Abstract
The term “false etymology” refers to the imaginative reconstruction of the origin and history of a word, widely circulating among laymen despite its lack of any scientific foundation. Based on a corpus of false etymologies of Italian, French and Spanish words (and occasionally of other Romance languages and dialects), the article attempts a definition and classification of the phenomenon, according to the classes of words affected and the techniques by which words are analyzed, as far as both their forms and meanings are concerned. A reflection on the social function of false etymologies is also provided, as well as considerations on how false etymologies originate and spread in contemporary societies.
1 Premessa
«Les êtres humains sont habités par un irrépressible besoin de croire à tout prix, même les choses les plus irrationnelles. C’est ainsi que s’explique, entre autres, la popularité de l’astrologie ou de la chiromancie. Il ne faut donc pas s’étonner qu’en matière d’étymologie, il en aille de même: le public préférera toujours une bonne histoire, fût-elle invraiesemblable, à un aveu d’ignorance».[1]
Con queste parole si apre un articolo di André Thibault, di taglio divulgativo, dedicato all’etimologia della voce québécoise enfirouâper ‘imbrogliare, infinocchiare’, nel quale si dimostra l’assoluta implausibilità di una derivazione del verbo dalla locuzione inglese in fur wrap ‘avvolgere nella pelliccia’: una ricostruzione priva di fondamento, tanto sul piano formale e semantico quanto su quello della diffusione e storia della parola, eppure molto accreditata presso i canadesi francofoni. Il titolo dell’articolo è brillante: Ne vous laissez pas enfirouâper par de fausses étymologies.
La locuzione fausse étymologie usata da Thibault, nel titolo e anche nell’articolo,[2] ha corrispondenti in molte lingue romanze, dal portoghese allo spagnolo al catalano – per il quale è persino disponibile un Diccionari català de falses etimologies (Espinàs 1984) – all’italiano e al rumeno. È usata per indicare quelle ricostruzioni di storie di parole che, pur mancando di qualsiasi fondamento scientifico, circolano diffusamente presso i non specialisti. Si raccolgono di seguito, a titolo di esempio, alcuni casi riguardanti parole spagnole, francesi e italiane (le etimologie reali, cioè scientificamente accertate o verosimili, sono indicate tra parentesi quadre):
sp. don titolo onorifico < D.O.N., acronimo del sintagma De Origen Noble ‘di origine nobile’ [lat. dom(i)nu(m); REW 2741; DCECH II, 529b]
sp. horchata ‘orzata’ < valenz. or, xata, dal commento entusiastico Açò es or, xata! ‘Questo è oro, ragazza!’ che avrebbe espresso Giacomo I di Aragona quando, conquistata la città di Valencia nel 1238, avrebbe assaggiato la bevanda offertagli da una fanciulla del posto [lat. hordeata, derivato di hordeu(m) ‘orzo’, probabilmente attraverso il romanzo andaluso; DCECH III, 392b–393a; DECLC VI, 97a]
sp. Pepe ipocoristico di José < P.P. (pronunciato Pe Pe), acronimo del lat. Pater Putativus, in riferimento a Giuseppe di Nazaret, padre non biologico (dunque «putativo») di Gesù [ultime due sillabe dello sp. Josepe, forma arcaica del nome < lat. Iosep(h), con anticipazione della consonante iniziale della seconda]]
fr. bistro < russo bystro ‘presto!’, dall’esortazione che le truppe cosacche, entrate a Parigi nel marzo 1814, avrebbero rivolto agli osti locali per farsi portare da bere [etimo ignoto, ma probabilmente collegato ad altre voci francesi di origine oscura come bisquier, bi(s)trou, bistaud e bastringue; FEW XXII/2, 260a]
fr. truchement nell’espressione par le truchement de ‘per mezzo di’ < truc ‘trucco’, con applicazione del suff. ‑ment [ar. tarǧumān ‘interprete’, dunque ‘intermediario’; REW 8580; FEW XIX 182a–b]
it. corrotto < cor(e) rotto (o lat. cor ruptum), perché chi si lascia corrompere resterebbe con il cuore infranto [part. pass. di corrompere < lat. corrumpere; EVLI 284a]
it. marmellata < fr. Marie est malade ‘Maria è malata’, frase che sarebbe stata pronunciata dal cuoco di Maria de’ Medici (ma esistono anche versioni che chiamano in causa altre regine con lo stesso nome) il quale, per rimettere in forze la regina, avrebbe preparato la prima confettura [port. marmelada ‘cotognata’, derivato di derivato di marmelo ‘mela cotogna’, a sua volta dal grecismo lat. melimelu(m); REW 5478; DELIN 937 c; EVLI 675a; VoSLIG s. v.]
it. mignotta ‘prostituta’ < lat. m. ignota (dove m. sta per mater), formula che sarebbe stata usata nei registri delle istituzioni caritatevoli in riferimento ai neonati abbandonati da madri che non potevano permettersi di allevarli [fr. mignote ‘favorita’; DELIN 979 a; oppure formazione italiana parallela al fr. mignote, dalla stessa radice *mīn-/*mīgn- probabilmente appartenente alla famiglia di mīnor ‘più piccolo’; EVLI 708a]
it. panettone < mil. pan de Toni ‘pane di Toni’, dal nome del presunto inventore del dolce, un fornaio meneghino chiamato Toni [adattamento del mil. panatton, derivato di pan(e) + i suff. -ett(o) e -on(e); DELIN 1121c–1122a; EVLI 819a; VoSLIG s. v.]
it. ufo nell’espressione a ufo ‘a spese altrui’ < A.U.F.O., acronimo della formula Ad Usum Florentinae Operae, che sarebbe stata impressa, nel Trecento, sui materiali portati a Firenze per la costruzione del duomo di Santa Maria del Fiore, così da esentarli dalle tasse (una versione parallela deriva il termine dalla sigla A.U.F., cioè Ad Usum Fabricae, e riferisce la stessa storia ai materiali portati a Roma per l’edificazione della Basilica di San Pietro) [dal gotico ufjo ‘abbondanza’, oppure adattamento del settentrionale uf, da luf ‘lupo’, con discrezione dell’articolo e significato figurato di ‘fame, voracità’; EVLI 1281a]
sp. amor, fr. amour, it. amore < a- privativo + lat. mors ‘morte’, perché l’amore è tanto forte da vincere la morte [lat. amore(m); REW 427; DELIN 98 a; EVLI 38a–b]
sp., fr., it. snob < S. Nob., per il lat. Sine Nobilitate ‘senza nobiltà’, a indicare un parvenu che si dà arie da nobile [ingl. snob ‘ciabattino’, usato nel gergo degli studenti universitari inglesi per riferirsi, con intento denigratorio, dapprima a una ‘persona rozza’, poi a un ‘finto aristocratico’; DELIN 1546 a; EVLI 1125a–b]
sp., fr., it. spa ‘stazione termale’ < S.P.A., acronimo della locuzione lat. Salus Per Aquam ‘salute attraverso l’acqua [toponimo belga Spa, città nota per le sue sorgenti termali].
Il fenomeno è dunque tutt’altro che raro, nelle lingue romanze e anche, come si vedrà, in molte altre lingue europee e persino non europee (cf. §4). Ciò nonostante, non ha ricevuto finora sufficiente attenzione da parte dei linguisti, a differenza dell’etimologia popolare, con cui le false etimologie (d’ora in poi FE) hanno vari aspetti in comune. Il diverso trattamento è spiegabile per il fatto che, come osservava già Zamboni (1976, 104), l’etimologia popolare non è «un’interpretazione di fatti linguistici», ma «un fatto linguistico essa stessa», il che comporta che il linguista non possa prescinderne. Dalle FE, invece, i linguisti non solo possono, ma devono prescindere, se vogliono pervenire a risultati scientificamente plausibili. Di qui gli scarsi riferimenti alle FE nei lavori specialistici, quasi tutti peraltro in negativo, cioè funzionali a illustrare l’inconsistenza delle ricostruzioni correnti per eventualmente proporre soluzioni alternative scientificamente fondate, come avviene nell’articolo di Thibault.[3]
Eppure le FE costituiscono un oggetto di studio d’indubbio interesse per il linguista, per diversi motivi. In prospettiva sincronica, consentono di riflettere sul funzionamento dei processi di motivazione semantica, soprattutto per quel che riguarda la percezione dei tratti salienti dei designata. In prospettiva diacronica, si caratterizzano a volte come etimologie popolari mancate, ossia rimotivazioni non impostesi a livello di langue, e meritano quindi di essere indagate alla stregua delle paretimologie, con cui condividono alcune dinamiche reinterpretative (cf. §3). Sul versante della storia della linguistica, permettono di osservare da parte dei parlanti l’inconsapevole riproposizione di tecniche e metodi dell’etimologia preottocentesca, a volte a distanza di millenni (cf. §§4 e 5). Infine, sul piano dell’analisi del discorso sono assimilabili a testi, di carattere ora descrittivo-esplicativo ora più marcatamente narrativo e persino argomentativo, ciascuno veicolante una particolare connotazione del referente.
