquisti di feudi, si era fatta locale: la trasformazione poteva dirsi davvero compiuta.[165]

Conclusioni

Alcuni aspetti della storia e dell’identità delle tre chiese e rispettive nazioni sin qui descritte non hanno potuto trovare spazio nelle pagine precedenti. Si pensi, ad esempio, alla questione della cittadinanza napoletana che percorre in maniera sotterranea questo studio.[166] Per un mercante forestiero, i vantaggi derivanti dall’acquisizione della cittadinanza napoletana non erano poi così più numerosi rispetto ai privilegi già concessi alle tre nationes considerate.[167] Saranno necessarie, quindi, ulteriori indagini per comprendere meglio perché alcuni dei Neapoli commorantes decisero di conseguire la cittadinanza napoletana.

Dallo spoglio delle numerose guide cittadine e, soprattutto, dallo scandaglio delle visite pastorali proviene la maggior parte delle informazioni indispensabili per procedere alla ricostruzione, in senso non troppo figurato, della storia (e) di questi tre edifici. È, tuttavia, la possibilità di scavare nella vita delle tre comunità a restituire con maggiore chiarezza attraverso quali elementi ciascuna di esse – spesso con rilevanti spaccature al proprio interno – decise di mostrarsi in città.

Il tentativo di rintracciare peculiarità e differenze delle tre nazioni forestiere oggetto di questo studio, al fine di individuarne le rispettive identità, potrebbe muovere ulteriormente su due piani, approfondendo, per un verso, le scelte destinate a rimanere interne alla comunità stessa oppure, viceversa, quelle dirette a connotare, rappresentare e comunicare la singola nazione, in maniera univoca, alle sue rivali e alla cittadinanza napoletana. Non sempre questi due piani si offrono ad un’agile distinzione: i Fiorentini si presentano coesi, ma risultano anche isolati e, nel Seicento, ormai estromessi dai prestiti alla corte, mentre i Lombardi, spaccati al loro interno (almeno) tra milanesi e veneziani, appaiono, allo stesso tempo, meno uniti, ma anche più aperti all’immissione nella loro confraternita di membri di altre nationes (“debbia accettare ogn’uno per Confrate, sia di che natione si voglia, ò sia”). A loro volta, i Genovesi sono la nazione che più spesso, in occasioni pubbliche, si propone con forti tratti identitari, mostrando le proprie insegne civiche sia in chiesa, sia durante la processione dei battenti del giovedì santo, una festa resa quasi nazionale, sia in occasione della festa di San Giorgio; d’altra parte, i feudatari viceregnicoli di origine genovese si disinteressarono alle sorti della chiesa nazionale.[168]

Non fu solo la scelta di confermare i propri canoni artistici ed estetici e di fare ricorso ad artisti e maestranze connazionali e, quindi, estranee al contesto napoletano a connotare le identità delle tre nazioni. Risulterebbe fuorviante lasciar prevalere il dato dell’impiego preminente di opere di connazionali e di elementi distintivi predominanti – si pensi agli stucchi per i Lombardi – a fronte di una complessità derivante da composizione, stimoli e opportunità diverse della variegata congerie umana confluita a formare ciascuna comunità.

Solo avvicinando la lente dello storico a singoli episodi di committenza e studiandone i protagonisti, possono intuirsi origini e ricadute di determinate scelte. Non segnalati, finora, proprio a causa della loro eccentricità sono una serie di casi emblematici di identità “meticce” o multiple, non meno interessanti a causa della loro problematicità. Baltasar Suarez de la Concha, cavaliere di Santo Stefano di origini spagnole, commissionò uno degli Apostoli in marmo in San Giovanni dei Fiorentini, mentre Jacopo Vecchietti, mercante fiorentino, fu nominato console della nazione francese a Napoli; Giovan Battista Avenatri, governatore bergamasco della nazione lombarda, sposò la figlia del fiorentino Michele dell’Erede e si fece seppellire nella cappella del suocero, mentre, alla fine del Seicento, nella chiesa dei Lombardi, c’era una nuova cappella di patronato Spinola.

Altri elementi ancora possono essere d’aiuto alla ricostruzione di complesse identità nazionali e possono offrire conferme o smentite in ordine ai rapporti che, nel corso dei secoli, legarono i gruppi di connazionali fra loro e le singole comunità al viceregno. Il numero e l’ammontare delle doti che ciascuna nazione riservava alle proprie zitelle, le disposizioni per messe da celebrarsi presso gli altari delle cappelle, i riferimenti ai colori e agli stemmi ricamati sui parati d’altare o cesellati sui serviti d’altare dicono molto altro su ciascuna di loro.

Infine, bisognerà insistere su quanto Andrea Zannini aveva intuito valere per la popolazione di Venezia in età moderna:

In sintesi, solo per una minoranza composta da nobili, originari e veneziani di lunga data doveva sussistere un nucleo di valori, di idee di appartenenza nel quale aveva posto esclusivamente Venezia come città e patria di residenza. Più frequente doveva essere, a livello individuale, una ‘identità mista’, in cui cioè l’attaccamento alla Dominante conviveva con sentimenti che rinviavano alla terra d’origine, alla comunità di partenza; in termini collettivi, poi, è forse più utile pensare ad una sorta di ‘identità multipla’, comprendente quindi tutte le diverse provenienze ed appartenenze esistenti.

Modificando il contesto, l’idea di ‘identità mista’ o ‘multipla’, comune a numerosi membri del ‘popolo’ di Venezia, dovette rappresentare la norma assai più spesso che l’eccezione anche per molti dei nostri Neapoli commorantes.[169]

Questo articolo è tra gli esiti delle ricerche svolte grazie ad un assegno di ricerca biennale erogato dal Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa (Progetto di Eccellenza I tempi delle strutture. Resilienze, accelerazioni e percezioni del cambiamento [nello spazio euromediterraneo] per il quinquennio 2018–2022). Ringrazio per i proficui scambi di idee Cinzia Sicca, cui questo articolo è dedicato, e Susanne Kubersky-Piredda, per gli aiuti e gli spunti di varia natura Yasmina R. Ben Yessef Garfia, Madeline Delbé, Davide Ferri, Margherita Fratarcangeli, Francesca Romana Gaja, Sabrina Iorio, Giuseppina Medugno, Riccardo Petrella e i proff. Pierluigi Leone de Castris e Giuseppe Porzio.

About the author

Vincenzo Sorrentino

Vincenzo Sorrentino si è laureato presso l’Università di Pisa nel 2014 e si è poi addottorato nel 2018 presso l’Università di Firenze. Le sue ricerche dottorali sulla famiglia Del Riccio sono trasposte in A Patron Family Between Renaissance Florence, Rome, and Naples: The Del Riccio in the Shadow of Michelangelo; Routledge 2022. Ha pubblicato saggi e articoli sui rapporti tra Firenze e Napoli in età moderna ed è ora assegnista presso l’Università di Roma Tor Vergata.

  1. Fonti delle immagini: 1, 2, 7, 17 Gallerie d’Italia, Napoli. — 3, 4, 9, 14, 15, 18, 25 autore. — 5, 8, 16, 19, 20 Ministero della Cultura, Roma. — 6, 11, 12, 2124 © Pedicini Fotografi, Napoli. — 10, 13 © Sant’Anna dei Lombardi, Napoli.

Published Online: 2024-08-30
Published in Print: 2024-09-25

© 2024 Vincenzo Sorrentino, published by De Gruyter

This work is licensed under the Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.

Downloaded on 9.11.2025 from https://www.degruyterbrill.com/document/doi/10.1515/zkg-2024-3004/html
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