Per tutte queste ragioni può risultare non inutile tentare una definizione del fenomeno e una classificazione delle sue manifestazioni, con l’ambizione di fare dell’etimologia non scientifica un oggetto di studi scientifico. Lo si fa con piena consapevolezza dei limiti di questa prima indagine, soprattutto per quel che riguarda il corpus, costituito da poche decine di ricostruzioni fantasiose di storie di parole italiane, francesi e spagnole (e occasionalmente di altre lingue e dialetti romanzi) raccolte casualmente, per lo più in rete: un corpus dunque privo dei requisiti minimi di rappresentatività e sistematicità che si richiedono normalmente a una ricerca scientifica. Tuttavia, da questo corpus ottenuto faute de mieux emergono tendenze già piuttosto definite, che paiono consentire alcune generalizzazioni.[4]
In quest’articolo si proverà allora anzitutto a delimitare il campo, definendo che cosa sono le FE e in che cosa si distinguono dalle etimologie popolari, con cui vengono spesso confuse (§2). Si tenterà quindi d’individuare quali classi di parole sono maggiormente interessate dal fenomeno (§3) e quali modalità d’analisi dei segni ricorrano più di frequente, sul versante formale (§4) e semantico (§5). Infine, ci s’interrogherà sulla circolazione e fortuna delle FE nelle società odierne (§6), una fortuna che persiste malgrado che sia disponibile, ormai da più di due secoli, una scienza etimologica pienamente riconosciuta come tale.
2 Definizione del fenomeno
Il Grande dizionario italiano dell’uso di De Mauro, tra i pochi lessici a registrare la locuzione falsa etimologia, così la definisce: «derivazione arbitraria o erronea di una parola da un’altra in base a somiglianze formali ma senza una reale origine comune» (GRADIT II, 1022b). Si tratta di una formulazione poco soddisfacente, perché troppo limitata. Infatti, la mancanza di una «reale origine comune» è una caratteristica frequente, ma non strettamente necessaria affinché un’etimologia possa considerarsi «falsa». Questo perché, com’è stato parallelamente osservato nel recente dibattito sulle cosiddette fake news (Wardle 2017; Wardle/Derakhshan 2017, 16–17), la falsità non è un valore assoluto e può manifestarsi in varie tipologie, con una diversa commistione di elementi non reali e reali.
Si può dare il caso, per esempio, di un etimo reale, a cui si abbina però una ricostruzione fantasiosa della trafila semantica. Di questo tipo è la FE del veneto ombra ‘bicchiere di vino’, che una storiella molto diffusa localmente spiega per l’uso antico – per la verità non documentato – di allestire le mescite all’ombra dei campanili, in particolare sotto il campanile di San Marco a Venezia.[5] La derivazione da ombra è corretta, ma l’evoluzione semantica è tutt’altra, come intuito già da Folena (1973 [2015]), e muove dal significato figurato di ‘piccola quantità’, facilmente spiegabile a partire da ‘proiezione’ (dunque ‘debole parvenza’), ben documentato in italiano e nei dialetti italiani in contesti analoghi (per es. un’ombra di caffè).
Analoghi casi di etimi reali e trafile semantiche fantasiose si osservano in relazione a composti, polirematiche e locuzioni, che risultano trasparenti nei loro singoli elementi, ma di cui sfugge la motivazione complessiva. Un esempio interessante, di cui riferisce Gabriel Contini Abilio (2023), è il port. criado-mudo, lett. ‘servo muto’, che designa il ‘comodino’. La parola è un calco sull’ingl. dumbwaiter ‘montavivande’ e ha, nella sua accezione originaria, una motivazione relativamente accessibile: il montavivande svolge infatti la stessa funzione di un cameriere (waiter) nel trasportare i cibi dalla cucina ai piani superiori di una villa o un albergo, ma si caratterizza per essere una macchina, dunque è muto (dumb) – il linguaggio essendo l’attributo più immediatamente e facilmente collegabile al tratto [+umano] –. Tale motivazione però non è più recuperabile per i lusofoni, per via dello slittamento semantico da ‘montavivande’ a ‘comodino’, dunque da macchina mobile a tavolino stabile.[6] L’opacizzazione della motivazione semantica, insieme con l’impossibilità per i parlanti di riconoscere nel composto un elemento esogeno (com’è normale per i calchi strutturali), ha posto le premesse, in Brasile, per la diffusione di una FE ideologica (cf. §6), secondo cui il criado-mudo si chiamerebbe così in ragione dell’obbligo, anch’esso naturalmente non attestato, che i padroni europei avrebbero imposto ai propri schiavi africani di vegliare in silenzio in piedi accanto ai loro letti mentre dormivano, così da averli a disposizione in qualsiasi momento, anche in piena notte. Malgrado la totale inverosimiglianza storica, la FE si è talmente diffusa nel paese sudamericano da far sì che criado-mudo sia diventato ormai una parola tabù, e venga sempre più spesso sostituito, nelle campagne pubblicitarie e in altre forme di comunicazione pubblica, con la polirematica mes(inh)a de cabeceira (lett. ‘tavol(in)o da testiera (del letto)’).[7]
Meno frequente, ma pur sempre possibile, è la fattispecie inversa, vale a dire una corretta ricostruzione della trafila semantica, che si accompagna però a un etimo fantasioso. Come esempio si può portare la già menzionata derivazione di snob dal lat. S(ine) Nob(ilitate): il significato originario del termine è effettivamente quello di ‘persona non nobile, parvenu’, ma l’etimo è l’ingl. snob ‘ciabattino’, impiegato nel gergo degli studenti inglesi dell’Ottocento per indicare chi era estraneo al proprio ambiente, dunque una ‘persona rozza, di basso ceto’. Anche la FE dello sp. don da D(e) O(rigen) N(oble), un altro degli esempi già citati in §1, coglie abbastanza nel segno per quel che riguarda il significato, dal momento che l’etimo reale, il lat. dominus, corrisponde effettivamente a ‘signore’.
Va considerato infine il caso molto particolare dello scambio di etimologie, ossia l’attribuzione a una parola dell’etimologia di un’altra parola, sul versante tanto della forma quanto della semantica. Di quest’ultimo tipo, che sembrerebbe assai raro, è la FE dell’it. corrotto ‘chi si lascia corrompere’ dal lat. cor ruptum: l’etimo cor ruptum è reale, nel senso che è stato realmente proposto dai linguisti, ma non per questa parola, bensì per la voce omonima dell’it.ant. corrotto ‘lamento, pianto per un morto’.[8] A essere falsa è quindi non l’etimologia, bensì la sua attribuzione a una parola diversa da quella per cui la ricostruzione è stata proposta.
Da questa rapida rassegna si ricava allora che una FE non dev’essere integralmente falsa per potersi considerare tale. O meglio, che la non corrispondenza alla reale storia della parola è un elemento poco utile alla sua definizione – del resto, anche le etimologie dei linguisti possono rivelarsi parzialmente o integralmente errate –. Ciò che invece appare dirimente è l’irriducibilità delle FE a parametri scientifici, nel metodo delle ricostruzioni, prima ancora che nei loro risultati. «Falso» va dunque inteso non come ‘non vero’, ma come ‘non falsificabile’ nella ben nota accezione popperiana del termine (Popper 1970), il che spiega perché un’etimologia possa essere giudicata sicuramente falsa anche se l’etimo reale della parola resta ancora ignoto, come nel caso già illustrato del fr. bistro.[9]
C’è poi un secondo elemento della definizione del GRADIT che appare fuori focus, ossia l’insistenza sulle «somiglianze formali» quali innesco del fenomeno. Qui è probabile che chi ha redatto la voce abbia confuso le FE, da intendersi – lo si è appena chiarito – come ricostruzioni non scientifiche delle storie delle parole, con le etimologie popolari (o paretimologie).[10] Queste ultime, in effetti, si producono solo se una parola o una sua porzione sono accostate a un’altra parola o a un suo segmento formalmente simili (Olschansky 1996, 107), come nei casi da manuale del fr. fumier (dal lat. fimariu(m), con influenza paretimologica di fumer ‘fumare’) e dell’it. stravizio (dal croato zdravica, con influenza paretimologica del pref. stra- e di vizio).[11]
Anche nelle FE l’innesco è solitamente formale (si pensi agli accostamenti di bistro con bystro, di truchement con truc, nonché alle sciarade – cf. §4 – del tipo di or-xata, cor-rotto, pan-e(t)-Tone ecc.), ma possono darsi pure esempi d’innesco semantico, senza alcun ruolo della forma. In uno di questi ho avuto modo d’imbattermi in un mio contributo di qualche anno fa, dedicato alla voce romanesca grattachecca, designante un sorbetto ottenuto versando sciroppi vari su del ghiaccio grattugiato (Baglioni 2020). La parola è evidentemente un composto VN con primo elemento grattare: il problema, tanto per i linguisti quanto per i non specialisti è -checca, dal momento che né l’ipocoristico Checca (da Francesca) né il gergale checca ‘omosessuale’ sono coerenti con la semantica del composto. Di qui lo sviluppo di una FE diffusa in rete, secondo cui checca sarebbe un «termine con il quale un tempo si identificava il grosso blocco di ghiaccio utilizzato per refrigerare gli alimenti quando ancora non esistevano i frigoriferi», come si legge nella pagina Wikipedia dedicata al dolce.[12] È evidente che all’origine dell’attribuzione a checca del valore di ‘ghiaccio’, che non ha attestazioni in romanesco ed è del tutto ingiustificata sul versante etimologico, sta la caratteristica del designatum, quella cioè di essere un dolce ricavato «grattando il ghiaccio». La FE rimedia pertanto all’opacità formale inventando per checca un originario significato di ‘ghiaccio’, che rende il composto pienamente trasparente, e ciò in assenza di qualsiasi appiglio con parole come ghiaccio, gelo, freddo, dunque su un piano esclusivamente semantico. Ciò è possibile perché, come si è già avuto modo di notare in §1, a differenza delle etimologie popolari le FE restano ricostruzioni di storie di parole, dunque non influiscono sull’evoluzione delle parole stesse: il porsi come interpretazioni diacroniche del segno le esime da una sua rimotivazione in sincronia, e quindi dall’individuazione di un vocabolo compatibile non solo nel significato, ma anche nella forma.
In conclusione, facendo la sintesi di quanto osservato finora, si potranno definire le FE come ricostruzioni non scientifiche – dunque non verificabili né confutabili su un piano propriamente storico-linguistico – delle storie delle parole, nella loro interezza oppure solo per quel che riguarda la trafila semantica o l’etimo (o anche solo una parte dell’etimo, come nel caso di grattachecca). Trattandosi di ricostruzioni delle vicende delle parole, proprio come le etimologie scientifiche, le FE restano ben distinte dalle etimologie popolari, che sono invece parte integrante di tali vicende, e agiscono pertanto con maggiore libertà, dal momento che non necessitano di un innesco formale e possono svilupparsi anche solo per impulso del significato delle parole analizzate.
3 Ambiti d’occorrenza
A differenza dell’etimologia scientifica, che si applica a tutto il lessico di una lingua (benché con un’attenzione che varia da parola a parola, secondo il grado di complessità richiesto dall’individuazione dell’etimo e dalla ricostruzione della storia di ciascuna voce), le FE si concentrano in settori circoscritti del vocabolario. Questa selettività è una caratteristica precipua delle FE, anche se non propriamente definitoria, che merita dunque un approfondimento a sé.
Anzitutto, andrà osservato che le parole oggetto di FE sono per la stragrande maggioranza nomi. Le occorrenze al di fuori di questa categoria sono rare, e parrebbero riguardare soprattutto participi passati con funzione aggettivale: oltre al caso di corrotto, già commentato in §§1 e 2 e su cui si tornerà nei prossimi paragrafi, si possono portare gli esempi del port. enfezado ‘irritato, innervosito’ (di etimo oscuro per il DELP II 402b), che i parlanti riconnettono a fezes ‘feci’, quindi ‘pieno di feci’ e per questo ‘nervoso’, e del veneziano incandìo (oggi impiegato esclusivamente nella locuz. seco incandìo ‘magrissimo’), che una fortunata leggenda metropolitana collega alla guerra di Candia (1645–1669), cioè Creta, per via della fame patita dai veneziani dell’isola sotto il lungo assedio turco.[13] Pochissimi i verbi, come l’enfirouâper da cui abbiamo preso le mosse, e apparentemente assenti gli avverbi, eccezion fatta per locuzioni del tipo di par truchement de e a ufo, dove comunque le FE si applicano solo ai nomi contenuti nei sintagmi.
Un altro fattore determinante è la forma delle parole. Le FE riguardano infatti vocaboli dall’articolazione solitamente opaca, o perché monomorfematici e dunque non internamente segmentabili, come don, snob e spa, o perché prestiti adattati la cui derivazione non è più accessibile nella lingua ricevente, come marmellata e truchement, o ancora perché voci del lessico ereditario rimaste «orfane» della famiglia lessicale d’appartenenza, come nel caso di horchata, che a differenza dell’italiano orzata risulta non trasparente, perché in spagnolo il lat. hordeum ‘orzo’ non si è continuato. Sotto quest’aspetto, il campo d’azione delle FE si sovrappone largamente a quello delle etimologie popolari, soprattutto per quel che riguarda «relatively long, polysyllabic, words, characteristically belonging to erudite or exotic vocabulary» (Maiden 2020, 3). All’esigenza di motivare un segno la cui articolazione interna risulti poco o per nulla perspicua possono ricondursi anche i frequenti casi di FE di toponimi, come la derivazione di Apricena (Foggia) dal lat. apri cena ‘cena (a base) di cinghiale’ (la leggenda vuole che Federico II abbia fondato il paese offrendovi un lauto banchetto di selvaggina cacciata nei boschi circostanti), Bergamo dal ted. Bergheim ‘dimora di montagna’, Marghera (Venezia) dal veneto mar ghe gera ‘mare c’era’ (espressione con la quale si sarebbe indicata la zona del porto, un tempo paludosa), Sovicille (Siena) dal lat. suavis locus ille ‘è dolce quel luogo’ e Ventotene (Latina) dalla constatazione in dialetto locale Vento tène ‘ha vento’.[14] Anche in questo caso, il parallelo con le etimologie popolari è evidente, dato che la toponomastica (e l’onomastica in genere) è notoriamente uno degli ambiti in cui le paretimologie si registrano più di frequente (Loporcaro 2014, 173–174). Talvolta i due fenomeni possono perfino ritrovarsi nello stesso toponimo, in una sorta di catena di trazione: l’evoluzione di Pandateria in Ventotene è stata turbata dall’accostamento paretimologico a vento, il quale a sua volta ha consentito la FE vento + tène.
Diversamente da quel che accade con le etimologie popolari, però, le FE possono applicarsi anche a parole pienamente trasparenti, per esempio amore, il cui rapporto con amare è ben presente a tutti i parlanti, oppure corrotto, in relazione ancor più stretta con corrompere, perché appartenente al medesimo paradigma verbale. Entra qui in gioco un altro fattore ancora, quello semantico: si tratta infatti di voci sentite dai parlanti come particolarmente significative, in quanto inerenti ai campi dei sentimenti e dell’etica, e come tali sottoposte a interpretazione fantasiosa malgrado che la reale derivazione sia facilmente attingibile. Una considerazione analoga si può fare per panettone, il cui rapporto con pane è ancora sincronicamente ben saldo, data anche la piena produttività nell’italiano odierno dei suff. -etto e -one, ciò che consente anche al non linguista di «smontare» senza troppi problemi la parola nelle sue componenti pan- + -ett- + -one (complice la disponibilità, a livello paradigmatico, di segni articolati allo stesso modo: calzettone, mollettone, scopettone). Qui a sollecitare la FE è la vicinanza «affettiva» del parlante nei confronti del designatum, un dolce tipico lombardo e, ormai, panitaliano, che assume importanza in virtù della propria rappresentatività nella tradizione gastronomica locale e nazionale, dunque in funzione in qualche modo identitaria. Lo dimostra indirettamente l’assenza della stessa FE per parole come mollettone e scopettone, i cui referenti pure potrebbero aver avuto un mitico inventore di nome Toni, ma nei confronti dei quali l’interesse del parlante non è altrettanto elevato.
La vicinanza si manifesta infine anche a un altro livello, quello cioè (dia)variazionale, che coinvolge in particolare la diatopia e la diafasia. Dagli esempi esaminati finora è emerso infatti che una parte consistente delle FE tende ad applicarsi al lessico regionale – quando non dialettale tout court –, come nei casi di enfirouâper, grattachecca, ombra e incandìo. Affine al lessico regionale è poi il campo della toponomastica, nel quale – lo si è visto – le FE sono frequenti e pervengono in molti casi a etimi dialettali. Le ragioni di questo addensamento delle FE in settori del vocabolario diatopicamente marcati sono molteplici: sicuramente influisce la minore disponibilità (o quanto meno la minore notorietà e circolazione) di strumenti lessicografici attendibili per le varietà locali, il che incoraggia ricostruzioni amatoriali, con gradi di verosimiglianza assai variabili; c’è però anche qui un elemento affettivo e identitario, che favorisce la produzione e trasmissione di FE quali mezzi per ricordare (o inventare di sana pianta) antiche tradizioni del posto a partire dal lessico encorico. Una dinamica affine si ravvisa anche con le voci colloquiali e gergali, che appaiono maggiormente passibili di false interpretazioni etimologiche rispetto al resto del lessico. Si è già fatto cenno, in §1, ai casi di mignotta e a ufo, nonché del romanesco gianna (§2 nota 9). Si può aggiungere quello, riportato da Contini Abilio (2023), della locuzione port. cuspido e escarrado, lett. ‘sputato e scatarrato’, usata nel parlato informale per indicare una somiglianza rimarchevole (non diversamente dall’it. sputato e dal fr. craché): una diffusa FE la spiega come fraintendimento di un originario esculpido em Carrara ‘scolpito a Carrara’, quindi riprodotto con il marmo pregiato della città toscana e perciò, data la qualità del marmo, ‘replicato perfettamente’.
Dagli esempi fin qui esaminati si evince allora una chiara predicibilità delle parole oggetto di FE, sulla base della categoria lessicale, della trasparenza formale, della pregnanza semantica e della marcatezza d’uso, come illustrato schematicamente di seguito (la direzione della freccia indica la maggiore/minore possibilità di falsa etimologizzazione):

Si spiega così, e converso, quella che a tutta prima potrebbe sembrare un’anomalia delle FE, vale a dire il loro non applicarsi, di norma, alle parole del lessico fondamentale della lingua, le quali, per l’altissima frequenza con cui occorrono, parrebbero le candidate ideali a solleticare la curiosità dei parlanti. Ci si riferisce – limitando l’esemplificazione all’italiano – a vocaboli come albero, bisogno, casa, città, cucina, mattina, paura, tavolo, o anche danza, fretta, ragazzo, scarpa, che com’è noto tanto filo da torcere hanno dato e danno tuttora ai linguisti. Alcuni di essi si presterebbero bene a ricostruzioni fantasiose (bisogno da sogno, cucina da cucire, mattina da matto), eppure nessuno risulta essere oggetto di FE. Evidentemente i parlanti percepiscono queste parole come una sorta di «primitivi» del linguaggio, che non necessitano d’interpretazione etimologica, e conseguentemente rivolgono la propria attenzione a settori del lessico più periferici e, per così dire, meno neutri.[15]
4 Analisi formale dei segni
L’aspetto in cui si registra la maggiore distanza fra l’etimologia scientifica e le FE è la spiegazione delle forme delle parole. Ciò non vuol dire che le FE manchino di metodo, o meglio di metodi, al plurale. Semplicemente, i metodi delle FE, che ricorrono con sorprendente regolarità in applicazione a lingue diverse, non sono conformi ai modi operandi della moderna scienza etimologica, ragion per cui sarà bene tenere distinti gli uni dagli altri, anche in quei casi in cui si osservano parziali sovrapposizioni.
Dal confronto tra le FE nelle lingue romanze si evince un numero di procedimenti limitato. Il primo è quello della scomposizione o segmentazione della parola in più parole, costituenti un sintagma o persino un’intera frase: per sottolineare il carattere non scientifico di questo procedimento, che a differenza della Zergliederung degli indoeuropeisti ottocenteschi opera su un piano sintagmatico e non paradigmatico, e rimarcarne al contempo il carattere spesso giocoso, quasi di calembour, lo si indicherà con il termine di sciarada, tratto dall’enigmistica.[16] Esempi di sciarade sono corrotto da cor(e) rotto, enfirouâper da in fur wrap, horchata da or, xata!, Marghera da mar ghe gera, marmellata da Marie est malade, panettone da pan (d)e Toni, Ventotene da Vento tène. Com’è logico, la tecnica si applica a parole di tre, quattro o più sillabe, vale a dire di lunghezza sufficiente per poter essere scomposte in due o più parole.[17]
Il secondo procedimento fa sempre leva sulla scomposizione della voce da interpretare, ma non in intere parole, bensì in lettere iniziali di parole o, occasionalmente, in sillabe: è il meccanismo del retroacronimo, che si rileva nelle FE di don da De Origen Noble, dell’ipocoristico Pepe da Pater Putativus, di snob da Sine Nobilitate, di spa da Salus Per Aquam e della locuzione a ufo da Ad Usum Florentinae Operae o Ad Usum Fabricae. Al contrario della sciarada, e con una distribuzione a essa in buona parte complementare, il retroacronimo è impiegato con parole brevi, monosillabiche o al più bisillabiche. Eccezionalmente può trovarsi applicato a parole più lunghe, in una forma in cui solo una delle presunte componenti originarie è abbreviata con l’iniziale, come nella derivazione di mignotta da m(ater) ignota. In questo caso, la tecnica risulta un ibrido di retroacronimo e sciarada.
Con il terzo procedimento ci si avvicina, almeno in apparenza, a processi morfologici che si riscontrano realmente nell’evoluzione delle lingue e che vengono pertanto chiamati in causa dall’etimologia scientifica. È quello in base al quale una parola viene scissa in una radice lessicale preceduta e/o seguita da affissi, come nella spiegazione di amore da a- + mors, di truchement da truc + -ment, di enfezado da en- + fez(es) + -ado e di incandìo da in- + Candia + -ìo. Il processo in sé è plausibile, ed è anzi notoriamente il principale meccanismo di formazione delle parole in tutte le lingue romanze. A risultare implausibili, quando non del tutto impossibili, sono le singole ricostruzioni, a causa ora dell’isolamento di un allomorfo inesistente o indisponibile in quel particolare contesto (truche- invece di truque- in truchement, fez- anziché fec- in enfezado – malgrado defecar, che suggerirebbe *enfecado –), ora di una combinazione inverosimile di affisso e base lessicale (l’alpha privativo, caratteristico dei grecismi e di altri vocaboli del lessico scientifico e intellettuale, applicato a una voce ereditaria come mors, peraltro in un’inedita derivazione nominativale mors > more), ora ancora dell’intero pattern in relazione alla base (la parasintesi con valore ingressivo di ‘far diventare x’ – del tipo di indebolire, innervosire, intorpidire –, ma con base nominale anziché aggettivale – incandir(e) da Candia –, impiegata però alla stregua di un aggettivo – ‘far diventare magro come gli abitanti di Candia’, e non ovviamente ‘far diventare Candia’ –). Per questa tecnica si propone il nome di paraderivazione, che ne evidenzia l’affinità con lo strumentario della linguistica storica e, di conseguenza, la maggiore insidiosità per l’etimologia scientifica: benché infatti non definibili FE per genesi, circolazione e intenti (cf. §6), alcune ricostruzioni accolte anche da dizionari di riferimento, come scagnozzo ‘tirapiedi’ da cane, sono state dimostrate errate proprio in base all’inverosimiglianza dei processi morfologici postulati.[18]
Anche il quarto e ultimo dei procedimenti individuabili nelle FE mostra più di un punto di contatto con l’etimologia scientifica, in particolare con la categoria del prestito. La tecnica consiste nell’identificazione della parola analizzata (o di parte della parola) con una o più parole di un’altra lingua, come succede con la spiegazione di bistro dal russo bystro! e di Bergamo dal ted. Bergheim. Caratteristica di questa tecnica, che la distingue dallo studio dei prestiti lessicali in linguistica storica, è il limitarsi a una mera equazione di superficie, che non contempla né forme diverse dell’etimo in una fase più antica della lingua fonte (il composto Bergheim, che sarebbe all’origine di Bergamo, è tratto dall’odierno tedesco standard), né fenomeni di adattamento fonologico e morfologico nella lingua ricevente (come nella presunta trafila bystro > bistro).[19] Per questo motivo, la si può indicare come equazione interlinguistica. Eccezionalmente, il meccanismo dell’equazione può coinvolgere nomi propri, tanto stranieri (come nella FE di escarrado da Carrara) quanto interni alla lingua della parola da etimologizzare (per esempio nella derivazione del romanesco gianna da Gianna o nel caso analogo del fr. batiste ‘tessuto leggero di lino’ da Baptiste, nome del presunto inventore, su cui si tornerà in §6): l’equazione perde allora il carattere interlinguistico, ma non quello dell’identificazione «pura», senza alcun tipo di adeguamento morfologico (in primis la suffissazione, che sarebbe lecito attendersi almeno nei deonimici che, da antroponimi, passino a designare oggetti inanimati).
I quattro procedimenti individuati sono molto diversi fra loro, sebbene, come si è visto per la FE di mignotta, si diano anche esempi di tecniche miste.[20] Condividono tuttavia alcune proprietà interessanti, su cui vale la pena di soffermarsi. Una prima caratteristica che salta subito agli occhi è il loro collocarsi su un piano esclusivamente sincronico, anche quando l’etimo è individuato in una lingua antica (tipicamente il latino), oppure in una fase storica del passato ben determinata (come la conquista di Valencia da parte di Giacomo I, oppure l’ingresso dei cosacchi a Parigi dopo la sconfitta di Napoleone). La possibilità di un’evoluzione delle parole non è infatti mai considerata, e le uniche modifiche formali contemplate sono minimi aggiustamenti necessari per l’interpretazione dei vocaboli come sciarade (mar ghe (ge)ra, pan (d)e Toni ecc.).
Questo loro funzionare in sincronia, a prescindere quindi dai mutamenti specifici di una lingua, rende le tecniche esaminate facilmente esportabili da una lingua all’altra, con FE comuni a più lingue non solo nel caso di voci non romanze come snob e spa, ma anche per parole del lessico ereditario come lo sp. amor, il fr. amour e l’it. amore. Si tratta di una proprietà che, lungi dal rimanere confinata alle lingue romanze, è condivisa anche da altre lingue europee, per esempio l’inglese. Anche nelle FE dell’inglese infatti si ritrovano sciarade (butterfly ‘farfalla’ da flutter by ‘svolazza intorno’ – l’interpretazione implica una metatesi, confrontabile con la soppressione di consonanti e sillabe nelle sciarade di parole italiane –), retroacronimi (il turpiloquiale fuck ‘avere rapporti sessuali’ dalla sigla F(ornication) U(nder) C(onsent) of the K(ing) ‘fornicazione consentita dal re’, perché in passato, per congiungersi carnalmente, i sudditi avrebbero dovuto chiedere autorizzazione al sovrano), paraderivazioni (crap ‘escremento’ dall’impresario d’età vittoriana Thomas Crapper, proprietario di una nota ditta di sanitari) ed equazioni interlinguistiche (l’ispanismo gringo da Green grow (the lilacs) ‘Verdi crescono (i lillà)’, titolo di una canzone che sarebbe stata cantata dai soldati statunitensi nella guerra con il Messico del 1846–1848).[21] I procedimenti che si sono identificati, insomma, occorrono nelle FE di varie lingue europee, e non sono dunque né esclusivi delle FE romanze, né apparentemente più frequenti in esse che altrove.
La ragione di una diffusione tanto ampia può forse spiegarsi come retaggio della tradizione millenaria dell’etimologia prescientifica, dove ciascuna delle tecniche illustrate trova precisa corrispondenza: la trasversalità dei quattro procedimenti si misura pertanto non solo nello spazio, ma anche – ancor più sorprendentemente – nel tempo. Sono quattro infatti anche gli Ableitungssysteme individuati da Klinck (1970, 45–70) nell’etimologia medievale e ritenuti da Amsler (1989, 23) «the discursive base of classical and early medieval etymologia». Di questi, la compositio, che consiste nel «dividing a word into its components and explaining its origin in terms of the several referents conjoined by the compound names» (Amsler 1989, 23), collima alla perfezione con la tecnica delle sciarade, almeno con quelle non delocutive (cf. §5) come cor-rotto e Vento-tene: com’è noto, il procedimento è abbondantemente impiegato già nel Cratilo di Platone (per esempio nella derivazione di ἀλήθεια ‘verità’ da θεία ἄλη ‘divina agitazione’) e conosce una fortuna ininterrotta nell’antichità greco-romana e nel Medioevo (si pensi alla celebre trovata dell’abate Abbone, monaco di Saint-Germain-des-Prés, secondo cui il nome di Parigi «viene dalla città greca Isia – purtroppo nota al solo Abbone – a cui Parigi è pari: Isie quasi par», Curtius 1992, 556).
Un parallelo calzante si lascia istituire anche tra l’expositio e il retroacronimo, con la differenza però che le derivazioni sillabiche, del tipo di alica dicitur quod alit corpus ‘l’alga si chiama così perché nutre il corpo’ (Festo) e volucres enim a volatu crebro dicti sunt ‘gli uccelli sono chiamati così perché volano spesso’ (Cassiodoro), sono rare nelle FE odierne, mentre assai produttivo è il modello di Fundens Late Odorem Suum ‘effonde largamente il proprio profumo’ e Faciens Laetum Odorem Suavitatis ‘emanante un lieto profumo di dolcezza’, etimologie entrambe «escogitate» da Tommaso Cistercense per flos ‘fiore’.[22] Di totale coincidenza è possibile poi parlare per il rapporto tra la derivatio e la paraderivazione, se non per il fatto che nella derivatio, già ben presente agli Stoici e poi sviluppata da Varrone, sono da includere, oltre alle etimologie palesemente false (canis a non canendo ‘il cane (è detto così) perché non canta’), anche le non poche intuizioni rivelatesi corrette, come l’origine di equitatus ‘cavalleria’ da equites ‘cavalieri’ e, a sua volta, di equites da equus ‘cavallo’ (Amsler 1989, 26–27), che pertengono quindi alla derivazione vera e propria.[23]
L’unico procedimento per cui manca un corrispondente diretto è quello dell’interpretatio, che si ottiene «by translating or interpreting the meaning of a loanword or foreign word into the target language» (Amsler 1989, 23): nell’equazione interlinguistica l’analisi funziona invece di norma in senso inverso, cioè interpretando una parola della propria lingua attraverso quella di un’altra lingua. Tuttavia ricostruzioni che chiamano in causa etimi di lingue esotiche o poco conosciute, in virtù di somiglianze meramente superficiali fra le parole, sono all’ordine del giorno nel Rinascimento e nella prima età moderna: esempi celebri sono le etimologie «aramee» (ma in realtà ebraiche) di Giambullari, che nel Gello (1546) considera semitiche parole di chiara derivazione latina come carbone, lago, nave, orzo, strada, toro (Coseriu 1972), e l’«étymologisme celtomane» di Jean-Baptiste Bullet (Pignatelli 2012), che nel Mémoire sur la langue celtique (1754) si propone di dimostrare l’origine gallica dell’intero vocabolario francese.[24] L’equazione interlinguistica sembra perciò interpretabile come la continuazione moderna dell’etimologia erudita (e antiquaria) dei secoli XVI–XVIII, anche se la corrispondenza è solo parziale, perché Giambullari, Bullet e i loro contemporanei ricorrono di frequente a manipolazioni formali dagli etimi alle voci romanze, dunque le loro ricostruzioni, per quanto arbitrarie, non sono assimilabili a semplici equazioni.
In generale, comunque, l’idea che tecniche etimologiche sviluppate secoli o persino millenni fa, da tempo ritenute superate dai linguisti, possano aver continuato a circolare fra i parlanti, nella completa inconsapevolezza di questi ultimi, non convince del tutto. Ci sarà certamente, tra le FE diffuse ancora oggi, qualche ricostruzione antica (specie per i toponimi), che avrà offerto il modello per interpretazioni analoghe.[25] Nella gran parte dei casi, però, sembrerebbe da escludere un rapporto di dipendenza tra le FE odierne e la tradizione etimologica medievale e rinascimentale, di cui non si vede quale gruppo sociale (maestri di scuola? cultori locali?) possa essersi fatto tramite. Allora, la riproposizione di procedimenti d’analisi affini e, in qualche caso, quasi identici andrà imputata a meccanismi cognitivi universali che, in sincronia, suggeriscono al parlante di scindere una parola in più parole, come se si trattasse di un composto o una sigla, oppure, quando ne ha la possibilità, di derivarla da un’altra voce della propria lingua per affissazione, o di associarla alla parola di un’altra lingua. Il fatto che alcune di queste tecniche si ritrovino in lingue e culture anche lontanissime, insospettabili di essere state influenzate dall’etimologia occidentale, parrebbe indirettamente confermare quest’ipotesi.[26]
5 Motivazione semantica
Il divario tra l’etimologia scientifica e le FE risulta meno evidente quando dall’interpretazione della forma si passa a quella del significato. Il dato non sorprende, perché i parlanti, grazie all’alta frequenza della polisemia in qualsiasi stadio sincronico di una lingua, sono ben consapevoli che i significati delle parole sono soggetti a cambiamento, e ne conoscono anche le principali modalità evolutive. Non stupisce pertanto che le due tipologie fondamentali di mutamento semantico, vale a dire per somiglianza e per contiguità (Ullmann 1962; Blank 1997), si ritrovino entrambe chiamate in causa nelle FE.
Per quel che riguarda la prima, è comune il ricorso alla metafora, come avviene ad esempio nella FE del romanesco gianna ‘vento freddo’ (§2 nota 9), la cui presunta derivazione dall’ipocoristico Gianna è spiegata in base alla velocità della popolana che portava questo nome, associata a quella del vento. Anche nella FE del port. criado-mudo, la ricostruzione coglie il principio metaforico fondato sull’associazione della funzione del referente con il lavoro di un servitore, sebbene fraintenda sia il tipo di servizio (che non è, in origine, stare fermo in una stanza per ore, bensì trasportare cibi da un piano all’altro) sia il contesto in cui la metafora si è sviluppata (non il Brasile coloniale, ma l’Inghilterra e gli Stati Uniti dei secc. XVIII–XIX). Di là dalla metafora, che ne è la manifestazione più frequente, i mutamenti per somiglianza includono l’estensione o generalizzazione (Blank 1997, 192–206), che è implicita nella FE di enfezado ‘innervosito perché pieno di feci’ > ‘innervosito per qualsiasi motivo’ e in quella dell’ipocoristico Pepe, che si suppone attribuito originariamente solo a Giuseppe di Nazaret (il Pater Putativus di Gesù) e poi esteso a tutti gli uomini con lo stesso nome.
Ipotizzati di frequente sono anche i mutamenti per contiguità, per esempio nella FE del veneto ombra, fondata sulla metonimia ‘ombra del campanile’ > ‘bicchiere di vino che si beve all’ombra del campanile’ (l’origine reale è invece metaforica, come si è visto in §2). Similmente, per enfirouâper alcune FE giustificano la derivazione dall’ingl. in fur wrap da una non altrimenti documentata «pratique qui consistait à recouvrir de peaux de fourrure un ballot de viles étoffes pour faire croire qu’il était constitué entièrement de fourrures» (Colpron 1982, 120), sicché l’avvolgere nella pelliccia viene a configurarsi come il mezzo dell’ingannare, in un rapporto anche qui metonimico. Alla sineddoche è invece da assegnarsi la FE di corrotto da cor(e) rotto (o cor ruptum), dal momento che la parte anatomica, presentata come la più affetta dal traviamento morale, sarebbe passata a designare per intero il traviato.
Fra i mutamenti per contiguità può essere inoltre fatta rientrare la «derivazione delocutiva», vale a dire «un processo che va dall’enunciazione al lessico o, più precisamente, che porta da occasioni ricorrenti della parole a elementi stabili della langue» (Parenti 2015, 89). Questa fattispecie è piuttosto rara nell’evoluzione naturale delle lingue: la si osserva in sintagmi verbali via via lessicalizzatisi in nomi, come il fr. rendez-vous, passato da formula d’invito per un appuntamento (‘recatevi (a...)’) a indicare l’appuntamento stesso, oppure e converso in nomi (e anche pronomi e interiezioni) che hanno dato luogo a verbi, in genere con il significato di ‘dire x a qualcuno’ (lat. salutare da salus ‘salve!’, ted. dutzen ‘dare del tu’ da du ‘tu’), o ancora in intere frasi cristallizzatesi in locuzioni avverbiali (it. a più non posso, possibile anche con soggetti diversi dalla prima persona e senza adeguamento del tempo verbale: Ha corso a più non posso – non *a più non poteva –). Nelle FE invece gli slittamenti di tipo delocutivo sono fra quelli che vengono più spesso postulati, soprattutto in abbinamento alle sciarade (horchata < or, xata! ‘oro, ragazza!’, marmellata < Marie est malade ‘Maria è malata’, Sovicille < Suavis locus ille ‘bello quel luogo!’), ma anche occasionalmente con altre modalità d’interpretazione (bistro < bystro! ‘presto!’).[27] L’innaturalità del passaggio dall’enunciazione al lessico non è del tutto inavvertita dai parlanti, che rimediano, quando possono, immaginando una sclerotizzazione (e parziale opacizzazione) della formula nella scrittura, come per la presunta locuzione m(ater) ignota, con cui dapprima sarebbero stati registrati i trovatelli, e che solo in un secondo momento sarebbe stata riferita alle madri.
Al netto comunque di una disponibilità a contemplare il mutamento senz’altro maggiore di quanto non succeda per la forma, va detto che anche per il significato le ricostruzioni offerte dalle FE si rivelano sovente statiche, col risultato che la motivazione viene in più di un caso quasi a coincidere con la definizione. Si pensi alle spiegazioni di don da De Origen Noble, di snob da Sine Nobilitate e del romanesco grattachecca da grattare + ‘ghiaccio’. È questo un ulteriore tratto in comune con l’etimologia preottocentesca, in particolare con il principio isidoriano (ma in realtà già greco-latino) per cui «language is a unified system isomorphic with the unified world» (Amsler 1989, 166), che di fatto sovrappone le origines verborum alle origines rerum. Ecco allora che l’etimologia della parola può contenere informazioni sulla genesi del designatum (il panettone nasce come pan de Toni) e persino su ciò che lo ha preceduto (mar ghe gera, prima di Marghera), oppure può assumere i tratti di un epiteto connotativo che rivela gli elementi più pertinenti del referente (Ventotene è l’isola che vento tène) e persino di una sua interpretazione metafisica (l’amore come a-mors ‘non morte’).
6 Funzioni e dinamiche di propagazione
Una questione ineludibile, che si è lasciata deliberatamente per ultima data la sua complessità, riguarda l’esistenza stessa del fenomeno che si è tentato fin qui di descrivere: perché cioè ancora oggi si originino e diffondano le FE, con una circolazione ben maggiore e sostanzialmente indipendente da quella delle etimologie scientifiche, che pure sono facilmente attingibili, in primis mediante la consultazione di dizionari etimologici di ampia diffusione, spesso anche online.[28] Nell’era della disintermediazione e della post-verità, la domanda è senz’altro attuale e riguarda non solo l’etimologia – e la linguistica in genere – ma tutte le scienze, dalla medicina alla geografia alla demografia e alla Storia. Sta di fatto però che, a differenza di altri tipi di false notizie oggi di vasta diffusione (le scie chimiche, l’esistenza delle sirene, i rimedi casalinghi contro il Covid ecc.), la circolazione delle FE non sembra essere stata favorita più di tanto dalla disponibilità di Internet; o meglio, la rete ne ha indubbiamente accelerato la diffusione, ma non è all’origine del fenomeno, che è in larga parte preesistente. Ciò vale non solo per quei relitti di etimologia preottocentesca sopravvissuti fino a oggi (Apricena < apri cena), ma anche per casi sicuramente successivi allo sviluppo della linguistica come scienza e già ampiamente diffusi nel secolo scorso, come le FE di mignotta e snob.[29]
Una prima risposta si può dare per quelle FE che, per applicarsi a parole dall’articolazione opaca e quasi sempre nella forma della paraderivazione (§3), più tratti in comune hanno con le etimologie popolari, tanto da poter essere assegnate a «uno stadio di etimologia popolare latente o d’associazione virtuale, con lo stabilimento di falsi legami tra parole», il quale però «non cambia (sostanzialmente) né la forma né il senso» (Zamboni 1976, 111). Zamboni riporta, fra gli altri, il caso del «comelicano kuđéi ‘portacote’ < latino cotārium, da cos, cōtis ‘cote’, [...] così inteso dai locali perché sta sul ku: si tratta infatti di un bossolo di legno che pende dalla cintola del falciatore» (Zamboni 1976, 111). A quest’esempio si può aggiungere quello, già più volte commentato, della derivazione di truchement da truc, e anche, sempre per il francese, della FE di péage ‘pedaggio’ < pedaticu(m) da payer ‘pagare’, segnalata da Chambon (1987), Béguelin (2002) e da ultimo Maiden (2020), che la ascrivono tutti al novero delle etimologie popolari. Se si accoglie la distinzione, proposta in §2, tra etimologie popolari come mutamenti e FE come mere individuazioni degli etimi, gli esempi citati andranno attribuiti alla seconda tipologia. Tuttavia, all’origine di entrambi i fenomeni c’è la medesima esigenza, avvertita dai parlanti, di motivare segni opachi ricollegandoli a famiglie lessicali più note e nutrite. Un’esigenza squisitamente linguistica, dunque, che rende per questi vocaboli il confine tra etimologia popolare e FE assai labile: basta infatti che truchement diventi *truquement e péage cambi in *payage, perché si passi da un fenomeno all’altro, com’è successo nell’italiano del Seicento quando stravizzo, originario adattamento del croato zdravica ‘brindisi’, attratto nell’orbita di vizio ha dapprima esteso il proprio significato a qualsiasi tipo di ‘eccesso’, ed è poi stato rifatto in stravizio (Migliorini 1973, 301–304).[30]
Per la gran parte delle FE, però, la necessità di motivare un segno opaco appare secondaria rispetto a un altro tipo di esigenza: quella di dare alla parola una storia interessante, divertente, istruttiva, insomma spendibile su un piano non solo – e non tanto – linguistico, bensì in un discorso più ampio, che non pare azzardato qualificare come storico-etnografico. Non sarà sfuggito, infatti, il gran numero di riferimenti a personaggi ed eventi storici nelle FE analizzate nei paragrafi precedenti: il Giacomo I di Aragona che avrebbe involontariamente dato il nome alla horchata, la Maria de’ Medici la cui malattia sarebbe all’origine di marmellata, la battaglia di Parigi del 1814 che giustificherebbe bistro come presunto russismo, persino Giuseppe di Nazaret alla base dell’ipocoristico Pepe. E si sarà notato, ugualmente, l’ampio spazio concesso alla Storia della gente comune, nomi e abitudini che si immaginano sopravvissuti per puro caso fino a oggi, grazie al loro congelamento in un vocabolo: il Toni fornaio milanese inventore del panettone, la Gianna il cui formidabile atletismo verrebbe ricordato a Roma nel nome di un vento, le centinaia di uomini sine nobilitate e di matres ignotae diventati rispettivamente snob e mignotte, i materiali ad usum Florentinae operae o fabricae da cui deriverebbe a ufo, le mescite all’ombra dei campanili veneziani la cui memoria si conserverebbe nelle ombre dei bacari.
A questo tipo di FE, che sfrutta solitamente le tecniche della sciarada e del retroacronimo e ha quasi sempre un intento celebrativo, più o meno esplicito, ben si addice l’etichetta di «etimologia retorica» proposto da Lorenzo Renzi ([2002] 2008), il quale, ricordando che «nella sistemazione della retorica antica le etimologie facevano parte dell’elocutio, dunque dell’‘ornato’ destinato ad abbellire la forma», sospetta legittimamente che «queste etimologie, con la loro arguzia, abbiano spesso un valore ludico, se non addirittura parodico» (Renzi [2002] 2008, 48). Naturalmente, bisognerà valutare caso per caso. Ascoltando aneddoti come quelli della presunta origine della horchata e della marmellata, il parlante, divertito, potrà sospendere il proprio giudizio ed eventualmente farsi lui stesso propagatore dei racconti, presentandoli come forse non veri, ma certamente piacevoli. Invece in altri casi, come snob, mignotta e molti microtoponimi, è probabile che tanto chi ascolta le FE quanto chi le diffonde sia sinceramente convinto della loro realtà storica, e pensi anzi di aggiungere, attraverso l’origine della parola, un tassello importante alle vicende dei referenti.
Alla credibilità di ricostruzioni fantasiose offrono poi un contributo rilevante i media e le istituzioni, qualora se ne facciano promotori per i motivi più disparati, che vanno dall’intrattenimento all’autocelebrazione alla promozione turistica e financo al rafforzamento dell’identità comunitaria. Luca Lorenzetti, in un suo recente articolo sull’etimologia divulgata sul web (Lorenzetti 2020), ha giustamente puntato il dito contro l’iniziativa Parole in corso del quotidiano La Repubblica, una serie di brevi video in cui il noto autore teatrale Stefano Massini si sofferma sulla storia di svariate parole italiane con etimologie spesso inesatte o del tutto bislacche, fra cui la FE di a ufo.[31] L’efficacia di un video in rete non è comunque paragonabile a quella della segnaletica stradale ufficiale, quali i cartelli sperimentati a Bergamo nel triennio 2012–2015, su iniziativa della Lega Nord, in cui il falso etimo tedesco della città campeggiava accanto all’etimo latino, sotto il nome dialettale del toponimo (Guerini 2012, 59). Un caso del tutto eccezionale, infine, è rappresentato dal «volksetymologisches Denkmal» di cui riferisce Manfred Höfler (1964) in un suo saggio sul fr. batiste ‘batista, tessuto leggero di lino’ che, come ha dimostrato Höfler, deriva da battre ‘battere’, ma che un aneddoto assai diffuso riporta a un certo Baptiste, il sarto che lo avrebbe inventato: a Cambrai, città nota per la produzione della stoffa e presunta patria del sarto, nel secondo Ottocento è stata perfino eretta una statua a questo Baptiste, che il sito À nos grands hommes del museo d’Orsay tuttora qualifica come «inventeur de la batiste», in assenza della benché minima testimonianza storica.[32]
Da questa classe di FE che, con Renzi, si è definita «retorica» si distingue un’ulteriore fattispecie, le cui ricostruzioni sono strettamente funzionali alla difesa di una posizione etica, politica, religiosa ecc. e alla quale pare opportuno riferirsi col nome di «etimologia ideologica». Non che una componente ideologica non si ravvisi spesso anche nell’etimologia retorica: per esempio, Federica Guerini (2012, 59) osserva giustamente che, nella FE apposta a suo tempo dall’amministrazione comunale di Bergamo sui cartelli all’ingresso della città, «le motivazioni di natura ideologica prevalgono su qualsiasi evidenza di carattere empirico», perché l’indicazione di un etimo germanico, abbinata alla versione dialettale del toponimo, caratterizza la storia della città e dei suoi abitanti come estranea a quella del resto d’Italia (o almeno, dell’Italia centro-meridionale). Tuttavia, il falso etimo in sé, cioè il ted. Bergheim ‘dimora di montagna’, è meramente descrittivo e non contribuisce all’argomentazione se non in maniera indiretta. Diverso invece è il caso di FE come amore da a- + mors e corrotto da cor(e) rotto (o cor ruptum), che veicolano esse stesse una connotazione morale e persino metafisica del referente. In queste FE l’aspetto ludico è assente, perché gli etimi restituiscono non la storia curiosa dei referenti, ma la loro essenza più profonda, che il nome conserverebbe fedelmente da secoli, come testimonianza ancestrale e imperitura. Manca pertanto anche l’aspetto aneddotico, data l’universalità degli etimi-definizioni: nei pochi casi in cui lo si ritrova, esso serve esclusivamente a portare un nuovo argomento a favore di una tesi, come per la FE di criado-muto, che contribuisce, nell’intenzione di chi la divulga, a denunciare la disumanità dei padroni europei nei confronti degli schiavi ed è alla base dell’incipiente tabuizzazione della parola nel portoghese brasiliano (cf. §2).
L’ancillarità a un principio generale da dimostrare è il motivo per cui, diversamente dalle FE retoriche, le FE ideologiche rivelano spesso un carattere autoriale, riconducibile a una o più figure influenti nella società che se ne servono a difesa di un concetto o un valore considerato più alto della plausibilità storica. Il meccanismo è particolarmente pernicioso per l’etimologia scientifica, perché l’autorevolezza dei loro propagatori finisce per rendere queste ricostruzioni accettabili per un largo pubblico, al netto della loro evidente inverosimiglianza. Renzi ([2002] 2008, 56), che pure sussume questo tipo di FE nell’etimologia retorica (riconoscendone tuttavia il carattere non ludico), porta l’esempio delle spericolate divagazioni etimologiche di Massimo Cacciari, di matrice lontanamente heideggeriana e tuttavia ben «lontane dalla discrezione classica di Heidegger» (Renzi [2002] 2008, 57).[33] Per darne un’idea, vale la pena riportare lo stesso brano a cui fa riferimento Renzi, tratto da L’arcipelago (Cacciari 1997), in cui la disinvoltura con cui sono affastellati i presunti etimi di mare, nonché la superficialità con cui è offerta al lettore, senza nemmeno dichiararlo esplicitamente, la controversa tesi delle «basi semitiche delle lingue indoeuropee» di Giovanni Semerano (1994), si giustificano agli occhi dell’autore esclusivamente per l’effetto finale, vale a dire la caratterizzazione del mare come portatore ab aeterno di morte e sofferenza:
«Ma il Mare – che cosa ri-vela questo suo nome, questo nome Mare, che il Greco ignorava? Lo ignorava forse proprio perché proveniente dalla radice mar che indica il morire, dal sanscrito maru, che significa l’infecondo deserto? O non ci verrà esso, piuttosto, proprio dal ‘fondo’ mediterraneo, pelasgico? Mare è l’ebraico mar, è l’accadico marru: è il sapore salmastro di Thálassa. È l’amaro della sua onda. È l’antico, mediterraneo nome di háls» (Cacciari 1997, 14–15).
Quello a cui si rivolge Cacciari è un pubblico colto, certo limitato, ma capace a sua volta di farsi diffusore delle suggestioni pseudoetimologiche caoticamente accumulate nel libro. La trasmissione è però ben più efficace quando chi scrive, per il proprio ruolo, ha la capacità di rivolgersi a una platea ampia, potenzialmente coincidente con la società intera.
È quanto sembrerebbe essere successo con la FE di corrotto, propagatasi apparentemente solo di recente, ma con una rapidità che ha del sorprendente. La prima attestazione che si è riusciti a trovare è nella prefazione a un libro del 2017 del cardinale ghanese Peter Turkson, a suo tempo presidente del Pontificio consiglio della giustizia e della pace, dal titolo Corrosione. Combattere la corruzione nella Chiesa e nella società (Turkson 2017). Più che il libro e il suo autore, però, conta l’identità del prefatore, ossia Papa Francesco che, ispirandosi forse al calembour del titolo (corruzione come corrosione), osserva che «la parola ‹corrotto› ricorda il cuore rotto, il cuore infranto, macchiato da qualcosa, rovinato come un corpo che in natura entra in un processo di decomposizione e manda cattivo odore» (Turkson 2017, 6).
Quella di Bergoglio non è che una suggestione fonica, la quale difficilmente si sarà propagata in forma di etimologia presso un pubblico vasto. Ad agevolarne una più ampia circolazione sembra sia stato il magistrato Raffaele Cantone, ex-presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) e autore, con Enrico Carloni, del fortunato testo divulgativo Corruzione e anticorruzione: dieci domande, uscito solo un anno dopo il libro del cardinal Turkson (Cantone/Carloni 2018). Soffermandosi sulla natura dei processi di corruzione, Cantone cita il Pontefice, ma ne trasforma lo spunto in «una diversa e mai evidenziata chiave etimologica della parola», secondo la quale «il corrotto è soggetto dal cor ruptum, dal cuore rotto, infranto, macchiato da qualcosa, come un corpo che in natura entra in un processo di decomposizione e manda cattivo odore» (Cantone/Carloni 2018, 23). Come si vede, la frase di Cantone per buona parte cita verbatim Bergoglio, ma innova nel considerare l’accostamento delle due parole come una «chiave etimologica» e nel passare dal cuore rotto del Pontefice al lat. cor ruptum, certamente più plausibile come etimo e forse ricavato per sbaglio dalla consultazione di un qualche dizionario (cf. §2). È probabile che questo minimo ritocco in prospettiva diacronica, unitamente all’autorevolezza di Cantone e del Papa e al carattere spiccatamente didascalico del libro, siano all’origine della diffusione della FE, il che la rende un caso esemplare di etimologia ideologica d’autore, assai istruttivo sulle modalità di trasmissione delle false notizie etimologiche – e non solo – nelle società odierne.
Nota
Quest’articolo costituisce la rielaborazione di un intervento presentato per la prima volta al CILPR di Copenhagen nel luglio del 2019 e poi riproposto, con progressive modifiche e integrazioni, in conferenze e seminari tenuti in varie università e istituti di cultura in Italia e all’estero (Roma La Sapienza, Siena Stranieri, Córdoba [Argentina], Stoccolma, Zurigo, Berlino, Opava). Sono grato alle colleghe e i colleghi che, nel corso di queste presentazioni, con le loro osservazioni mi hanno aiutato ad arricchire e rendere più chiara ed efficace la trattazione: Laura Álvarez López, Michele Colombo, Paolo D’Achille, Alessandro De Angelis, Vincenzo Faraoni, Sara Ferrilli, Lorenzo Filipponio, Tzortzis Ikonomou, Eva Klimová, Michele Loporcaro, Davide Mastrantonio, Massimo Palermo, Alessandro Parenti, Luca Pesini, Elton Prifti, Ursula Reutner, Laura Ricci, Wolfgang Schweickard, Lorenzo Tomasin. Una menzione speciale va al mio compianto maestro Luca Serianni, che mi ha fornito preziosi suggerimenti e financo esempi di false etimologie a me inizialmente sfuggiti, che ho utilizzato con profitto in questo studio: è per me un grande dispiacere non aver potuto sottoporre queste pagine al suo giudizio. Resta inteso che di eventuali lacune e inesattezze contenute nel testo l’unico responsabile sono io.
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